Giornale della Comunità Parrocchiale SAN PIO X - Loano (SV)

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Giornale della Comunità Parrocchiale SAN PIO X - Loano (SV)
PERIODICO MENSILE DI CULTURA E INFORMAZIONE – N.1 MARZO 2020 – Spedizione in abb. Postale D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n.40) art.1, comma 2 Dir. Business – Savona

 Giornale della Comunità
 Parrocchiale SAN PIO X
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                                                    Santa Pasqua 2020
                                                           Le nostre case sono diventate tombe sigillate: nessuno entra, nessuno
                                                           esce, le strade: vuote, inutili. I rapporti: spezzati. I contatti: inesistenti. Gli
                                                           abbracci stringono il vuoto. I volti sono un ricordo, un caro pensiero.
                                                           Come è cambiata la vita improvvisamente!

                                                           La mente è piena di pensieri, di domande: quanto durerà? Quando
                                                           potremo uscire, e tornare alla normalità? C’è chi si aspetta un tempo
                                                           vicino, legato alle date che ci impongono le restrizioni… c’è chi pensa
                                                           che “il virus” ci terrà in scacco per un tempo lunghissimo, più di un anno.
          Visto il prolungarsi
    dell’emergenza Coronavirus,                            Ci sono tante sofferenze che si raggruppano in un’unica realtà: la
   le Sante Comunioni e le Sante                           solitudine. Tra tutte ne spicca una: la solitudine di chi è malato e non può
  Cresime verranno rimandate a                             avere vicini i suoi cari. La solitudine di chi ha visto portar via un familiare,
          una data migliore                                un amico che forse non vedrà più e non potrà donargli la consolazione
  (probabilmente dopo l’estate)                            della vicinanza, dell’affetto, della parola, di una carezza…

Ogni tipo di rapporto corre sulle vie dei social, diventati l’autostrada delle relazioni: affettive, economiche, di
studio, di scuola, di riunioni virtuali, di legami, di rapporti, di saluti… Tutto scorre lì con velocità e spesso insieme
all’indifferenza, figlia della superficialità che ci ha accompagnato fino a ieri!

Ieri! Così vicino, così lontano… un ieri che è incominciato chiedendo “permesso”, con tanta educazione, e con
tanti bei suggerimenti. Ieri che improvvisamente è diventato imperioso, arrogante, obbligatorio, stroncante! Il
tempo è finito. Il tempo per pensare e decidere ormai non ci appartiene
più. Tutto è diventato a senso unico, non ci sono più strade a due sensi,
dove chi va si incontra con chi viene.

Ma è finita la speranza?

No, non è finita la speranza. Forse inizia una speranza più autentica.
La speranza di ritrovare noi stessi, di sentire i battiti del nostro cuore,
sentire il nostro respiro. Raccogliere i nostri pensieri, e, soprattutto,
imparare a volerci bene! Voler bene a noi stessi è una fatica che
rimandiamo sempre. Oggi abbiamo tempo e modo per metterla in atto.
Dolcemente, affacciandoci alla porta del nostro cuore, fissare una
corda, e cominciare a scendere fino al luogo più profondo, dove abitano
contraddizioni, silenzi, paure, ma anche: affetti, gioie, attese, vigore, e
un amore grande che da sempre attende di essere scoperto, è l’amore
della nostra vita!
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La speranza non è finita. Ce lo dice anche il cuore
che abbiamo appena visitato. È un cuore che
batte! È un cuore che ha bisogno di incontrare altri
cuori. È un cuore che ama non solo se stesso, ma
tanti altri volti, tante braccia, tante mani, tanti corpi
che desiderano essere abbracciati. Ora
scopriamo il tempo per amare. Amare è una
parola grande, come grande è il fiume che passa
attraverso l’amore. Oggi abbiamo tempo di
scorrere i volti, di sentire il respiro del fratello, di
fissare gli occhi che spesso abbiamo sfuggito, di
chiedere perdono, il perdono che non abbiamo
mai avuto il coraggio di chiedere o di donare.
Abbiamo tempo per ascoltare nel silenzio, ascoltare prima di parlare, “senza rumori” come dice Papa Francesco
(in Amoris Laetitia, 137).

La speranza non è finita. Ce lo dice la nostra “casa comune” (Laudato Sì, di Papa Francesco), nostra sorella
terra. Ce lo dice anche il virus: non ci sono grandi e piccoli, re e sudditi, ricchi e poveri, per lui siamo tutti uguali.
Ci dice: fermatevi, perché la casa sta crollando! Il Signore ce la ha donata per coltivarla, noi la abbiamo
spremuta. Ora ci stiamo fermando, e la natura stessa ci vien incontro, proprio come una sorella, e comincia a
respirare, a riprendere i suoi spazi, ad essere amica. Ci restituisce la gioia che stavamo perdendo con la nostra
frenesia. Ci parla di speranza!

Speranza. “Adorate Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto…” (1 Pt. 3,15-16). “Non siate tristi come
gli altri che non hanno speranza” (1 Tess. 4,13), ma siate lieti nell’attesa del Signore “come lampada che brilla
in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino” (2 Pt. 1,19). Di
fronte al virus i cristiani sono come tutti gli altri uomini, diceva già la lettera a Diogneto del II secolo, ma non
sono tristi. Il loro cuore è “pieno di immortalità” (Sap. 3,4), e la loro gioia non si spegne. Papa Francesco,
nell’Evangelii Gaudium grida: non lasciatevi rubare la gioia del vangelo, che riempie la vita della comunità dei
discepoli. Questa gioia è un segno che il vangelo è stato annunciato, e sta dando frutto: “In tal modo
sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio, cercando di accendere il
fuoco nel cuore del mondo” (Evangelii Gaudium 271). Continua Papa Francesco: ogni persona è degna della
nostra dedizione, perché è opera di Dio, sua creatura, “Egli l’ha creata a sua immagine, è oggetto della sua
tenerezza infinita, e merita tutto il nostro affetto” (Evangelii Gaudium 279). Papa Francesco ci invita a non
rimanere chiusi nelle nostre comodità, nella pigrizia, nella tristezza insoddisfatta, nel vuoto egoista: “Se
pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte.
Gesù Cristo vive veramente, se Cristo non è risorto vuota è la nostra predicazione” (1 Cor. 15,14). La sua
risurrezione non è una cosa del passato, contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra
che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire germogli di risurrezione (Evangelii Gaudium 275-276).

Nel silenzio e nell’isolamento del “virus” non rinunciamo a celebrare la Pasqua! Cristo è davvero risorto e
continua a produrre germogli di risurrezione. Chiediamo a Maria che non lasci mancare neanche a noi, come a
Cana di Galilea, il buon vino della speranza, lei ci accompagni alla tomba vuota del suo figlio, e sussurri ai nostri
orecchi: “Non è qui, è risorto” (Lc. 24,6) perché noi lo gridiamo in ogni angolo della terra!

Buona Pasqua a tutti

Don Luciano

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Gli auguri di Lucio
Carissimi amici del giornalino parrocchiale, siamo giunti ad una festa desiderata e salutare, il giorno della
risurrezione del Signore, segno di pace di riconciliazione, il giorno che ha distrutto la morte, ha sconfitto il diavolo,
oggi viene abolito il dominio del diavolo, oggi il Signore ha spezzato le porte di bronzo ha fatto scomparire la
morte. Egli ha cambiato perfino il suo nome, essa non si
chiama morte ma riposo e sonno. Noi crediamo che Gesù
è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio
li radunerà per mezzo di Gesù insieme a lui.
Oggi il popolo di Dio ha riportato una stupenda vittoria,
oggi nostro Signore Gesù Cristo dopo aver eretto un trofeo
contro la morte e aver distrutto il potere del demonio, ci ha
aperto con la sua risurrezione la via della nostra salvezza.
Buona e Santa Pasqua a tutti voi pace gioia nel Signore,

il vostro accolito, Lucio Telese.

               Nella torre del Brandale si muovono
               gli ingranaggi della famiglia Bergallo
             (Luca Valdi, guida e gestore del museo)
                                                           C’è un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. Ed è
                                                           un paradosso perché il tempo qui è sovrano e tutto si muove
                                                           perfettamente, ingranaggi e lancette. Il profondo ticchettio
                                                           riecheggia nel “Museo dell’orologio da Torre” di Bardino
                                                           Nuovo, comune di Tovo San Giacomo, nell’entroterra di
                                                           Pietra Ligure. Considerato uno dei pochi e preziosi esempi
                                                           in Italia di questa arte, figlia di una lunga tradizione
                                                           familiare, il museo è stato voluto dall’ultimo orologiaio
                                                           Giovanni Bergallo che aveva espresso il desiderio di donare
                                                           la sua collezione al paese ed esporla pubblicamente.
                                                           Proprio dalla famiglia Bergallo sono stati progettati orologi
                                                           da torre che ogni giorno scandiscono il tempo del nostro
                                                           territorio, come quello della Torre del Brandale di Savona.
                                                           Una particolare nota esposta nelle sale del museo, ricorda,
                                                           attraverso un articolo di un giornale locale savonese
                                                           risalente al 1932, la sua installazione: “Di questi giorni è
                                                           stato posto in opera sulla rinnovata Torre del Brandale, cara
                                                           ad ogni buon savonese, un gigantesco orologio – come ben
                                                           si ricorda, l’acquisto di detto orologio era stato deliberato
dalla Consulta Municipale sin dal dicembre 1931”. Nell’articolo si parla anche dei costi e delle dimensioni: “Il
solo orologio è venuto a costare la bella somma di L.8800. a detta somma deve aggiungersi ora la spesa della
messa in opera. Dei quattro quadranti posti sui quattro lati della torre, quello prospiciente la Piazza Erbe è
luminoso. Detti quadranti hanno un diametro di ben m. 3.60 e sono forniti di due lancette lunghe rispettivamente
m. 1.30 e m. 1.60”. “Bastano queste poche notizie per dare un’idea della grandiosità del lavoro e della gigantesca
mole dell’orologio – prosegue il testo – del resto ben se ne sono accorti i cittadini che abitano nei pressi della
vetusta Campanassa, i quali hanno sentito rintronare le loro orecchie per i colpi battuti dalla gigantesca mazza
sulla Vittoria in questi giorni di prova dell’orologio, il cui suono, nelle ore notturne, si sente distintamente in ogni

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parte della città”. Una testimonianza risalente proprio all’anno in cui, 1934, la Torre del Brandale fu rialzata (da
30 a 52 metri) tornando all’altezza originaria prima della mutilazione a opera dei genovesi. Un tesoro che vive
ogni giorno e scandisce le ore nel cuore del centro storico savonese. Tanti altri orologi da torre sono custoditi e
si possono ammirare nel Museo, istituito nel 1996 e inaugurato nel 1997 nell’ex Palazzo civico di Bardino Nuovo:
“Gli orologi esposti sono pezzi autentici (il più antico del XVI secolo) raccolti dalla famiglia Bergallo stessa e
provenienti da donazioni di collezionisti, chiese e altri enti – racconta Luca Valdi, guida e gestore del museo
per la Cooperativa Arcadia – i Bergallo costruirono orologi da torre fra il 1861 e il 1980 nella casa-officina dove
si svolse tutta la loro attività. I loro orologi furono installati in Liguria, Piemonte, Val d’Aosta, Valtellina e quello
più lontano in Patagonia”.

Da Il Letimbro
di Debora Geido

                                              Cara nonna
                                          …Credo che ogni persona sappia quanto i nonni siano importanti nella
                                          propria vita…
                                          …ma per lei, il nome NONNA, per quanto caldo e dolce sia, non le rende
                                          giustizia, non era la mia nonna e basta! Era una confidente, insieme
                                          abbiamo riso e pianto, è stata con me anche e soprattutto nei momenti
                                          più difficili. Era strabiliante, la sua cultura e la sua curiosità, non
                                          ammetteva l’ignoranza e per questo tuo insegnamento te ne sarò grata
                                          a vita.
                                          Donna forte, determinata e coraggiosa, meravigliosamente bella!
                                          Non voglio salutarti dicendoti addio ma voglio pensare a te e ricordarti
                                          con quei meravigliosi occhi azzurro cielo, ringraziandoti per l’esempio
                                          che sei stata per tutti noi.
                                          Grazie grande donna, vola in alto e ogni volta che guarderò verso il cielo
                                          sarà come perdermi nuovamente nel tuo sguardo e potrò dirti grazie
                                          infinite volte, grazie di essere stata tutto questo e molto altro ancora per
                                          me!
                                                                                         Con amore
                                                     Orgogliosamente fiera di essere la tua “nipotina” Serena

   Lettera ad Anna Candri, nostra ex-parrocchiana
               "migrata" a Giustenice
                                            Cara Etta,
                                            Ci sono tante cose belle che voglio dirti, così belle che voglio che le
                                            condividano anche gli altri che ti hanno conosciuto, ed è un modo per
                                            guardarti negli occhi, visto che non abbiamo più potuto abbracciarti,
                                            poi neanche vederti, ed infine neanche pregare per te e con te al
                                            funerale perché non c'è funerale ... per le disposizioni date, pur giuste,
                                            anche se tu con il corona-virus non c'entri niente.
                                            Quando venivo in ospedale di corsa da te, scusandomi perché mi
                                            fermavo poco o perchè il giorno dopo non sarei venuta, tu avevi
sempre la libertà di dirmi, pur nella sofferenza :- Non importa : non farti assolutamente il problema, io sto bene
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lo stesso, stai tranquilla.- Oppure esclamavo: - Ma come, non è venuto nessun altro oggi che è domenica?- E
tu: - Va bene così!
Dalla seconda metà di novembre 2019 sei stata in ospedale
con le piaghe alle gambe causate dal diabete, che da tempo
non ti davano tregua, e intorno a te avevi creato un ambiente
ridanciano e scherzoso che coinvolgeva infermieri, malati e
dottori, con le tue battute e un sacco di autoironia, con le tue
canzoni che facevano cantare anche le tue compagne di
camera... (la tua canzone preferita era "Il Vagabondo",
chissà, forse anche perché ci trovavi qualcosa della tua
storia). E quando facevi le facce da clown per la mamma e
per me? Magari non riuscivi a parlare più di tanto a volte, ma
come un angelo della gioia eri determinata a farci uscire dal
reparto di buon umore, e ci riuscivi!
Negli anni, con te, ho girato tante stanze e diversi reparti di Santa Corona, e ti salutavano i portantini, e quando
non conoscevi qualcuno mi stupivo.
Ecco, adesso non voglio parlare di te come di un personaggio di cui si prepara lo sfondo, si traccia un
background psicologico, lo si mette in una cornice. No, tu sei viva, carne e sangue e spirito tutto insieme,
concreta, un dono di Dio. Quante risate ci siamo fatte insieme! E che umiltà e che capacità di accettazione mi
hai testimoniato in tanti momenti! La tua generosità e bontà d'animo sono stati e sono evidenti a tante persone...
Ora stai bene, sei con Antonio, nella Casa più bella che c'è, a cantare canzoni più belle di quanto possiamo
immaginare, con Chi ti ha voluta da sempre, Sua creatura unica e solare!
                                                                                                      A. L.

 Intervento in occasione dell’incontro annuale per
          la ricorrenza di S. Antonio Abate
      sala Don Piana Diano Marina 18.01.2020
                                   Cos’è la parrocchia per me?
                                   Questa la domanda postami da Don Gianfranco qualche giorno fa, su cui mi
                                   ha chiesto di riflettere.
                                   Mi sono interrogata molto sul significato che per me ha questa parola, ho
                                   provato a cercare delle definizioni “autorevoli” che mi aiutassero a chiarire
                                   questo concetto. Poi, però, ho pensato di rileggere la mia storia cercando
                                   all’interno di essa il ruolo che la parrocchia ha avuto e mi sono ritrovata
                                   immersa in ricordi lontani e vicini in cui la mia parrocchia in qualche modo ha
                                   segnato delle tappe nella mia vita.
                                   Stasera, quindi, ho pensato di condividere con voi alcuni di questi pensieri e
                                   ricordi, forse non troppo originali, a tratti banali, magari non condivisi, ma
                                   certamente veri per me.
Potrei, allora, provare a rispondere alla domanda di don Gianfranco usando tre parole.
La prima è dono: DONO perché nel mio essere cristiana, ho vissuto la parrocchia come un dono che il Signore
mi ha offerto per poter vivere il Vangelo come Comunità. Sembra scontato, ma non tutti i Cristiani del mondo
hanno quest’opportunità. Notizie di questi giorni sono i tanti fratelli perseguitati solo per possedere una Bibbia o
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per essere stati trovati a pregare: noi abbiamo, invece, la fortuna di poter condividere liberamente il dono della
fede insieme e lasciare che esso possa trasformarsi in dono per altri, accrescersi e maturare. Non so se da sola
la mia fede sarebbe rimasta salda, certamente, se oggi sono ancora pronta ad affermare il mio Si al Signore, è
perché una comunità di amici mi ha aiutata e guidata nel mio percorso di discernimento fin da quando ero
bambina, accompagnandomi nella vita di tutti giorni, attraverso una quotidianità vissuta con lo sguardo aperto e
rivolto a Gesù e sotto l’ala protettrice della sua
mamma. E qui, allora, devo accostare un’altra
immagine per continuare la mia riflessione sulla
parrocchia: sono i VOLTI delle persone. Non posso,
infatti, non pensare ai tanti che mi hanno
accompagnato in questo, ormai già lungo, percorso
con l’esempio e con la dedizione. La nostra parrocchia
ha il suo volto, unico, irripetibile: quello delle persone
di buona volontà che in essa operano, non è perciò
un’idea astratta, non è un’istituzione, sono donne e
uomini che insieme camminano, impegnandosi
reciprocamente, affinché il disegno del Signore possa realizzarsi, ognuno col suo talento, piccolo o grande che
sia, prendendosi per mano e realizzando ciò che il Signore ci comandò: “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a
mandarli a due a due” (Mc 6-7,8). Spesso questo brano del Vangelo mi ha interrogata ma anche rassicurata,
poiché se Gesù chiede ai suoi discepoli di proclamare il suo Vangelo, insieme, allora deduco che per noi, la
Comunità parrocchiale, è la via preferenziale per rimanergli fedeli, quella in cui è più difficile perdersi perché,
richiamando un altro brano del Vangelo di Matteo, “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo
a loro” .
C’è poi una terza parola che, a mio avviso, fa da collante altre due: ed è la parola ACCOGLIENZA.
Una parola semplice, nota, a tratti scontata, ma il cui significato si trasforma arricchendosi, quanto più il dialogo
tra l’individuo e la sua comunità si fa intenso. A lungo, io ne ho travisato il senso, o meglio ne ho colto solo un
aspetto, che oggi capisco essere povero e carente. Mi sforzavo infatti, prestando servizio come educatrice
dell’Azione Cattolica in parrocchia, di capire come portare la gioia del Vangelo anche a coloro che il Vescovo
Lambiasi, allora assistente nazionale dell’Azione Cattolica, durante un incontro, aveva definito “candele spente”,
invitando i presenti a orientare la propria azione missionaria verso di loro. In quel momento mi sono sentita
investita del compito di diventare la miccia capace di riaccendere quei cuori disillusi, stanchi, sordi. Mi è
sembrata una richiesta eccessiva per dei ragazzi semplici, come noi eravamo, ma poi mi sono detta che se la
sfida era impossibile, provarci non lo era. Inizialmente ho immaginato di poter rispondere a questa chiamata
cercando di raggiungere chi non pareva interessato. Ma, come ben presto avrei compreso, aprire una porta,
non per forza implica che qualcuno decida di varcarla. Crescendo e maturando con gli altri educatori, ho capito
che accogliere non significa solo aprirsi agli altri, ma chiede di più, significa andargli incontro con il coraggio di
chi desidera instaurare una relazione autentica, personale, individuale con l’altro. La mia attenzione, allora, si è
spostata da un generico “altri” ad ogni “altro” che sul mio cammino incrociavo. Ripenso così anche alla storia
della mia famiglia. Io e mia sorella, ma anche i miei genitori prima ancora di noi, donandoci, siamo stati accolti
da una comunità parrocchiale che non ci conosceva ma che, con generosità, ha accolto ciò che desideravamo
offrirle, permettendoci di crescere come famiglia in una nuova e più grande famiglia. Non mi sono però
immediatamente resa conto di questa verità, ma so di averla compresa in un preciso momento della mia vita:
cercavo delle risposte che qui non trovavo, così mi sono allontanata recandomi in un Paese distante con la
speranza di riuscire a trovare lì il silenzio necessario per mettermi in ascolto. In quel luogo, però, invece di

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trovare qualcuno che potesse riempire di senso i miei vuoti, ho invece incontrato una piccola grande suora
missionaria della Carità che, quando mi ha avuta di fronte, invece di dirmi cosa c’era bisogno che io facessi (e
che io temevo di non poter dare), mi ha posto una domanda: “Cosa puoi offrire tu? Noi accoglieremo quello con
gioia”. La risposta che cercavo, quindi, ero io, con tutti i miei limiti, il mio brutto carattere, il mio essere esigente
(e talvolta intransigente) verso di me e verso gli altri. In maniera spiazzante, quel poco che sentivo di poter
donare e per il quale mi sentivo misera, si è rivelato invece prezioso ai suoi occhi. Mi sono così sentita accolta
e non inadeguata, scoprendo che in realtà già lo ero a casa, in parrocchia, pur non essendone consapevole.
Tornata a Diano, mi sono ripromessa che avrei cercato di permettere a tutti coloro che avessi incrociato nella
mia vita, di sentirsi accolti allo stesso modo.
In parrocchia mi sento una di casa, guardandomi attorno, riconosco volti, giovani, meno giovani, e giovanissimi
che mi sono d’esempio perché nei modi più svariati, offrono il loro tempo, il loro talento, le proprie energie,
sostenendo anche il mio cammino e rendendo, questo tempo e questo spazio che il Signore ci ha affidato, ricco
e prezioso. Per questa comunità, capace di camminare insieme, rendo grazie.
                                                Concludo questi pensieri disordinati, parafrasando alcune parole
                                                dette da Papa Francesco riferite, per la verità, alla Chiesa in
                                                generale, ma che ben si adattano all’idea di parrocchia intesa come
                                                piccola chiesa familiare: “In famiglia a ciascuno di noi è donato tutto
                                                ciò che ci permette di crescere, di maturare, di vivere. Non si può
                                                crescere da soli, non si può camminare da soli, isolandosi, ma si
                                                cammina e si cresce in una comunità, in una famiglia. E così nella
                                                Chiesa” …. e nella parrocchia.
                                                                                           Anna Marino

                         La fede ai tempi del COVID 19
Poco tempo fa, su gentile invito di Don Luciano, ho
iniziato a scrivere un articolo per il giornalino di
Pasqua. Seppure l'argomento, a mio avviso, fosse
interessante e ampio il tema su cui muoversi,
stranamente non riuscivo mai a trovare il tempo per
continuarlo e portarlo a termine. Finché, con il
passare dei giorni, mi sono accorto di non avere più
l'attrazione a scrivere su quell'argomento, per il
semplice fatto che ben altro mi ronzava per la testa.
Ho deciso quindi di rimandare quell'articolo e
passare a considerare una situazione che in questo
momento mi preme molto e che ci riguarda tutti,
l'infezione da Covid-19.
Abbiamo da poco festeggiato l'inizio del 2020 e mai più ci saremmo immaginati che cosa ci aspettava subito lì
dietro l'angolo. Un'esperienza nuova, mai vissuta prima, che ha stravolto le nostre abitudini, il nostro modo di
essere e di porci e che ha purtroppo dei risvolti tragici.
A questo punto, seguendo il legame che unisce gli eventi alla fede, sorge subito spontanea una domanda: anche
il coronavirus é una creatura di Dio?
Io non ho la preparazione teologica per dare una risposta precisa e dettagliata ad una domanda così diretta, ma
come credente sono però certo di una cosa, ossia che nessun essere, visibile o invisibile, può esistere sulla
Terra contro la volontà di Dio. Sono altresì certo che questa malattia epidemica non è una punizione divina di
medioevale memoria.
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Purtroppo per noi, sono avvenimenti che si verificano del tutto naturalmente. Pare che questo virus vivesse in
forma latente da milioni di anni nel corpo di un pipistrello asiatico e per un “incidente” si sia trasferito nel corpo
umano comportando per taluni notevoli danni fisici.
Di chi è la colpa? Semplicemente di nessuno. È avvenuto, questa è la realtà.
D'altra parte noi viviamo sulla Terra e non più nel Paradiso Terrestre... (sebbene anche là abbiamo ceduto
all'insidia).
Oggi che siamo in piena tempesta, tutti sono informatissimi su questo virus: come si propaga il contagio, i
comportamenti da tenere, cosa fare in caso di malattia; perciò non sarò certo io a dare ulteriori consigli in merito.
Ciò che più mi preme è cercare di mettere a fuoco (a dirla come Leonardo) i moti dell'animo.
La prima sensazione che ci coglie è sicuramente la paura. Paura di essere contagiati, sia noi che i nostri cari,
paura per le conseguenze che la malattia potrebbe avere. È naturale, è umano avere paura, l'importante però
è evitare che la paura abbia il sopravvento, sennò subentra il panico e sappiamo che il panico è contagiosissimo.
Per evitare questo, un buon rimedio potrebbe essere quello di non affidarci esclusivamente alla buona sorte,
difendendoci, meglio ancora, mettendo in atto tutte quelle precauzioni che i medici hanno suggerito e che noi
ben conosciamo. Tuttavia è ovvio che queste precauzioni comportano un impegno, uno scotto da pagare. Oltre
alle rinunce per la chiusura di luoghi di ritrovo e attività commerciali e artigianali, con gravi conseguenze
economiche, dobbiamo altresì privarci di comportamenti che rientravano nella normalità della nostra vita, quali
un abbraccio, una stretta di mano, le passeggiate in compagnia, la messa domenicale e tante altre cose. Tutto
                                                              questo è accompagnato da un silenzio che, man
                                                              mano che passano i giorni, si fa sempre più pesante.
                                                              Mancano i rumori del traffico, le voci degli operai nei
                                                              cantieri, il vociare dei bambini all'uscita da scuola o
                                                              nel campetto dietro la chiesa. Personalmente, con
                                                              mia grande sorpresa, inizio ad avere pure nostalgia
                                                              del passaggio sulla strada dei ragazzini a bordo dei
                                                              loro rumorosissimi scooter o motorini e che io mal
                                                              sopportavo.
                                                              Come cambia la visione delle cose! E come fluttuano
                                                              i nostri desideri, nel rumore cerchiamo il silenzio ma
                                                              quando questo non è normale il rumore ci manca.
                                                              E poi, perché non parlare delle mascherine, oggi
                                                              introvabili. Esse sono uno strumento importantissimo
e indispensabile per medici e infermieri ma, ahimè, quale risvolto amaro! Una volta indossate cancellano il
sorriso e sappiamo bene quanto ci sarebbe bisogno in questo momento di un sorriso, soprattutto negli ospedali;
si deve per forza cedere e rinunciare anche a quello.
Un altro sentimento che emerge in questa situazione è il senso di gratitudine e riconoscenza per l'encomiabile
lavoro e spirito di sacrificio nei confronti di medici, operatori sanitari, protezione civile, volontari del soccorso,
forze dell'ordine, tutti quei lavoratori che operano per fornirci beni e servizi di prima necessità e una miriade di
altre persone impegnate in questa lotta. A tutti va il nostro ringraziamento.
Per noi che “crediamo” è essenziale innalzare a Dio Padre un'accorata preghiera di aiuto “Chiedete e vi sarà
dato”(Matteo 7,7). La nostra fede cristiana è la nostra forza, il nostro coraggio.
Se qualche volta siamo assaliti dalla tristezza, cerchiamo conforto nella nostra Mamma Celeste, la Beata
Vergine Maria. Ella è fonte inesauribile di amore, di misericordia e indispensabile è il Suo sostegno. Preghiamo
poi per tutte le vittime, i malati e i loro familiari.
Seguiamo le indicazioni che ci dà ogni giorno il nostro amato Papa Francesco. Oggi, per esempio, da casa
Santa Marta, con voce che lasciava trasparire tutto il suo dolore del momento, ha detto: “Dio aiuti le famiglie a
scoprire nuove espressioni di amore”. Un grazie a Papa Francesco per il Suo aiuto e la Sua vicinanza con la
preghiera.
Infine, se qualche volta, come scriveva G. Ungaretti, vi sentite come foglie sugli alberi in autunno, vi propongo
di leggere attentamente questa poesia, che riporto di seguito, scritta da Madre Teresa di Calcutta e che è un
meraviglioso canto di lode alla vita:
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Giornale della Comunità Parrocchiale SAN PIO X - Loano (SV)
Ama la vita così com'è
Amala pienamente, senza pretese; amala quando ti amano o
quando ti odiano, amala quando nessuno ti capisce, o quando
tutti ti comprendono. Amala quando tutti ti abbandonano, o
quando ti esaltano come un re: Amala quando ti rubano tutto o
quando te lo regalano. Amala quando ha senso o quando
sembra non averlo nemmeno un po'. Amala nella felicità o nella
solitudine assoluta. Amala quando sei forte, o quando hai una
montagna di coraggio. Amala non soltanto per i grandi piaceri
e le enormi soddisfazioni; amala anche per le piccolissime
gioie. Amala seppure non ti dà ciò che potrebbe, amala anche se non è come la vorresti. Amala ogni volta che
nasci ed ogni volta che stai per morire. Ma non amare mai senza amore. Non vivere mai senza vita!
Spero che quando leggerete questo articolo il peggio sia passato. Andrà tutto bene! Affrontiamo comunque ogni
avvenimento sempre in Grazia di Dio. Vi saluto tutti con un ideale fraterno abbraccio augurandovi una Santa
Pasqua 2020.
                                                                                                         Camillo

                   Lisa Grazioso a New York all’ONU
                                           Dal 24 febbraio al 3 marzo 2020

                               Sono Lisa Grazioso, di Borghetto Santo Spirito, dove abitano i miei nonni. Io
                               durante l’anno vivo a Genova con i miei genitori. Il fine settimana la passo a
                               Borghetto, e da tanto, frequento il gruppo Giovanissimi della Parrocchia S. Pio X in
                               Loano (dove già erano cresciuti i miei genitori).
                               Ho avuto l’occasione di partecipare a un progetto dell’ONU con circa 1000 giovani
                               provenienti da tutto il mondo. Eravamo 50 per commissione, e abbiamo parlato con
                               il Segretariato dell’ONU per quattro giorni.
                               È un progetto che si chiama Gemun, che coinvolge la maggior parte delle scuole e
                               propone una simulazione delle Nazioni Unite. Esistono diversi Gemun in tutti i paesi
                               del mondo, tra cui due in Italia, uno a Genova e uno a Roma. Io ho deciso di andare
                               al progetto di New York perché mi piaceva visitare l’America e soprattutto New York
                               che per me è la città più rappresentativa di quella nazione. E in più sono sempre
                               stata affascinata dai grattacieli, dalle luci notturne e dall’atmosfera newyorkese. A
                               New York, anche se ero accompagnata dalla scuola, non mi ha accompagnato
                               nessuno dei miei. Ero insieme ad altre due mie compagne di scuola della mia
                               classe scolastica, ma in pratica ero sola (avevamo un tutor).
                                 I primi due giorni li abbiamo passati a visitare la città. Abbiamo visitato Time Square
                                 di notte, poi Downtown, siamo
andati al traghetto che faceva il giro turistico a Long Island,
quello per vedere la Statua della Libertà, poi il Ground Zero
che è il punto dell’attentato alle Torri Gemelle. E naturalmente
un po' di shopping.
I giorni seguenti c’è stata la cerimonia di apertura e siamo
andati proprio all’ONU, ci hanno fatto sedere nell’Assemblea
Generale dove siedono i Delegati quando ci sono le riunioni.
Prima ci hanno fatto vedere come lavora attualmente l’ONU.
Abbiamo incontrato il Delegato del Costarica e quello delle
Fiji, più altri operatori che appartenevano all’Organizzazione
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delle Nazioni Unite, tra cui della Protezione della
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                                                               e in generale.

                                                              Ci hanno diviso in commissioni, io sapevo di essere già
                                                              nella Commissione Legal, cioè: come risolvere i
                                                              problemi dal punto di vista legale, e avevo il paese del
     Lisa con un gruppo di giovani all’ONU e in               Nord Macedonia e il mio issues (problema da risolvere)
     mezzo a loro il figlio di Martin Luther King
                                                             era come fermare la protezione, e come proteggere le
                                                             persone dall’innalzamento del livello del mare.
Abbiamo tenuto diversi dibattiti che sono durati quattro giorni, per tutta la giornata ci tenevano occupati. È stato
piuttosto faticoso, tuttavia mi sono divertita, perché ho conosciuto gente di tutte le parti del mondo, tra cui molti
americani, molti asiatici, sudamericani e molti ragazzi che venivano dall’Arabia Saudita…
Quindi ho conosciuto insomma “il mondo”. Mi è piaciuto perché ho potuto confrontarmi con altre persone della
mia stessa età, ma di paesi diversi.
Io principalmente, come mio paese e come mio delegato, ho deciso di occuparmi di come preservare i
monumenti e le opere d’arte, se il paese venisse appunto allagato
oppure sommerso dalle acque del mare, ora attendiamo che la mia
nazione ovviamente sia passata.
Poi abbiamo parlato molto dei rifugiati climatici e di come dovrebbero
venire trattati. E poi abbiamo imposto delle normative che
dovrebbero far rispettare in tutti i paesi, il Trattato di Parigi e di Tokyo,
e delle sanzioni se non le rispettassero. Se il nostro provvedimento
verrà mandato all’ONU e vedremo se riusciremo a farlo passare.
Considerazioni generali: New York è ovviamente una città molto
bella, e ho potuto sperimentare cosa c’è fuori dell’Italia. È stata
importante anche la non presenza dei miei genitori, perché così ho
potuto constatare da sola cosa succede al di fuori della propria zona
di confort. Ho capito che alla fine, anche se tutti gli esseri umani sono
diversi, hanno le proprie peculiarità, in fondo siamo tutti gli stessi, e
non ha proprio senso di confrontarci gli uni con altri e dichiarare chi
è il migliore e chi no. Questa è la mia esperienza.
                                                             Lisa Grazioso

                         Siamo tutti malati…di umanità
                                   In questi giorni siamo tutti chiamati a confrontarci e, in certo modo, a riconciliarci
                                   profondamente con la nostra umanità. Perlopiù, almeno nella nostra sensibilità e cultura
                                   occidentale, quando facciamo ricorso a questa parola “umanità”, siamo soliti farlo in
                                   modo assai solenne e talvolta presuntuoso. Evochiamo questa preziosa parola, in cui
                                   ci riconosciamo, per distinguerci dalle altre creature viventi, nel senso di una eccellenza
                                   che diamo per scontata e per acquisita. In realtà, questa parola rimanda radicalmente
                                   a quell’humus da cui siamo stati tratti e verso cui siamo chiamati a ritornare con
                                   serenità, dopo aver percorso il nostro cammino di umanità.
                                   La caratteristica più propria della nostra dignità umana è la consapevolezza della nostra
                                   realtà che dovrebbe generare sempre l’humilitas. L’umiltà è propria delle persone
                                   umane degne di questo nome. Nella nostra cultura occidentale siamo più inclini a
                                   pensare alla nostra umanità a partire dal mito di Prometeo che non dal mistero di Cristo
                                   Signore.

                                                             10
L’esperienza così difficile di dover far fronte ad una pandemia come quella del
Coronavirus si sta rivelando uno choc quasi assordante: non pensavamo di
essere anche noi vulnerabili e così tremendamente fragili. Ci eravamo convinti
di essere una porzione dell’umanità che, a costo di sacrifici e di intraprendenza
mirabili, si era guadagnata il privilegio di una sostanziale e durevole immunità
dalla paura e dal senso così umano di insicurezza. Eravamo così fieri e pieni
di noi stessi da arrivare a pensare persino che gli altri – i popoli più poveri e
svantaggiati – in realtà raccoglievano il frutto della loro pusillanimità tanto da
sentirci in dovere di negare loro il diritto a sedere al banchetto della nostra
felicità.

La pandemia ha cambiato tutto in un attimo.
Una parola mi torna in mente annotata da Etty Hillesum nel suo Diario:
“BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE”. (Deportata ad Auschwitz Etty
Hillesum ha con sé, nello zaino, la Bibbia e una grammatica russa, lingua della
madre. L’ultima cartolina postale, indirizzata all’amica Christine van Nooten, è datata 7 settembre 1943: la giovane donna
la lascia cadere dal treno diretto al campo. “Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e
così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Arrivederci da noi quattro”. Muore ad Auschwitz due mesi dopo, il 30 novembre
1943. Muore che non ha ancora trent’anni.)
Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per guadagnare in profondità e per amplificare la
nostra modalità di vivere le realtà cosi ampie e variegate della nostra vita.
La sfida di passare dal galoppo delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita,
anche quando è limitato dalla costrizione della situazione, diventa un compito per crescere in umanità. Il senso chiaro di
fragilità può diventare l’occasione per cogliere l’essenziale e tenersi pronti a tutto, anche a ciò che ci sconvolge.

Dobbiamo infatti riconoscere che siamo diventati una generazione non certo “malvagia” (Lc 11,29), ma sicuramente troppo
frettolosa. Talmente pressati e continuamente stimolati, non abbiamo talora tempo e modo per guardarci dentro e lasciarci
veramente guardare dalla vita.

Ciò che stiamo vivendo, e che siamo in certo modo obbligati a vivere, ci sta rivelando un duplice segno. Siamo stati
introdotti dall’incremento di intelligenza del Vangelo, vissuto con il concilio Vaticano II, a lasciarci interrogare dai “segni dei
tempi”. Tutto quello che accade, in particolare quando tocca in modo così forte le nostre relazioni tra persone, è un “segno”
da cogliere e da interpretare.
                                                       Nella mia personale sensibilità ho colto e accolto con gratitudine mista
                                                       a stupore la reazione della Conferenza episcopale del nostro Paese
                                                       alle norme imposte dal Governo. Il fatto di adeguarsi in modo sereno
                                                       e semplice per contenere il contagio è un vero salto di qualità nella
                                                       relazione tra la Chiesa e la società moderna, sempre più post-
                                                       moderna e, sicuramente, post-cristiana.

                                                        Alcuni hanno letto e persino criticato, fino a disapprovare le indicazioni
                                                        date dai vescovi del nostro Paese come una resa allo Stato da parte
                                                        della Chiesa e addirittura come una resa della fede davanti alla
                                                        scienza. Qualcuno ha persino gridato allo scandalo per avere ceduto
al materialismo piuttosto che ribadire e rafforzare le esigenze e i rimedi spirituali. Per alcuni sospendere le celebrazioni
dei sacramenti è un atto di resa incondizionata alla mentalità del mondo, invece di resistere con eroismo fino al martirio
per testimoniare i valori della fede e la fiducia nella Divina Provvidenza.

Personalmente ritengo che dai tempi del Manzoni il mondo è veramente cambiato! Dagli appelli del Borromeo a
intensificare i pii esercizi nelle chiese e per le strade, per fare penitenza e impetrare la fine del flagello (divino, secondo

                                                               11
qualcuno!) ne è passata di acqua sotto i ponti! Siamo passati all’invito insistente, ma delicato, a vivere nella fiducia serena
di poter pregare ed esser esauditi – lo speriamo! – comodamente seduti sul divano di casa.

                                                          La pandemia ha permesso di rivelare quel lungo cammino
                                                          compiuto in questi ultimi decenni: una vera riconciliazione della
                                                          Chiesa con la società post-cristiana e un’alleanza tra fede e
                                                          scienza che avrebbero fatto esultare personaggi come Galilei,
                                                          Copernico, Giordano Bruno…!
                                                          Così la quaresima, vissuta sempre più da una minoranza quasi
                                                          invisibile, si è trasformata in una quarantena condivisa. In una
                                                          parola, la quaresima si è trasformata in quarantena e speriamo
                                                          che la quarantena ci aiuti a vivere meglio la quaresima nella
                                                          compassione evangelica. Il fatto di invitare i fedeli a pregare in
                                                          casa e ad unirsi, attraverso i mezzi di comunicazione, alle
                                                          celebrazioni trasmesse via etere è un riconoscimento della
possibilità di vivere anche in modo diverso la propria vita di preghiera in un quadro più personale e intimo… più interiore
e “segreto” (Mt 6,6,).
In ogni modo, quello che viviamo in questo momento di grave pericolo è qualcosa che tocca, segna e interpella la nostra
percezione di come essere discepoli del Vangelo nel mondo in cui viviamo e nelle situazioni, anche impreviste, in cui ci
troviamo a vivere e a soffrire.

La pandemia mette in crisi quel modo di supponenza che si traduce in dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere
la morte. Come discepoli del Signore Gesù crediamo nella risurrezione e, in forza di questa nostra fede, attendiamo la vita
eterna senza confonderla mai con la pretesa e l’illusione di essere immortali. Come creature siamo mortali e la morte,
unitamente alle tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, è parte integrante della nostra umana avventura.

La fede cristiana prende sul serio la sofferenza e la morte.
In questo momento di fragilizzazione e talora di panico, come
credenti siamo chiamati a rendere testimonianza discreta e
appassionata della “speranza” (1Pt 3,15) che ci abita e ci anima.
Con questa consapevolezza diventeremo capaci di quell’ottimismo
tragico che è l’unico a poter essere autenticamente alla portata
della nostra umanità.

Il modo di preparare e vivere la morte da parte del Signore Gesù
non è stato stoicamente distaccato e cinicamente indifferente. Al
contrario, è stato radicalmente patito «con forti grida e lacrime» (Eb
5,7). Il Signore Gesù non ha vissuto la sua morte come una
liberazione dalla vita, ma come un dono della vita per affermare che l’amore è più forte della morte.
Socrate chiese al discepolo Critone di offrire – a cose fatte – il sacrificio prescritto ad Eusculapio per la guarigione ricevuta
«o con la medicina da un male, oppure con la morte dalla malattia della vita». Del Budda la tradizione ci tramanda due
racconti contrastanti della sua morte: una ideale e una drammatica. Al contrario, i Vangeli ci testimoniano che, nel mistero
della Pasqua, il Signore Gesù si è fatto solidale con la nostra angoscia attraverso la sua compassione.
In questo momento così difficile, com’è la pandemia del Coronavirus, la nostra testimonianza di discepoli non può che
essere conforme a quella di Cristo e non può che seguire lo schema e la logica della Pasqua che forse quest’anno non
potremo celebrare come d’abitudine.

Condividiamo la fatica e l’angoscia davanti ad una pandemia, che ha messo in crisi non solo le nostre illusioni di privilegi
acquisiti per sempre, ma anche il nostro modo di vivere la fede e i Sacramenti. In questo doloroso frangente non possiamo
e non dobbiamo che aggrapparci alla nostra fede pasquale in Cristo Signore, morto e risorto per noi. Il Vangelo ci mostra

                                                              12
che il cuore del cuore della rivelazione in Gesù del volto misericordioso del Padre di tutti e creatore di ogni cosa è la
compassione.

Una domanda rimane in sospeso: «Come uomini e donne sapremo riannodare e rafforzare quella “social catena” per far
fronte all’“empia natura” di cui parlava, con il suo pessimismo illuminato, Giacomo Leopardi nella sua Ginestra?». E
ancora: «Come credenti sapremo distinguere l’illusione dell’immortalità dal desiderio della vita eterna verso cui ci volgiamo
serenamente mettendo in conto la morte nostra e delle persone che amiamo?».
Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati «ad immagine e somiglianza» (Gen 1,26) di Dio. La
coscienza del nostro limite di creature va onorato, accolto e amato.
                                                                                                  Don Renato Rosso

                             Una risposta a due povertà
                                                                Dono e spreco: due input (fattori produttivi)
                                                                abbondanti in natura che, se combinati in modo
                                                                efficiente, possono risolvere il problema di due
                                                                povertà: quella materiale e quella di ricchezza e di
                                                                senso del vivere. I dati sullo spreco sono
                                                                impressionanti. Ogni anno un terzo della
                                                                produzione mondiale (il 40% negli Stati Uniti) viene
                                                                sprecata (in parte al momento della produzione, ma
                                                                soprattutto al momento del consumo). Secondo le
                                                                stime della Fao gli 868 milioni di persone che
                                                                soffrono la fame potrebbero essere nutrite per 4
                                                                anni con lo spreco di un solo anno.
                                                                In Italia la "Legge del buon Samaritano" (Legge n
                                                                155, entrata in vigore il 16 luglio del 2003) ha
                                                                costruito un meccanismo che agevola la cessione
                                                                dei prodotti commestibili ma non più vendibili dalla
grande distribuzione e dalla ristorazione alle organizzazioni di Terzo settore che combattono la povertà e si
prodigano per gli "scartati". Anche grazie a questo stimolo stanno nascendo in varie parti del Paese "empori
della solidarietà". Si tratta di luoghi dove organizzazioni di Terzo settore raccolgono i prodotti della grande
distribuzione e li distribuiscono a una lista di beneficiari rigorosamente selezionata dai centri d’ascolto con
meccanismi di tessere a punti che evitano abusi e rivendita di prodotti.
Un parroco di Capua don Gianni Branco ha però introdotto nel circuito del dono e dello spreco un’innovazione
significativa che diversifica le fonti di offerta. Partendo dalla tradizione di generosità napoletana del "caffè
sospeso" (un dono monetario che i clienti di alcuni bar lasciano per offrire un caffè e chi verrà dopo) ha messo
in collegamento attraverso un App il circuito dei negozi della città dove venditori e clienti possono lasciare un
"sospeso" collegato a tutti i possibili beni vendibili. I beneficiari selezionati dalla Caritas e dai centri d’ascolto
possono così accedere in uno dei punti vendita a una vasta gamma di beni e servizi. Un altro innovatore e
"broker" efficiente dello spreco Marco Costantino è l’inventore di "Avanzi Popolo" a Bari. Che offre il proprio logo
a eventi e ricevimenti locali (dove notoriamente l’offerta è generosa e il cibo largheggia) che sono già in
collegamento con l’organizzazione che indirizza quanto avanzato a una rete di beneficiari locali. La gestione
efficiente del circuito dello spreco e del dono può risolvere simultaneamente due forme di povertà. Quella
materiale dei riceventi e quella di senso del vivere dei potenziali donatori. Il Rapporto mondiale sulla Felicità
sottolinea infatti come la gratuità sia uno dei sette fattori chiave che spiegano il 75% delle differenze di
soddisfazione di vita tra i diversi Paesi del mondo.
Facilitare l’attivazione del dono e canalizzare lo spreco verso potenziali beneficiari non risolve dunque solo il
problema di quest’ultimi, ma è anche capace di attivare quella predisposizione a donare che può salvarci da
epidemie di povertà di senso del vivere come quella scoppiata negli Stati Uniti con la crisi delle morti per
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disperazione che ha aumentato il tasso di mortalità dei bianchi non ispanici tra i 40 e i 60 anni. Il circuito dello
spreco e del dono incentivato fiscalmente è un bell’esempio di quell’economia a quattro mani (mercato,
istituzioni, cittadinanza attiva, organizzazioni e imprese responsabili) che sono fondamentali per risolvere i nostri
problemi nella logica dell’economia civile.
Una direzione di progresso fondamentale di queste esperienze innovative sta nella capacità di coinvolgere in
forme sempre più attive e generative i beneficiari che possono diventare soci e promotori della stessa iniziativa.
La povertà (materiale) è infatti in realtà un fenomeno multidimensionale fatto di fragilità economica, povertà
educativa, di relazioni, di autostima. Non si risolve soltanto con un assegno o con un pacco dono ma richiede
accompagnamento e attivazione. Creare valore economico sostenibile è un’azione morale decisiva nella nostra
società. Ma gestire in modo efficiente il circuito del dono e dello spreco è altrettanto importante perché può
risolvere contemporaneamente le due povertà di cui si è detto e che, in diversi modi, ci assediano, quella
materiale e quella di ricchezza e d i senso del vivere.

                                                                                     da Avvenire
                                                                                     Leonardo Becchetti
                                                                                     domenica 16 febbraio 2020

    Decreto della Penitenzieria Apostolica circa la
     concessione di speciali Indulgenze ai fedeli
    nell’attuale situazione di pandemia, 20.03.2020
                                         PENITENZIERIA APOSTOLICA
                                                 DECRETO

                                                     Si concede il dono di speciali Indulgenze ai fedeli affetti
                                                     dal morbo Covid-19, comunemente detto Coronavirus,
                                                     nonché agli operatori sanitari, ai familiari e a tutti coloro
                                                     che a qualsivoglia titolo, anche con la preghiera, si
                                                     prendono cura di essi.
                                                     «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione,
                                                     perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Le parole scritte
                                                     da San Paolo alla Chiesa di Roma risuonano lungo l’intera
                                                     storia della Chiesa e orientano il giudizio dei fedeli di fronte
                                                     ad ogni sofferenza, malattia e calamità.
                                                     Il momento presente in cui versa l’intera umanità, minacciata
                                                     da un morbo invisibile e insidioso, che ormai da tempo è
                                                     entrato prepotentemente a far parte della vita di tutti, è
                                                     scandito giorno dopo giorno da angosciose paure, nuove
                                                     incertezze e soprattutto diffusa sofferenza fisica e morale.
                                                         14
La Chiesa, sull’esempio del suo Divino
Maestro, ha avuto da sempre a cuore
l’assistenza agli infermi. Come indicato
da San Giovanni Paolo II, il valore della
sofferenza umana è duplice: «È
soprannaturale, perché si radica nel
mistero divino della redenzione del
mondo, ed è, altresì, profondamente
umano, perché in esso l’uomo ritrova se
stesso, la propria umanità, la propria
dignità, la propria missione» (Lett. Ap.
Salvifici doloris, 31).
Anche Papa Francesco, in questi ultimi
giorni, ha manifestato la sua paterna
vicinanza e ha rinnovato l’invito a
pregare incessantemente per gli
ammalati di Coronavirus.
Affinché tutti coloro che soffrono a
causa del Covid-19, proprio nel mistero di questo patire possano riscoprire «la stessa sofferenza redentrice di
Cristo» (ibid., 30), questa Penitenzieria Apostolica, ex auctoritate Summi Pontificis, confidando nella parola di
Cristo Signore e considerando con spirito di fede l’epidemia attualmente in corso, da vivere in chiave di
conversione personale, concede il dono delle Indulgenze a tenore del seguente dispositivo.
Si concede l’Indulgenza plenaria ai fedeli affetti da Coronavirus, sottoposti a regime di quarantena per
                                                     disposizione dell’autorità sanitaria negli ospedali o nelle
                                                     proprie abitazioni se, con l’animo distaccato da qualsiasi
                                                     peccato, si uniranno spiritualmente attraverso i mezzi di
                                                     comunicazione alla celebrazione della Santa Messa, alla
                                                     recita del Santo Rosario, alla pia pratica della Via Crucis o
                                                     ad altre forme di devozione, o se almeno reciteranno il
                                                     Credo, il Padre Nostro e una pia invocazione alla Beata
                                                     Vergine Maria, offrendo questa prova in spirito di fede in Dio
                                                     e di carità verso i fratelli, con la volontà di adempiere le solite
                                                     condizioni (confessione sacramentale, comunione
                                                     eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo
                                                     Padre), non appena sarà loro possibile.
                                                     Gli operatori sanitari, i familiari e quanti, sull’esempio del
                                                     Buon Samaritano, esponendosi al rischio di contagio,
                                                     assistono i malati di Coronavirus secondo le parole del
                                                     divino Redentore: «Nessuno ha un amore più grande di
                                                     questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), otterranno
                                                     il medesimo dono dell’Indulgenza plenaria alle stesse
                                                     condizioni.
                                                     Questa Penitenzieria Apostolica, inoltre, concede volentieri
                                                     alle medesime condizioni l’Indulgenza plenaria in occasione
                                                     dell’attuale epidemia mondiale, anche a quei fedeli che
                                                     offrano la visita al Santissimo Sacramento, o l’adorazione
                                                     eucaristica, o la lettura delle Sacre Scritture per almeno
                                                     mezz’ora, o la recita del Santo Rosario, o il pio esercizio
                                                     della Via Crucis, o la recita della Coroncina della Divina
                                                     Misericordia, per implorare da Dio Onnipotente la

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cessazione dell’epidemia, il sollievo per
                                                                      coloro che ne sono afflitti e la salvezza
                                                                      eterna di quanti il Signore ha chiamato a
                                                                      sé.
                                                                      La Chiesa prega per chi si trovasse
                                                                      nell’impossibilità di ricevere il sacramento
                                                                      dell’Unzione degli infermi e del Viatico,
                                                                      affidando alla Misericordia divina tutti e
                                                                      ciascuno in forza della comunione dei
                                                                      santi e concede al fedele l’Indulgenza
                                                                      plenaria in punto di morte, purché sia
                                                                      debitamente disposto e abbia recitato
                                                                      abitualmente durante la vita qualche
                                                                      preghiera (in questo caso la Chiesa
                                                                      supplisce alle tre solite condizioni
                                                                      richieste). Per il conseguimento di tale
                                                                      indulgenza è raccomandabile l’uso del
crocifisso o della croce (cf. Enchiridion indulgentiarum, n.12).
La Beata sempre Vergine Maria, Madre di Dio e della Chiesa, Salute degli infermi e Aiuto dei cristiani, Avvocata
nostra, voglia soccorrere l’umanità sofferente, respingendo da noi il male di questa pandemia e ottenendoci ogni
bene necessario alla nostra salvezza e santificazione.
Il presente Decreto è valido nonostante qualunque disposizione contraria.

Dato in Roma,
dalla sede della Penitenzieria Apostolica,
il 19 marzo 2020.

Mauro Card. Piacenza
Penitenziere Maggiore

Krzysztof Nykiel
Reggente

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