Essays 2021, anno XVII, n. 7 n.s - SPOLIA. Annual Journal of Medieval Studies - Italian Academy
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SPOLIA. Annual Journal of Medieval Studies Essays 2021, anno XVII, n. 7 n.s. SPOLIA. Annual Journal of Medieval Studies. Periodico telematico. Registrazione presso il Tribunale di Civitavecchia n. 663/04 del 24.08.2004 Direttore responsabile: Teresa Nocita ISSN 1824-727X © 2021 Scientificità riconosciuta per tutta l’area 10 RIVISTA DI CLASSE A / SCOPUS
SPOLIA. Annual Journal of Medieval Studies Editore: Spolia, Via Marina di Campo 19 00054 Fregene (Roma) © 2021 Tutti i diritti riservati - All rights reserved Direzione Teresa Nocita (L’Aquila - Università degli studi) Comitato editoriale Paolo Divizia (Brno - Masaryk University); Paolo Garbini (Roma - Università Sapienza); Stéphane Gioanni (Université de Lyon); Francesco Guizzi (Roma - Università Sapienza); Maria Ana Ramos (Zürich - Universität); Lucilla Spetia (L’Aquila - Università degli studi) Comitato scientifico Giuseppina Brunetti (Bologna - Università Alma Mater); Paolo Canettieri (Roma - Università Sapienza); Fulvio Delle Donne (Università degli Studi della Basilicata); Benoît Grévin (CNRS); Vito Lorè (Università degli Studi di Roma 3); Donatella Manzoli (Roma - Università Sapienza); Michela Nocita (Roma - Università Sapienza); Carlo Pulsoni (Università degli Studi di Perugia); Ines Ravasini (Università degli Studi di Bari); Christof Schuler (München - Ludwig-Maximilians-Universität; Erster Direktor der Kommission für Alte Geschichte und Epigraphik DAI); Francesco Ursini (Roma - Università Sapienza); Bryan Ward-Perkins (Oxford - Trinity College); Francesca Zagari (Università degli Studi della Tuscia)
Giuseppe Borzillo – Daniele F. Maras La costa tarquiniese: un paesaggio in divenire tra la Preistoria e l’età contemporanea The Coast of Tarquinia: A Changing Landscape from Prehistory to Modern Times Abstract Il contributo è dedicato alla ricostruzione storica del paesaggio costiero di Tarquinia dalla Preistoria all’evo moderno, attraverso le testimonianze relative alle diverse fasi etru- sche, romana (repubblicana e imperiale) e medievale di utilizzo e occupazione del terri- torio. In particolare, la presenza di lagune costiere ha condizionato a più riprese nel corso del tempo gli insediamenti, la viabilità e lo sfruttamento agricolo della piana costiera. Parole chiave: Paesaggio storico; Tarquinia; Gravisca-Porto Clementino; Saline; Naviga- zione. This paper tackles the historical reconstruction of the coastal landscape of Tarquinia from Prehistory to the modern period, through the available evidence from the Etruscan, Roman (republican and imperial) and Medieval phases of the use of land and settlement. In particular, the existence of coastal lagoons conditioned again and again in the course of time settlements, the road network and the agricultural use of the coast plan. Keywords: Historical landscape; Tarquinia; Gravisca-Porto Clementino; Salt-works; Seafaring. 1. Percezione e identità La Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata in Italia con la Legge n. 14 del 9 gennaio 2006, all’articolo 1 definisce il paesaggio come «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». A questa definizione fa eco il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004), che all’art. 131 recepisce e precisa il senso della Convenzione rico- 1 - aprile/2021
noscendo nel paesaggio «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni». In entrambi i casi, vengono introdotte nella definizione delle categorie antropologiche di notevole peso quali la percezione collettiva e la rilevanza identitaria del paesaggio da riconoscere e tutelare. Nel contesto della normativa nazionale e sovranazionale, la funzione di questi elementi è evidentemente quella di indirizzare e informare l’azione amministrativa per determinare la posizione dei valori paesaggistici nella scala degli interessi pubblici e collettivi. D’altra parte, è facilmente osservabile come una definizione aperta del paesaggio, che integra la componente umana a quella naturale e prende come riferimento la percezione da parte delle comunità che vivono e ope- rano nel territorio, presenta una notevole potenzialità come strumento euristico per l’interpretazione dei fenomeni storici connessi al paesaggio. Nelle prossime pagine, pertanto, si prende spunto da queste definizioni per cercare di mettere in luce le caratteristiche delle comunità che hanno interagito con il territorio della costa tarquiniese a scopo di popolamento, produzione e sfruttamento delle risorse, nonché in funzione del passaggio e della viabilità. Il risultato è una rapida rassegna dei dati archeologici, con una rifles- sione sulla storia del paesaggio, che ci si augura possano essere di stimolo alla futura ricerca. La porzione di territorio racchiusa tra la foce del Mignone a sud e il corso del torrente Arrone a nord (fig. 1) si presenta oggi nella forma di una piana costiera, con ondulazioni di modesta entità e caratterizzata principalmente dall’andamento delle acque, tra le quali hanno un particolare rilievo il basso corso del Marta e il bacino delle Saline. Come limite interno si consi- dera qui approssimativamente il corso della romana via Aurelia Nova, corri- spondente per un largo tratto all’odierna via Litoranea di Bonifica (S.P. 45)1. La conformazione geologica dell’area vede predominare i depositi sedi- mentari di origine marina, con banchi di argille plioceniche soprattutto a nord, che generano un morbido paesaggio collinare a tratti caratteriz- zato da calanchi e con presenza di sabbie e calcareniti compatte (macco, all’interno) e sabbiose (panchina, sulla costa); nel comparto meridionale, si osserva la presenza di sabbie, marne e argille pleistoceniche, spesso a matrice salmastra, su cui si sovrappongono depositi alluvionali e fluvio- lacustri recenti (olocenici) lungo il litorale2. Date queste premesse, non stupisce che il paesaggio storico sia stato con- dizionato soprattutto dalle modificazioni idro-geologiche, nelle quali hanno avuto ampia parte le interazioni tra l’azione umana e i fattori naturali. In particolare, si segnala la presenza intermittente di dune e lagune costiere, 2 - aprile/2021
documentate dalla cartografia storica sin dal XVII secolo, ma ricostruibili in varie fasi della storia più antica del territorio, così come fenomeni ricor- renti di impaludamento che hanno reso impraticabili ampi tratti della piana costiera e ai quali si è risposto in diversi momenti della storia del popola- mento con opere di drenaggio, irregimentazione delle acque e bonifica, che hanno di volta in volta alterato il paesaggio naturale e la sua percezione da parte delle comunità locali. A tale riguardo, vale la pena di aggiungere che la linea di costa ha subito diverse alterazioni nel corso dei secoli, sotto l’azione combinata delle cor- renti marine e dell’apporto di detriti da parte dei corsi d’acqua3: in partico- lare, va segnalato nella fase più recente l’aumento dei fenomeni di erosione, che comporta tra l’altro l’aggressione di siti di rilevanza storica e archeolo- gica da parte delle mareggiate4. Infine, un’ultima caratteristica variabile del paesaggio da considerare, che nel passato ha condizionato fortemente la percezione della costa e le moda- lità di insediamento, è la presenza diffusa di aree boscate e vere e proprie foreste. Queste hanno costituito nel tempo importanti risorse economiche (per la disponibilità sia di legname, sia di cacciagione), ma anche forti segni di confine, che si accompagnavano ai corsi d’acqua nel determinare l’acces- sibilità e percorribilità di ampie fasce di territorio. Una importante presenza boschiva è stata recentemente ipotizzata per l’età preromana nel tratto a sud del Mignone, tra il promontorio di Bagni S. Agostino e la foce del Marangone, che sarebbe stato in seguito interessato dalla fondazione di Centum Cellae (l’odierna Civitavecchia)5. Molto pro- babilmente, il paesaggio endolagunare al di là dell’odierna via Litoranea era caratterizzato similmente da aree boschive che costituivano un limite naturale e un distacco tra la zona interna e la fascia costiera, superato solo per il tramite delle valli fluviali e, nel corso del tempo, dalla viabilità rea- lizzata dall’uomo. La modifica antropica delle presenze boschive è uno degli elementi oggi più difficili da percepire e documentare (specialmente in zone intensamente popolate e urbanizzate), ma va sempre tenuta presente nella ricostruzione della storia del paesaggio. 2. Protostoria ed evo antico Prendendo come punto di partenza l’età del Bronzo Finale, riveste parti- colare importanza il sito di Fontanile delle Serpi, posto all’interno lungo il fosso Scolo dei Prati e sede di un nucleo abitato6 che, con ogni probabilità, sorgeva sulla sponda di un’antica laguna estesa in parallelo alla linea di costa, in qualità di proiezione costiera del popolamento proto-villanoviano dell’interno. Un tracciato di percorrenza, più tardi ricalcato dalla viabilità etrusca, congiungeva il sito con l’area dei Monterozzi dove più tardi sor- 3 - aprile/2021
geranno i tumuli della Doganaccia7. Presumibilmente la rete delle percor- renze consentiva il collegamento con gli abitati più interni, tra i quali spic- cano quelli posti nelle località Castellina, Pisciarello e Cavone8. Una simile posizione arretrata hanno i nuclei abitati noti a Casale Pacini9, Pian d’Arcione10 e al Fosso Due Ponti, l’ultimo dei quali attestato già dalla media età del Bronzo11. Anche in questo caso, la prossimità degli abitati a leggere depressioni della pianura costiera in corrispondenza di fossi depone a favore del loro rapporto stretto con il paesaggio lagunare più antico, che da un lato rendeva scomodo e inopportuno il popolamento della linea di costa12 e dall’altro consentiva uno sfruttamento economico delle risorse del sale e della pesca13. Il passaggio alla prima età del Ferro vede un cambiamento nel modello di occupazione del territorio, con una diminuzione dei centri minori a van- taggio del sinecismo proto-urbano di Tarquinia14. Una eccezione significa- tiva è costituita dal nuovo insediamento in loc. Saline15 (fig. 2), presumi- bile erede del più antico nucleo del Fontanile delle Serpi, posto però adesso direttamente sul mare e di maggiori dimensioni16. In effetti, il superamento della barriera naturale delle laguna costiera può essere dovuto a un cambio delle condizioni ambientali per ragioni climatiche, che hanno reso meno malsana la frequentazione dei terreni acquitrinosi; ma sembra più probabile che la migliore organizzazione sot- tesa alla ristrutturazione del territorio in chiave proto-urbana e la presu- mibile maggiore disponibilità di forza lavoro, eventualmente organizzata in corvées, abbiano consentito di provvedere a rudimentali opere di dre- naggio e bonifica17. È significativo, infatti, che l’insediamento delle Saline sia l’unico a tutt’oggi noto per la prima età del Ferro lungo l’intero tratto di costa a nord della foce del Mignone18. Le motivazioni per un tale sforzo collet- tivo sono evidenti se si aggiunge alla possibilità di sfruttare a fini eco- nomici le risorse ittiche e saline della laguna anche l’accesso diretto alla navigazione marittima, che in questa fase assume grande rilevanza per il distretto dell’Etruria meridionale19. Il cambiamento di prospettiva che trasforma le lagune costiere da bar- riera in risorsa e il mare da confine ad apertura internazionale è evidente- mente il portato di una serie di progressi sociali, economici e tecnologici, che è facile riferire allo sviluppo proto-urbano dell’età Villanoviana. Peral- tro, si tratta con piena evidenza di un fenomeno che incide profondamente sulla percezione del paesaggio da parte delle comunità che lo vivono, cre- ando nuove aspettative identitarie20. Non è un caso che l’accesso diretto al mare coincida con la diffusione del simbolismo ‘marinaro’ nei corredi funerari villanoviani dell’area tarqui- niese, documentato da navicelle d’impasto (di diversa foggia e dettaglio)21. 4 - aprile/2021
I dati attualmente in nostro possesso non consentono di comprendere con precisione quanti e quali siano stati gli interventi di modificazione intenzionale del paesaggio lagunare costiero. In ogni caso, il confronto con la situazione precedente è un chiaro segno di come mutate esigenze economiche e una maggiore disponibilità di risorse e di manodopera possano incidere sulle modalità di insediamento e di sfruttamento delle risorse del territorio22. Nello specifico, la presenza di un esteso insediamento portuale lungo il cordone dunare che separava la costa dalla laguna interna costituiva una significativa alterazione del paesaggio costiero, specialmente nei confronti di chi veniva dal mare. A giudicare dalla distribuzione degli affioramenti di materiale nell’a- rea più interna del sito delle Saline, la viabilità di collegamento con l’in- terno correva comprensibilmente lungo il fosso Scolo dei Prati, costituendo di fatto un prolungamento del tracciato che nel Bronzo Finale conduceva al Fontanile delle Serpi23. Il consolidamento del tracciato stradale costituisce un altro importante segno del territorio, che privilegia la connessione tra- sversale tra l’interno e la costa. Infatti per suo tramite si collegava diretta- mente l’abitato proto-urbano della Civita con l’insediamento portuale delle Saline, mentre lungo la percorrenza furono dislocate le aree sepolcrali e i nuclei di abitato di Corneto, dei Monterozzi e dell’Acquetta24. Questo sistema sembra mantenere la sua funzionalità per tutta l’età Vil- lanoviana, arrivando ai decenni finali dell’VIII secolo a.C.25. Di fatto, per quanto è stato possibile determinare in base a scoperte e ricognizioni, nella prima fase dell’epoca Orientalizzante sembra cessare la fase di intensa fre- quentazione del sito delle Saline26 e in generale il comparto costiero del ter- ritorio tarquiniese continua a essere disertato. L’assenza di siti che abbiano restituito materiale della fase antica dell’epoca Orientalizzante nella fascia costiera è dovuta con ogni probabilità a carenza di documentazione27, anche se l’argumentum e silentio può essere considerato se non altro un indizio della ridotta frequentazione di questa parte del territorio. L’accesso di Tarquinia al mare in questa fase è stato ipotizzato con vero- simiglianza attraverso la foce e il corso inferiore del Marta28, sebbene non siano state ritrovate finora tracce di un insediamento portuale29. A riguardo, è possibile che il centro corrispondesse alla statio della via Aurelia denomi- nata Maltano nell’Itinerarium maritimum, Martha nell’Itinerarium provinciarum e Marta fl(umen) nella Tabula Peutingeriana30, anche se non è prudente pro- iettare notizie di età romana imperiale in un passato assai più remoto31. Più concreta a nord è la presenza documentata di un insediamento in loc. Mandrione, posto a controllo della foce dell’Arrone e attivo già in epoca Orientalizzante e poi arcaica32. In questo caso, si tratta evidentemente di un centro di confine, collocato sulla sponda vulcente del torrente e presumibil- 5 - aprile/2021
mente posto sull’asse stradale litoraneo che in seguito sarebbe stato riper- corso dalla via Aurelia romana, a monte delle lagune costiere33. Per l’età tardo-orientalizzante, sebbene continuino a mancare dati arche- ologici riguardo all’esistenza di insediamenti costieri, acquistano molta importanza i ritrovamenti funerari. A questo proposito è senz’altro significativo che, dopo una lacuna di circa un secolo, alcuni mal noti ritrovamenti del 1825-1826 consentono di ricono- scere un importante nucleo sepolcrale presso le Saline, comprendente tombe a inumazione a fossa in «casse di nenfro e travertino» con «vasi dipinti di qualche interesse» e, in un caso, lo scheletro di un cavallo deposto assieme al defunto34. Da una delle tombe ritrovate in quell’occasione viene proba- bilmente il corredo di bronzi di produzione rodia e buccheri a decorazione graffita, conservati al Musée du Louvre e databili all’ultimo trentennio del VII secolo a.C.35 (fig. 3), e anche un vaso con cartiglio del faraone Psammetico II (594-589 a.C.), presumibilmente di produzione naucratita, menzionato in una lettera di Carlo Avvolta a Francesco Orioli del 18 novembre 182636. Appare evidente che simili corredi vanno riferiti a sepolture di alto rango da riferire a un insediamento di stampo aristocratico posto nel territorio a diretto controllo delle risorse del porto delle Saline37, le cui strutture, ancora mai ritrovate, hanno probabilmente subito forti manomissioni nella realiz- zazione di vasche e canali funzionali alle saline nelle varie fasi della loro lunga storia. Se da una parte è possibile inferire dall’assenza di ritrovamenti che l’in- sediamento portuale villanoviano abbia subito una forte riduzione della sua estensione in età Orientalizzante, che ne rende difficoltosa l’individua- zione sul terreno, dall’altra sembra ragionevole attribuire questa trasfor- mazione all’intervento di un gruppo gentilizio ristretto, che in quest’epoca ha preso il controllo dei traffici marittimi e dello sfruttamento delle risorse ittiche e saline. Appena più recente è un altro nucleo sepolcrale, scoperto nel 1991 in loc. Pian di Spille, sulla sponda destra del Marta, e ancora in larga parte ine- dito, che ha restituito materiale della prima metà del VI secolo a.C. tra cui un aryballos globulare in fayence verde pallido di produzione naucratita con il cartiglio del faraone Amasis (570-526 a.C.)38 (fig. 4). Non lontano, in loc. Piano S. Nicola, fu recuperata nel 1989 dalla Soprintendenza una tomba a camera con dromos contenente i resti di un carro a due ruote, databile nella seconda metà/ultimo quarto del VII secolo a.C.39. Come per i ritrovamenti alle Saline, anche in questo caso si può immagi- nare che le tombe si riferiscano a un abitato costiero (benché più interno), posto a controllo della foce del Marta e possibilmente già attivo in una fase precedente40. La presenza di oggetti di produzione orientale in sepolture dislocate sul territorio dimostra l’interesse di gruppi aristocratici che ave- 6 - aprile/2021
vano la propria base di potere nel controllo del territorio e delle sue risorse, con particolare riguardo ai traffici marittimi. Il paesaggio doveva essere ancora sostanzialmente naturale, con lagune costiere circondate da dune sabbiose e aree boscate e connesse con l’in- terno dalle valli fluviali. Come per l’epoca Villanoviana, però, è plausibile che fossero in opera sistemi di drenaggio e contenimento, in grado di con- dizionare l’estensione di alcune lagune in funzione della praticabilità por- tuale e della viabilità. È in questo contesto e in quest’epoca che si colloca la prima frequentazione del sito di Gravisca, che si dimostra sin da principio all’insegna del contatto con i circuiti della navigazione greco-orientale, nella fattispecie focea. Sono stati riconosciuti come offerte di fondazione un dinos del Wild-Goat-Style, una protome di grifo pertinente a un calderone di bronzo, una navicella nuragica e una famosa statuetta di bronzo laconica raffigurante una dea armata41. I navigatori d’oltremare hanno avuto ricetto in un nuovo scalo portuale posto in una delle lagune costiere poste alle spalle del futuro Porto Clemen- tino42 alla quale si poteva presumibilmente accedere da sud, dove ora sfocia il canale delle Saline43. La zona appena elevata a est della laguna è stata uti- lizzata dapprima come scalo per il rifornimento d’acqua dolce e per attività metallurgiche, cui ben presto si aggiunse il ruolo di luogo di culto funzio- nale alla protezione divina delle attività di scambio e commercio44. Come giustamente rilevato da M. Torelli45, lo sbarco dei navigatori stra- nieri e la connessa attività di scambio richiedevano all’ombra delle pratiche religiose un riconoscimento da parte delle autorità politiche locali. È gioco- forza pertanto pensare ai gruppi aristocratici che controllavano le Saline a sud e la foce del Marta a nord come i responsabili dell’accoglienza e integra- zione formale dei focei, quali garanti della loro condizione di ospiti per la durata degli scambi46. Alle stesse autorità, che in un contesto tardo-orientalizzante rivestono un ruolo sia pubblico che gentilizio, si deve la concessione di erigere l’Aphrodi- sion del 580 ca. a.C., che nacque fin da subito come un complesso sincretistico caratterizzato da forme elleniche ed elementi architettonici etruschi47. A ciò si accompagna la precoce assimilazione di Afrodite a Turan, dimostrata da un frammento di cratere laconico iscritto del secondo quarto del VI secolo a.C.48. La scelta di un nuovo sito per lo scalo emporico greco – in un luogo rela- tivamente neutrale rispetto agli insediamenti gentilizi documentati – è pro- babilmente dovuta alla necessità di garantire una relativa indipendenza allo scambio, che prelude allo sviluppo di nuove forme di gestione politica nella città di epoca arcaica. Da questo momento in poi, lo scalo di Gravisca attraverserà diverse fasi di sviluppo che vedranno la crescita del santuario emporico, nel quale si inne- starono i culti di Hera49, di Apollo/Śuri50 e di Persefone/Cavatha51. Allo stesso 7 - aprile/2021
tempo, un vero e proprio insediamento etrusco sorgeva a nord del santuario, connesso con Tarquinia tramite una nuova strada che passava significativa- mente attraverso il luogo di culto, prima di piegare verso l’abitato52. Il paesaggio costiero si avviava così verso una trasformazione decisiva, in cui il settore meridionale dalle Saline alla foce del Mignone recuperava la pro- pria conformazione naturale lagunare, tendenzialmente inadatta all’insedia- mento53, e il breve promontorio del Porto Clementino, posto a metà strada tra le foci del Mignone e del Marta, diveniva un punto di riferimento obbligato per chi veniva dal mare, con l’aspetto di una proiezione di Tarquinia verso la costa. Il settore settentrionale del territorio, benché presumibilmente anch’esso caratterizzato dal paesaggio lagunare, assiste in epoca arcaica a un incre- mento degli insediamenti, che si dispongono in posizione arretrata, lungo l’at- tuale via Litoranea, che segna il passaggio tra la piana costiera e le lievi ondu- lazioni dell’interno. La funzione di questi siti sembra essere legata soprattutto allo sfruttamento agricolo, come nel caso di Pian di Spille/Marina Velka54, Grottelle/Casale Grotte55, Monte Cimbalo (?)56, La Cesa57 e Lestra d’Asti/Pian d’Arcione58, quest’ultimo posto al confine con il territorio vulcente, come con- troparte del più antico abitato del Mandrione59. A queste forme più capillari di occupazione e utilizzo del territorio cor- risponde una maggiore articolazione della viabilità, che affianca alle prin- cipali arterie di comunicazione già menzionate una rete di diverticoli per raggiungere i diversi centri60 (fig. 5). Questi e il progressivo incremento dell’uso agricolo del territorio costituiscono un importante fattore di alte- razione del paesaggio, che inaugura una fase destinata a continuare fino alla piena età imperiale. Nel corso del V secolo a.C., la proiezione marittima internazionale di Tar- quinia subisce un significativo arresto, che comporta una ridefinizione del ruolo del santuario emporico di Gravisca61. In particolare, nei decenni finali del secolo, la ristrutturazione del luogo di culto comporta uno stravolgi- mento dei sacelli di Śuri e Cavatha62, al quale fa da contraltare la trasforma- zione delle strutture portuali, con la creazione di una serie di neoria di recen- tissima individuazione63. Questi interventi documentano in modo chiaro che il bacino della laguna costiera non aveva perduto la sua funzione portuale, che anzi viene raffor- zata e regolarizzata64 a distanza di alcune generazioni dalla fine della fre- quentazione greca dell’emporion65. Nonostante questi importanti cambiamenti, evidentemente riflesso di sviluppi socio-economici e politici, il paesaggio costiero tarquiniese sembra rimanere sostanzialmente immutato fino alle soglie del III secolo a.C. Le vicende che portarono all’inserimento di Tarquinia nel mondo romano dopo il 281 a.C.66 comportarono il progressivo abbandono del luogo di culto di Gravisca67 e una significativa riduzione dell’abitato costiero68. 8 - aprile/2021
La conquista romana comportò verosimilmente la confisca di una parte consistente del territorio, da assegnare all’ager publicus, come è avvenuto per tutte le metropoli etrusche dell’Etruria meridionale69. In ogni caso è signifi- cativo a tale proposito che alcuni decenni dopo, nel 241 a.C.70, il territorio fu attraversato dalla via Aurelia Vetus, che aveva lo scopo di congiungere i porti del litorale etrusco e attraversava Gravisca71. Essendo interessato direttamente dalla nuova viabilità di collegamento con Roma, è senz’altro probabile che il territorio costiero sia stato maggior- mente interessato da fenomeni di confisca territoriale, ma è in ogni caso chiaro che la fase romana determinò un cambiamento delle modalità d’uso agricolo nell’area72. L’analisi della viabilità ha messo in evidenza che ampie lagune costiere continuavano a caratterizzare e condizionare l’utilizzo del territorio73. Al margine delle aree umide e nell’interno un discreto numero di fattorie e insediamenti agricoli di età Ellenistica è stato riscontrato in base ai ritro- vamenti, con particolare riguardo al settore a nord della foce del Marta74, fino al confine settentrionale del territorio tarquiniese, presso l’Arrone, dove pochi resti documentano l’esistenza di un piccolo santuario di confine in loc. Buligname75. Nel 181 a.C. una colonia maritima civium Romanorum venne istituita a Gra- visca, sul modello di quelle di Cosa, Pyrgi e Castrum Novum, più antiche di quasi un secolo76. La colonia sorse sui resti del più antico abitato etrusco, obliterando l’area dell’antico santuario77 – ancora sede di povere forme di devozione – e strutturandosi su una maglia regolare di lotti78, originata dalla via di collegamento con Tarquinia, che in questa fase viene regolarizzata79. Il territorio di Tarquinia è stato tra quelli soggetti alla riorganizzazione agricola promossa dai Gracchi, al punto che una colonia fu dedotta nella città in base alla lex Sempronia del 133 a.C.80, con conseguenti riassegna- zioni dei lotti, che però probabilmente non riguardarono se non in piccola parte il comparto costiero. In connessione con questa fase81 si pone la retti- fica del tracciato della via Aurelia Nova a opera del console L. Aurelio Cotta nel 119 a.C., presumibilmente intesa a evitare i terreni insidiosi attorno alle lagune costiere82: come si è detto infatti, il percorso ricalcato in larga parte dall’odierna via Litoranea si pone immediatamente al di sopra della piana costiera, nel punto in cui iniziano le prime elevazioni dell’entroterra. L’utilizzo agricolo del territorio trovò una specializzazione nella vite da vino – celebre è il Graviscanum ricordato da Plinio83 – fatto che viene con- fermato da una manifattura di anfore vinarie impiantata lungo la linea di costa attuale in loc. Pian di Spille e attiva dall’epoca tardo-reubblicana fino ai primi secoli dell’era cristiana84. Allo stesso periodo o alla prima età impe- riale si data la peschiera oggi sommersa collocata poco più a sud lungo la sponda del mare, in direzione della foce del Marta85. 9 - aprile/2021
La presenza diffusa di vere e proprie villae nell’area tarquiniese sembra non arrivare prima dell’età augustea86, quando del resto anche Gravisca riceve una nuova assegnazione coloniaria87 e significativamente si osser- vano le ultime attestazioni di culto nel santuario88. È degno di nota che la lex coloniae prevedesse l’uso di fossae lungo i limiti rettilinei che, oltre a preser- vare i diritti dei singoli proprietari (come dichiarato), avevano la funzione indispensabile di drenare il terreno malsano89. Resti di ville rustiche di età imperiale sono stati rintracciati in tutta la fascia costiera del territorio di Tarquinia, a partire dal settore meridionale, dove si segnalano i resti in loc. San Giorgio, comprendente impianti produt- tivi e un’area residenziale con pavimento a mosaico90 (fig. 6). Proseguendo verso nord – in parte continuando l’utilizzo agricolo della fase ellenistica91 – si incontrano i siti di Casale S. Matteo lungo la via Litoranea92; Piscina del Vescovo alle spalle delle Saline93; Casaletto delle Lance alle spalle di Gravi- sca94; Portaccia, dove sono stati rinvenuti frammenti di dolia e resti funerari95; Torre degli Appestati, lungo la via di collegamento tra Gravisca e Tarqui- nia96; Voltone direttamente sulla costa alla foce del Marta97; Pian di Spille98; Cannetaccio a valle della via Litoranea99; Pian della Marta100; Il Gesso101; Vac- careccia102; e infine Cazzanello, dove è stata indagata una grande villa data- bile tra l’età augustea e la prima età imperiale, che comprendeva un com- plesso termale articolato attorno a una sala ottagona rivestita di marmo, con un apparato decorativo di altissimo pregio, che ha fatto pensare a una com- mittenza senatoria o imperiale103. Alle ville si accompagna la viabilità, che nel comparto costiero è centrata sul passaggio della via Aurelia e, in minor misura, dalla via di collegamento tra Gravisca e Tarquinia104. Tratti basolati sono stati trovati in diversi punti del territorio, a documento di un paesaggio assai più segnato dalla mano dell’uomo che nell’epoca preromana105. Punti nevralgici della percorrenza erano naturalmente anche i ponti sui maggiori fiumi, come il Mignone106 e il Marta107, ma anche Due Ponti108 e, più a nord, il torrente Arrone, al confine con il territorio vul- cente109. Sembra plausibile, a tale proposito, che i due tracciati della via Aurelia Vetus e Nova110 si riunissero in corrispondenza dei ponti, per riprendere poi rispettivamente il percorso costiero e quello rettilineo interno. Ciò aiuterebbe a spiegare alcune aporie della distribuzione delle stationes negli itinerari documentati dalla Tabula Peutingeriana e dall’Itinerarium provinciarum111. In particolare, tenderei a rigettare l’identificazione usuale del sito di Casale Carcarello con la statio Tabellaria112 (che invece si trovava probabil- mente a nord del Marta)113, per riconoscervi piuttosto la mansio che nella Tabula Peutingeriana è indicata semplicemente come Mindo fl(umen), evi- dente corruzione di Minio114 (fig. 7). 10 - aprile/2021
Il mancato collegamento di questa statio con Centumcellae sulla carta potrebbe dipendere da un danneggiamento del ponte sul fiume115, ma anche dalle condizioni impraticabili della via costiera nella fase tardo-antica116. Infatti, nonostante l’impegno profuso nelle varie fasi storiche del terri- torio, la lotta contro l’impaludamento dei terreni agricoli, che tendevano a tornare allo stato di acquitrini e lagune costiere117, era destinata a fallire sulla lunga durata. Il drenaggio, infatti, richiedeva una manutenzione con- tinua con grande impiego di risorse e di forza lavoro, che poteva essere garantito solo in tempo di pace e con un’organizzazione efficiente. Già Catone lamentava la natura malsana dell’ambiente in cui sorgeva Gravisca118 e, come si è visto, interventi di canalizzazione e reinterro sono documentati continuativamente sin dall’età preromana, senza peraltro che le lagune costiere fossero pienamente bonificate. Oltre che il terreno agricolo, la necessità di interventi di manutenzione e ripristino riguardava soprattutto la viabilità principale, come dimostrano le opere di canalizzazione di età imperiale sul sito del santuario di Gravisca e i rifacimenti della strada nord/sud che connetteva la colonia alle Saline, proseguiti almeno fino ad età adrianea attraverso il recupero di materiale di spoglio dagli edifici più antichi circostanti119. A tale proposito, vale la pena di valorizzare una fonte giuridica commen- tata da Celso nel Digesto120, che ricorda il legato testamentario di una donna che aveva disposto che la res publica Graviscanorum provvedesse a utilizzare il suo lascito «in tutelam viae reficiendae, quae est in colonia eorum usque ad viam Aureliam». Il passo è stato conservato nell’ambito di una disqui- sizione sulla correttezza di una formula che non quantificava il lascito, ma metteva a disposizione una somma da determinarsi in base al risultato che si intendeva ottenere. Nella fattispecie, si trattava del rifacimento della via di collegamento tra Gravisca e Tarquinia, nel tratto a valle della via Aurelia, in cui con ogni probabilità va riconosciuta la Nova. Non è da sottovalutare pertanto la coincidenza cronologica del commento di Celso in età adrianea con gli ultimi interventi di manutenzione individuati nel comparto meridionale di Gravisca. Quando nel 415 d.C. Rutilio Namaziano intraprese il suo viaggio di ritorno in Narbonense evitò la via di terra in quanto «i tratti delle vie in pia- nura sono allagati dai fiumi e i tratti elevati sono irti di ostacoli», e in par- ticolare la via Aurelia, dopo il passaggio dei Goti, «non addomestica più le foreste con case, né i fiumi con i ponti»121. A questo incerto percorso era pre- feribile la via di mare e, nel passare di fronte alla costa tarquiniese, il poeta conferma la sua previsione con una immaginifica descrizione paesaggistica (de red., 277-284): 11 - aprile/2021
roscida puniceo fulsere crepuscula caelo: pandimus obliquo lintea flexa sinu. Paulisper litus fugimus Munione vadosum: suspecto trepidant ostia parva salo. inde Graviscarum fastigia rara videmus, quas premit aestivae saepe paludis odor; sed nemorosa viret densis vicinia lucis pineaque extremis fluctuat umbra fretis. «Un crepuscolo rugiadoso illuminò il cielo violaceo: distendemmo le vele piegate prendendo l’insenatura di traverso. Poco più tardi evitammo la costa irta di secche del Mignone, la cui piccola foce è agitata per il mare malsicuro. Quindi vedemmo i tetti sparsi di Gravisca, che spesso d’estate l’olezzo della palude opprime; eppure le vicine lande alberate appaiono verdi per i fitti boschi e ondeggia l’ombra dei pini al limite estremo dei flutti» (trad. dell’autore). I segni dell’uomo sono ormai ridotti a ‘sparsi tetti’ e boschi, pinete e paludi hanno ripreso il controllo della regione costiera, dal momento che neppure la strada è sicura. Si tratta di uno scenario quasi post-apocalittico, per quanto bucolico, con- formemente al momento storico che segue il sacco di Roma da parte di Ala- rico. Tuttavia, anche se non può essere preso alla lettera, è comunque un chiaro documento della fine dell’organizzazione romana del territorio. Pochi anni prima, il giovane S. Agostino122 soleva meditare sulla Trinità nel corso di lunghe passeggiate che lo conducevano dal monastero dove risiedeva nella valle del Mignone, all’origine dell’aqua Traiana che serviva Centumcellae, fino alla foce del fiume, dove ancora oggi si trova la loc. Bagni di S. Agostino123. Evidentemente il paesaggio tra fiume e mare era ancora percorribile sulle brevi distanze e si avviava ormai verso una nuova fase di interazione tra uomo e natura, in cui il ruolo dei monasteri e delle strutture ecclesiastiche sarebbe stato determinante sull’organizzazione del territorio e l’utilizzo delle risorse. Per inciso, vale la pena di sottolineare che al principio del VI secolo, Gra- visca era sede episcopale ed è nota la partecipazione del vescovo Adonius al sinodo indetto da papa Simmaco nel 504124. Del resto, la documentazione archeologica dimostra la continuità di frequentazione abitativa fino almeno al VII secolo a Gravisca125 e nella villa di Cazzanello126. [D.F.M.] 3. Dal Medioevo all’età contemporanea Storicamente questo territorio si è andato strutturando su due direttrici fondamentali: la prima, costituita da più assi, di origine probabilmente etru- 12 - aprile/2021
sca, assicurava i collegamenti tra la costa tirrenica e l’entroterra; la seconda invece, di origine romana, è costituita dall’asse parallelo alla costa, ovvero dalla via Aurelia. Queste direttrici principali, pur variando nel corso del tempo nella gerarchia, e talvolta persino nel tracciato, che mutava al variare dall’importanza dei transiti, della gerarchia dei centri collegati e della con- dizione dei luoghi, si sono consolidate nelle epoche successive fino ad assu- mere la conformazione attuale. La natura paludosa dei territori attraversati dalla via Aurelia e la per- dita del ruolo di grande collegamento verso nord a partire già dal Tar- doantico, percorso ostacolato poi anche dalla presenza della frontiera tra Stato Pontificio e Toscana, ha comportato per lungo tempo l’abbandono di questa direttrice, originando la marginalizzazione e il parziale isolamento degli insediamenti della Maremma laziale; isolamento che solo in parte è stato superato con il ripristino della via Aurelia nel corso del secolo XIX e dalla realizzazione della ferrovia nel 1867. A caratterizzare il sistema inse- diativo ancora oggi è la presenza del forte segno ordinatore dato dall’au- tostrada-ferrovia e dalla viabilità trasversale che si distribuisce a pettine e che, diramandosi dal corridoio costiero, garantisce il collegamento con i centri dell’entroterra collinare. Per quel che riguarda i traffici commerciali e la lunga percorrenza, nel Medioevo si continuò a preferire la via del mare, presidiata dal sistema difensivo costiero, costituito da numerose torri di avvistamento. A partire dal IX secolo, per contrastare il sempre più crescente pericolo delle incursioni saracene, lungo tutta la costa del Lazio furono erette numerose torri di vedetta. Durante il pontificato di Gregorio III dal 731 al 741, furono fortifi- cati i punti più importanti del litorale laziale127. Non essendo ancora inserite in un sistema organico, e non disponendo di adeguati sistemi offensivi, le torri svolgevano la sola funzione di avvistamento e segnalazione. È plausibile ipotizzare che tra le prime torri ad essere realizzate ci fu quella di Corneto, eretta a guardia dello scalo marittimo e del vicino insediamento abitato. Le continue minacce esterne furono contrastate efficacemente solo a seguito delle alleanze stipulate dallo Stato Pontificio. Una vasta coalizione navale con le città marinare di Pisa e Genova, volta ad annientare definiti- vamente i Saraceni, fu organizzata da papa Benedetto VIII, accordi che pre- vedevano anche un riscontro commerciale per queste città128. Dal XII secolo, Corneto come libero comune (almeno dal 1144 era retto da propri consoli) aveva rapporti commerciali diretti con diverse città mari- nare. Da un trattato del 1174 con la città di Pisa si evince chiaramente che i cornetani erano in possesso di proprie navi e avevano rapporti commer- ciali anche con Genova129. Grazie alla sua posizione strategica sulle rotte tirreniche e al vasto territorio destinato prevalentemente alla produzione di cereali, Corneto fu definita per secoli horreum urbis130. 13 - aprile/2021
Nel XVI secolo, al dilagare di una nuova forma di pirateria musulmana, e sotto il timore di un’invasione turca, ritenuta imminente dopo la disfatta di Gerba, lo Stato Pontificio intraprese una poderosa opera di rafforzamento e ammodernamento della difesa costiera. Il merito di tale opera è da attribu- ire a papa Pio V, il quale con la Constitutio de aedificandibus turribus in oris mari- timis, del 1567, attuò un organico sistema difensivo lungo le coste pontificie, imperniato su di una serie di fortificazioni strettamente collegate tra di loro. Parallelamente al rafforzamento delle torri esistenti, ne furono costruite di nuove. L’evoluzione dell’architettura militare, particolarmente attiva in quel periodo, aveva dato una notevole impulso all’innovazione anche alla difesa delle coste: si passò pertanto da una difesa di tipo medievale, prevalente- mente passiva, con cui ci si limitava solo alla sorveglianza del mare, a una difesa attiva, adatta a respingere i tentativi di sbarco, anche con l’ausilio di armi da fuoco. Nel 1589 papa Sisto V ordinò una ispezione delle strutture difensive131: nel territorio di Tarquinia sono riportate la Torre di Corneto e la Torre di Bertaldo, entrambe appartenenti alla Camera Apostolica, alla cui manuten- zione, e al mantenimento delle guarnigioni militari, contribuivano in primo luogo la città di Corneto e, in percentuali variabili, tutti i centri della Tuscia. Il sistema difensivo da terra dell’intero litorale laziale era integrato da un pattugliamento via mare effettuato prima con galee che, navigando tra Terracina e Montalto, avevano il compito di difesa attiva già in mare; suc- cessivamente furono impiegate delle feluche che facevano la spola tra una torre e l’altra. Furono almeno tre le strutture difensive costruite lungo la costa tarqui- niese: il Castellaccio alla foce del torrente Arrone, la torre di Corneto nei pressi del porto, e a sud la torre di Bertaldo o di Sant’Agostino. In merito al Castellaccio le notizie sono scarsissime: era già stato costru- ito a metà del XIV secolo quando nei suoi pressi è registrato il naufragio di una nave genovese132. Nel 1424 la comunità cornetana decise di dismettere la fortificazione in quanto ritenuta ormai non più utile a fini difensivi e con un costo non più sostenibile133. Nel quadro generale di miglioramento del sistema difensivo delle coste laziali, nel 1567 ne fu decisa la ricostruzione a spese della città. Ma già a partire dal XVII secolo non viene più ripor- tato negli elenchi delle fortificazioni costiere, segno evidente che fu nuova- mente abbandonato. Attualmente sono ancora visibili i ruderi, situati sulla riva destra del torrente Arrone, in prossimità della foce. Il sito oggi ricade nel territorio comunale di Montalto di Castro. La principale struttura difensiva di questo tratto di costa fu indubbia- mente la torre di Corneto, strettamente connessa alle vicende storiche sia della città che del vicino porto, del quale ne costituiva il baluardo difensivo. Costruita tra il 1458 e il 1464 sotto Pio II, o forse in questo periodo fu oggetto 14 - aprile/2021
di importanti lavori di ristrutturazione, sul finire del XV secolo fu ampia- mente restaurata a seguito dei danni subiti nel corso della guerra tra papa Innocenzo VIII e il re di Napoli. Nei secoli successivi la struttura seguì le stesse vicende di gran parte delle torri del litorale laziale134. Poco più a sud della foce del fiume Mignone, sorgeva la terza e ultima torre del territorio cornetano, la Torre Bertaldo, o Bertalda, nota anche come Torre di Sant’Agostino. Innalzata nel XVI secolo, probabilmente su preesistenze più antiche, aveva la tipologia ricorrente delle torri costiere del Lazio135. Le vicende politiche che interessarono l’intero Mediterraneo nei primi decenni del XIX secolo resero il sistema difensivo delle torri costiere ormai non più attuale, tanto che nei diversi resoconti si evince lo stato di abban- dono in cui versavano la gran parte di esse. Sia la torre di Corneto che quella di Bertaldo, a seguito della loro dismissione, furono totalmente rase al suolo, tanto che oggi non ne rimangono resti visibili. La costa di Tarquinia, oltre alle torri descritte, nel corso dei secoli fu carat- terizzata dalla presenza di almeno tre approdi marittimi. Il primo, situato nei pressi della foce del fiume Marta e di cui si hanno scarse notizie in merito, probabilmente è da mettere in relazione con l’ap- prodo di Martanum, inserito negli antichi itinerari di navigazione136. Nel 1377 papa Gregorio XI, in viaggio dalla Francia sbarcò proprio in questo porto. In seguito dovette essere ridotto a semplice ricovero di barche di pescatori. È nota la frequentazione di papa Leone X che, transitando più volte per il territorio di Tarquinia per le sue famose battute di caccia, in questo luogo si dedicava alla pratica della pesca137. Un altro porto si trovava in località Sant’Agostino, circa un chilometro a sud della foce del fiume Mignone. L’approdo, che a partire dal XIV assunse il nome di porto di Bertaldo, era parte di un insediamento costituito anche da una struttura difensiva con terre annesse. In questo tratto la costa forma una piccola insenatura, ben riparata dai venti e dalle correnti, e la presenza di una sorgente di acqua dolce ha costituito per secoli un punto di soste lungo le rotte di navigazione. La scarsità delle fonti attualmente non per- mette di ricostruirne le vicende. Il porto di Bertaldo è sicuramente da met- tere in relazione con l’antico insediamento di Rapinium, ed è forse identifica- bile con il «portu de mare» citato in alcuni atti IX secolo come pertinenza del Monastero di Santa Maria del Mignone138. Il sito è legato ad una nota vicenda della vita di Agostino di Ippona139, e a questo Santo era dedicata una piccola chiesa, documentate però solo a partire dal XVII secolo. L’approdo più importante di questo territorio fu certamente il porto di Corneto, poco più di due chilometri a sud della foce del Marta, in corri- spondenza di un lieve promontorio della linea di costa, e collegato diretta- mente con il centro cittadino, da cui distava circa sei chilometri, attraverso una strada diretta detta Strada della Marina. 15 - aprile/2021
Oltre al già citato trattato tra Corneto e Pisa del 1174, che testimonia la vivacità dei transiti via mare di questi luoghi, grazie ad alcuni eventi storici che vi si svolsero è possibile delineare la sua evoluzione nel corso dei secoli. Dal XIII agli inizi del XVI secolo vi furono numerosi regnanti e ponte- fici che transitarono da qui: si ricordano tra i tanti Federico II di Svevia nel 1235 e Urbano V nel 1367140. A dimostrazione dell’importanza strategica di questo scalo marittimo si ricorda che nel corso del 1424, durante la guerra tra Giovanna II, regina di Napoli, e Alfonso d’Aragona pretendente a quel trono, il porto e la spiaggia di Tarquinia accolsero prima le galee genovesi, con le truppe del duca di Milano alleate della regina napoletana, e pochi mesi dopo la flotta aragonese141. Ancora a metà del XV secolo è documentata l’esistenza di una marineria della città di Corneto. Pertanto si giustifica il fatto che nel 1449 il comune di Corneto decise di costruire nuove strutture portuali, poiché evidentemente quelle esistenti non erano idonee ad accogliere in sicurezza il gran numero di imbarcazioni che continuamente vi giungevano principalmente per pre- levare i prodotti agricoli del territorio. A tale scopo fu chiesto aiuto a papa Niccolò V; il pontefice approvò l’opera e ordinò che la Camera Apostolica contribuisse per due terzi alla spesa. Non sappiamo se i lavori furono eseguiti perché nel 1461 il porto doveva essere ancora troppo piccolo e poco sicuro tanto da spingere la comunità di Corneto a chiedere nuovamente aiuto al papa. Parallelamente alla costru- zione, o forse al rifacimento, della vicina torre, in quello stesso anno inizia- rono effettivamente alcuni lavori di ampliamento del porto grazie all’interes- samento di papa Pio II e al contributo economico della Camera Apostolica142. Nel corso della guerra del papato contro Napoli (1485-1486) le fortifica- zioni del porto furono gravemente danneggiate dalla flotta napoletana. Papa Innocenzo VIII successivamente inviò l’architetto Lorenzo da Pietra- santa a soprintendere alla loro ricostruzione ma, nonostante le opere furono concluse nel 1491, iniziò un periodo di forte declino. Il declino dell’approdo marittimo, sicuramente legato alle vicende della città di Corneto, fu accentuato anche dal fatto che, a seguito della scoperta dell’allume nell’area dei monti della Tolfa, le attenzioni dei pontefici furono indirizzate al miglioramento e all’ampliamento del porto di Civitavecchia, in quanto ritenuto più sicuro e meglio collegato con la capitale. L’interesse sul porto di Corneto ritornò soltanto nel XVIII secolo. Nel 1732 grazie a papa Clemente XII fu avviato un grande progetto per rendere nuo- vamente efficiente il porto. Il pontefice finanziò in parte l’opera in cambio della riscossione di parte delle gabelle imposte sulle merci che vi transi- tavano. I lavori di costruzione del nuovo molo iniziarono nel 1738 sotto le direttive dell’architetto Tommaso De Marchis. Nel 1744 venne conclusa la banchina e nel 1748 venne portata a termine la costruzione dell’edificio143. 16 - aprile/2021
Le strutture portuali, non adeguatamente protette dalle correnti marine, pochi anni dopo la loro costruzione furono interessate da un degrado con- tinuo. Per tutto il XIX secolo le uniche opere che vennero eseguite furono indirizzate unicamente alla riparazione dei danni e al consolidamento delle strutture esistenti. Già durante il periodo dell’occupazione francese (1808-1814) il Porto Clementino si avviò verso un nuovo declino. Ridotto a semplice approdo legato al commercio di sale, carbone e cereali, l’edifi- cio, concepito inizialmente come sede del corpo di guardia e magazzini, venne destinato anche a carcere. Vi furono imprigionati fino a circa due- cento detenuti, i quali venivano impiegati sia nei lavori alle saline che per lo scarico e carico delle merci. Tra il 1842 ed il 1847, un viaggiatore inglese, George Dennis, alla ricerca delle rovine dell’antica Gravisca, così descrisse questi luoghi: «Porto Cle- mentino è un porticciolo a circa quattro, cinque miglia dalla attuale Tarqui- nia e sei dalla città vecchia, un punto di Dogana, con poche baracche abitate dagli operai delle vicine saline. Vive del piccolo commercio del sale che invia a Roma e dei cereali che esporta in Francia ed Inghilterra. Questo durante l’inverno, perché appena arriva la stagione secca, tutta la costa è abbando- nata a causa della terribile malaria. Rimane solo il doganiere a sorvegliare le piramidi di sale ed a maledire, dalla garitta, la sua mala sorte...»144. Le spiagge adiacenti al porto, già alla fine dell’Ottocento, vennero usate dalla popolazione locale per fare bagni al mare, primo passo verso la for- mazione di una nuova vocazione del territorio, il turismo balneare145, che ha visto un considerevole sviluppo nei decenni successivi al secondo dopo- guerra, con la costruzione degli agglomerati di Lido di Tarquinia, Voltone, Marina Velca, San Giorgio e Sant’Agostino. Agli inizi del XX secolo il porto era pressoché inutilizzato; soltanto l’edi- ficio ospitava ancora gli ultimi detenuti e un numero ristretto di guardie. Raso al suolo nel 1944 dai tedeschi in ritirata, attualmente si conserva uni- camente la banchina. Parallelamente allo sviluppo del porto, nel XVIII secolo si assistette alla ripresa di una delle vocazioni di questo territorio, ovvero la produzione del sale. L’abbandono progressivo delle saline di Ostia e la lontananza di quelle di Cervia e Comacchio, spinsero lo Stato Pontificio a dare nuovo impulso a quelle di Corneto, le quali da circa un secolo erano state parzial- mente dismesse a causa del loro progressivo interramento e inquinamento da acque dolci stagnanti146. Un primo tentativo di rinnovamento delle saline risale al 1788, quando il tesoriere della Camera Apostolica, il cardinale Fabri- zio Ruffo, decise di crearne una nei pressi della spiaggia di Sant’Agostino. Abbandonato tale progetto perché non sostenibile dal punto di vista logi- stico, solo con Papa Pio VII si diede concretamente un nuovo impulso alla produzione del sale in questi luoghi. Nel 1802 la Camera Apostolica accolse 17 - aprile/2021
il progetto dell’imprenditore siciliano Giuseppe Lipari, il quale propose la realizzazione di un nuovo impianto per la produzione del sale sul modello delle saline di Trapani147. La cartografia Dimostrazione del sito scelto nella spiaggia del territorio di Cor- neto per ridursi a saline secondo il suo stato in cui era prima degl’intrapresi ed in gran parte effettuati lavori, redatta nel 1803148, mostra la situazione dell’area prima della costruzione dei nuovi impianti di produzione del sale. Nei ter- reni dati in concessione al Lipari, di proprietà della mensa vescovile e di diversi monasteri di Tarquinia, era ancora possibile scorgere chiaramente i segni di impianti precedenti. Come si è detto l’estrazione del sale lungo la costa di Tarquinia risali- rebbe ad epoche precedenti, probabilmente anche prima della civiltà etru- sca. Lo testimoniano i ritrovamenti archeologici legati alla presenza di inse- diamenti costieri a partire dalla fine dell’Età del bronzo. La presenza di lagune nelle depressioni retrodunali ha infatti da sempre favorito il feno- meno naturale di cristallizzazione del cloruro di sodio per effetto dell’irrag- giamento solare. Grazie alla vicinanza ai porti di Gravisca e poi di Corneto il sale qui pro- dotto fu commercializzato in tutto il mediterraneo occidentale, ma in par- ticolare fu indirizzato a Roma, andando ad integrare la produzione delle saline di Ostia. La presenza di saline nel Medioevo è documentata sia nel Registrum Cleri Cornetani che nella Margarita Cornetana149. Allo scadere della concessione a Lipari nel 1831, le saline passarono sotto l’amministrazione dei ‘Sali e Tabacchi’ dello Stato Pontificio; dopo l’unità d’Italia la gestione passò al Monopolio di Stato. Contestualmente decrebbe l’importanza di queste saline in quanto la produzione nazionale fu indi- rizzata principalmente verso gli impianti più redditizi di Margherita di Savoia e Cagliari. I danni dell’alluvione del 1987 e la sempre minore red- ditività della produzione, indussero il Monopolio di Stato a dismettere gli impianti di Tarquinia nel 1997, con il conseguente spopolamento e abban- dono anche del Borgo150. Nel 1980, per assicurare la protezione dell’avifauna stanziale e migratrice della zona, è stata istituita la Riserva Naturale Statale “Saline di Tarquinia”, estesa su un’area di circa 150 ettari. Inoltre, a maggiore garanzia della con- servazione e gestione sostenibile, l’area delle saline è stata inclusa anche nella Rete Natura 2000, costituita in Zona di Protezione Speciale (ZPS) e Sito di Importanza Comunitaria (SIC). Il territorio retrocostiero di Tarquinia, come si è detto, è sempre stato carat- terizzato da una vocazione esclusivamente agricola, così veniva descritto: «una popolazione di quattromila anime collocata in mezzo ad un territorio di quattordicimila rubbia di estensione nel vuoto di abitazioni e di abitatori, in un clima insalubre, ed esposto ai venti australi, che desolano il litorale 18 - aprile/2021
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