Divertimento e istruzione: la storia di The Oregon Trail - GameCompass
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Divertimento e istruzione: la storia di The Oregon Trail Nel 1915, poco dopo l’intuizione che sta alla base della teoria della relatività, Albert Einstein, scrisse una lettera al figlio undicenne Hans Albert: in un passaggio della lettera, il celebre fisico disse «il miglior modo per imparare è divertirsi: così si impara di più. Quando fai una cosa con così tanto divertimento che non ti accorgi del tempo che passa». Devono essere stati dello stesso avviso anche Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, tre laureandi della Carlton College, che, durante il praticantato in una scuola media, ebbero l’idea di trasportare le lezioni di storia sulla pista dell’Oregon prima come gioco da tavolo, e poi come gioco per i neonati computer. Fu la genesi di uno dei giochi più giocati nelle scuole americane, e di uno dei titoli più importanti dell’intera storia del videogioco: The Oregon Trail era appena nato. L’anno è il 1971, e il computer non è di certo quello che conosciamo. Allora le macchine erano gigantesche, e l’unico modo per accedervi era quello di usare una telescrivente, apparecchiature usate principalmente nelle scuole, anche se in piccole quantità. I nostri tre protagonisti sono professori di sostegno, oltre che studenti universitari, mandati nelle scuole a farsi le ossa. È il “capo” di Don Rawitsch a chiedere al giovane virgulto di preparare gli studenti per la traversata delle carovane dalla costa est degli Stati Uniti alla costa ovest, allora selvaggia e piena di impervie. La celebre pista dell’Oregon è uno degli avvenimenti più importanti della giovane storia dello stato americano dell’epoca, e Rawitsch comincia a pensare a un metodo più immersivo per i giovani ragazzi: un gioco da tavolo con una grande mappa della costa pacifica statunitense. Furono i suoi due colleghi, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, due studenti di programmazione, che dopo aver appreso le regole del gioco pensarono che si adattasse perfettamente al computer. C’era solo un problema: Don aveva bisogno del gioco fatto e finito entro una settimana. Bill e Paul dissero che
si poteva fare, e presero controllo della sala informatica (o meglio, un bugigattolo con due sedie e una telescrivente) per creare la prima stesura di The Oregon Trail. Più il tempo passa, e più i tre arrivano a intuizioni geniali per l’epoca: per esempio, la possibilità di subire più attacchi nella zona ovest del paese, un clima più freddo nelle montagne del Wyoming o dell’Oregon, più una serie di eventi randomici che avrebbero reso il viaggio più duro, ma anche più appassionante. E il tutto, sorretto dal sempiterno BASIC, che si presta perfettamente ad azioni, come lo sparare durante le battute di caccia. Il più veloce a scrivere correttamente “BANG” avrebbe avuto più carne, mentre troppa indecisione o uno spelling sbagliato sarebbe risultato in un colpo andato a vuoto. Dopo una settimana, Bill e Paul decidono di provare il gioco nelle loro scuole: i ragazzini lo adorarono, con studenti di seconda e terza media che addirittura migliorarono nella comprensione del testo grazie al titolo. Ma, se l’impressione della scolaresca era positiva, vi erano delle perplessità da parte delle scuole, principalmente legate alla presenza dei nativi americani. I tre avevano sottovalutato il potenziale storico di The Oregon Trail, e gran parte di esso era basato sui film western, popolarissimi in quegli anni. Sarebbero sorte dei problemi nel caso di studenti di discendenza nativo-americana, e quindi i tre decisero di evitare simili problemi trasformando i pellerossa armati di tomahawk in neutrali banditi muniti di coltello. Finalmente arrivò il giorno della prima in classe: Don decise di suddividere gli studenti in due gruppi, uno dedito allo studio “tradizionale”, con letture, raccolta di immagini e analisi della mappa riguardante il viaggio dei coloni verso la costa pacifica americana, mentre l’altro gruppo si dedicò al gioco, applicando una rotazione giornaliera, così che tutti potessero provare The Oregon Trail. I risultati arrivarono dopo pochi giorni: il miglior dattilografo si occupava di scrivere, e si crearono dei microgruppi. C’era chi controllava la mappa e il progresso del viaggio e chi teneva conto delle provviste della carovana. Questa suddivisione dei compiti non fu una decisione presa “dall’alto”, ma fu qualcosa di naturale presa dagli studenti, e la cosa sorprese Rawitsch. Soprattutto considerando quanto la storia sia una materia poco amata dagli studenti.
Dopo la fine del praticantato nelle scuole, i tre finirono gli studi, e Don venne assunto al MECC (Minnesota Educational Computing Consortium), un’organizzazione che si occupava della distribuzione dei computer nelle scuole dello stato. I file originali vennero persi, ma per fortuna vi era ancora il codice stampato su carta, e quindi Rawitsch cominciò a trascrivere le 800 linee di codice su un Apple II. Il gioco venne ufficialmente rilasciato per la piattaforma nel 1978, forte del successo interno nelle scuole dello Stato, e dopo di esso arrivarono dozzine di conversioni per tutti gli home computer disponibili ai tempi, dal Commodore 64 al PC, fino ad arrivare, oggi giorno, a versioni disponibili anche su mobile e portatili LCD, oltre a tributi come The Organ Trail, che riprende il tema originale del titolo dando al tutto una sferzata horror. Dopo 65 milioni di copie vendute in 40 anni, il nono posto nella classifica del Time dei 100 giochi migliori di sempre, e l’introduzione nella Video Game Hall of Fame nel 2016, il lavoro di Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger viene citato come il punto cardine dei cosiddetti edutainment, i giochi educazionali. Settore che, oggi giorno, vede piattaforme come teachergaming.com offrire ai professori di tutto il mondo titoli dal forte stimolo educativo, come Cities: Skyline, Democracy 3 o Universe Sandbox. O come dimostrato qualche anno fa dall’università di Bergen, in Norvegia, che ha usato Civilization IV di Sid Meier per insegnare inglese, norvegese e scienze sociali. A dimostrazione che il videogioco non va sottovalutato: è principalmente un hobby, ma può essere anche un potente mezzo educativo a disposizione degli insegnanti, e The Oregon Trail ne è l’esempio massimo. Estate a squarciagola: Rock Band Estate del 2015, come ogni anno il caldo umido tipico delle località balneari siciliane mi travolse senza chiedere il permesso. L’unica consolazione era quella fantastica piscinetta da 99€ che di giorno raggiungeva i 32° e di notte diventava la principale attrazione per gli amici. Un’arrostita di carne, un paio di birre weiss e si facevano le 3 di notte senza neanche accorgersene. Come ogni sera, era avanzata della carne, e ogni volta la soluzione unica e naturale al problema era una nuova grigliata da fare l’indomani. Così quelle serate estive scorrevano come un’unica infinita festa, messa in pausa soltanto dalla luce diurna, per poi riprendere al tramonto. Tra una salsiccia e una costoletta di maiale, un mio amico vide la mia PS3 antidiluviana collegata alla TV per guardare qualche film ogni tanto (sì, prima di Netflix si faceva così). Mi dice di avere in cantina la fighissima batteria della sua PS3 (ormai rotta) e 2 chitarre. Per un attimo il fiato è sospeso, ci si guarda negli occhi e si parte di corsa per recuperare il tutto.
Uno corre a casa a prendere il microfono, noi a prendere il Drum Set, le chitarre e il fantastico Rock Band: 20 minuti dopo siamo lì, davanti allo schermo a collegare tutto alla Play. Smontiamo il piatto della batteria (che non funzionava) e identifichiamo il problema. Un po’ di nastro adesivo e due botte ben assestate dopo, la batteria è pronta a farci esplodere i timpani. Naturalmente impostiamo il volume al massimo: le casse vibrano come l’amplificatore di Marty McFly nel primo Ritorno al Futuro. Il grande Ciccio, l’unico in grado di suonare la batteria, prende uno sgabellino, impugna le bacchette, e si mette in posizione. Io agguanto una chitarra senza avere la minima conoscenza di cosa sia una nota e tantomeno un accordo. Alessandra, cantante lirica di professione, si fionda sul microfono come una leonessa su una gazzella.
All’inizio siamo tutti un po’ scarsini, è un continuo rompersi di strumenti e figuracce. Le risate e gli sfottò degli altri amici sono pienamente giustificati. Dopo un tuffetto rinfrescante nella mitica piscina e un paio di birrozze, siamo carichi e pronti a ripartire più motivati che mai. Selezioniamo i personaggi per la nostra nuova band, con l’emozione di quindicenni al debutto ci catapultiamo nuovamente sul palco e, anche se con qualche piccolo errore, riusciamo a completare il nostro primo concerto. Sentiamo pompare l’adrenalina nelle vene per il successo di squadra e quasi incendiamo le chitarre, per concludere degnamente la performance. Fortunatamente l’odore di altre salsicce sul barbecue, ci riporta alla realtà e ci dissuade dall’intento piromaniaco.
La serata si conclude con il delirio finale: gente super stonata come me che si impossessa del microfono e batteristi alle prime armi che non beccano una nota nemmeno per sbaglio. Sì, quella è una di quelle estati che non dimenticherò mai. Polymega: la nuova frontiera del retrogaming Le librerie digitali di PC e console sono inondate da titoli dall’aspetto vintage ma per ora, dopo la chiusura di LOVEroms e LOVEretro e dell’effetto domino che si è venuto a creare, gli interessati a riscoprire i veri e propri titoli del passato per ora non vivono giorni facili. Sia Steam che gli store digitali delle console non stanno offrendo una vera alternativa alle tanto amate ROM e i rivenditori su eBay sembrano voler girare il coltello nella piaga. Per quanto nero possa sembrare lo scenario attuale qualcuno si sta già muovendo e un ambiziosissimo progetto avviato un anno fa sta per vedere la luce: stiamo parlando della Polymega, una console di una nuova compagnia chiamata Playmaji e fondata da ex dipendenti di Insomniac e Bluepoint games (senza contare che questi hanno lavorato a giochi tripla A come Ratchet & Clank e Titanfall) e che promette compatibilità con ben 13 sistemi (in realtà 30 se contiamo che questa “frankenmacchina” è region free). Questi, per la gioia dei più appassionati, sono: Sony PlayStation Neo Geo CD Turbografx 16/PC Engine Turbografx 16 CD/PC Engine CD-ROM2 Supergrafx Super CD ROM2
NES SNES Sega Mega Drive Sega CD Sega 32X Sega CD32X Sega Saturn (quest’ultima annunciata a sorpresa con il trailer di lancio per l’apertura dei preorder) Chiunque di fronte una tale lista rimarrebbe senza fiato e i retrogamer di tutto il mondo potrebbero ritrovarsi un sistema che potrebbe risolvere un’infinità di problemi, dallo spazio in casa ai soldi da spendere per i sistemi, i giochi ed eventuali pezzi di ricambio o per la manutenzione di quest’ultime (specialmente per le console a CD costruite con un sacco di pezzi mobili o batterie RAM da cambiare). Ma cosa è esattamente questa macchina? Come può promettere una compatibilità così ampia e come risolverebbe l’attuale fame del retrogaming? I can make this work Il termine “frankenmacchina” che abbiamo usato poco fa descrive perfettamente la natura di questo prodotto – cara Accademia della Crusca, il mio codice IBAN è… –: la console è composta da una base, il cuore della macchina, in cui è presente il lettore CD che permette di leggere tutti i sistemi a supporto ottico (dunque ben sei sistemi) e a questa possono essere aggiunti dei moduli che leggeranno le cartucce originali, le cui ROM verranno caricate nel sistema interno per essere emulate (pertanto non sarà necessario inserirle ogni volta che vogliamo giocare con un determinato gioco), e saranno compatibili con i controller originali. Nella base troveremo inoltre due porte USB (come spiega la sezione FAQ del sito di Polymega e da come possiamo vedere dal trailer introduttivo), sarà compatibile con bluetooth e, visto che gli sviluppatori promettono aggiornamenti per il sistema operativo interno, sarà possibile connettere la macchina a internet per accedere a un futuro store, che verrà lanciato nell’ultimo quarto del 2019, dove poter scaricare giochi e, se l’obiettivo dei 500.000$ verrà raggiunto nei primi 35 giorni, persino mandare il proprio gameplay in streaming su Twitch e YouTube. Il sito ha da poco aperto i preorder: il modello base, che comprende un controller standard simil PlayStation 4 per giocare ai sistemi CD, costa 249,99$ (al cambio attuale, in Euro, sono circa 215,60€) mentre i singoli moduli, che verranno venduti insieme a dei controller cablati simili a quelli dei sistemi emulati, costeranno 59,99$ (attualmente 51,74€) e al loro interno saranno caricati ben cinque giochi. Essendo un sistema moderno, l’attacco principale della console sarà l’HDMI ma, come un NES mini o SNES mini ci permette, sarà possibile regolare l’immagine e pertanto decidere se scegliere il formato 4.3 o 16:9, se mostrare tutti i pixel, mostrare gli “scalini” o avere un’immagine “pixel perfect“. Come già accennato, questa console estrarrà le ROM dalle cartucce per poi, essenzialmente, emularle all’interno dei moduli (e permettere tutto quello quello che permettono gli emulatori: save e load state, fare screenshot, registrare il gameplay, etc) ma gli sviluppatori hanno promesso di creare degli emulatori da zero, senza l’ausilio di altri software preesistenti.
Cosa significa Polymega per l’industria? Prima di sottolineare come Polymega potrebbe incidere sul mercato vogliamo, per prima cosa, evidenziarne alcuni aspetti. Innanzitutto, questa console viene incontro alle richieste dei retrogamer finora rimaste inascoltate; nessuna terza compagnia, le molte che operano nel campo del retrogaming per offrire nuovi dispositivi per le vecchie macchine, aveva finora pensato alle piccolezze di alcune di queste, come offrire la compatibilità con il 32X per i cloni del Sega Mega Drive, offrire un’alternativa moderna agli ormai costosissimi Turbografx 16/PC Engine, senza contare che il loro modulo leggerà, praticamente, le sei cartucce del Supergrafx (console che si sarebbe dovuta comprare a parte anche possedendo una delle due versioni della console NEC), ma soprattutto offre la prima vera soluzione per i giochi su compact disk la cui compatibilità, grazie agli aggiornamenti firmware, potrà essere espansa a ben altre console a supporto ottico in futuro come il Sega Dreamcast (continuamente citato nella sezione FAQ) il 3DO o persino la PlayStation 2. Non dimentichiamoci inoltre che l’annunciata compatibilità con i giochi per Sega Saturn è molto importante perché da sempre questa console ha avuto la negativa fama di essere la più difficile da emulare per via del suo arduo sistema dual core, parallelamente all’essere una delle più ricercate fra i retrogamer. Similarmente, i moduli da comprare a parte, che potranno anche essere sviluppati da altre compagnie, continueranno ad uscire per offrire ai giocatori nuove soluzioni per console come il Nintendo 64, Atari 2600 o chissà cosa! La console, diversamente da altre come il Retron 5 di Hyperkin o l’AVS di Retro USB, vuole porsi letteramente come un faro per i retrogamer e, come già citato precedentemente, vuole lanciare uno store digitale dove offrire legalmente tutte le ROM apparse finora nei maggiori siti di emulazione come emuparadise.me; questo significa anche, e soprattutto, raggiungere gli sviluppatori originali e coinvolgerli in tutto e per tutto nel progetto Polymega, ponendosi come una quarta console attuale ma dedicata esclusivamente al retrogaming. Alcune grandi compagnie come Capcom o Irem
hanno già espresso interesse verso questo particolare mercato fornendo, pur sempre in quantità limitate, delle cartucce commemorative funzionanti e operative prodotte da RetroBit di Street Fighter II, Mega Man 2 e Mega Man X, R-Type III e Holy Diver (ebbene sì, un gioco ispirato a Ronnie James Dio e ai Black Sabbath! Un giorno ne parleremo), senza contare che altre compagnie, anche senza il consenso dei publisher, hanno prodotto molte reproduction cartridge per giochi ormai andati persi nelle obbrobriose aste eBay come Nintendo World Championship. Grazie a Polymega potrebbe esserci un rinnovato interesse in questi prodotti repro che potrebbero persino coinvolgere i giochi su disco, cosa che finora nessuna compagnia ha mai preso in considerazione, e dunque vedere delle nuove stampe – dei reproduction disk oseremo dire – di molti giochi per Saturn, Neo Geo CD o TG16/PC Engine CD, spesso dimenticati nel vastissimo oceano retrò. Playmoji, probabilmente visti i recenti sviluppi, non si è espressa sul tema ROM da caricare via USB o backup, per ciò che riguarda i giochi su CD, però hanno lasciato intendere che una volta caricata l’immagine sul sistema, potranno essere patchati; questo aprirebbe Polymega all’intera scena hack e delle traduzioni. Che dunque che potrà esistere un modo per permettere tutto questo? Probabilmente lo sapremo solo una volta che metteremo le mani su questo fantastico prodotto. Questioni sul sito e il chip FPGA Un po’ di tempo addietro, il sito è stato chiuso per qualche giorno e, alla riapertura, che ha lanciato definitivamente i preorder, sono state cambiate alcune specifiche del sistema: tutti i cambiamenti sono stati spiegati in un articolo su Nintendolife, redazione molto vicina alla compagnia che sta producendo il Polymega. Playmoji ha aperto uno stand durante l’ultimo E3 in cui era possibile provare la base della console e alcuni moduli, il tutto ancora in stadio di prototipo; lì hanno raccolto i primi feedback dei potenziali consumatori e in molti si sono lamentati dei lag durante l’emulazione dei giochi per PlayStation. Gli ingegneri hanno considerato attentamente l’opinione dei giocatori e così si è optato per ottimizzare l’hardware della console cambiando il vecchio processore FPGA quad core Rockchip RK3288 di 1.8Ghz che emula i sistemi in questione, un tipo di chip montato in
console come l’Analogue NT o l’AVS; per spiegarlo in breve, le schede madre delle vecchie console non vengono ricreate da capo o in una maniera diversa per evitare questioni con le case produttrici originali, ma l’intero hardware viene emulato all’interno di un processore chiamato FPGA. Adesso, all’interno del modulo base, il chip in questione è stato sostituito da un più potente Intel CM8068403377713 dual core, il ché dovrebbe un fattore positivo (e che avrebbe probabilmente permesso l’emulazione per Sega Saturn) ma non è un chip specifico FPGA che permette l’emulazione ibrida dei sistemi sopracitati; per altro, questi chip dovrebbero essere inseriti all’interno di ogni modulo ma adesso il tutto grava sul nuovo chip montato all’interno della base. È possibile che il cambio del processore non gravi per nulla sull’emulazione dei sistemi e che i competenti sviluppatori in questione sanno quello che fanno (senza contare che un prototipo funzionante è apparso all’E3 e presentava solamente problemi per l’emulazione PlayStation) ma dalla riapertura del sito Playmoji non ha rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale oltre all’articolo su Nintendolife e le domande degli appasionati alla ricerca dell’emulazione perfetta sono ancora senza una risposta ufficiale. Ad alcuni non interessa e sono certi, visto che il nuovo processore è più potente del precedente (e dunque semplicemente facendo 2 + 2), che il sistema possa essere addirittura migliorato ma ad altri sorgono altri dubbi, specialmente visto lo strano silenzio della compagnia dopo il rilascio dell’articolo e la riapertura del sito. Bisogna dire che la zona FAQ del sito è veramente esaustiva ma ancora molte domande necessitano di una risposta abbastanza tempestiva. Vale ricordare inoltre, che il Polymega non è un kickstarter o un crowdfunding ma c’è un reward system dalla quale, in base alle prevendite, si raggiungeranno degli obbiettivi che permetteranno di creare nuove feature per gli acquirenti, come compatibilità espansa per il lettore CD e nuovi moduli; se l’obiettivo minimo di 500.000$ non verrà raggiunto le console verranno richiamate e rilanciate successivamente seguendo il feedback dei compratori ed è per questo che Playmoji, ora più che mai, deve garantire una buona comunicazione con chi sta per prendere in considerazione l’acquisto del sistema. Di certo non si tratta di una truffa come il Coleco Chameleon (tratteremo questo tema in futuro) in quanto il sistema è già stato mostrato funzionante all’E3 e le persone dietro al progetto sono davvero competenti ma le uniche domande che per ora gli appassionati si pongono sono: sarà un sistema all’altezza delle aspettative? Vale la pena comprare questo sistema al lancio? E se il lancio va male?
Aggiornamento del 13/09/2018 Proprio di recente, per fortuna, gli sviluppatori hanno dato prova della potenza del loro sistema e tutto sembra essere tornato alla normalità. Sul loro canale YouTube sono apparsi ben tre video di gameplay di alcuni giochi per Sega Saturn, che si avviano dalla selezione dei titoli nel sistema operativo; con questa mossa gli sviluppatori hanno dimostrato che il processore è in grado di emulare perfettamente questa macchina problematica (visto che alcuni si sono lamentati del fatto che alcuni video di gameplay mostrati nel trailer di lancio appartenessero ad alcune controparti arcade) e perciò, se è in grado di emulare il Saturn, è fondamentalmente in grado di emulare tutto il resto. In breve, la console 32 bit di Sega era la prova del nove e Polymega l’ha superata. Il primo video mostra un gameplay variegato: vengono caricati Guardian Heroes, Sega Rally Championship, Panzer Dragoon Zwei, Fighting Vipers, Dungeons and Dragons Collection: Shadow Over Mystara (questo titolo è molto importante poiché richiede l’esclusiva cartuccia RAM da 4 Mb da inserire nel Saturn, dunque questa è la prova che è anche in grado di emulare questo hardware esterno) e House of the Dead (giocato col controller, visto che le lightgun dei tempi non funzionano più coi televisori nuovi). Il secondo e il terzo video mostrano un ulteriori gameplay di Sega Rally Championship e Fighting Vipers girare a 60 FPS, meglio di come potrebbe fare un Sega Saturn originale. In tutti i video, insieme al gameplay cristallino, viene inoltre mostrata la capacità di creare dei save state e ricominciare esattamente dal punto in cui si lascia l’azione, sottolineando dunque che la macchina estrae letteralmente l’immagine per poi emularla. A questo punto, tutti i peccati di Playmoji sono stati assolti ma rimane giusto qualche dubbio: l’ultima cosa che gli utenti vorrebbero solamente vedere, stando ai commenti sui video, è uno stream su Twitch/YouTube in cui mostrano gli sviluppatori giocare effettivamente con la Polymega, inserire qualche disco e vedere il sistema che estrae l’immagine, provare e scambiare qualche modulo, etc… Si spera dunque che gli sviluppatori diano ancora più prove a sostegno della versatilità di Polymega (anche se, in realtà, ne hanno date abbastanza all’ultimo E3) ma a ogni modo, finalmente, alla preoccupazione più grande, ovvero l’efficienza del nuovo chip, è stata data una risposta molto esaustiva. Per le comunicazioni ufficiali da parte degli sviluppatori vi basterà seguirli sul loro canale YouTube e
sulla loro pagina Facebook. (video del gameplay variegato) (Sega Rally Championship a 60 FPS) (Fighting Vipers a 60 FPS) L’incredibile crescita degli eSport Il 2018 ha visto continuare la marcia inarrestabile degli eSport, sotto ogni punto di vista: se sul lato commerciale risaltano i grandi numeri ottenuti dalla prima edizione della Overwatch League, con quasi undici milioni di spettatori dichiarati da Blizzard per la finale del campionato e 126 milioni di visualizzazioni in totale sul proprio canale Twitch, non sorprendono nemmeno le cifre da capogiro dichiarate sul lato finanziario: l’industria del videogioco professionistico ha guadagnato quasi un miliardo di dollari in quest’anno, con una previsione di crescita del 18,6% per il 2023, che porterebbe l’intero settore a un guadagno di ben 2.17 miliardi!
Ma non è tutto rose e fiori: recentemente, il CIO, lo stesso Comitato Olimpico Internazionale che precedentemente si era espresso a favore degli eSport come disciplina olimpica da testare nei giochi asiatici del 2022, ha frenato esprimendo il proprio dissenso verso i cosiddetti killer games. A tal proposito, il presidente Thomas Bach ha dichiarato: «Non possiamo avere nel programma olimpico dei giochi che promuovono violenza e discriminazione. Dal nostro punto di vista rappresentano una contraddizione dei valori olimpici e non possono essere accettati» Una dichiarazione che chiude le porte ai vari League of Legends, Dota 2 e Fortnite, ma vi è invece, uno spiraglio aperto per giochi più “pacifici” come FIFA, Rocket League o Street Fighter. E anche per uno sport che cerca di entrare nel carrozzone olimpico da molti anni, come la Formula Uno: recentemente Sean Bratches, direttore commerciale del brand motoristico, ha espresso il proprio interesse per includere lo sport, anche se in forma virtuale. Vi è già un campionato di eSport, la Formula One eSport series che, nella stagione inaugurale del 2017 ha richiamato 63.000 appassionati che hanno seguito nove delle dieci scuderie presenti nel campionato motoristico (unica e grandissima assente l’italiana Ferrari). Anche in Europa si sta muovendo qualcosa: se già Francia (prossima partecipante alla Overwatch League con la squadra di Parigi), Spagna e Russia (dove spopolano titoli come DOTA 2 e Counter Strike: Global Offensive) possono contare su un settore già pronto, come si pone il nostro paese nel mercato? In realtà, non molto bene, nonostante la creazione di alcuni eSport team dedicati a FIFA, come Sampdoria (primo club calcistico italiano a lanciarsi nel settore), Roma, Empoli e recentemente anche Cagliari, Perugia e Parma. Ma hanno destato interesse le recenti dichiarazioni al Corriere dello Sport del patron del Napoli e del Bari, Aurelio De Laurentiis, interessato a entrare nel settore degli sport virtuali. Per quanto possa sembrare strano l’interesse di
un imprenditore così importante, soprattutto nel nostro paese, non sorprende vedere grosse aziende dietro una squadra di eSport: basti pensare al gruppo Kraft, proprietari dei New England Patriots, una delle più vincenti squadre di football americano della NFL e proprietari anche dei Boston Uprising della Overwatch League, oppure la Kroenke Sports & Entertainment, holding che controlla sia l’Arsenal, popolare squadra di calcio della Premier League, che i Los Angeles Gladiators, sempre della OW League. Con questa potenza economica dietro, non sorprende vedere la crescita del settore, anno dopo anno. E chissà, magari entro il 2023, si creerà qualcosa di importante anche nel nostro paese: d’altronde, lo sport non è solamente prestanza fisica, ma anche una girandola di emozioni uniche, esattamente come i videogiochi. Ikaruga: la potenza proveniente da due energie Boom! Kaboom! Spepepepeum! Quanto è bello provocare il caos a bordo di una navicella spaziale che svolazza a tutta birra nel cielo! Il genere shoot ‘em up è un vero e proprio pilastro del gaming moderno, basti pensare a titoli come Space Invaders, Galaga, Xevious, Gradius o R-Type per capire il peso di questa categoria nella storia del gaming. Col tempo, nonostante le uscite continue di ottimi shooter come Thunder Force V, Einhänder o Darius Gaiden, il genere è stato messo in disparte per giochi meno arcade e più focalizzati sulle storyline, ma oggi, grazie ai diversi Shmup indipendenti su Steam e Nintendo Switch, si sta assistendo a un vero e proprio revival di questo genere. Insieme ai nuovi titoli, come Super Hydorah, Crimzon Clover WORLD IGNITION e i bullet hell di Cave, ci sono da tenere in considerazione tutti i classici riscoperti in questo periodo, primi fra tutti gli shooter di Treasure, considerati dagli appassionati i più raffinati del genere. Oggi su Dusty Rooms, per il suo 26esimo anniversario dalla sua importante uscita su Sega Dreamcast, vi parleremo di Ikaruga, uno shooter unico nel suo genere, considerato un must per coloro che vogliono esplorare questo genere videoludico e della sua importanza nella scena videoludica generale.
Radici e meccaniche In pochi sanno che Ikaruga è in realtà un sequel spirituale di Radiant Silvergun, altro fantastico shooter di Treasure uscito prima per arcade e poi per Sega Saturn (ove diventò un cult classic fra i suoi collezionisti). Il suo titolo in fase di progettazione era proprio Radiant Silvergun 2 ma, con l’evolversi dello sviluppo, il gioco assunse sembianze quasi totalmente diverse nonostante mantenne alcune delle sue caratteristiche chiave: il mantenuto design generale, un rimando alla storia del suo prequel spirituale (che vedrete alla fine del gioco), l’assenza totale di power up e il suo sistema di combo basato sul distruggere i nemici di uno stesso colore. Quest’ultimo elemento fu la base per costruire l’intero sistema delle polarità di Ikaruga (ispirato in parte dal platform di Treasure, Silhouette Mirage), caratteristica che lo fa spiccare all’interno del suo genere: a differenza di un qualsiasi Shmup, in cui un qualsiasi proiettile o laser è da evitare, qui ci è concesso assorbire i proiettili del colore della nostra nave, che possiamo cambiare con un tasto. I proiettili possono essere bianchi o neri e, quando li assorbiremo, la loro energia si immagazzinerà in una barra di energia (indipendentemente dal colore); quando vogliamo, possibilmente con la barra caricata al massimo, possiamo liberare questa energia per abbattere più nemici possibili con un colpo solo. Il titolo offre al giocatore due strategie per approcciare il suo unico gameplay: si può far fuoco ai nemici di polarità inversa per arrecare più danno, e dunque liberare le schermate più velocemente possibile, oppure possiamo far fuoco ai nemici della nostra stessa polarità per poi far sì che le navi, esplodendo, rilascino dei proiettili del loro colore per poi assorbirli e immagazzinarli nella nostra barra (e questo è il metodo preferito dai giocatori più ambiziosi). Capito tutto questo possiamo gettarci nella mischia e provare ad arrivare a fine gioco con… meno gettoni possibili! La storia si cela fra il manuale e qualche frase durante il gameplay, esattamente superata la fase di dogfight iniziale (un termine per gli appassionati del genere che sta a indicare una sorta di pre- stage). Un tale Tenro Horai, dell’impero degli Horai, scopre un potere magico vicino a quello degli dei; consegnatolo alle genti della sua nazione, questi cominciano a razziare il mondo con quest’arma micidiale. Un gruppo di ribelli, noti come i Tenkaku, si oppongono all’impero cadendo però in rovina; un loro pilota chiamato Shinra, dopo aver provato, un’ultima offensiva solo contro l’impero viene purtroppo abbattuto e si schianta sull’isola di Ikaruga. Il luogo rimane fuori dal radar
dell’Impero e la gente che l’abitava viene esiliati dall’impero Horai. Shinra spiega così agli isolani che, pur essendo rimasto solo, era determinato a distruggere l’Impero e così gli abitanti dell’isola, credendo all’ardore delle sue parole (che probabilmente sono quelle che appaiono prima di partire per il primo stage, ovvero «I will not die until I achieve something. Even though the ideal is high, I never give in. Therefore, I never die with regrets»), gli mostrano la navicella in grado di sfruttare le debolezze delle armi dell’Impero, la Ikaruga (lo so, non avevano molta fantasia); Shinra parte così con la sua nuova arma, intento a ristabilire la pace una volta e per tutte. Se gli stage di questo gioco ci sembreranno troppo difficili da affrontare in solitaria, è possibile fare entrare un secondo giocatore che potrà pilotare un altro mezzo volante, simile all’Ikaruga, guidato da una pilota donna di nome Kagari. Agire o non agire? Per prima cosa, Ikaruga è uno dei giochi più importanti mai usciti per Sega Dreamcast: arrivato originariamente per arcade, il titolo di Treasure arrivò sulla console il 5 Settembre del 2002, anno in cui la sua produzione era già stata fermata. È vero che dopo Ikaruga molti altri titoli su licenza Sega arrivarono su Dreamcast in Giappone, fino al 2007, anno dell’uscita del suo ultimo gioco Karous, ma questo evento fu molto importante e segnante; nonostante le scarse vendite della console Sega e la sua annunciata interruzione di produzione, Ikaruga ricordò al mondo che Dreamcast aveva ancora molto da dire, e non con semplici giochini homebrew ma con capolavori degni di PlayStation 2 e Xbox che, nel frattempo, l’avevano eclissata. Il titolo di Treasure, seppur prodotto in copie molto limitate per quei pochi utenti che non abbandonarono il sistema, iniettò nuova vita al Dreamcast e poco dopo si assistette all’uscita di altri titoli come Border Down, Chaos Field e Under Defeat che, come Ikaruga, erano stati programmati originariamente per il sistema arcade Sega NAOMI e che potevano trovare ancora il miglior riscontro casalingo sull’ormai defunta console. Il suo art-style, la sua particolarissima grafica, i suoi strani messaggi e la sua fantastica musica erano solamente esche per attrarre il giocatore e, una volta lì, si veniva assorbiti
da Ikaruga come un proiettile di polarità uguale sul gioco. I prezzi per la versione Dreamcast e quella Nintendo Gamecube, che permise il suo primo rilascio internazionale, sono oggi abbastanza alti e, a meno che non si ami particolarmente il gioco, è meglio starne alla larga. Tuttavia, a oggi, ci sono diversi metodi per godersi Ikaruga senza spendere un capitale: tutte le versioni digitali, ovvero Steam, Nintendo Switch, PlayStation 4 e persino Xbox 360, offrono una splendida grafica HD, dashboard online con i migliori punteggi e la possibilità di giocare con lo schermo in verticale, il vero modo per godersi questo shooter. Anche se è un titolo non adatto ai principianti, Ikaruga è una vera e propria pietra miliare del gaming moderno e degli shooter in generale, un titolo dalle semplici meccaniche in grado di mettere in difficoltà anche il più abile dei giocatori. Questo cross-play non s’ha da fare «Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e console. Le ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle
per rinfrescarsi la memoria: «Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.» In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato: «Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre» Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V: «Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross- platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC
di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.» Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America: «Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.» In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme. Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020. Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro. Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4. Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano. Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi! Action 52: fra ambizioni troppo grandi e
ghepardi ninja Videogiochi, videogiochi, videogiochi… Ogni giocatore ne vuole più che può! Quelli più giovani, oggi, nascono in famiglie in cui, con buona probabilità, i genitori sono stati dei gamer più o meno attivi e pertanto, quando arriva il momento di comprare il primo videogioco, conoscono il mercato e perciò non cadono vittime delle assurde console tarocche con 100.000 giochi del Nintendo Entertainment System (che poi sono solo una manciata che si ripetono più e più volte). C’è stato un periodo in cui i genitori dei giocatori, oggi un po’ più vecchiotti, erano prede ideali per questo tipo di prodotti e, non raramente, quando a Natale si chiedeva una PlayStation c’era il pericolo che i parenti avrebbero potuto regalarti una PolyStation traumatizzandoli a vita! A ogni modo, nel 1989, un visionario ispirato da questo concetto provò a inserire in una cartuccia per NES ben 52 giochi originali, tutti programmati da zero, un idea che, a senso suo, gli avrebbe fruttato milioni di dollari in poco tempo ma che invece si rivelò un disastro senza precedenti, finendo per diventare solamente un pezzo da collezione che nessuno vuole nella sua retrolibreria. Oggi, su Dusty Rooms, vi parleremo dell’orrendo Action 52, dal concetto, alla realizzazione, fino al suo inevitabile destino. La formazione del team Stati Uniti, 1989: il Sega Genesis era appena uscito ma il mercato era ancora nelle mani di Nintendo che, col suo NES e il neoarrivato Game Boy, era semplicemente sinonimo di videogioco. Anche senza internet, la comunità di giocatori era attivissima, il passaparola sostituiva le discussioni su Facebook, le riviste erano l’unica vera fonte di informazioni e, in assenza dei periodi dei saldi sui videogiochi o negozi dedicati come Gamestop che rottamano l’usato, l’unico metodo per aggirare gli alti costi di un solo videogioco era scambiarsi le cartucce a scuola o quando il tempo lo consentiva. Che i software li comprassero i genitori o i giocatori un po’ più grandicelli, rimaneva sempre il
problema dei problemi: un gioco costava 60 dollari e in pochi potevano permettersi una libreria da sogno. Come scritto sul press kit dei tempi di Action 52, Vince Perri, ideatore di questa multicart, era un genitore con gli stessi problemi di molti americani e perciò odiava spendere 60$ ogni volta che suo figlio finiva un videogioco. Tuttavia, un giorno si imbattè in una strana cartuccia illegale proveniente da Taiwan contenente 40 giochi e la regalò al figlio che ne rimase sorpreso; Vince Perri diffuse la voce nel suo vicinato e molti genitori comprarono la stessa cartuccia e la regalarono ai propri figli. Egli rimase stupito dal concetto e ben presto in lui nacque l’idea di produrre e vendere un prodotto simile, però per vie legali e con giochi tutti originali; di lì a poco, Perri fondò la Active Enterprises LTD. e andò a caccia di investitori in Europa e in Arabia Saudita per realizzare la sua visione, cui aveva in mente di farne persino un franchise. Nonostante la grande idea, Vince Perri non era un programmatore, non aveva chiaro come funzionasse il mercato dei videogiochi e soprattutto non disponeva di grandi quantità di denaro e perciò doveva trovare del personale a buon mercato, con un disperato bisogno di lavorare. Vince Perri possedeva un ufficio all’interno di un edificio adibito a studio di registrazione musicale a Miami e lì incontrò Mario Gonzalez, un neolaureato in audio-video e multimedia che lavorava lì (e alla quale dobbiamo anche tutte le informazioni che si sanno su questo misterioso videogioco). Gonzales aveva esperienza nel campo della creazione dei videogiochi come musicista e designer e presto coinvolse altri due suoi colleghi universitari in cerca di lavoro, ovvero Javier Perez e Albert Hernandes, che si sarebbero occupati, rispettivamente, di design e programmazione. Vince Perri chiese ai ragazzi una sorta di demo per avere un’idea delle loro potenzialità e così gli mostrarono Megatrix, un clone di Tetris su Amiga 500 che avevano programmato al college; ne rimase incredibilmente colpito ma Perri non aveva chiaro che il NES era nettamente inferiore al computer 16-bit della Commodore. Ciononostante, corse dagli investitori con la demo e ben presto ottenne gli investimenti per pagare ai tre programmatori un viaggio nello Utah per imparare a programmare su NES… Però in due settimane, visto che promise agli investitori tempi di realizzazione assurdi! Al loro ritorno si unì un quarto programmatore, che a oggi rimane ancora senza nome, e i primi tre, freschi di corso, posero le basi per programmare su NES a questo nuovo membro del team (che come Mario Gonzales è il responsabile di parte delle informazioni su Action 52).
(da sinistra verso destra: Mario Gonzalez, Albert Hernandes, Javier Perez e il quarto developer ignoto) Al limite umano Lo studio di registrazione divenne la loro base operativa e i quattro giovani rampanti lavorarono duramente con orario da schiavi: entravano in ufficio alle 11 di mattina per uscire alle 23 e, visto che le sale prove non hanno finestre e sono insonorizzate, finivano anche per staccare all’una di notte. Questo era dovuto al fatto che Vince Perri promise agli investitori di consegnare i 52 giochi in tre mesi, tempo in cui solitamente si può sviluppare, a pelo, un solo gioco, senza contare che un prodotto deve avere uno storyboard, degli artwork ed essere testato. Il visionario capo della Active Enterprises LTD. era così fiducioso verso i suoi dipendenti (che pagò giusto 1500$ a testa per l’intero progetto) che passava giusto per le ore dei pasti per consegnare del cibo take away per poi sparire per tutta la giornata. Capendo che Perri non aveva chiaro quanto duro fosse programmare un solo videogioco, visto che già metteva in programma versioni per Sega Genesis e Super Nintendo, i quattro programmatori dovettero ridimensionare i concept dei loro giochi e programmare per lo stretto indispensabile: alcuni furono scartati e altri ridotti a giochi più semplici come Dead-Ant (trasformato poi in Dedant), un gioco in cui si doveva comandare una formica in una colonia per racimolare del cibo da dare a una regina ridotto a uno shooter verticale (esattamente come le formiche della Repubblica dello Sbergio che si difendono sparando proiettili agli altri insetti). Action 52 doveva contenere un 52esimo gioco chiamato Action Game Master che si sarebbe sbloccato una volta completati tutti i 51 precedenti ma, verso la metà dello sviluppo del progetto, Vince Perri avrebbe avuto l’idea che, a senso suo, avrebbe catapultato la sua multicart e la Active Enterprises LTD. verso il successo, ovvero i Cheetahmen, dei ghepardi ispirati alle Tartarughe Ninja (visto che, dopo il NES, erano la cosa più in voga in quegli anni); il loro gioco sarebbe dovuto essere il migliore, il più grande, e la confezione avrebbe incluso un fumetto con delle avventure dei tre bestioni e al cui interno venivano promessi inoltre, in futuro, giocattoli, magliette e persino una serie TV animata dalla “qualità Disney”. Ancora una volta, Perri dimostrò di non avere idea di come funzionasse lo sviluppo videoludico e così i programmatori, che avevano praticamente finito Action Game Master, dovettero scartare quel gioco per concentrarsi esclusivamente sul videogioco Cheetahmen, riducendo ancora di più i concept per gli altri giochi. In questo caos più totale, Mario Gonzalez uscì dalla scena per via di alcuni problemi con la sua ragazza e il progetto rimase affidato ai restanti tre; il giovane musicista aveva composto le colonne sonore per i giochi ma con lui fuori dal progetto non si poté più utilizzare la sua musica. A questo punto, per via della scadenza imminente, i tre cominciarono a rubare brani direttamente dai pezzi demo di The Music Studio, un software per computer di Activision, e furono campionate voci e piccole sezioni da un disco dance della zona di Miami. Anche dei codici vennero trafugati, come quello del menù, copiato dalla cartuccia taiwanese del figlio di Vince Perri (infatti il menù ha gli stessi effetti sonori di molte multicart). (quanto è brutto Action 52? Decidete voi! Un gameplay variegato dell’utente YouTube nesguide)
L’immissione nel mercato e la capitolazione Al completamento di Action 52 i tre programmatori lasciarono la Active Enterprises LTD. e una multicart con giochi programmati dozinalmente e pieni di problemi. Vince Perri, volendo seguire l’iter esatto dei videogiochi rilasciati legalmente, presentò il videogioco alla Nintendo che lo rifiutò; a questo punto non rimase altra soluzione se non vendere il videogioco nei negozi ma senza alcuna licenza ufficiale come faceva Tengen o Color Dreams. Venne stampato tutto il materiale pubblicitario, prodotta una pubblicità televisiva e persino lanciato un concorso con la quale era possibile vincere 1400 dollari (metà in denaro e metà borsa di studio) completando il gioco Ooze, impossibile da finire perché non era possibile andare oltre il secondo livello per via di un errore nella programmazione (e ciononostante, anche se il gioco magicamente fosse andato avanti, il codice da mandare alla Active Enterprises LTD. in caso di vittoria, che sarebbe spuntato nella schermata finale del gioco, era uguale in tutte le cartucce). Action 52 arrivò nei negozi per l’assurdo prezzo di 199 dollari nel 1991, il costo di un Super Nintendo con Super Mario World, e, nonostante le iniziali buone vendite, il passaparola si diffuse a macchia d’olio, la multicart ricevette una pessima reputazione e pertanto rimase inevitabilmente invenduta nei negozi; di conseguenza la Active Enterprises LTD. si riempì di debiti e perciò Vince Perri doveva agire in fretta. Chiamò di nuovo i programmatori Javier Perez e Albert Hernandes per lavorare alla versione per Sega Genesis; questa volta i due furono mandati a programmare all’interno dello studio della Farsight Technologies dalla quale si potè produrre una versione di Action 52 più funzionale, con meno bug e crash improvvisi. Nonostante gli sforzi, la versione 16-bit della multicart fu macchiata ugualmente dalla stessa reputazione della versione per NES e così, ben presto, Active Enterprises LTD. si avviò verso il fallimento. Con le ultime risorse, Vince Perri mise su uno stand al Consumer Electronics Show del 1993 per tentare di attrarre qualche investitore per poter lanciare la linea di giocattoli e lo show dei Cheetahmen, il sequel Cheetahmen II per NES (che eventualmente fu prodotto ma mai venduto), Action 52 per SNES e persino una console portatile 16-bit, chiamata Action Game Master Portable, in grado di leggere cartucce per NES, SNES, Sega Genesis e persino Sega CD. I prospetti di Vince Perri erano tanto assurdi quanto irrealizzabili, nessuno osò finanziare i suoi progetti e pertanto Active Enterprises LTD. chiuse i battenti di lì a poco; le cartucce invendute furono richiamate e chiuse in un magazzino fino a quando negli anni 2000 furono riportate alla luce insieme a Cheetahmen II e messe su eBay per prezzi oltraggiosi. I quattro developer non videro nessun provente dalle scarse vendite di Action 52 e l’unica cosa che rimase da fare, più tardi nell’era di internet, fu uscire allo scoperto e raccontare la storia di questa assurda compagnia e del suo terribile gioco. Vince Perri, invece, è scomparso dalla circolazione e nessuno sa dove si trovi o che aspetto abbia, dal momento che non esiste una sua foto da nessuna parte; alcuni blogger e podcaster, nel tentativo di rintracciarlo, hanno incontrato persone vicine a lui che hanno preferito mantenere la sua ubicazione segreta o hanno fatto domande del tipo “cosa vuoi sapere da lui”. Si dice che di recente sia morto ma neppure questa voce pare essere confermabile. (ROARRRR! Siamo le Tartarughe Ninja pelose!) Sensorialità virtuale: come l’ASMR entra nei
videogame Forse vi sarà capitato, sfogliando fra le migliaia di video su YouTube o durante qualche live su Twitch, di vedere qualcuno alle prese con determinati oggetti, bisbigliare strani suoni, accanto un microfono quasi fantascientifico e che probabilmente non avete mai visto. Negli ultimi anni il fenomeno dell’ASMR sta spopolando tra utenti casual, ma sta cominciando a esplodere anche in ambito videoludico, con ASMRtist alle prese con il videogioco del momento oppure, eseguire un role-play con i vostri personaggi preferiti. La pratica ha origini molto recenti ma, ciononostante, grazie alla sua facilità d’uso e all’ampia dispersione mediatica del web, ha già raccolto numerosi seguaci, innalzando anche la popolarità dei suoi esecutori. È probabilmente uno dei il trend del momento, anche in Italia, nonostante la maggior parte di voi non ne abbia mai sentito parlare, con più di 5 milioni di video disponibili su YouTube e un aumento delle ricerche del 200%. Ma esattamente cos’è l’ASMR, come funziona e soprattutto, può avere un ruolo pratico all’interno di un videogioco? Questo articolo cercherà di fornire adeguate risposte. Brancamenta Autonomous Sensory Meridian Response è quanto risulta dall’acronimo; nonostante suoni così distante, e sia riferito a elementi prettamente medici o psicoanalitici, è un’esperienza che tutti noi abbiamo in qualche modo fatto almeno una volta nella vita. Tutto è riassunto attraverso una piacevole sensazione fisica (Tingle) (brividi, formicolii, rilassamento), partendo dal cuoio capelluto alla schiena, attraverso stimoli uditivi, visivi e tattili (trigger). Un esempio pratico può
essere la pelle d’oca prodotta dall’ascolto di una determinata canzone o la visione di alcuni gesti della persona di fronte a voi, sensazioni che non sono passate inosservate nemmeno alla comunità scientifica che, tuttora, non riesce esattamente a spiegare il perché della risposta a determinati stimoli ma soprattutto alla diversità con cui l’essere umano si interfaccia a tale pratica. Se ci pensate, è incredibile che tutto questo abbia avuto un nome solo recentemente. Il percorso dell’ASMR è in qualche modo collegato al concetto di sinestesia (in cui più sensazioni distinte possono essere recepite contemporaneamente per diverse vie sensoriali), prima vista diffidenza ma poi, una volta misurata, è divenuta territorio di numerose ricerche scientifiche. Proprio ultimamente è stato realizzato un primo studio degli effetti che tali video producono agli utenti che ne fanno uso: la Dottoressa Giulia Poerio, dell’Università di Sheffield ha verificato una riduzione della frequenza cardiaca di 3,14 battiti al minuto, con sensazione di benessere generale, rispetto a coloro che in precedenza non avevano avuto alcuna esperienza ASMR. Serviranno ulteriori studi in tal senso, ma le prime stime risultano abbastanza incoraggianti. Entrano dunque in scena gli o le ASMRtist, in grado di provocare in maniera del tutto arbitraria le sensazioni citate, attraverso un’ampia gamma di suoni, gesti e soprattutto fantasia, perché non tutti rispondono allo stesso modo. Tra whispering, tapping, inaudible, toni bineurali (che vedremo più avanti) e mille altre varianti, la percezione dell’ASMR varia da persona a persona, rendendo difficile capire l’associazione esatta o magari preferita dagli utenti. È per questo che una buona ASMRtist deve essere dotata di un “coltellino svizzero” che racchiuda tutti i meccanismi necessari per fare breccia in un determinato utente che a sua volta, può legarsi in maniera empatica alla sua produttrice di brividi preferita. Una delle varianti più in voga è il gioco di ruolo in cui l’ASMRtist ricopre una determinata posizione sia del mondo reale (parrucchiera, bibliotecaria, etc) sia del fantastico, dove entrano in scena personaggi di serie TV ma soprattutto videogame. Coccole videoludiche
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