Cronisti di sport' Concorso di scrittura - Scrittori di Classe - icdeamicislaterza.edu.it

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Concorso di scrittura - Scrittori di Classe
                             ‘Cronisti di sport’
                                                2A,2B,2D

Gli alunni delle classi 2A, 2B, 2D della Scuola Secondaria di I grado “ Laterza” guidati dalle
docenti Barillà , Campione e Martino hanno partecipato al concorso letterario nazionale
Scrittori di Classe- quarta edizione- intitolata “Cronisti di sport”. Con il patrocinio del
Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e sotto gli auspici del centro per il libro e la
lettura.
Le classi sono state chiamate ad approfondire i grandi valori dello sport, realizzando un racconto e
redigendo un’intervista sportiva.
In collaborazione con otto giornalisti della Gazzetta dello Sport e otto famosi campioni e
campionesse delle discipline più amate da grandi e piccoli : Marco Belinelli (pallacanestro), Martín
Castrogiovanni (rugby), Gennaro Gattuso (calcio), Vincenzo Nibali (ciclismo), Federica Pellegrini
(nuoto), Flavia Pennetta (tennis), Gianmarco Tamberi (atletica) e Ivan Zaytsev (pallavolo).

Il meccanismo:

    1. scegliere uno degli otto temi proposti dalle otto “squadre” giornalista-campione;
    2. scrivere un racconto di classe che parta dal tema e dalla traccia suggerita;
    3. redigere le domande per un’intervista sportiva come dei veri giornalisti della Gazzetta dello
       Sport;
    4. caricare racconto e domande per l’intervista sul sito;
    5. valutare i racconti e le interviste delle altre classi partecipanti.

Tutte le classi che hanno portato a termine il lavoro in tutte le sue fasi (scrittura del racconto,
realizzazione dell’intervista, caricamento nell’area riservata e valutazione dei 3 lavori ricevuti)
hanno ricevuto un attestato di partecipazione personalizzato e per premio un HI-FI portatile.
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Classe 2D I.C. “De Amicis - Laterza” Bari
Docente Cinzia Campione

                  “Oltre il metro e trenta”

“La volontà deve essere più forte del talento”

Non ce la fai
(invece sì).
Non ce la fai
(invece sì).
Invece ce la faccio. Vedrete se non è così. Anche se voi non ci
credete. Voi che giocate insieme a me e mi prendete in giro
quando tiro e la palla non arriva neanche a canestro perché ho
le braccia corte. Sono basso, allora? Lui dice che la forza di
volontà conta più di tutto. Che con l’allenamento posso
migliorare. E io mi alleno. In palestra mi spacco per diventare
più forte. E poi mio papà è alto, perché non devo diventarlo
pure io?
Michael calpestava il terreno di gioco, palleggiando ed
accarezzando il pallone con le sue dita sottili ed affusolate.
Guardò il canestro. Provò un tiro. Niente. Tirò di nuovo. Ancora
niente. Sembrava che il cesto, vecchio, assemblato con delle
cordicelle consumate, fosse stregato, che si rifiutasse di
gonfiarsi e di dargli quel piccolo momento di gioia che tanto gli
serviva. Sentendosi osservato, il ragazzo dai capelli neri come
l’ebano, ruotò la testa: due individui sulla cinquantina
discutevano sistemando dei fogli. Il primo, un gigante dai
capelli brizzolati, osservava il ragazzo toccandosi il mento; il
secondo, più rotondo e basso sistemava alcuni fogli
scribacchiando qualcosa. “Ragazzo” , si sentì chiamare e per un
istante ebbe l’impulso di abbandonare il campo, ma poi si fece
coraggio e si incamminò verso i due uomini.
Era un po’ spaventato, non aveva la minima idea di ciò che gli
volessero dire. Rimasero zitti per qualche secondo. Poi uno dei
due si alzò, dicendo:”Ascolta ragazzo, se fossi in te smetterei di
giocare”. Michael si sedette,in silenzio. Quelle parole lo
avevano. Da piccolo si era allenato molto con l’aiuto di suo
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padre, ed era diventato anche abbastanza bravo. Poi,quel
maledetto incidente e suo padre morto sul colpo. Da quel
giorno era diventato sempre più chiuso e credeva di aver perso
anche la passione per il basket. Michael,avvilito e triste, riprese
il pallone da terra, lo lanciò e riuscì a segnare più di cinque tiri
perfetti di fila.
“Forse” pensò Michael, tutto il lavoro fatto con il padre non era
stato inutile, e si incamminò pensieroso verso casa. Gli zaffiri
blu dei suoi occhi si incatenavano all’asfalto, i capelli neri come
il carbone oscillavano al vento. I suoi quattordici anni non
sarebbero stati così pesanti sulle sue piccole spalle, se solo
non ci fosse stato        queirincidente... Alzò lo sguardo, tre
ragazzi, che avrebbe desiderato non aver mai dovuto
conoscere, passeggiavano con fare baldanzoso lungo il
marciapiede sul quale anche lui camminava. Le tre figure si
voltarono di punto in bianco e lo fissarono. Michael, preso
dall’angoscia, scappò verso il cortile della scuola. I tre lo
raggiunsero, lo afferrarono dal colletto, lo strattonarono e lo
fecero cadere per terra, lungo il marciapiede. Michael rimase
così, ferito e confuso a guardare il cielo, sperando che
qualcuno venisse ad aiutarlo... Il giorno dopo, come sempre,
andò a scuola. I suoi risultati scolastici non erano male, la
scuola dopotutto gli piaceva, però negli ultimi giorni sembrava
sempre più distratto. Il suo unico pensiero, adesso, era per
quella maledetta partita. Entrò in classe, sembrava non essere
l’unico ad avere quella preoccupazione sul match. John si
avvicinò a Michael; nessuno dei due si conosceva bene -ma -
pensò Michael -quello poteva essere il momento giusto per
stringere una nuova amicizia- anche se, pur abitando nello
stesso quartiere, non avevano mai avuto occasione di parlarsi.
“Ciao” disse John, “Ti ho visto al campetto da basket” continuò
“Mi sei piaciuto, sei un tipo tosto” . Michael sorrise, uno di quei
rari sorrisi che gli venivano dritti dal cuore. ’’Grazie” rispose
Michael. La giornata passò tranquilla e anche l’interrogazione
di matematica andò discretamente bene. Il ragazzo tornò a
casa, la madre lo aspettava sull’uscio della porta. La donna era
alta, aveva capelli lunghi color nocciola e occhi lucenti come
lapislazzuli appena ritrovati e così simili a quelli di suo figlio.
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Sorrideva ed il suo sguardo infondeva dolcezza, come solo le
madri possono fare. “Ciao mamma” disse Michael con aria
spensierata “Ciao Michael, come è andata la giornata a
scuola?” “Tutto bene” rispose come al solito Michael andando
in camera sua. Appena entrato, cercò come sempre, con lo
sguardo, la bacheca sulla quale erano riposti i trofei, le
medaglie e i palloni firmati da tutti i giocatori della squadra in
cui aveva giocato suo padre: i “Chicago Bulls”, la squadra più
forte dell’NBA all’epoca. Per lui, pensò Michael guardando la
foto del padre, doveva essere stato tutto più semplice, con il
suo metro e 98 e la sua determinazione; Michael purtroppo non
si sentiva per niente simile al padre, anzi ... tante persone da
lui si aspettavano grandi performance, ma era stato capace di
deludere tutti. “Maledetto metro e 30!” continuò a ripetersi...La
sua bassa statura era diventata un’ ossessione per lui, era il
Problema dei problemi, il fardello più pesante da sopportare
nella sua giovane e, apparentemente semplice, vita. Proprio in
quel momento sentì il campanello suonare, scese di corsa le
scale e si diresse verso la porta. Aprì ed ecco spuntare un viso
a lui familiare: era John. “Ciao!” gli disse il ragazzino entrando
in casa “Ciao John!” rispose Michael sorridendo. Salirono
assieme in camera sua e qui Michael incominciò a raccontargli
la storia di suo padre; non si era mai confidato così
apertamente con qualcuno, ma sentiva che John non era una
persona qualsiasi, era la persona ideale con cui confidarsi,era
come un fratello maggiore. Parlarono per ore e alla fine John lo
salutò dicendogli “Sai, nella vita, nulla va come vorresti, ma non
devi arrenderti al primo ostacolo che incontrerai sul tuo
percorso”. Dopo quella serata, Michael capì che non si sarebbe
più sentito così solo, né in pericolo, e che ci sarebbe stato
sempre qualcuno a proteggerlo. Ormai la giornata era finita e
Michael si sentiva in ansia per l’indomani, per la sua prima vera
partita. Il suo problema non era vincere, ma era quello di non
essere preso in giro da tutti con quella maledetta frase “Arriva il
nano” - maledetto metro e 30...- riuscì solo a pensare prima di
addormentarsi. La notte passò in un battito di ciglia e arrivò il
giorno della sua rivalsa. Michael guardò per l’ultima volta il
poster del suo playmaker preferito: Marco Belinelli. “Tu sì che
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sei fantastico, sei bravissimo, sei famoso, sei determinato e
...così alto, hai tutte le qualità che io non possiedo.” Disse
Michael tra sé e sé,e si scoraggiò ancora di più, ma ad un tratto
si ricordò le parole che John gli aveva sussurrato tra una risata
e l’altra. Michael uscì di casa, voleva arrivare prima al campo
per allenarsi ancora un po’. Con la convinzione che tanto, non
sarebbe mai stato un campione come suo padre, provò a tirare,
allungando il suo piccolo braccio destro verso il canestro. La
palla rimbalzò sul tabellone per poi ricadere aN’interno del
cesto: il suo primo canestro da metà campo! Il fatto che non ci
fosse nessuno ad assistere alla sua impresa, certo, non lo
rendeva felice come un tiro a canestro fatto durante una partita,
però lo rendeva più sicuro rispetto alla prossima prestazione in
campo. I suoi compagni arrivarono in tempo per riscaldarsi e
ripetere gli schemi che il coach aveva loro assegnato. Michael
come al solito si accomodò in panchina, senza nemmeno
attendere istruzioni dall’allenatore. Era abbonato a quel posto
in panchina, -nano e panchinaro- pensò con amarezza. Fischio
di inizio, la squadra avversaria sembrava più agguerrita rispetto
alla sua, Michael seguiva la partita a bordo campo e soffriva
per i compagni. Successe tutto così in fretta...uno dei giocatori
si era infortunato mentre stava marcando un cestista nemico,
mancava una manciata di minuti al fischio finale e
all’improvviso era arrivato per lui il momento di entrare in
campo “Oh no, per me è la fine...” pensò Michael con un
sospiro di angoscia, mentre vedeva            il coach avvicinarsi
lentamente verso di lui con una espressione avvilita e
perplessa: “Coraggio Michael, entra” disse sconsolato il coach,
ormai stanco di quella partita in cui nulla era andato per il verso
giusto. Michael si ritrovò in campo, con il pallone tra le mani, a
correre verso il canestro, mentre i suoi stessi compagni di
squadra lo guardavano allibiti         e con un’espressione di
incredulità e sgomento. Michael decise di ignorare tutto e tutti,
arrivò sotto il canestro e senza pensare tirò:la palla si andò a
conficcare nel diametro del cerchio che delimitava il canestro.
Tre punti! E che tre punti! La squadra di Michael vinse 53 a 50.
Tutti i suoi compagni si congratularono con lui, nessuno si
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aspettava che sarebbe stato             proprio Michael “il nano” a
segnare i tre punti decisivi.
Sei anni dopo.
Era passato molto tempo da quella fatidica partita e Michael
ormai era più grande,era finalmente cresciuto, niente più -
maledetto metro e 30-, niente più “Michael il nano” , quelle
orribili parole erano scomparse per sempre dalla sua mente e
dal suo cuore. Era entrato a far parte di una delle squadre più
forti dell’ NBA: i “Lakers” . E fu proprio durante il match più
importante del campionato che,tra i giocatori della squadra
avversaria, i “Sixer”, notò una persona che conosceva molto
bene: John. Erano entrambi esterrefatti, non si sarebbero mai
aspettati che un giorno si sarebbero rincontrati, e in quelle
circostanze poi... si promisero di non perdersi più di vista e che
la loro amicizia non avrebbe influenzato il corso della partita.
“É arrivato il mio momento” pensò Michael. Si trovava lì, di
nuovo solo davanti al canestro, schiacciato da una montagna di
aspettative e responsabilità, quando si ricordò la frase che suo
padre amava ripetergli: “Figliolo, ricordati, nella vita ci si rialza
sempre”. Michael rivide come in un flashback tutti i preziosi
momenti passati con lui e come riempito da una nuova energia,
lanciò il pallone verso il canestro nuovo di zecca... Tre punti!
Aveva segnato e d’un tratto gli sembrò di sentire la voce di
John dirgli: “Sei il migliore, e Lui ti sta guardando...”

Intervista a Marco Belinelli

    1) Sei contento di essere chiamato “Rocky” da i tuoi tifosi e
       cosa ritrovi in te del famoso personaggio interpretato da
       Sylvester Stallone?
    2) Che emozione hai provato nell’incontrare nel 2015 il
       presidente Obama?
    3) A che età hai iniziato a praticare basket a livello
       agonistico?
    4) Come è stato il passaggio dal comune di San Giovanni
       di Persiceto alle grandi metropoli americane?
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   5) Sono diverse le emozioni quando giochi nel campionato
       NBA rispetto a quelle che provi disputando il
       campionato italiano?
   6) Quale partita,tra le tante che hai disputato, consideri la
       tua “partita del cuore”?
   7) Hai conseguito tantissimi premi e riconoscimenti, quale
       ti ha fatto più piacere ricevere?
   8) Hai sempre desiderato essere un campione del basket
       o sei stato interessato anche a qualche altro sport?
   9) Da giovane cestista quali erano i tuoi idoli e avevi mai
       immaginato che avresti giocato al fianco dei più grandi
       campioni del basket?
   10) Cosa vedi nel tuo futuro?

Giulia De Michele
Carola Madaghiele
Martina Strambelli
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Classe 2A I.C. “De Amicis - Laterza” Bari
Docente Anna Martino

                “L’odore dell’erba bagnata”

Se c’è un ruolo fuori discussione nella squadra di calcio
della scuola è quello del portiere: spetta a Lupo, figlio di
Brando Moretti, numero uno della Nazionale, detto “La
Saracinesca”. Il popolarissimo Brando è un papà
simpatico, si fa vedere spesso a scuola, regala maglie e
biglietti. Suo figlio Lupo, che si atteggia da divo, molto
meno... Andrea vorrebbe portargli via il posto di portiere
titolare, ma c’è un altro problema: nonostante il nome da
maschio, Andrea è una femmina e i compagni non si
fidano di un portiere femmina. In due parole: “Vuoi toccare
la palla con le mani? Gioca a pallavolo come le altre”.
Forse Andrea si sarebbe già arresa se non avesse una
nonna come Matilde che le ripete: “Fatica e sacrificio e
ottieni ciò che vuoi. Alleniamoci insieme!”.
Ogni pomeriggio, appena terminati i compiti, Andrea va in
cortile e comincia il suo allenamento. Corsa di riscaldamento
ed esercizi vari, che la preparano al momento decisivo: i rigori.
Andrea prende i soliti due vasi e li posiziona alla giusta
distanza l’uno dall’altro. Intanto nonna Matilde, che attende fino
a quel momento guardando tutto da dietro alla finestra, infila
una giacca e raggiunge la nipote in cortile. Il resto lo potete
immaginare: la nonna prova a segnare, ma fare un goal ad
Andrea diventa ogni giorno più difficile. Andrea, però, si chiede
se sia davvero lei a migliorare o la nonna a perdere colpi. Le
piacerebbe davvero tanto potersi allenare con qualcun altro,
ma combattere i pregiudizi dei compagni anche solo per
giocare insieme sembra impossibile.
È un piovoso martedì. Sono le 4 e mezza e Andrea ha appena
finito i suoi compiti. Osserva il tempo dalla finestra, convinta di
non voler saltare l’allenamento. Dall’altra stanza si sente
tossire. Non è il caso che la nonna esca anche sotto la pioggia,
col suo raffreddore. Ma Andrea è talmente motivata, da non
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voler stare ferma neanche col maltempo. Un bacio alla nonna
e, dopo aver ascoltato le sue raccomandazioni, lega i capelli in
una coda alta, indossa il giubbotto, tira su il cappuccio e si
avvia verso il parco del quartiere a passo svelto. Sarà un
peccato dover rinunciare ai rigori, ma almeno avrà più spazio
per correre. E poi, l’erba bagnata non è scivolosa come il
pavimento del cortile.
Mentre entra nel parco riflettendo sulla sequenza di esercizi,
Andrea nota una figura tirare calci a un pallone contro la
recinzione. Qualcuno ha avuto il suo stesso coraggio! Andrea si
precipita verso quel ragazzo, sperando che la solitudine possa
convincerlo a giocare con lei, ma a un passo da lui si accorge
che... si tratta di Lupo. Neanche il tempo di girarsi per
allontanarsi, che Lupo si volta verso di lei e la guarda
sorpreso. Anche Andrea a primo impatto è sorpresa e
spaventata, ma appena incrociati gli occhi di Lupo, rimane
perplessa. Il suo sguardo le sembra per la prima volta indifeso.
Le solite arie da “Lupo” delle favole crudele e sicuro di sé
hanno lasciato spazio all’inquietudine di un “lupo solitario”. Per
la prima volta, Andrea ha l’impressione di non avere di fronte
un rivale.
“Fa freddo, corri con me?” La frase le esce di getto, forse per
spezzare l’imbarazzo, ma da Lupo nessuna reazione. Così
Andrea inizia a correre, scappando dalla sua figuraccia. E
mentre pensa al modo di rimediare, sente aggiungersi al
rumore della pioggia quello dei passi di Lupo, che rapidamente
la raggiunge.
Corrono così, l’uno accanto all’altra, inizialmente provando a
superarsi, in una silenziosa sfida; successivamente trovando
un loro equilibrio. Andrea non sa spiegarsi come sia possibile,
ma si ritrova a trascorrere un piacevole pomeriggio in
compagnia di Lupo. In ottima sintonia, smettono di correre e
iniziano coi rigori, facendo più volte a scambio di ruolo. Con
fierezza, Andrea tiene testa a Lupo, parando gran parte dei
suoi rigori o cercando di metterlo in difficoltà calciando a sua
volta il pallone. La competizione è così avvincente che i due si
salutano dandosi appuntamento al giorno seguente.
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Quel mercoledì Lupo arriva con un po’ di ritardo. Nell’attesa
Andrea si chiede se l’incontro del giorno precedente sia
accaduto realmente o se se lo sia immaginato. Il suono del
citofono le scioglie tutti i dubbi. Lupo si avvicina a lei a passo
deciso. Andrea capisce che è meglio non pretendere saluti e
buone maniere e conduce l’ospite in cortile. L’atteggiamento di
Lupo è decisamente diverso rispetto a quello del giorno prima.
È come se oggi avesse indossato la sua solita maschera da
divo, per convincere se stesso e gli altri di essere superiore a
chiunque. Lupo è davvero una “saracinesca”, e stavolta tiene
severamente il conto dei goal segnati e dei goal parati. Questa
è la prima volta in cui Andrea entra davvero in competizione
con qualcuno. Negli allenamenti con la nonna non c’è mai stata
tutta questa tensione. Ma nonostante la paura di sbagliare,
Andrea non rinuncia ad andare avanti dimostrando il suo
valore. Lei non è forte quanto Lupo, ma non si butta giù,
desidera davvero arrivare al suo livello. Quindi mette da parte
la debolezza e continua l’allenamento finché non è lui a dire
basta.
“Riusciamo a vederci anche domani?”, chiede Andrea.
L’attimo di esitazione dura più di quanto lei avesse immaginato.
Ma fortunatamente, alla fine lui annuisce.
Giovedì, Lupo arriva puntuale e anche stavolta si dirige
frettolosamente in cortile. Questa volta sembra più sciolto e
l’allenamento procede tranquillo finché non nota la presenza di
una donna che li osserva dal vetro della finestra. “Chi è quella
signora?” chiede Lupo, incuriosito. Così Andrea gli spiega chi
sia nonna Matilde, gli accenna del loro rapporto speciale e di
tutte le volte in cui si sono allenate insieme. Lupo si mostra
particolarmente interessato al discorso e inizia a fare un sacco
di domande.
“Anche tu avrai sicuramente chi ti sostiene così!” afferma ad un
certo punto Andrea. Ma l’espressione di Lupo di colpo si fa
buia. È la stessa espressione che aveva durante il loro primo
incontro al parco, quella che aveva mentre calciava il pallone
da solo. “Devi sapere che mio padre... certo, riconosce le mie
capacità, ma non abbastanza da trovare un momento per
allenarci. Non ha mai tempo, neanche per un semplice
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incoraggiamento. Vorrei anche io una “nonna Matilde” ...” Chi
l’avrebbe mai detto? Andrea, dispiaciuta, si avvicina a Lupo, gli
prende le mani e gliele stringe. Lupo la guarda e
inaspettatamente sorride.
Il loro allenamento in cortile diventa un’abitudine. Dopo vari
incontri Andrea sente di essere diventata forte quanto Lupo. E
questo a Lupo non dispiace. Anzi, le loro sfide alla pari
sembrano stimolarlo sempre di più. A scuola, invece, la loro
amicizia è ancora un segreto. Non c’è stata occasione di
svelare agli altri la loro complicità, perché Lupo è
impegnatissimo con le partite del torneo regionale: la squadra
della scuola sta vincendo tutte le partite necessarie per arrivare
all’attesissima finale!
Quando possibile, Andrea si accomoda sugli spalti e osserva le
partite, gioendo per le numerose vittorie della squadra. Ogni
volta sogna ad occhi aperti il giorno in cui sarà finalmente
accettata nella squadra, anche se ora le dispiacerebbe togliere
il posto a Lupo. La sua severità l’ha aiutata a crescere. E poi,
passandoci insieme quasi tutti i pomeriggi, ha iniziato ad
apprezzare il suo carattere, soprattutto quando si rivela
inaspettatamente dolce o fragile.
Finalmente il momento tanto atteso è arrivato: domani si
giocherà la partita finale! Andrea sa che Lupo è impegnato con
la squadra per l’ultimo allenamento. Si allenerà con nonna
Matilde, come ai vecchi tempi.
Al termine deN’allenamento, nonna e nipote sono entrambe
stanche ma divertite.
“La tua costanza è servita, sei diventata una vera
campionessa! Non ti rimane che dimostrarlo ai tuoi compagni.”
suggerisce la nonna. Andrea abbassa lo sguardo. Lo sforzo
fisico le sembra meno faticoso di tutto l’impegno che ci vuole
per superare un pregiudizio.
Nel tornare in casa, Andrea si accorge che, poggiato sul
gradino dell’ingresso, c’è un pacco regalo con un biglietto: “Per
Andrea, la mia “nonna Matilde”. Indossalo domani, come una
vera tifosa”. Andrea scarta il pacco e non crede ai suoi occhi: è
la maglietta di uno dei completi di Lupo! Sulle spalle, infatti, c’è
stampato il suo cognome, “Moretti”, e il suo numero. Sarà
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l’occasione per rivelare ufficialmente ai compagni la loro
amicizia!
Il giorno dopo, Andrea indossa un paio di pantaloncini e la
nuova maglietta, e si avvia verso il campetto con la nonna. La
partita decisiva si giocherà in casa, e tutti i compagni di scuola
saranno presenti. Le due tifose scelgono i posti migliori e si
accomodano: ecco iniziare la partita!
La squadra di Lupo è in forma, i giocatori sono tutti pieni di
adrenalina. Gli attaccanti sono agili e scattanti. Ogni volta che
la palla raggiunge Lupo, lui riesce immancabilmente a pararla.
Tra il primo e il secondo tempo, Lupo scorge Andrea tra i tifosi.
I due si guardano e si scambiano un saluto emozionato. Anche
il secondo tempo sta passando in fretta, intanto ha iniziato a
piovere e di un goal neanche l’ombra.
Scade anche il novantesimo minuto. Zero a zero, si va ai tempi
supplementari!
Ma anche lì, la situazione è tesa: Lupo ha parato i primi 3 rigori,
mentre il portiere avversario si è fatto sfuggire un goal. Se Lupo
riuscisse a parare gli ultimi 2 rigori, la sua squadra vincerebbe.
Ma sul quarto rigore, succede un qualcosa di inaspettato: nel
tentativo di difendere la porta, Lupo cade facendosi male.
La squadra e l’allenatore sono riuniti intorno a Lupo, per
accertarsi delle sue condizioni. Non è mai capitato nulla del
genere, e sembra assurdo che accada proprio ora! Andrea
osserva tutta la scena: Lupo si alza con fatica, zoppicando si
avvicina all’allenatore dicendogli qualcosa nell’orecchio.
L’allenatore si volta verso la tribuna e Lupo indica proprio in
direzione di Andrea.
Da quel momento Andrea perde la cognizione del tempo,
percepisce solo alcuni flash.
L’allenatore che si avvicina a lei.
“Lupo vuole che tu lo sostituisca in campo, dice di fidarsi di te.
E io mi fido di Lupo.”
Lo sguardo incoraggiante della nonna.
Le espressioni incredule di tutti i compagni di scuola.
I passi lenti verso la porta.
L’odore dell’erba bagnata, che la riporta indietro all’incontro al
parco con Lupo, a quella nuova amicizia, al primo rigore di
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Lupo parato da Andrea. “Niente male per una femminuccia”, si
era complimentato Lupo, e i due erano scoppiati a ridere
insieme.
Il giocatore della squadra avversaria si prepara a tirare l’ultimo
rigore. Andrea si lancia, para la palla con le mani. Ma la cosa
che Andrea ricorderà di più sarà il calore dei tifosi, le loro urla e
l’applauso rivolto a lei, perché è stato proprio quello il primo di
una lunga serie di applausi.

Intervista a Gennaro Gattuso

   1) Ti chiamano "Ringhio": perché? Ti ritrovi o avresti voluto
       avere un altro soprannome?
   2) Ricordi la prima volta in cui hai giocato a calcio? E
       quella in cui hai segnato il primo goal importante?
   3) Hai sempre voluto fare il calciatore o da bambino avevi
       un altro sogno?
   4) Quali sono stati i tuoi idoli? Al fianco di quale campione
       avresti voluto giocare?
   5) Pensi che il tuo successo sia stato determinato anche
       dalla fortuna? Hai un portafortuna o un rituale che ti
       aiuta nelle partite?
   6) Ci racconti uno tra gli episodi più belli vissuti grazie al
       calcio?
   7) Che emozione hai provato quando hai vinto i Mondiali
       del 2006 con la Nazionale Azzurra?
   8) Dopo il tuo ritiro hai avuto qualche rimpianto?
   9) La gioia per la nascita di un figlio e la gioia per un
       successo calcistico (un goal, una partita giocata bene,
       ecc...) hanno qualcosa in comune?
   10) Qual è stato il sacrificio più grande che hai fatto?
       Rifaresti tutto?
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Classe 2B I.C. “De Amicis - Laterza” Bari
Docente Maria Anna Barillà

                     UMILI ALLA META

Alle quattro in punto il papà di Roberta entrò nella stanza di
sua figlia per ricordarle l’allenamento pomeridiano di pallavolo.
La trovò distesa sul letto, con un’espressione di dolore sul
volto.
- Che succede campionessa? Non ti senti bene? - E così
dicendo prese la palla che faceva bella mostra su una delle
mensole della stanza e la lanciò a Roberta. L’aveva ricevuta in
regalo dal suo allenatore, quando aveva l’età di sua figlia, in
occasione di un importante campionato regionale. Era un
ricordo speciale, perchè era firmata da tutti i suoi compagni di
squadra e da Julio Velasco, a quel tempo allenatore della
nazionale di pallavolo, che era intervenuto alla manifestazione
sportiva.
- Papà ho dei forti crampi... non credo di essere in grado di
andare in palestra.
Il padre la guardò pensieroso. Era la terza volta negli ultimi
dieci giorni che sua figlia accusava strani malesseri.
-Sono preoccupato Roberta... telefono al medico per una visita
di controllo?
Roberta arrossì e disse di non preoccuparsi, perché erano
dolori passeggeri, forse dovuti ad un po’ di stanchezza. Il padre
uscì dalla stanza e Roberta tirò un sospiro di sollievo; anche
questa volta era riuscita a passarla liscia e a saltare gli
allenamenti. Amava giocare a pallavolo e aveva iniziato perché
il padre, che aveva debuttato in nazionale e giocato in una
squadra importante, le aveva trasmesso questa passione e
perciò non voleva deluderlo. Giocava nel ruolo di schiacciatrice,
lo stesso che aveva rivestito il suo papà da giovane, ma negli
ultimi tempi aveva combinato solo disastri. Le sembrava che il
suo corpo non eseguisse ciò che si proponeva di fare e le
capitava spesso di sbattere contro la rete. La sua allenatrice le
aveva detto di non preoccuparsi, perché era naturale a dodici
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anni essere un po’ goffi; del resto era cresciuta in altezza molto
in fretta nell'ultimo anno. “Hai un motore Ferrari dentro di te, ma
il corpo di una Cinquecento... vedrai che presto rifarai pace con
il tuo corpo ” le ripeteva spesso per consolarla.
In realtà la sua allenatrice le aveva proposto di provare a
giocare in altri ruoli, ma lei aveva rifiutato con fermezza. Non
avrebbe mai accettato un ruolo che riteneva meno importante.
Mentre era assorta nei suoi pensieri squillò il cellulare.
- Roberta, anche oggi a casa? Che scusa hai inventato
stavolta?
- Ciao Martina, come è andato l’allenamento?
- Al solito... “Miss guardatemi come sono bella” sfiorava la palla
per non rovinarsi le unghie e Francesca “Mano floscia” non è
riuscita a fare un tiro che oltrepassasse la rete. Ci sei
mancata...
- Dai, non penso che sia stato un tale disastro- rispose Roberta
ridendo - lo dici per consolarmi.
- Roberta non puoi continuare ad inventare scuse. L’allenatrice
mi ha chiesto di te e voleva chiamare i tuoi genitori. Le ho detto
di non farlo e che la tua assenza era dovuta ad una influenza,
ma ti stai rimettendo e la prossima volta non mancherai agli
allenamenti.
- Grazie Marty. Lo so, devo parlare con papà. Ma è difficile...
quando mi chiama campionessa vorrei sprofondare.
- Dai, forza... ci sentiamo domani.
Martina aveva ragione. Era necessario parlare a suo padre. Gli
occhi azzurri si riempirono di lacrime, ma con passo deciso si
diresse verso lo studio e bussò.
- Papà posso entrare?
- Certo Roberta... come va? Ti senti meglio?
-Sì, grazie. Devo dirti una cosa importante: i miei malesseri
erano delle scuse per non andare in palestra. Ecco, ora lo sai -
. Così dicendo abbassò la testa e scoppiò a piangere.
Suo padre la guardò stupito.
- Perchè Roberta? Pensavo ti piacesse giocare a pallavolo...
non capisco -.
- Mi piace, mi piace moltissimo, ma non sarò mai una
campionessa come te. In verità sono una vera schiappa. Non
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capisco cosa mi succede ultimamente. Sbaglio, mi innervosisco
e l’allenatrice mi manda in panchina... Mi sarebbe piaciuto
essere una numero uno come te, ma ti ho solo deluso.
- Mi dispiace Roberta, non volevo che pensassi questo. Mi ha
fatto piacere quando hai deciso di giocare a pallavolo, ma
questa scelta deve renderti felice. Se deciderai di non giocare
più non sarò deluso. La decisione è tua.
- Non voglio smettere, ma non sono brava come schiacciatrice
e non mi va di giocare in altri ruoli meno importanti.
- Perché meno importanti, Roberta? Ogni ruolo è importante.
- Però il pubblico applaude chi fa punto...
- Perchè è il momento finale di un’azione che ha visto tutta la
squadra protagonista... la squadra non è un insieme di solisti.
E’ come quando suoni nell’orchestra della scuola: ogni
strumento è importante nell’esecuzione di un brano musicale.
Devi allenarti non per essere il numero uno, ma sapendo che
fai parte di un gruppo e poi dare il meglio di te durante la
partita.
- Non ci avevo pensato...
- Ti va di allenarti con me? Domani è sabato e non vai a scuola.
Così mi fai vedere quanto sei “schiappa” !
Così dicendo scoppiò a ridere e cominciò a tirare palline di
carta, in pieno viso, a sua figlia.
Roberta sorrise sollevata e, abbracciando suo padre, lo
ringraziò.
La mattina dopo, alle nove in punto, i due erano sul campo di
pallavolo del parco dietro casa. La rete aveva molti buchi ed il
campo non era segnato, ma non importava. Padre e figlia
incominciarono a fare qualche azione e presto altri ragazzi
incuriositi si avvicinarono e chiesero di unirsi a loro. Ben presto
si formarono due squadre regolamentari. Roberta dava consigli
ai suoi compagni ed esultava con loro ad ogni punto, mentre
suo padre arbitrava.
Tornando a casa Roberta esclamò:- Non mi divertivo così da
tempo!
- Perchè eri rilassata e non centrata su te stessa. Ti ho
osservata mentre giocavi: hai forza nelle braccia, controlli bene
la palla, anche se ti sbilanci un po’ in avanti. Ecco perché finisci
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contro la rete! Sei brava come alzatrice, perché non provi a
cambiare ruolo?
- Va bene, ci provo. Mi dai una mano?
- Promesso! Ogni sabato mattina appuntamento al parco.
Il lunedì pomeriggio Roberta andò in palestra e parlò con la sua
allenatrice.
- Brava Roberta. Sono convinta che l’alzatrice sia il tuo ruolo.
Non ho voluto forzarti a cambiarlo, perchè non ci avresti messo
l’impegno necessario. Dai, vediamo come te la cavi.
Al termine deN’allenamento Roberta era stanca ma soddisfatta.
Finalmente aveva giocato bene.
 - Ehi Roberta, che ti è successo? Non ti vedevo così grintosa
da tempo; insomma l’unica imbranata rimango io. Ah,
dimenticavo Francesca “Mano floscia” !
- Dai Paola, basta con questi soprannomi! Francesca non te la
prendere, forse anche tu dovresti provare a giocare in un altro
ruolo. Più che a schiacciare ho notato che sei brava a murare.
- Roberta vuoi rubarmi il mestiere? - esclamò l’allenatrice
ridendo - hai ragione, ci stavo pensando anche io. Forza,
domani proviamo con un nuovo schema.
Mentre erano nello spogliatoio, Paola si avvicinò a Roberta e
disse: - Anche tu mi hai dato un soprannome,                   “Miss
guardatemi come sono bella”, ma non me la prendo... anzi,
voglio fare un patto con te: tu mi dai una mano ad allenarmi ed
io ti aiuto a renderti più carina. Scusa se te lo dico, ma bisogna
fare qualcosa per quei capelli arruffati e il viso pallido. - E così
dicendo indietreggiò di qualche passo con l’aria esperta di una
personal make up artist.
Roberta ci pensò un attimo. Perché no? Le sarebbe piaciuto
non sentirsi un brutto anatroccolo come le accadeva negli ultimi
tempi.
- Ci sto! Ma niente unghie lunghe; non aiutano la presa!
Nelle due settimane successive gli allenamenti furono intensi. Il
nuovo schema di gioco funzionava alla perfezione e tutte le
ragazze erano entusiaste. Non avvertivano la fatica, perché
allenarsi era divertente: erano finalmente una squadra!
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Francesca “Mano floscia” era diventata “Piglia tutto” e Paola,
“Miss guardatemi come sono bella” , era stata ribattezzata “Miss
bagher” .
La stagione andò benissimo: persero qualche partita, ma
guadagnarono un meritatissimo secondo posto in classifica. La
sera della premiazione Roberta tornò a casa, stringendo felice
il suo primo pallone della vittoria con le firme delle sue
compagne di squadra e del suo papà, il suo campione preferito.

Intervista a Ivan Zaytsev

   1. Cosa ti ha spinto a diventare pallavolista?
   2. Che ricordi hai dei tuoi esordi nel mondo della
       pallavolo?
   3. Quale ruolo ha avuto tuo padre nella scelta di diventare
       un pallavolista?
   4. Quali differenze hai notato nella tua esperienza di
       pallavolista in Russia e in Italia?
   5. “Umiltà” e “allenamento” sono due parole che possono
       sintetizzare il tuo modo di vivere lo sport. Chi è stato
       modello per te in questo senso? A chi ti sei ispirato?
   6. Quanto conta, oltre al duro allenamento, divertirsi con la
       propria squadra? Cosa è determinante per raggiungere
       buone prestazioni sul campo?
   7. Come ti carichi prima di una partita?
   8. Alcuni dei nostri compagni giocano a pallavolo. Quali
       consigli daresti loro all’inizio di questo percorso?
   9. Quale, tra i ruoli in cui hai giocato, ti ha dato più
       soddisfazioni?
   10. Ultima domanda, una curiosità: hanno un significato
       speciale i tuoi tatuaggi? Sono legati a esperienze
       personali?
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