TRA IL CAMPIONISSIMO E L'UMILISSIMO - Ghent University Library

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TRA IL CAMPIONISSIMO E L’UMILISSIMO
LA RAPPRESENTAZIONE DEL CARATTERE EPICO-EROICO DEL CICLISMO IN QUATTRO
RACCOLTE DI RACCONTI DI BICICLETTA

Aantal woorden: 24.700

Benjamin Leirens
01502939

Promotor: Prof. dr. Mara Santi

Masterproef voorgelegd voor het behalen van de graad master in de Taal-en Letterkunde Italiaans-Frans

Academiejaar: 2018 – 2019
INDICE

Ringraziamenti                                                                           p. 4

Ordine di partenza – Domanda di ricerca                                                  p. 6

1. Prima tappa: la figura dell’Eroe (mediatico)

1.1 L’eroe (< ήρως): etimologia e rappresentazione letteraria                            p. 8
1.2 Il campo giornalistico (sportivo) come terreno fertile per l’eroismo                 p. 15
1.3 Il carattere epico del ciclismo                                                      p. 18

2. Seconda tappa: i Racconti di Bicicletta

2.1 Metodologia e contesto storico                                                       p. 25

3. Terza tappa: Achille Campanile - Battista al Giro d’Italia. Intermezzo giornalistico (1932)

3.1 Una presa in Giro (d’Italia): l’umorismo come chiave di lettura della raccolta       p. 29
3.2 Un Don Chisciotte su due ruote: il fedele servitore Battista                         p. 32
3.3 I Sempre in Coda: una smitizzazione                                                  p. 36
3.4 I veri eroi del Giro: una critica socio-culturale?                                   p. 40

4. Quarta tappa: Vasco Pratolini - Cronache dal Giro d’Italia (maggio-giugno 1947)

4.1 Uno spettatore appassionato e attento nel gran Barnum                                p. 42
4.2 Smitizzazione e delusione: una noia fastidiosa                                       p. 45
4.3 Gli umili gregari e la Brigata Toscana                                               p. 47
4.4 Coppi e Bartali: una sconfitta serena e umana                                        p. 49
4.5 Un letterato contro I Docenti del ciclismo                                           p. 52

5. Quinta tappa: Dino Buzzati al Giro d’Italia (1949)

5.1 Un vincitore sovrumano                                                               p. 54
5.2 Ettore e Achille su due ruote                                                        p. 59
5.3 La memoria bellica                                                                   p. 64

                                                  2
6. Sesta tappa: Anna Maria Ortese - Giro d’Italia (1955) in La lente scura

6.1 L’intrusa                                                                p. 67
6.2 Disillusione: il Carrozzone commerciale non si fermerà più               p. 69
6.3 Trascendere la soglia sociale                                            p. 71
6.4 Un torero ammazza un puledro                                             p. 72

Traguardo                                                                    p. 76

BIBLIOGRAFIA

Bibliografia primaria                                                        p. 79

Bibliografia secondaria                                                      p. 79

                                                3
Ringraziamenti

Prima di dare l’ordine di partenza di questa tesi, vorrei capovolgere il solito protocollo assegnando
non alla fine ma già all’inizio le Maglie e i fiori alle persone che mi hanno dato l’opportunità, il
sostegno e soprattutto il piacere di realizzare quest’ultimo progetto.

In primo luogo mi piacerebbe consegnare la Maglia Rosa alla promotrice di questa memoria, ossia
la professoressa Mara Santi, per la sua disponibilità, i suoi consigli e la libertà che mi ha dato nella
scelta della tematica. Inoltre vorrei aggiungere che è stato un onore seguire i suoi corsi nei quali la
mia predilezione per la lingua, la letteratura e la cultura italiana è stata alimentata sempre di più.

In secondo luogo vorrei ringraziare la Dr. Sarah Bonciarelli con l’attribuzione della Maglia
Ciclamino, poiché è sempre stata disposta a leggere e a mandarmi le sue correzioni alla velocità di
un ammirevole sprinter.

La Maglia Azzurra, che premia il migliore scalatore, viene attribuita a mio zio, perché mi ha regalato
una passione torreggiante e insuperabile per la bici e per il ciclismo. Per di più va segnalato (con
vergogna) che nelle nostre numerose gite in mountain-bike, io spesso non sono capace di seguirlo
in salita.

Infine i miei amici, mia sorella gemella e soprattutto i miei genitori vengono premiati con la Maglia
Iridata. Essi sono sempre stati al mio fianco con la loro energia e il loro affetto, soprattutto nei
momenti più difficili (come studente). Mi hanno offerto tutte le possibilità per diventare la persona
che sono ora. Perciò meritano di essere proclamati a vita i Miei Campioni del Mondo.

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I ciclisti non muoiono…

I ciclisti non muoiono,
essi scompaiono soltanto dalla vista
una volta che hanno attraversato il loro ultimo traguardo,
una volta che la velocità della vita
li abbandona coi muscoli rigidi.

Non cessano mai di correre
anche se il loro cuore e le loro ruote decidono ostinatamente di tacere,
essi continuano a scendere in campo nella mente di migliaia di persone
essi non si arrendono mai,
al contrario,
il loro sudore conferisce lucentezza perenne all’asfalto.

Ricorda che
dal momento in cui la terra,
anche se a malincuore, li copre,
il loro nome risuonerà per sempre, come un eco tra le cime delle montagne.

(Ó Willie Verhegge, Renners sterven niet. Traduzione italiana: Benjamin Leirens)

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Ordine di partenza

“I dizionari che hanno la reputazione di avere ragione su tutto si sbagliano su un punto: la bicicletta
non è un mezzo di locomozione, è un racconto di fate.”
Questa citazione di Jean-Noël Blanc, scrittore francese contemporaneo, richiama in mente le
parole di Alfredo Oriani che nel 1902 dichiara che “il ciclismo è il massimo di possibilità poetica
consentita al corpo umano”.1 Con la sua raccolta La bicicletta quest’ultimo si inserisce
significativamente nel plotone dei primi scrittori a trattare il ciclismo come tema letterario.

Le qualità e le possibilità poetico-letterarie, emanate dal ciclismo ed evidenziate dai due autori
citati qui sopra, costituiscono essenzialmente il punto di partenza di questa tesi di Master. Mi
concentrerò particolarmente sul carattere epico attribuito allo sport su due ruote.
Allo scopo di avviare l’analisi di alcune opere (letterarie) che prendono ispirazione dal Giro d’Italia,
questo lavoro partirà da un quadro teorico riguardante la nozione e la figura dell’eroe, vale a dire
il termine tradizionalmente legato al genere epico.
Siccome apparirà che il giornalismo (sportivo) svolge un ruolo preponderante nella definizione e
diffusione del ciclismo e dei suoi attori in chiave epica, questo settore sarà ugualmente sottoposto
a una breve analisi.

La seconda parte di questo progetto seguirà un approccio più analitico, in quanto le osservazioni
teoriche della prima parte verranno applicate a quattro opere di tema ciclistico.
Per quanto riguarda i libri esaminati, che nel corso (o meglio nella corsa) di questa tesi saranno
battezzati Racconti di Bicicletta, conviene segnalare che saranno trattati in ordine cronologico.
Inoltre, va notato che risalgono tutti (con l’eccezione dell’opera pionieristica Battista al Giro
d’Italia di Achille Campanile pubblicata nel 1932) alla cosiddetta epoca d’oro del ciclismo italiano,
ossia il primo decennio dopo la Seconda guerra mondiale. Sono gli anni nei quali il Belpaese non
soltanto sportivamente ma forse anche politicamente è diviso dal mitico duello tra Fausto Coppi,
il Campionissimo, e Gino “il Pio” Bartali. La loro eredità rimane fino ad oggi visibile sulla scena

1
    Oriani,A., La bicicletta. Bologna: Zanichelli, 1902.

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italiana e internazionale. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Coppi, il paese di
Castellania, dove egli nacque nel 1919, ha preso ufficialmente il nome di Castellania Coppi in onore
dell’indimenticabile campione di ciclismo.2 È interessante che nello stesso anno la figura del suo
eterno rivale sportivo (ma tuttavia amico del cuore), Bartali, costituisce, per il ruolo sociale che
ebbe, una delle tracce per l’esame di maturità in Italia.3

Analizzerò nei quattro libri scelti, elencati qui in ordine cronologico: Battista al Giro d’Italia di
Achille Campanile (1932), Cronache dal Giro d’Italia di Vasco Pratolini (1947), Dino Buzzati al Giro
d’Italia di Dino Buzzati (1949), e Giro d’Italia di Anna Maria Ortese, il modo in cui gli autori, inviati
da un giornale o settimanale alla Corsa Rosa, riproducono i corridori partecipanti e i loro duelli.
Partirò sempre da una visione generale sugli scrittori in questione, poiché come si vedrà in seguito,
i resoconti esaminati si trovano spesso sulla stessa linea delle altre opere prodotte dalla loro
penna.
Inoltre, va già notato che le descrizioni del Giro analizzate spesso differiscono considerevolmente
non solo tra di loro ma anche dalle linee teoriche tracciate nella prima parte di questa tesi. Sembra
in effetti che gli scrittori in questione desiderino talvolta effettuare un processo di demitizzazione
o umanizzazione contrario all’eroicizzazione dello sportivo di cui tratterò a breve. Di conseguenza
gli autori si oppongono (in)volontariamente ai resoconti e al metodo di lavoro più diffuso nella
cronaca sportiva. Tuttavia questo approccio “diverso” non attacca mai il ciclismo di per sé. Al
contrario ribadisce, come vedremo, la premessa di questa tesi, ossia mettere in risalto la versatile
possibilità letteraria insita nello sport a due ruote.

Benvenuti, quindi, a questo Giro nella letteratura ciclistica italiana del Novecento.

2
  https://torino.corriere.it/cronaca/19_marzo_25/nasce-castellania-coppi-comune-prende-nome-
concittadino-piu-illustre-8001eeb4-4f14-11e9-ad2b-d4651f1d6fda.shtml
3
  https://www.corriere.it/scuola/maturita/notizie/maturita-2019-prima-prova-sono-arrivati-temi-esame-
via-6bfa859c-9259-11e9-8993-6f11b6da1695.shtml

                                                    7
1. Prima tappa: la figura dell’Eroe (mediatico)
1.1 L’eroe (< ήρως): etimologia e rappresentazione (letteraria)

1 Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος
οὐλομένην, ἣ μυρί᾿ Ἀχαιοῖς ἄλγε᾿ ἔθηκε,
πολλὰς δ᾿ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν
ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν
5 οἰωνοῖσί τε πᾶσι· Διὸς δ᾿ ἐτελείετο βουλή,

ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε
Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς (Omero, Iliade, I, 1-7).

Cantami, o Diva, del Pelíde Achille
L’ira funesta che infiniti addusse
Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
Generose travolse alme d’eroi,
E di cani e d’augelli orrido pasto
Lor salme abbandonò (così di Giove
L’alto consiglio s’adempía), da quando
Primamente disgiunse aspra contesa
Il re de’ prodi Atride e il divo Achille (Monti, 1825, 1-2).

Come osserva John Dean nel suo saggio U.S and european heroism compared, in cui esamina il
concetto di eroismo da un punto di vista storico e comparatistico, il termine eroe nasce “at the
root-cap of the ancient Greeks” (Dean, 2008: 68). Dean sottolinea che quella dell’ήρως, ossia
dell’eroe, è innanzitutto una nozione omerica. Nell’Iliade, il poema epico (databile intorno all’850
a.C.) che costituisce il caposaldo della cultura e della letteratura occidentali, Omero la utilizza nel
designare i guerrieri “liberi e coraggiosi” (Dean, 2008: 68). Va sottolineato che nel periodo
precedente alla guerra di Troia il termine ήρως viene utilizzato come titolo d’onore. Già nel

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proemio dell’Iliade, riportato parzialmente qui sopra, Omero, fa esplicitamente riferimento ai
soldati le cui “forti anime vengono spedite in gran numero all’Ade a causa dell’Ira funesta di
Achille” e i cui “corpi servivano come orrido pasto per cani e uccelli”.

Etimologicamente la nozione greca di ήρως è legata al sanscrito वीर (vīrá), che significa forte

(Pianigiani, 1907: 477). La parola latina vir con il significato di “uomo vigoroso” che ha dato origine
a virile in italiano, proviene dallo stesso termine.
Consultando alcuni dizionari italiani è chiaro che l’etimologia della parola ήρως si riflette nella
definizione e nella concettualizzazione che i lessicografi ci forniscono oggi del termine in questione.
Nel Battaglia troviamo come seconda entrata del lemma eroe “chi in un’azione guerresca dimostra
valore, coraggio, ardimento” (Battaglia, 1995: 253-254). Sulla stessa linea il Treccani afferma che
“Nel linguaggio comune [eroe è] chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande
valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie4. In entrambi i casi si
sottolinea quindi il carattere valoroso e coraggioso dell’eroe. Tuttavia conviene segnalare che nei
due dizionari consultati la prima definizione che viene fornita del termine analizzato collega la
figura dell’eroe al suo statuto (semi-)divino. Il Treccani indica che: “Nella mitologia di vari popoli
primitivi, essere semidivino al quale si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali; presso
gli antichi, gli eroi erano in genere o dei decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre
divinità, o uomini ascesi a divinità in virtù di particolarissimi meriti”. Nel Battaglia è presente una
definizione più generica: “Essere sovrumano, semidivino, dotato di particolari prerogative e virtù,
a cui si attribuiscono gesta prodigiose”. Anche il dizionario etimologico di Pianigiani pone l’eroe
nelle sfere (semi-)divine: “così chiamavansi presso gli antichi coloro che creduti nascere di una
divinità e di un uomo, per forza prodigiosa o per gran numero d’illustri imprese divenivano celebri,
ed ai quali dopo morti prestavansi onori divini, quali semidei” (Pianigiani, 1907: 477). È chiaro che
l’interpretazione e la definizione odierna dell’eroe in quanto semi-divinità, collegata ovviamente
al suo ruolo svolto nella cultura, letteratura e soprattutto mitologia classica (Dean, 2008: 69) -
pensiamo per esempio alla figura di Ercole- è molto diffusa nella società occidentale. Forse anche

4
    "http://www.treccani.it/vocabolario/eroe/"

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l’etimologia fornita da Platone nel Cratilo, comunque comica e sicuramente di fantasia, ha
rafforzato la connessione tra l’eroe e la sua natura semidivina.

Ermogene: Anch'io penso questo, o Socrate, di essere del tutto d'accordo con te riguardo a questo. Ma
l'ἥρως [eroe], che cosa sarebbe?
Socrate: Non è affatto difficile intendere questo, dato che il nome è stato modificato di poco, e mostra
chiaramente la sua origine dall'amore [ἔρως].
Ermogene: Come dici?
Socrate: Non sai che gli eroi [ἥρωες] sono semidei?
Ermogene: E allora?
Socrate: Tutti certamente sono nati o da un dio innamorato di una mortale, o da un mortale innamorato
di una dea (Platone in Gatti, 2008: 147)

Tuttavia, basandoci di nuovo sul saggio di Dean, in particolare per quanto riguarda la genesi
omerica del concetto, l’eroe non può essere considerato una persona “immaculately protected by
the armor of divinity” (Dean, 2008: 69). La nozione non equivale quindi del tutto al termine
“demigod”. Secondo Dean l’eroe è al contrario “immensely human”. Inoltre egli sottolinea che
“heroes as originally understood in Western civilization [nello specifico nell’Iliade] were glorious
by virtue of the risks that are known and taken by human flesh and blood.” Per questo motivo
Dean indica l’associazione dell’eroe con il mondo dei semi-dei come un equivoco comune, “easily
available in […] most dictionaries. (Dean, 2008: 69).

Le osservazioni di Dean mettono in risalto come è difficile, persino impossibile, fissare il concetto
di eroe in un unico significato o in una definizione ben delineata. C’è un continuum di elementi e
contenuti collegati al concetto di eroe e sembra che ogni società ne dia un’interpretazione e
rappresentazione proprie. A questo proposito conviene sottolineare che Dean stesso,
soffermandosi in particolare sul ruolo dei media moderni nell’hero-making process, afferma che
questi:

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have stretched hero to lengths undreamed of by sane Cervantes or mad Don Quixote. […]: the brave
       person, the risk-taker, the dignitary, the champion, the winner, the victor, the defeater, the
       example, the celebrity, the big name (Dean, 2008: 76-77).

Vi è dunque una grande varietà di definizioni, dovute al fatto che il contesto in cui nasce una
qualsiasi forma di eroismo è innanzitutto il risultato di una costruzione sociale, poiché “people
build their heroes” (Dean, 2008: 77).
Anche Thomas Carlyle afferma in On heroes and hero-worship che il significato conferito al
concetto di eroe è essenzialmente sociale e che “a hero can be poet, prophet, king, priest or what
you will, according to the kind of world he finds himself born into” (Carlyle, 1908: 321). Ugualmente
Wright, quasi 100 anni dopo, ribadisce questo concetto, sostenendo che la figura dell’eroe è parte
integrante della cultura di una società, cioè delle credenze, dei valori e degli obbiettivi di una
collettività (Wright, 2005: 146).
A proposito di queste qualità sociali dell’eroe, Susan Drucker, curatrice della raccolta Heroes in a
global world, dice che ogni società ha bisogno di eroi, poiché si modella intorno a essi. (Drucker,
1994: 84) e, come Dean, che quello che viene considerato eroico in una società dipende da priorità
e valori culturali strettamente contestuali (Drucker, 1994: 82).
Di conseguenza l’interpretazione e la rappresentazione dei concetti eroe e eroismo assumono
caratteristiche diverse a seconda del tempo e della società in cui vengono adoperate. Ogni
comunità e ogni epoca (ri)conosce i propri eroi. Ciò porta Lance Strate ad affermare che “cultures
are hero-systems” e che “heroes are a universal component of human culture (Strate, 2008: 19).
Inoltre egli sostiene che le modalità in cui gli eroi si manifestano riflette in essenza “our ideal selves,
the selves that inspire us, the selves that we aspire to, the selves that we desire (Strate, 2008: 19-
20)

Il suo carattere indubbiamente sociale implica, come sostengono Hoebeke, Deprez e
Raeymaeckers, che l’eroe può semplicemente essere inteso come “portatore di valori sociali”
(Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 89). Citando Orrin Klapp i tre studiosi affermano che gli
eroi suggeriscono atteggiamenti e comportamenti appropriati” (Klapp, 1948: 135) e si rivelano

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esempi “perfetti di valori sociali come virtù, sacrificio, coraggio, disciplina e perseveranza”
(Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 89). Di conseguenza costituiscono esempi morali che
possono e devono essere seguiti sia dall’individuo che dalla comunità.

Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers mettono inoltre in risalto che l’identificazione, in una data
società, di un eroe è il risultato di una certa strategia di comunicazione e che the “real persons only
provide us with the rough material for heroism”. È soltanto durante i processi di narrativizzazione
che la figura dell’eroe può emergere (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 88), in letteratura,
ma anche, in epoca moderna, in altre forme di comunicazione, come il giornalismo, che svolge un
ruolo preponderante nella creazione, diffusione e popolarizzazione dell’eroe. Dean sottolinea a
questo proposito che “there must be a story” per consentire la costruzione sociale dell’eroe (Dean,
2008: 87), come già Joseph Campbell, nel suo pioneristico The hero with a thousand faces (1949).
Come afferma Ong “the dominant medium of the communication of culture affects the notion
hero (Ong, 1967: 204), se ne deduce che anche i mass media contemporanei influenzano la
definizione del concetto di eroe nella nostra società. Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers sostengono
a tal proposito che i mezzi di comunicazione servono oggi come uno dei principali strumenti per
propagare l’eroismo (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 88). Vande Berg condivide
quest’opinione sottolineando che sono “the primary vehicles through which we learn of the
extraordinary accomplishments, courage, and deeds of cultural heroes and the faults and
ignominious deeds of villains and fools” (Vande Berg, 1998: 152). Tuttavia altri studiosi, come ad
esempio Susan Drucker e Gary Gumpert, si mostrano più cauti a proposito dei mass media e della
loro elaborazione del concetto di eroe, per esempio Drucker sostiene che, a causa degli attuali
processi di comunicazione, il confine tra eroe da una parte e celebrità dall’altra parte continua a
confondersi.

Secondo Drucker l’eroe tradizionale richiede distanza e prospettiva (Drucker & Gumpert, 2008: 4),
ma siccome queste due concetti non appartengono al sistema di comunicazione contemporanea,
le celebrità di oggi dovrebbero essere intese come ersatz heroes, ossia eroi degradati, di serie B.
(Drucker & Gumpert, 2008: 2-4). Negli studi dedicati all’eroismo il mescolarsi tra eroe e celebrità

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è definito Boorstin’s dilemma. Daniel Boorstin è stato infatti il primo ad affermare che i mass media
hanno sostituito i veri eroi con “human pseudo-heroes”, ossia le celebrità (Strate, 2008: 24). Lo
storico americano definisce la celebrità “a person known for his well-knowness” e ritiene che:

       The hero was distinguished by his achievement, the celebrity by his image or trademark. The hero
       created himself; the celebrity is created by the media. The hero was a big man, the celebrity is a big
       name (Boorstin, 1967: 61).

Conviene segnalare che tale dibattito sull’opposizione eroe/celebrità ci interessa particolarmente
poiché la figura dell’eroe sportivo, in quanto celebrità, vi è coinvolta. In effetti, Hoebeke, Deprez e
Raeymaeckers si interrogano sull’impatto sempre crescente del professionismo degli atleti e dei
media sul concetto di eroe.

Infatti, diventando lo sport sempre più “business and entertainment” i mass media, inclini a
focalizzarsi ormai sugli stipendi sproporzionati, sulla commerciabilità e sulla vita privata degli atleti,
facilitano e promuovono il cosiddetto “celebrification process”. La Drucker stessa afferma che:

       On the surface professional sports seem to offer a natural source for heroes, but on closer
       examination they offer celebrated sports figures shaped, fashioned, and marketed as heroic
       (Drucker, 1994: 90-93).

La nozione di “modern sports heroe” è dunque un termine errato che indica in realtà una celebrità
sportiva (Drucker, 1994: 93). Secondo Drucker, i mass media modellano e commercializzano figure
sportive come figure eroiche (Drucker, 1994: 93) e la causa di questa contaminazione dell’eroe, in
passato caratterizzato dalla sua natura quasi inavvicinabile, consisterebbe nell’aumento delle
notizie che riguardano la vita personale degli atleti, vale a dire “the up close and personal view”
sull’individuo (Drucker, 1994: 90). In effetti sono le vicende di doping, di adulterio o di abuso
alcolico e sessuale ampiamente diffuse e commentate dalla stampa che minacciano l’antica
immagine dell’eroe sovrumano e inavvicinabile. Drucker sostiene che a causa di questo close up
emerge la meschina umanità del campione sportivo e ciò sarebbe nefasto per il suo statuto eroico.

                                                    13
Nel saggio The sports hero meets mediated celebrityhood, anche Van De Berg esamina la
biforcazione eroe/celebrità nel campo sportivo. Tuttavia l’autrice si mostra più moderata nel
dibattito sostenendo che, a causa dei mezzi di comunicazione, è inevitabile che gli eroi di oggi siano
allo stesso tempo delle celebrità (Vande Berg, 1998: 139). Perciò la presunta degradazione
dell’eroe sportivo verso gli abissi della celebrità, potrebbe essere definita una semplice
conseguenza dell’evoluzione tecnologica.
In altra direzione si orienta invece la riflessione di Daniele Marchesini, il quale ritiene che il
processo di globalizzazione e la cultura di massa modifichino il modo in cui si percepisce, si crea e
si diffonde l’immagine dell’eroe sportivo. Trattando in particolare il caso del ciclismo, lo storico
italiano afferma che gli sport “meno in sintonia” con i tempi nuovi, come ad esempio le gare su
due ruote, falliscono nel fornire delle figure nelle quali il pubblico, vale a dire gli appassionati,
possono identificarsi. Inoltre sostiene che gli spettatori sono sempre meno disposti a sognare
dinnanzi alle imprese di atleti straordinari e a riconoscersi in loro. Al contrario essi preferiscono
riconoscere la figura dell’eroe contemporaneo nei personaggi “normali” (i volontari, i pompieri…)
e meglio ancora costruire l’immagine di se stessi come eroi. Di conseguenza i campioni sportivi
professionisti non costituiscono che i supporti della nostra definizione di un modello eroico.
Questo comportamento rappresenta secondo Marchesini “l’estensione dello sport fuori dello
sport”, ovvero l’uso non sportivo dello sport (Marchesini 2009: 263). Va segnalato che lo storico
italiano sta comparando l’influenza e la popolarità del ciclismo (italiano) contemporaneo a quelle
della cosiddetta epoca d’oro in cui la forza epica dello sport ciclistico, raggiunge i suoi picchi più
alti.

                                                 14
1.2 Il campo giornalistico (sportivo) come terreno fertile per l’eroismo

La prima parte di questa tesi ha fatto il punto sugli studi che dimostrano come la figura dell’eroe e
la sua creazione e diffusione in una data società siano il risultato di un processo di comunicazione,
ovvero di narrativizzazione. Di conseguenza, come osservano Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers
anche negli studi sul giornalismo come mezzo tramite il quale si riesce a cogliere e a raccontare la
realtà che ci circonda, i concetti di narrazione e mito (eroico) vengono non di rado impiegati
(Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 87). Ciò implica che ogni giornalista può essere
etichettato come narratore.
In questo modo si potrebbe ipotizzare che, da un punto di vista storico e pragmatico, i giornalisti
di oggi sono gli eredi dei narratori delle antiche tradizioni orali, come dice Hartley secondo il quale
la funzione dei troubadours e degli storytellers si trasferisce, attraverso l’invenzione della stampa,
nei moderni quotidiani di vasta distribuzione (Hartley, 1983: 102-106). Sulla stessa linea Schudson,
che sostiene che i giornalisti contemporanei si comportano come moderni cantastorie destinati
alla costruzione attiva della realtà, siccome “we turn nature to culture as we talk and write and
narrate it” (Schudson, 1995: 52). Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers evidenziano che durante
questo processo i giornalisti tendono spesso ad adoperare espressioni formulari appartenenti in
precedenza ai racconti mitologici (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers: 87). Il rapporto
intrinsecamente stretto tra “Myth and News” viene anche ribadito da Berkowitz, la quale sostiene
che “news and myth are so closely intertwined because they both narrate resonant dramas which
the storytellers know how to tell and audiences know how to decode” (Berkowitz, 2010: 645).

Analizzando nello specifico l’influenza del campo giornalistico sportivo sull’emergenza e sulla
diffusione di eroi sportivi, va sottolineato, come fa Whannel, che in essenza ogni evento sportivo
può essere narrativizzato a causa delle sue qualità intrinseche (Whannel, 2002: 54). È questa forza
narrativa che sollecita l’interpretazione e la rappresentazione della vita, della carriera e delle
imprese di un atleta di successo in chiave epica.
Per quanto riguarda il ciclismo va ricordato che sin dall’inizio del XIX secolo, epoca in cui le prime
vere corse ciclistiche prendono forma, la stampa riporta tali eventi. Queste cronache, a causa della

                                                  15
popolarità del nuovo sport e anche a causa dei grandi duelli che vi si ingaggiano (pensiamo
innanzitutto a quello tra Luigi Ganna, primo vincitore della Corsa Rosa nel 1909 e il francese Lucien
Petit-Breton), servono a creare un’epopea in cui i ciclisti sono percepiti veri eroi. Va sottolineato
che per le giovani generazioni di quell’epoca le imprese di questi atleti, impegnati a gareggiare non
soltanto tra di loro ma anche con la Natura (strade ripide e sterrate spesso in combinazione con
condizioni meteorologiche avverse), sono spesso una tematica più affascinante, attuale e
identificabile di quella fornita dall’epica letteraria. A questo proposito Curzio Malaparte, scrittore
e giornalista italiano del novecentesco, ricorda significativamente: “Quando ero un ragazzo, gli
exploit di Gerbi, di Petit-Breton, di Ganna non mi lasciavano dormire. La prima epopea della
bicicletta fu la mia Iliade” (Malaparte, 1967: 186).

Anche Orio Vergani, ritenuto il maestro del giornalismo sportivo italiano, ricorda che:

       Per i nostri padri, o per i fratelli maggiori […] lo sport era una cosa da matti […] il caro popolo romano
       che passava le giornate aspettando la “quarta” dei giornali per leggere le ultime della crisi
       ministeriale, aveva preso l’uso di chiamare i podisti col nome odoroso di puzzapiedi (Vergani, 1929:
       XII).

Vergani afferma che per la generazione nata nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il ciclismo (e la
cronaca che lo riguarda) consente sin dal suo inizio di accostare alle vicende e alle azioni compiute
dagli eroi nelle opere di Jules Verne o Emilio Salgari quelle di protagonisti reali, di autentici
campioni, ossia degli eroi dello sport. Ritroviamo quest’osservazione sulla sostituzione dell’eroe di
origine letteraria con quello sportivo (intorno al primo decennio del XX secolo) anche nel libro
Sapere di Sport di Stefano Jacomuzzi, il quale afferma che:

       Il bisogno del mito, della costruzione, degli eroi, che la letteratura di fine secolo ha deluso o
       sconvolto, proprio con la morte dell’eroe, [viene] invece accolto e accontentato dalla mitologia
       sportiva, che sforna nuovi tipi di eroi e all’uomo inetto, all’uomo senza qualità oppone un tipo
       schietto e patetico di eroe, semplice e bello (Jacomuzzi, 1983: 156).

                                                      16
Infine, esaminando l’ideazione e la diffusione socio-politica del mito di Bartali, che poco dopo la
Seconda guerra mondiale coinvolge tutto il Belpaese, Stefano Pivato ritiene ugualmente che a
partire dall’inizio del XX secolo le figure dei campioni sportivi e nello specifico i ciclisti cominciano
a sostituire il logoro mito letterario dell’eroe (Pivato, 2018: 9).

Concludendo questo capitolo sul ruolo svolto dal giornalismo sportivo nella creazione degli eroi
ciclisti, va sottolineato, come sostiene Vigarello, che sin dalle primissime corse uno dei compiti
principali della cronaca consiste nel magnificare le sfide agonistiche (Vigarello, 1996: 271). In
questo modo l’entusiasmo diviene subito il tono normale degli articoli-resoconti, che cercano non
soltanto di informare i lettori, ma anche di persuaderli e di imporgli un punto di vista sugli eventi
(Vigarello, 1996: 271). Di conseguenza si potrebbero concepire il ciclismo e le sue gare a tappe,
pensiamo innanzitutto al Tour e al Giro d’Italia, come una competizione nella quale vicende eroiche
e prodezza epica vengono sollecitate, inventate e diffuse dalla stampa allo scopo di comunicare e
vendere storie semplici (Dauncey & Hare, 2003: 19). Conviene segnalare che le due corse appena
menzionate, che costituiscono forse le gare ciclistiche più emblematiche, vengono originariamente
organizzate e finanziate da periodici, rispettivamente L’auto per La Grande Boucle e La Tripletta e
Ciclista (successivamente fuse nella Gazzetta dello Sport) per quanto riguarda la Corsa Rosa. Sin
dai primi anni il legame, ossia l’interazione tra il ciclismo professionistico e il campo giornalistico è
molto stretto. Ciò può spiegare l’enorme influenza esercitata dalla cronaca sulla popolarità dello
sport su due ruote e quindi anche sulla preservazione dei suoi eroi. Dauncey osserva a proposito
del Tour de France:

       Sporting popularity is a phenomenon determined by a variety of factors, but more than in other
       sports, mediatization is the key to the creation of the Tour’s heroes, especially as cycling events are
       such a fleeting experience for the roadside spectator. In the early days coverage by the written
       press was what created heroes in the eyes of fans (Dauncey, 2003: 176).

Il giornalismo ciclistico, in sintesi, fornisce un terreno fertile per la creazione e la celebrazione
dell’immagine dell’eroe e citando le parole di Holt, Mangan e Lanfranchi nel libro European heroes:

                                                     17
myth, identity, sport, si può affermare che il ciclismo e i suoi aspri duelli sono arrivati a definire il
concetto stesso dell’eroe nella cultura europea. (Holt, Mangan & Lanfranchi, 1996: 6).

1.3 Il carattere epico del ciclismo

Dopo aver cercato in primo luogo di illustrare la nozione di eroe e dopo aver analizzato il legame
tra il concetto in questione e il campo giornalistico sportivo, conviene focalizzarsi in questo capitolo
sulle caratteristiche intrinseche del ciclismo che ne sollecitano una lettura in chiave epica.

In generale, Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers ritengono che lo sport e la sua scrittura si prestino
particolarmente bene all’ “hero narrative”, poiché “the life and career of athletes evoke heroic
stories comparable to archetypal hero myths” (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 93). A tal
proposito è necessario introdurre il concetto di “mito archetipo dell’eroe”, definito da Joseph
Campbell il quale, pur riconoscendo l’ampia varietà di forme e definizioni attribuite all’eroe,
distingue il cosiddetto mono-mito, ossia un pattern narrativo standard che ricorre nelle “hero’s
stories”:

       A standard path […] which is a magnification of the formula represented in the rite of passage:
       separation-initiation-return: which might be named the nuclear unit of the monomyth. A hero
       ventures forth from the world of common day into a region of supernatural wonder: fabulous forces
       are there encountered and a decisive victory is won. (Campbell, 1949: 30).

Applicando il concetto del monomito al mondo sportivo, Drucker sottolinea che “the marriage of
organized professional sports and the conception of hero is natural as the traditional requisite
ingredients for hero creation appear to be present (Drucker, 1994: 84). L’interazione tra eroe e
atleta si rivela essere solida, poiché anche l’ultimo fa in un certo modo un viaggio archetipico che
passa “from the sandlots, to the little leagues, school sports, amateur leagues, professional
competition and finally retirement.” (Drucker, 1994: 84-85).

                                                   18
Parlando dell’itinerario standard dell’eroe, un’altra nozione che spesso ritorna è quella delle umili
origini. Come osserva Marchesini è significativo che i grandi ciclisti provengono molte volte da
piccoli paesi o da sperdute frazioni con nomi che “fanno impazzire i portalettere”. In effetti essi
sembrano uscire in massima parte da un “piccolo mondo antico” (Marchesini, 2009: 213).
Ritroviamo una concezione analoga nel saggio Bicicletta: il mito e la poesia di Susanna Barsella, la
quale spiega la connotazione di sport umile, che il ciclismo ha avuto e continua a mantenere
(Barsella, 1999: 70). Analizzando il motivo per cui la prospettiva eroica ben si sposa con il ciclismo,
afferma che ancora oggi “si mantiene la pregiudiziale che non si diventa veri campioni, vale a dire
eroi sportivi, senza un’abitudine storica alla fatica, alla sofferenza e alla privazione” (Barsella, 1999:
71).
Va sottolineato che i più grandi ciclisti provengono in maggior parte da professioni del lavoro
manuale: Ganna era muratore, Binda stuccatore e Bartali e Coppi in primo luogo contadini e poi
garzoni. Gianni Brera, uno dei più famosi giornalisti sportivi italiani, definisce la storia del ciclismo
come un “epos dei poveri” (Brera in Vergani, 1987: 109) e dedica a questo epos una sorta di epillio
in endecasillabi “la bicicletta come anti-cavallo da Leonardo a Bartali e Coppi” (vale a dire Leonardo
Da Vinci, il presunto inventore della bici) (Barsella, 1999: 93). La denominazione di “anti-cavallo”,
che funge anche da titolo di un libro in cui Brera racconta il suo itinerario compiuto nel mondo
ciclistico, oppone in modo unico la bicicletta al cavallo, considerato il trasporto per eccellenza e il
simbolo dell’aristocrazia (Barsella, 1999: 91).

Il carattere popolare e umile del ciclismo ritorna anche negli epiteti con i quali ci si riferisce agli
atleti: come i lavoratori delle due ruote (Marchesini, 2009: 213) o les forçats de la route “i forzati
della strada” (Dauncey & Hare, 2003: 6).
L’origine popolare dei ciclisti facilita l’immedesimazione da parte del grande pubblico e, come
sottolinea Barsella, questo senso di vicinanza, vale a dire di un’esperienza condivisa e soprattutto
condivisibile, fa dell’eroe su due ruote la proiezione di desideri e aspettative di milioni di persone
(Barsella, 1999: 71). Per questo motivo Barthes considera il ciclismo il miglior esempio di mito
totale poiché “it is at once a myth of expression and a myth of projection, realistic and utopian at
the same time” (Barthes, 1979: 87).

                                                   19
L’ampia portata sociale potrebbe quindi spiegare perché sin dall’inizio la politica salti sul carro dei
vincitori-ciclisti. John Foot parla ad esempio di cosa Ivanoe Bonomi, deputato socialista, scrive nel
quotidiano Avanti! del 29 settembre 1910: “Galetti, Ganna, Gebri, Verri, ecco i nomi che corrono
su quelle bocche accese e sorridenti. Gli eroi del pedale sono popolari come lo erano gli eroi del
circo nella antica Grecia” (Foot, 2011: 28-29;363).
Il senso di vicinanza e familiarità che il pubblico prova nei confronti dei corridori è sicuramente
motivato dalle circostanze in cui una gara ciclistica si svolge. Come osserva Julian Barnes:

       In other sports, fans go to a stadium, where there are entrance fees, tacky souvenirs, overpriced
       food and a professional exploitation of the fans’ emotions. In cycling, the heroes come to you, to
       your village, your town, or arrange a rendez-vous on the slopes of some spectacular mountain
       (Barnes, 2002: 91-92).

Questo rendez-vous gratuito con gli idoli su due ruote viene anche sottolineato da Foot come uno
dei principali fattori per l’immensa popolarità e di conseguenza della creazione, diffusione e
conservazione dell’epopea ciclistica. Foot osserva giustamente che il giro arriva vicino alla gente,
nelle loro strade o nei loro campi e offre alla gente la possibilità di guardare i propri eroi soltanto
mettendo un piede fuori dalla loro porta di casa (Foot, 2011: 338).
La familiarità tra i corridori e il pubblico si rispecchia indubbiamente nell’onomastica che gli ultimi
(sia la folla entusiasta che la cronaca professionista) utilizzano per fare riferimento ai ciclisti e alle
loro imprese. Nel saggio Le Tour de France comme épopée, Barthes applica l’analisi letteraria
semiologica all’organizzazione della Grande Boucle e si focalizza nello specifico sulla
rappresentazione (mediatica) della gara. Uno dei suoi punti di partenza è l’affermazione che “there
is an onomastics of the Tour de France, which in itself tells us that these races are a great epic
(Barthes, 1979: 79).
Analizzando il saggio di Barthes, Dauncey e Geoff osservano che è soprattutto il modo in cui i
corridori vengono rappresentati che consente di creare un sistema di associazioni mentali e
riferimenti che riecheggiano quello dell’epica letteraria (Dauncey & Geoff, 2003: 18). Sono

                                                   20
soprattutto le immagini caratterizzate da stereotipi regionali e i nomi, sia diminutivi che
soprannomi, attribuiti ai ciclisti che vanno presi in considerazione.
Come sottolinea Barsella, quest’insieme di relazioni cognitive crea una mappa semantica delle
qualità degli uomini e luoghi che non richiede ulteriori descrizioni (Barsella, 1999: 73). Il gergo
ciclistico caratterizzato dalle nozioni di lotta, dolore e passione, prende di conseguenza la forma di
ciò che nella terminologia barthesiana viene denominata mitologia, ossia un tipo di discorso che
esprime il complesso dei valori che nell’immaginario collettivo sono associati a una data realtà, in
questo caso particolare alla bicicletta (Barsella, 1999: 73). Ritroviamo un’osservazione analoga in
Migliorini che analizza la trasformazione dei nomi propri dei ciclisti in nomi comuni:

       Quei nomignoli appartengono a un immaginario fantastico che ha fissato nella memoria degli
       italiani azioni, stili, vittorie, fughe, imprese solitarie e che, secondo i linguisti testimonia una
       modalità affettiva attraverso la quale il tifoso dimostra la sua venerazione per il campione
       (Migliorini, 1927: 22).

Questo affetto di fronte ai corridori si esprime, secondo Barthes, nello specifico attraverso la
diminuzione del nome che consente ai ciclisti di entrare “into the epic order” (Barthes, 1979: 79).
Non è necessario utilizzare l’appellativo completo per riferirsi all’atleta in questione, basta servirsi
soltanto del soprannome, del cognome e in alcuni casi persino del semplice nome. I nomignoli
rappresentano sia un valore soprannaturale che un’intimità nettamente umana (Barthes, 1979:
80). A tal proposito Barthes dichiara:

       In the cyclist’s diminutive there is that mixture of servility, admiration, and prerogative which posits
       the people as a voyeur of its gods. […] Diminished, the Name becomes truly public; it permits placing
       the racer’s intimacy on the heroes’ proscenium (Barthes, 1979: 80).

Alla fine del suo saggio Barthes fornisce un lexique des coureurs nel quale cerca di raggruppare
intorno al cognome di alcuni grandi ciclisti tutte le associazioni mentali e emotive che vi sono
correlate. Un nome, che ritornerà di sicuro in questa tesi, salta particolarmente all’occhio, vale a

                                                     21
dire quello di Coppi, significativamente definito “héro parfait, sur le vélo, il a toutes les vertus, un
fantôme redoutable” (Barthes, 1957: 120).

Un altro aspetto eroico su cui Barthes si focalizza è anche il paesaggio che deve essere dominato
dai corridori durante le gare ciclistiche. Egli afferma che la geografia è interamente sottomessa alla
necessità epica dell’evento (Barthes, 1979: 81). Per questo motivo non sono soltanto le sfide tra i
corridori che meritano di essere chiamate eroiche, ma anche la lotta tra i ciclisti e un altro nemico
comune, ossia la natura. Barthes ritiene che “the stake of the combat is not to know who will
defeat the other, who will destroy the other, but who will best subjugate that third common
enemy” (Barthes, 2007: 41). Il calvario più severo che la natura può imporre ai corridori è la
montagna. Di conseguenza le tappe che arrivano in salita sono quelle più importanti. Secondo
Barthes, il duro terreno e il percorso, due grandi avversari da superare, vengono personificati
perché “it is against them that man measures himself, and as in every epic it is important that the
struggle should match equal measures” (Barthes, 1979: 81).

Come nelle fiabe o nelle tradizionali storie di eroi, le montagne si presentano ai corridori come
mostri, draghi o dei del male che devono essere sconfitti. Di conseguenza è necessario che il
corridore riesca a “possedere l’intero universo fisico” (Barthes, 2007: 41). È forse per questo
motivo che le tappe in salita sono così importanti, siccome non solo determinano il vincitore, ma
manifestano allo stesso tempo apertamente la natura della sfida, ovvero il significato della
battaglia con gli elementi e le virtù dei combattenti (Barthes, 2007: 42). È significativo che Barthes
qualifichi il paesaggio che i corridori attraversano, come una geografia omerica, poiché:

       As in the Odyssey, the race is here both a periplus of ordeals and a total exploration of the earth’s
       limits. Ulysses reached the ends of the earth several times. The Tour [and other cycling events] too,
       frequently graze an inhuman world. […] We are told, the racers have already left the planet Earth,
       encountering here unknown stars (Barthes, 1979: 82).

                                                    22
Secondo Barthes i muscoli, considerati “raw human material” non creano l’epopea del ciclismo.
Ciò che importa e vince è, come nel caso di Ulisse, una certa idea dell’uomo e del mondo e forse
ancora meglio dell’uomo nel mondo. È la convinzione che l’essere umano, in questo caso il
corridore, venga completamente definito dalle sue proprie azioni che non sono necessariamente
concentrate sulla dominazione degli altri, ma piuttosto sul controllo delle cose, ossia della Natura
(Barthes, 2007: 43).

Il dominio, sia letteralmente che figurativamente, del paesaggio e particolarmente delle montagne
nella rappresentazione eroica della gara ciclistica e dei suoi attori, viene ribadito anche da Foot.
Egli afferma che non sono soltanto i corridori a conquistare le vette, ma che esse tendono a
impadronirsi a loro volta dei ciclisti perché non di rado le caratteristiche geografiche e le condizioni
atmosferiche sono troppo avverse per permettere la continuazione della corsa (Foot,2011: 346).
Come osserva Marchesini, inoltre, è anche la solitudine degli atleti, nel mezzo di questa natura
travolgente, che consente di trasfigurare in senso epico certe tappe. Marchesini ritiene ad esempio
che certe imprese non sarebbero ugualmente “memorabili, benché atleticamente rilevanti, se
realizzate attraverso centri abitati e lungo itinerari pianeggianti” (Marchesini, 2009: 212). Per di
più l’ardua condizione delle strade sassose, ruvide e polverose nel Belpaese dopo la Seconda
guerra mondiale contribuiscono al carattere epico delle gare. Ciò che serve è un paesaggio ostile,
ossia non addomesticato, che spetta ai ciclisti sottomettere con le loro virtù e le loro forze.

È evidente che il nucleo centrale dell’evento e della competizione è costituito dalla nozione di
sacrificio. Per poter ottenere il successo personale i corridori devono sacrificare se stessi fino
all’ultima goccia di sudore. Tuttavia il ciclista fa parte di una squadra e a volte deve mettersi
completamente al servizio del successo comune. Per questo motivo il ciclismo agonistico conosce
un’etica duplice: si può distinguere sia una morale individuale che una morale collettiva. Come
afferma Barthes, è chiaro che “certain knightly imperatives constantly mingle with the brutal
demands of the pure spirit of success” (Barthes, 1979: 85). L’atto di sacrificare se stessi
nell’interesse comune viene di solito lodato, testimoniando l’essenza di un comportamento nobile
che attesta “la piena dimensione morale” nell’esercizio di uno sport di squadra. Tuttavia questo

                                                  23
gesto contraddice allo stesso tempo un altro valore della leggenda ciclistica, ossia la lotta “of the
individual, of solitary combat for life” (Barthes, 1979: 85) dove “there is no place for sentiment”.
È questa lotta individuale e solitaria che rende epiche le gare ciclistiche. Distinguendo la form, ossia
la forma fisica e jump, cioè l’impulso Barthes afferma che:

       Jump is an electric influx which erratically possesses certain racers beloved of the gods and then
       causes them to accomplish superhuman feats, it implies a supernatural order in which man
       succeeds insofar as a god assists him (Barthes, 1979: 83).

Sono questi corridori prediletti in modo irregolare “dagli dei”, che più colpiscono l’immaginazione
del pubblico. Tuttavia, già nel 1957, anno in cui scrive il saggio analizzato, Barthes si registrano i
primi scandali di doping. Siccome negli anni successivi le vicende di doping invadono il mondo del
ciclismo, Martin Hardie sostiene che l’onomastica di natura eroica o mitica dell’epoca di Barthes
decada dalle altezze e dallo statuto degli dei greci all’onomastica della criminalità (Hardie, 2009:
1). Ritroviamo un’osservazione analoga nel saggio di Weiting, che significativamente porta il titolo
The twilight of the hero. Weiting esamina le conseguenze della crisi di fiducia causata dalle storie
di doping nel ciclismo (Weiting, 2000: 348-363). In effetti, qui entra in gioco il dibattito, accennato
nel primo capitolo di questa tesi, sulla natura dell’eroe sportivo moderno. Come sostiene Drucker,
si può discutere se gli atleti (di oggi) vadano considerati eroi sportivi o se siano soltanto degli
pseudo-eroi (Drucker, 1992: 93). Anche Marchesini osserva che il ciclismo, a causa delle vicende
legate al doping, si trova di fronte alla minaccia di un indebolimento della sua forza di attrazione.
(Marchesini, 2009: 260) e l’epoca d’oro, che va dal 1946 alla fine del decennio successivo e nella
quale il mito dei Giganti della Strada trionfa, sembra finita. Tuttavia il glorioso passato degli eroi
su due ruote e i libri dedicati alle loro imprese continuano ad attrare (questa tesi ne è
indiscutibilmente la prova). Le principali caratteristiche di questi Racconti di Bicicletta saranno
esaminate nel prossimo capitolo.

                                                   24
2. Seconda tappa: i Racconti di Bicicletta
2.1 Metodologia e contesto storico

Per gli spettatori lungo le strade la gara ciclistica comporta intrinsecamente un paradosso. Come
osserva Marchesini, contrariamente a quasi tutti gli altri sport, il ciclismo non conosce un’unità di
luogo, né di tempo. Manca, di conseguenza, una visione “completa” della corsa. (Marchesini, 2009:
249-250). Ancora di più se si tratta di una gara a tappe, come la Corsa Rosa. Soprattutto nell’era
pre-televisiva le grandi sfide tra i corridori, così come la corsa nel suo insieme, non si possono
vedere nella loro totalità, anche se il pubblico si riversa in gran numero sulle strade. Persino per
chi segue la gara dalle ammiraglie, cioè i giornalisti e i letterati inviati dai quotidiani i cui resoconti
analizzeremo più approfonditamente qui di seguito, non è possibile controllare ogni momento:

       Sono lì per vedere, per scrivere quello che vedono, per raccontare quello che hanno scritto. Girano
       attorno al gruppo, lo aspettano nei punti cruciali, si infilano dietro alle fughe, in questo modo
       raccolgono nei loro quadernetti frammenti di corsa, comprenderla tutta con uno sguardo è
       impossibile. Si scambiano poi i frammenti in baratti e commerci ed entro sera rimettono insieme
       un mosaico che pare completo (Gorrino, 2005: 43).

L’impossibilità di una visione completa e l’atteggiamento di immobilità provato da parte degli
spettatori (sia i giornalisti-letterati che i tifosi-lettori) insieme alla velocità con cui i corridori
passano davanti ad essi, sono ben espressi dalla metafora adoperata da Brambilla, che compara la
carovana colorata dei ciclisti alla coda di “un drago cinese che vedi ma è già sparita e anche se vuoi
afferrarla non riesci mai a farlo nemmeno dopo lunghi esercizi” (Brambilla, 2007: 10). Tuttavia, egli
afferma, fortunatamente ci sono gli scrittori e i giornalisti i quali, benché ugualmente condannati
a una visione limitata, aiutano gli appassionati a sentire, vedere e dare completezza agli eventi.
L’importanza della parola in questo senso viene sottolineata anche da Barthes che afferma:

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Language’s role is enormous here, it is language which gives the event – ineffable because
       ceaselessly dissolved into duration – the epic promotion which allows it to be solidified (Barthes,
       1979: 85).

In effetti, attraverso la mediazione della scrittura si riesce (in parte) a sciogliere il paradosso tra
l’immobilità del pubblico e la velocità dei corridori. Marchesini sostiene che l’esperienza della
gente che si raccoglie sulle strade mira in primo luogo a verificarne l’esistenza e le prestazioni dei
ciclisti, che “conoscono” attraverso il racconto dei commentatori. L’immagine che gli spettatori
hanno dei ciclisti si è formata con i resoconti dei giornalisti e dei letterati, più che con la diretta e
fuggevole esperienza empirica (Marchesini, 2009: 250).

L’iterazione e la necessità reciproca tra le gare e la scrittura quindi, come osserva Piccione,
determina un altro paradosso che vuole il ciclismo un evento quasi “più narrato che vissuto”
(Piccione, 2017: 11). Nello specifico l’abitudine di inviare, nell’epoca pre-televisiva, dei veri e propri
scrittori, ossia dei professionisti disposti a “prestare le proprie virtù letterarie alla descrizione della
gesta del Giro”, non ha equivalenti in altri sport (Marchesini, 2009: 249).

Va notato che è proprio attraverso la scrittura che il ciclismo si salda al Mito (Brambilla, 2007: 40)
perché lì gli eroi su due ruote prendono sia figurativamente che letteralmente forma. In effetti,
come afferma Brambilla, sono gli scrittori e i giornalisti che seguono la corsa ad avere “la bacchetta
magica” o meglio la penna per descrivere le curiosità e le piccole avventure ma soprattutto per
raccontare e lodare le imprese eroiche dei campioni e dei modesti gregari (Brambilla, 2007: 17).
Particolarmente in un’epoca senza trasmissione televisiva, gli scritti sulla Corsa Rosa che appaiano
quotidianamente nel giornale, riescono ad eccitare l’immaginario collettivo consolidando in
questo modo anche l’epopea ciclistica. Come osserva Dimitrijevic, la TV dissolverà l’intensità del
racconto orale-scritto cancellando la fantasia e la possibilità di ri-creazione da parte del pubblico e
generando una pseudo-partecipazione a causa della simultaneità assoluta tra esecuzione e
ricezione degli eventi (Dimitrijevic, 2000: 91). Ciò toglie di conseguenza la necessità e la possibilità
immaginativa da parte degli scrittori e del loro pubblico.

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L’assenza di uno sguardo complessivo, come si è detto, determina una mancanza di informazioni
che va colmato ragione per cui, secondo Brambilla, quasi da subito i giornali ingaggiano scrittori
famosi - pensiamo ad esempio ad Achille Campanile, Dino Buzzati, Vasco Pratolini - allo scopo di
narrare il Giro d’Italia, saziando in questo modo la curiosità del pubblico (Brambilla, 2007: 40).
A tal proposito è significativo che sia Marchesini che Brambilla si servano della stessa metafora per
fare riferimento al compito degli scrittori che seguono la corsa. Entrambi gli studiosi comparano il
Giro d’Italia a un romanzo i cui singoli capitoli sono costituiti dalle diverse tappe e nel quale dei
narratori (sia i giornalisti che i letterati inviati) cercano di esaminare, decomporre, commentare e
inventare casi interessanti (Marchesini, 2009: 252; Brambilla, 2000: 98). Tuttavia, in una gara a
tappe ci sono anche momenti di noia, di riposo o di tregua agonistica perciò i giornali ricorrono alle
intuizioni e alla creatività dei letterati che riescono a dare colore a ogni fase della gara, magari con
affascinanti divagazioni letterarie di natura paesaggistica, storica, gastronomica o socio-politica
(Brambilla, 2000: 98).

Se questi scritti siano propriamente giornalistici o nettamente letterari è difficile a dirsi. Di sicuro
è una peculiarità della stampa italiana, più che di altri paesi, quella di invitare degli scrittori come
inviati sportivi di giornali e settimanali (Cirillo, 2009: 12). Non è questa la sede per tentare una
definizione di genere dei Racconti di bicicletta va però detto che spesso questi racconti deviano
dallo svolgimento reale della corsa e si distinguono di conseguenza per le loro qualità extra-
sportive. Gli scritti di natura più canonicamente giornalistica provano in primis a fornire al lettore-
tifoso un resoconto puntuale dei dati fattuali e tecnici, pensiamo ad esempio alle classifiche
(Brambila, 2007:17). Mentre, come osserva Foot, gli scrittori inviati alla Corsa Rosa, non limitandosi
a seguire lo sport, contribuiscono alla popolarità del ciclismo perché per loro il Giro d’Italia si rivela
in essenza uno specchio sociologico e culturale, vale a dire un mezzo efficace per capire, vivere,
osservare e spiegare il Belpaese (Foot, 2011: 345). In effetti come nota Luca Clerici i Racconti di
Bicicletta offrono agli scrittori ingaggiati non soltanto la possibilità di misurare la propria vocazione
artistica, ma allo stesso tempo di riscoprire la realtà del paese dopo la guerra e per questa ragione

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