"Antifascismo" borghese e antifascismo proletario

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“Antifascismo” borghese e antifascismo proletario

Introduzione

La campagna elettorale conclusasi il 4 marzo scorso ha visto una forte mobilitazione antifascista
prendere piede in tutta Italia. Le forze neofasciste hanno sfruttato a pieno i riflettori elettorali per
amplificare la propria propaganda reazionaria. Giornali e media borghesi hanno dato man forte a
questa operazione, sdoganando organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound e alimentando i
sentimenti xenofobi e razzisti che questi rappresentano: un clima che ha fatto da cornice alla ten-
tata strage di Macerata, ai fatti di Firenze e alle innumerevoli aggressioni dell’ultimo periodo, a
danno principalmente di compagni e immigrati, da Nord a Sud. Al tentativo di rialzare la testa dei
neofascisti è emerso un aspetto interessante e positivo: la ripresa dell’antifascismo. Nonostante
sia sempre stato terreno di lotta dei compagni nei quartieri, negli ultimi mesi l’antifascismo ha as-
sunto una dimensione di massa, tornando nelle piazze e facendo risentire la propria voce con
determinazione.

Anche in questo caso sono emerse le due linee che storicamente animano l’antifascismo: la “lot-
ta” al fascismo come riassestamento del dominio borghese e la lotta al fascismo come espressio-
ne e parte del proletariato in lotta per la trasformazione sociale. I primi sono rappresentati dai vari
Fiano, Boldrini, ecc. e i secondi nelle tante e tanti compagni che vivono l’antifascismo come parte
integrante della lotta al capitalismo. Riprendendo il tema dell’editoriale - quello del rapporto tra
antidoti e antitesi - possiamo affermare che l’antifascismo borghese odierno rappresenta, in conti-
nuità storica, quello dei Badoglio e De Gasperi i quali, vedendo il regime crollare, puntarono a
superare la sovrastruttura fascista in funzione di quella “democratica”, per salvaguardare le sorti
del capitalismo e della classe al potere. Ma il fascismo non può essere letto come una semplice
parentesi storica, bensì come la sovrastruttura degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più
imperialisti del capitale finanziario i quali, di fronte al Biennio Rosso e alla Rivoluzione d’Ottobre,
hanno risposto con la dittatura aperta e dispiegata in funzione controrivoluzionaria. A partire da
questo punto si comprende anche come, in un contesto in cui la borghesia intende proseguire
nell’attacco alle condizioni di vita e di lavoro della classe proletaria e delle masse popolari, si inse-
risce il rinvigorirsi delle bande fasciste che di recente moltiplicano le loro azioni in tutto il paese.
Ciò non può che essere visto come una carta a disposizione dei padroni per dividere i lavoratori e
intimidire quelle situazioni di movimento che intendono opporsi ai diktat del capitale. Un fenomeno
per altro comune a tutti i paesi europei, a testimonianza di una fase generale in corso in cui la
svolta autoritaria e violenta del capitale è una possibilità che procede di pari passo
all’approfondirsi della crisi e alla perdita di egemonia della borghesia. L’antidoto quindi necessa-
riamente ripiega in funzione della difesa degli interessi del capitalismo e della sua classe dirigen-
te.
All’interno dell’articolo cercheremo di tracciare queste due linee, quella dell’antifascismo borghese
e quella dell’antifascismo proletario. Il nostro vuole essere un contributo che vada a rafforzare la
parola d’ordine “antifascismo è anticapitalismo”, contro il tentativo di recupero che l’antifascismo
borghese cerca di fare di questi movimenti.

Il falso antifascismo dei socialdemocratici e dei revisionisti sul piano storico

In barba alla lotta di classe internazionalista rivoluzionaria che in buona parte caratterizzò la guer-
ra di Resistenza fino al ‘45, sempre più politicanti, media, testi scolastici e saggistica varia veico-
lano l’immagine della Resistenza come una lotta di liberazione nazionale, cancellandone i caratte-
ri anticapitalistici e sminuendone la portata. In particolare, più recentemente, assistiamo anche ad
una colpevolizzazione della lotta partigiana e ad un processo di riabilitazione dei fascisti, spesso
dipinti come “patrioti”: una riscrittura della storia in continuità con quel filo nero che si riallaccia
all’immediato dopoguerra, quando i fascisti vengono amnistiati e migliaia di combattenti partigiani
sono perseguiti dalla legge e condannati a decine di anni di carcere.

Dopo la Liberazione, l’indicazione imperativa dei partiti fu quella della riconsegna delle armi, ma
essa “si scontrò con una diffusa tendenza tra i partigiani a non farlo. (...) Nei giorni
dell’Insurrezione, moltissime armi sono finite nelle mani della popolazione e soprattutto della clas-
se operaia che le ha nascoste”1. In questo contesto - di fortissime ingerenze statunitensi e di ri-
strutturazione del capitalismo italiano spinto poi dal piano Marshall - la mancata epurazione dei
fascisti è evidente e concreta: il 22 giugno 1946 entra in vigore l’amnistia firmata dall’allora segre-
tario del PCI Palmiro Togliatti, ovvero il “Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati co-
muni, politici e militari” accaduti durante gli anni dell’occupazione nazifascista. Togliatti è infatti
Ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi e il provvedimento da lui firmato
comprende il condono della pena per reati condannati a un massimo di cinque anni, ma esso -
già di per sè profondamente criticabile - è destinato ad essere esteso in maniera indiscriminata.
Gli elementi fascisti possono tranquillamente ristabilirsi ai propri posti, dalla magistratura alle que-
sture, grazie ad un colpo di spugna sulla lunga scia di orrendi crimini da loro commessi.
L’amnistia, inoltre, sarà accompagnata da ulteriori provvedimenti che di fatto amplieranno i casi
dei crimini condonabili, permettendo di arrivare nel 1953 all’indulto per tutti i reati politici commes-
si entro il giugno 1948. Nel contempo, migliaia di partigiani vengono stigmatizzati, subisono di-
scriminazioni sui luoghi di lavoro, non vengono assunti, in centinaia vengono condannati e molti
fuggono in esilio in Cecoslovacchia. E’ il caso, tra i tanti, di Francesco Moranino, entrato clande-
stinamente nel 1940 nel Partito Comunista e divenutone poi un dirigente durante la Resistenza
nel biellese, in qualità di comandante del distaccamento “Pisacane” e poi come commissario poli-
tico della XII Divisione Garibaldi “Nedo”. Conosciuto come il Comandante Gemisto, viene indaga-
to dalla magistratura del capoluogo piemontese per l’omicidio - tra il novembre 1944 e il gennaio
1945 - di cinque civili sospettati di spionaggio e delle mogli di due di loro. La Camera dei Deputati
non si fa problemi a concedere l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti e Moranino ripara
in Cecoslovacchia. Un copione destinato a ripetersi anche dopo il suo ritorno, a seguito della sua
elezione tra le fila del Pci: siamo nel 1955 e Moranino ripara nuovamente in Cecoslovacchia.
Condannato all’ergastolo (tradotto in una pena di dieci anni per effetto di un indulto del 1953) non
usufruisce della grazia del 1964 della Presidenza Saragat. 2 Nei luoghi in cui più forte è stata la
lotta di liberazione e decisivo il ruolo dei comunisti, come nel biellese, in Emilia o in Friuli, i parti-
giani sono processati proprio da quei magistrati non epurati. Per eludere le disposizioni del Tratta-
to di Pace (che impediscono che vengano condotti dei processi per atti di guerra commessi dalla
parte degli alleati) e per aggirare i benefici dei vari provvedimenti (indulti e amnistie) relativi ai
reati politici, gli accusatori inventano per i partigiani dei reati comuni: non avrebbero agito per ne-
cessità e nel quadro della lotta di liberazione, ma avrebbero sfruttato il contesto bellico per com-
piere delitti. I gappisti della vicenda di Porzûs, ad esempio, sono accusati di saccheggio e di furto
della cassa del Comando dell’”Osoppo”, cioè la formazione di partigiani “verdi” uccisi alle mal-
ghe3. Allo stesso modo Francesco Moranino è accusato di aver rubato 40 mila lire a coloro che
avrebbe fatto fucilare. In ambedue i processi, la documentazione può dimostrare che queste ac-
cuse erano assolutamente pretestuose4.

Nel complesso la persecuzione contro i partigiani garibaldini da parte della Repubblica nata dalla
Resistenza è parte integrante del riassestamento del dominio borghese dopo la guerra e della
controrivoluzione messa in campo dalla classe dirigente italiana. L’apparato statale di funzionari,
esercito, polizia e magistratura è infatti in perfetta continuità con il Ventennio: molte testate gior-
nalistiche sono finanziate dai padroni di prima, tornati in possesso delle loro fabbriche, da essi
messe a disposizione dei nazisti durante l’occupazione, ma salvate dagli operai. Per farsi un’idea,
“calcolatrice alla mano, si scopre che le condanne emesse contro i militanti comunisti nel biennio
aperto con l’attentato a Togliatti supereranno quelle riconducibili ai sedici anni di perniciosa attivi-
tà del Tribunale speciale fascista. Si tratta di qualcosa come 15.249 imputati di sinistra soltanto
tra il 1948 e il 1950”5.

La riabilitazione dei fascisti. Riscrivere la storia per dominare il presente

Arrivando ai giorni nostri - reduci da un processo di revisionismo storico durato decenni e con un
grande disarmo ideologico della classe proletaria - sono sempre di più le pubblicazioni e le dichia-
razioni che sminuiscono - o frequentemente infangano - la Resistenza partigiana antifascista. Una
riscrittura che passa, come scritto sopra, per la condanna dell’operato dei partigiani e per la riabili-
tazione dei fascisti che, in quanto italiani, altro non sarebbero stati che “brava gente”, in barba al
collaborazionismo con gli occupanti nazisti e alla lunga scia color sangue lasciata anche in Jugo-
slavia, Libia, Somalia ed Etiopia. In particolare, questo processo si è massificato - dalle tv alle
scuole - dall’entrata in vigore della legge sul cosiddetto Giorno del Ricordo (il 10 febbraio). Questa
giornata rappresenta la punta dell’iceberg di una costante riscrittura della storia, in cui ogni anno i
numeri dei cosiddetti infoibati aumentano. Questo processo ha inizio dall’immediato dopoguerra
quando, per conteggiare gli scomparsi di un determinato territorio, se ne attribuisce la morte agli
effetti di non meglio precisati rastrellamenti attuati dai partigiani. Nel biennio 1949-1950 al Ministe-
ro dell’Interno - guidato da Mario Scelba - giungono rapporti, informative e denunce di presunti
eccidi, mentre la cronaca si anima di assurde storie ai danni della Resistenza, arrivando a far
passare resti umani rinvenuti nel 1962 (di circa 1000 anni prima) per spoglie di civili uccisi dai
partigiani e gettati in una fossa comune (come documenta il libro “I Trentaquattro scheletri del
poggio”). In questo scenario, uno dei più assurdi falsi storici in tema di “violenze partigiane” è
quello incentrato sul Bus de la Lum, cavità carsica sull’altipiano del Cansiglio, tra Alto Veneto e
Friuli. Su questo, si consiglia il lavoro del 2016 a firma del gruppo di inchiesta Nicoletta Bourbaki e
di Lorenzo Filipaz che ne hanno ricostruito la vicenda in due puntate. “Nel 1949 una spedizione
speleologica recuperò dal Bus 28 “resti”, stando a quanto comunicò il Ministero della Difesa al
Comune di Tambre (BL) il 28 luglio 1988. Il che non significava 28 corpi, anzi, come spiegò l’ex
partigiano e scrittore Emilio Sarzi Amadé (...) si trattava di 28 cassette delle quali solo una decina
contenevano corpi completi, le altre raccoglievano frammenti ossei, per cui si trattava in totale di
una quindicina di corpi, sui quali non erano stati condotti esami scientifici accurati. (...) Si trattava
perlopiù di soldati tedeschi e repubblichini morti in combattimento nel ’44, ma c’erano anche corpi
di partigiani caduti, sepolti sbrigativamente “nell’impossibilità di provvedere altrimenti durante ra-
strellamenti o sganciamenti”6. L’ultima notizia data dai quotidiani locali sul Bus de la Lum è la di-
struzione di una lapide da parte di “ignoti vandali”. L’iscrizione sulla targa - posta da Casapound -
ricorda le 3.463 presunte vittime militari e civili della Divisione Nannetti. La cifra è desunta dal
libro “I fantasmi del Cansiglio” di Antonio Serena, in cui si conteggiano i morti del territorio control-
lato dalla Divisione Nannetti: 1054 repubblichini, 2294 tedeschi e 115 “spie”. In questa località
l’associazione Repubblica Sociale Italiana – Continuità Ideale commemora ogni anno “tutti i fasci-
sti caduti per mano partigiana”. “Almeno non parlano di generici “innocenti”, ma di fascisti. Pane al
pane, vino al vino”7.

Sul piano complessivo, l’amnistia e la riabilitazione dei fascisti si collocano nell’ottica della pacifi-
cazione nazionale, funzionale ad accelerare la ricostruzione del paese dopo la guerra: una rico-
struzione che, per la borghesia, non poteva che essere di restaurazione e rafforzamento del si-
stema capitalista che milioni di persone avevano messo in discussione, guardando alla prospetti-
va socialista, incarnata dall’Unione Sovietica, vittoriosa sul nazismo. In questo contesto non solo i
fascisti vengono rimessi ai loro posti di comando strategico, ma migliaia sono liberati anche per
tornare a svolgere il loro ruolo nelle strade: quello di servi dei padroni a difesa dello status quo.
Inoltre la loro riabilitazione e la loro tutela oltrepassa anche i confini nazionali. Infatti, terminata la
guerra, “Jugoslavia, Albania, Grecia ed Etiopia pretendono, giustamente, la consegna dei crimina-
li italiani, in merito alle atrocità compiute durante l’occupazione nelle citate terre”8. Il Presidente
De Gasperi, dal canto suo, annuncia una Commissione di inchiesta che prima individua quaranta,
tra civili e militari italiani, passibili di essere posti sotto accusa presso la giustizia penale militare
indicando, tra gli inquisiti, il generale Mario Roatta, l’ambasciatore Francesco Bastianini, i generali
Mario Robotti e Gherardo Magaldi e il tenente colonnello Vincenzo Serrentino. Dal gennaio al
maggio 1947 seguono altri comunicati che portano gli indagati considerati deferibili ad un tribuna-
le militare a un numero di ventisei. Numeri irrisori che, ad ogni modo, finiscono nel dimenticatoio:
dopo la firma del Trattato di Pace del 1947, Roma afferma con forza l’indisponibilità a consegnare
i propri criminali di guerra alla Jugoslavia, chiedendo la rinuncia a Londra, Parigi e Washington.
Nel frattempo, la mancata consegna dei criminali fascisti inizia ad essere coperta dalla propagan-
da sugli italiani infoibati. Il mito degli “italiani brava gente” comincia a farsi strada: distorcendo gli
eventi, i ruoli tra invasori fascisti e jugoslavi occupati vengono rovesciati e i carnefici sono fatti
passare per le vittime. Parliamo di un filo nero che arriva fino ai giorni nostri, in cui la riscrittura
della storia viene condotta in primis nei luoghi di formazione, quali scuole e università, dove po-
che sono le voci che analizzano un contesto storico in cui ebbe luogo una guerra di liberazione,
civile e di classe.

Una riscrittura, si badi bene, non ad opera esclusiva della destra italiana, ma soprattutto della
sinistra reazionaria che, simbolicamente, possiamo far partire da quel 14 marzo 1998 a Trieste
con l’incontro tra Violante e Fini. Da quel momento infatti sono state estremamente numerose le
occasioni in cui la sinistra istituzionale ha dato fiato e corpo al revisionismo storico. Ogni 10 feb-
braio, il Presidente PD della Regione FVG Debora Serracchiani è presente alla cosiddetta foiba di
Basovizza accanto ai labari della Xª MAS, davanti ad un monumento la cui attendibilità storiogra-
fica è controversa, mentre il 2 aprile, anniversario della strage del Poligono di Opicina (a pochi
chilometri di distanza da Basovizza), nessuna istituzione fa capolino nel luogo in cui 71 persone
furono massacrate per rappresaglia dai nazifascisti. Inoltre, passando per i casi più recenti, a Fi-
denza, l’amministrazione PD ha dedicato un monumento all’aviatore repubblichino Luigi Gorrini 9
per onorare la memoria di una persona che non mancò, anche in anni recenti, di rivendicare con
orgoglio la propria scelta di militare sotto le insegne della Rsi. Il suo nome associato al jet Aer-
macchi installato in piazza ci rende anche bene l’idea di come fascismo e imperialismo vadano a
braccetto. Parliamo infatti degli stessi aviatori che - clandestinamente e privi di numeri di ricono-
scimento - contribuirono al massacro franchista bombardando le città della Spagna repubblicana.
In Catalogna non hanno dubbi: quegli aviatori italiani erano criminali di guerra. Il Tribunale di Bar-
cellona ha dichiarato quelle missioni “atti indiscriminati contro civili, che avevano come unico sco-
po bombardare quartieri densamente popolati della città di Barcellona […]”. Comunque non è la
prima volta che un ministro del PD esalta quegli aviatori. Il 5 marzo 2014 la Ministra della Difesa
Roberta Pinotti affidò ai suoi profili social questo messaggio: «Tanti auguri all’aviatore plurideco-
rato Luigi Gnecchi, classe 1914, cent’anni portati con invidiabile energia»”10.

Contrariamente a quanto afferma la vulgata della classe al potere, lo Stato italiano non è mai tor-
nato indietro dal fascismo. Quest’ultimo infatti vive anche dopo la sua conclusione storica, a co-
minciare dal riciclo delle sue figure in tutti gli apparati di potere dello Stato, passando per il suo
riassestamento, fino ad una costante riscrittura della storia, tesa a dominare il presente. Tale do-
minazione è lo scopo ultimo dei revisionisti e dei socialdemocratici che mirano ad una “pacifica-
zione” per disarmare ideologicamente la classe sfruttata, facendo credere a quest’ultima che i
suoi interessi coincidano con quelli della classe dominante. Come avevamo già visto, la funzione
politica dello Stato borghese “è quella di opprimere le classi dominate per conto di quella domi-
nante”11. La tesi borghese per cui il fascismo sarebbe una parentesi storica conclusa e irripetibile
(e sarebbe sufficiente un monitoraggio delle frange dell’estrema destra) ha alla sua base proprio
l’ideologia della pacificazione sociale - per altro incarnata dal fascismo stesso - contrapposta
all’oggettività del fascismo quale strumento della borghesia, funzionale al mantenimento del si-
stema capitalista. Non è un caso che numerose amministrazioni comunali, soprattutto a guida
Pd, abbiano concesso sale pubbliche a formazioni fasciste, mentre altrettanti atenei italiani hanno
impedito lo svolgersi di iniziative antifasciste o di memoria storica, agitando lo spauracchio degli
opposti estremismi, come accaduto tutte le volte in cui è stata negata la parola alle voci antifasci-
ste tese ad approfondire le vicende del confine orientale prima citato e la resistenza internaziona-
lista, lasciando invece spazio ad una propaganda revisionista contro la Resistenza - ormai im-
pianto ideologico della borghesia italiana - funzionale ad attaccare oggi la possibilità della lotta
anticapitalista, che migliaia di partigiani incarnarono.

La legge Scelba ieri, il ddl Fiano oggi. Il mito del fascismo vietato per legge

La legge n. 645/1952 sanziona chiunque “promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costitu-
zione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente
le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti
esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”12.
L’apologia del fascismo è regolata dalla Legge Scelba del 1952 e venne approvata per mettere in
atto la XII disposizione transitoria della Costituzione italiana, che recita: “E’ vietata la riorganizza-
zione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

La tematica dell’incostituzionalità del fascismo, per l’appunto “vietato per legge”, è tornata alla
ribalta dal ddl Fiano che introduce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e
nazifascista, passato alla Camera lo scorso settembre. Tramite l’articolo 293bis si afferma di do-
ver punire “chiunque propagandi le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito
nazionalsocialista tedesco”. La pena sarebbe compresa tra 6 mesi e 2 anni, con aggravanti della
diffusione via web.

Questo ulteriore tassello, per altro in parte osteggiato da una parte della borghesia nostrana e
invece idolatrato da altre componenti dell’ormai ex partito della nazione (il Pd) va a sorreggere la
tesi della borghesia secondo cui ci siano già tutti gli strumenti giuridici contro il pericolo fascista, a
difesa della democrazia. Un pericolo talmente sventato che si sprecano dichiarazioni orali e scritte
come: “Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono
continuare a esistere o se devono essere cancellate”. A pronunciare queste parole non è un
esponente nazista negli anni Trenta, bensì Attilio Fontana ai microfoni di Radio Padania. Il candi-
dato presidente del centrodestra lombardo argomenta infatti sul contrasto all’immigrazione 13. Co-
me da copione, quest’ultimo ha affermato con forza la tesi del lapsus, dell’errore espressivo e del
conseguente fraintendimento, ma quelle di “razza bianca” e di “sostituzione etnica” sono espres-
sioni ormai ricorrenti nella propaganda della destra xenofoba, dalla Lega di Salvini fino ai partitini
prima citati come Forza Nuova e Casapound.

Tornando al Ddl Fiano, è utile riportare per esteso il suo pensiero: ‘’L’antifascismo è la matrice di
chi difende la libertà, di chi difende le opinioni di ognuno, ma è la storia che ci ha insegnato che
cosa è stata la mancanza di libertà, che non fu solo dell’ideologia fascista, perché il secolo scorso
ci ha insegnato che altre ideologie, anche il comunismo sovietico, furono ideologie di morte e so-
praffazione della libertà” 14. Ecco quindi che, dietro all’antifascismo, l’esponente sionista del Pd
arriva ad equiparare fascismo e comunismo, come troppe volte già accade sui testi scolastici nel-
le scuole secondarie di primo e secondo grado. Nulla di cui stupirsi, se pensiamo che Fiano è un
noto sostenitore dell’occupante israeliano, in prima linea nell’operazione politica di assimilare an-
tisionismo e antisemitismo, fautore dell’ingerenza imperialista in Venezuela nonché sostenitore
dei neonazisti ucraini in funzione antirussa.

La legislazione che porta la sua firma non ha alcuna intenzione di produrre delle condanne nei
confronti dei fascisti - basti pensare che la precisazione “del disciolto partito fascista” è sempre
stata sufficiente per ottenere l’archiviazione o l’assoluzione rispetto all’accusa di ricostruzione del
partito fascista, con la motivazione che il fatto non sussiste.

Quando lo Stato borghese ha disciolto organizzazioni fasciste – come nel 1973 con Ordine Nuovo
e nel 1976 con Avanguardia Nazionale – lo ha fatto per darsi una patente di democraticità, rotta-
mando dei propri servi che aveva fino ad allora utilizzato nella “strategia della tensione”, ai quali
successivamente avrebbe nuovamente garantito agibilità politica e, all’occorrenza, un ruolo di
esecutori materiali nello stragismo di Stato.

Il punto fondamentale della riflessione sul mito del fascismo “vietato per legge” è che
l’antifascismo proletario non può e non deve delegare al nemico di classe la lotta ai fascisti. Non
solo perché la classe dominante non ha nessun interesse a reprimere i propri servi in camicia
nera. Ma sopratutto perché la pratica dell’antifascismo è parte della lotta di classe quanto il fasci-
smo è patrimonio della grande borghesia: esercitarlo significa anche combattere contro
quest’ultima.

Memoria e presente dell’antifascismo proletario

Se quello tracciato a grandi linee finora è il filo nero che collega passato e presente, proviamo ad
approfondire quel filo rosso che necessariamente oggi va rafforzato contro il fascismo e la bor-
ghesia capitalista che ne fa uso. Un filo rosso che inizia dai primissimi anni Venti e che, a Parma,
si concretizza in maniera vittoriosa con la Resistenza antifascista nelle giornate dell’agosto 1922
della cittadina emiliana, in cui i rioni popolari, organizzati da Guido Picelli e dagli Arditi del Popolo
resistono, armi in pugno, erigendo barricate alle incursioni delle camicie nere di Italo Balbo. Un
antifascismo che, durante il ventennio successivo, viene duramente represso, a suon di omicidi
politici, incendi delle case del popolo, arresti, confino e deportazione nei campi di internamento.
Un antifascismo però destinato a divenire Resistenza internazionalista dal 43 al 45 e Resistenza
ai piani della borghesia di reprimere qualsiasi conflitto che mettesse in discussione il proprio pote-
re egemonico.

Nell’immediato dopoguerra quello dei braccianti e dei contadini senza terra è il gruppo più colpito
dalla repressione dello Stato che si serve anche dei fascisti. La repressione nel Sud Italia è fero-
ce: è il caso del Movimento delle occupazioni di terre in Calabria tra il 1946 e il 1949. In una zona
in cui 500 famiglie vivono sul 18% delle terre, oltre il 52% del territorio è nelle mani di quattro uo-
mini, tra cui il Barone Berlingeri. Nella sua tenuta i celerini di Scelba si acquartierano per reprime-
re le rivendicazioni di migliaia di contadini, aprendo il fuoco su di loro 15. Dalla Calabria alla Puglia,
dalle borgate romane a Modena, da Napoli a Reggio Emilia, da Palermo a Milano, tramite i vari
“governi di unità nazionale”, il capitalismo italiano dimostra di reprimere e uccidere all’occorrenza
chi si ribella al suo ordine. “La guerra di liberazione infatti era rimasta una rivoluzione interrotta
per non aver saputo “distruggere” lo Stato borghese, che si era ricostituito sotto l’egida degli ame-
ricani, degli alti burocrati e dei grossi industriali (...) ma nonostante la repressione, nei primi anni
Sessanta si registra un grosso sommovimento politico e cioè la lotta contro i fascisti e il Primo
Ministro Tambroni del luglio 1960 (...): una lotta che mobilita milioni di italiani, impedisce un ritorno
della Democrazia Cristiana alle sue vocazioni apertamente reazionarie, fa cadere il governo di
centro-destra e blocca nuovamente la strada a un rigurgito fascista”16.

La strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 - eseguita dai fascisti, ordinata dai
padroni - è percepita - soprattutto dai giovani del movimento - “come il tentativo, da parte dello
Stato, di superare la crisi e di ricostruire, attraverso la repressione e le stragi, quegli equilibri di
potere che le lotte avevano sconvolto non solo nella fabbrica e nella scuola, ma nell’intera socie-
tà. (...) L’antifascismo militante per non pochi si trasforma spesso in “militare”, manifestandosi
dapprima con i diversi volti della mobilitazione di massa e delle contestazioni dei comizi missini,
poi anche con i “processi popolari”, i servizi d’ordine, gli scontri con i militanti neofascisti, gli assal-
ti alle sedi dell’estrema destra e altre forme di azione diretta. Sul terreno della violenza politica,
quindi, la strage segna una cesura, un salto di qualità: dalla violenza “difensiva” propria del movi-
mento studentesco a una violenza “offensiva”, scelta consapevole e, secondo alcuni, necessaria
per prevenire gli “eccidi di Stato” e per creare gli spazi di agibilità del movimento. La lotta doveva
essere d’attacco e non più di semplice difesa della Costituzione, ai fascisti - complici necessari
delle stragi - doveva essere negato ogni spazio politico”17. In questo contesto l’antifascismo trova
nuovo vigore proprio all’interno di quell’enorme ciclo di lotta che poneva anche la questione del
potere ed entrava in contraddizione con l’antifascismo borghese che sfruttava anche il terrorismo
nero per imporre la collaborazione di classe e la pace sociale. Per i giovani militanti la lotta parti-
giana era stata tradita e la rivoluzione interrotta e ciò si rifletteva nella continuità del movimento
chiamato a portare avanti un’opera incompiuta. Una questione, questa, particolarmente avvertita
in occasione del 25 aprile: oggi come ieri, per gli antifascisti militanti questa data “cessava di es-
sere la giornata della memoria oleografica e pacificata e diveniva invece occasione di lotta, spes-
so in relazione alle lotte internazionali e antimperialiste che, dal Vietnam al Cile, dalla Grecia alla
Palestina, riportavano in auge, nella contrapposizione “guerra no, guerriglia sì”, il modello
dell’esperienza partigiana contro il nazifascismo”18.

Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, i fascisti si organizzano anche nei loro partiti. In bar-
ba alla giovane Costituzione, dagli anni Cinquanta sono gli stessi militanti missini che elaborano
la cosiddetta “teoria dell’ombrello” nel concepire un partito destinato a servire come sponda istitu-
zionale di un gioco sporco condotto nelle piazze italiane contro i nemici di sempre: i lavoratori19. I
fondatori stessi dell’Msi sono inquisiti più volte per il reato di ricostruzione del Partito Fascista e
per il protagonismo nelle organizzazioni terroristiche nate già dopo la fine della Seconda guerra
mondiale, a dimostrazione di come il manganello, le bombe o le lame da un lato e il doppiopetto
dall’altro siano le due facce della stessa medaglia.

La lista dei comunisti uccisi per mano fascista o per mano della polizia è purtroppo molto lunga,
ma ci dà anche l’idea della continuità di quel filo rosso di tutti quei compagni che hanno praticato
l’antifascismo militante non fine a se stesso, ma guidato dalla lotta al capitalismo e alle sue barba-
rie. E’ il caso di Davide Cesare, Dax, ucciso da tre fascisti la notte del 16 marzo 2003 e ricono-
sciuto non solo come antifascista, ma anche in quanto militante della lotta per gli spazi sociali e
per il diritto alla casa: una lotta estesasi, a sua volta specchio della necessità di coniugare antifa-
scismo e anticapitalismo, contro i fascisti che fomentano la guerra tra poveri (blaterando di priorità
agli italiani nelle graduatorie degli alloggi popolari, facendo un gran favore agli speculatori che
lasciano le case popolari vuote a marcire o le svendono all’asta e ai palazzinari che continuano a
cementificare il territorio). Dax infatti “è in prima fila quando si tratta di evitare gli sgomberi o di
opporsi alla privatizzazione delle case dell’Aler. Grazie a questo acquista una visibilità che, se per
molti diventa amore, per qualcun altro diventa una colpa da fargli pagare cara alla prima occasio-
ne. (...) Dopo il 16 marzo del 2003, lo slogan “Dax odia ancora” è diventato il motto di chi, in me-
moria del giovane operaio assassinato, ha deciso di continuare a lottare per porre fine a questo
stato di cose”20.

La pratica di questi anni ci ha purtroppo regalato il quadro di numerose aggressioni per mano fa-
scista, alcune volte mortali, a danno di antifascisti, immigrati e omosessuali. In particolare, a con-
ferma del loro ruolo di servi dei padroni, i fascisti si sono resi protagonisti di aggressioni a danno
di lavoratori in sciopero, come accaduto all’Sda, da Roma a Carpiano, laddove hanno agito
squadracce in combutta con la mafia locale.

Conclusioni

Il ruolo dei fascisti continua ad essere quello di dividere la classe sfruttata, cercando di deviare il
malcontento dei proletari italiani su quelli di origine immigrata. Un gioco che va dai luoghi di lavo-
ro, fino alle strade, in cui, da piazza Dalmazia a Firenze (e ritorno) a Macerata, abbiamo visto gli
effetti del dispiegarsi dell’odio razziale da parte dei fascisti. Si smonta tutta l’ipocrisia della classe
borghese che ha blaterato di accoglienza, ma ha dato luogo a ulteriori sfruttamento e criminaliz-
zazione. Anche la loro è un’altra delle tante facce del fascismo, tanto quanto ciò che viene veioco-
lato dall’opera de La Stampa o il Corriere della Sera che combacia quasi perfettamente con Libe-
ro o Il Giornale, salvo “scoprire” solo negli ultimi mesi che esistono i fascisti, a suon di “inchieste”
e speciali sui gruppi dell’estrema destra italiana e i loro collegamenti con quelli ucraini o nel resto
d’Europa. Infatti le stesse testate giornalistiche - specie di area Pd - recentemente, si sono prodi-
gate nell’agitazione dello spauracchio dei gruppi neonazisti, spendendosi in approssimative anali-
si sociologiche, dopo aver steso loro il tappeto rosso negli ultimi decenni. Per questi benpensanti
sembra che l’unico pericolo esercitato dai fascisti sia la violenza dei loro gruppuscoli: il fenomeno
viene così ridotto a questione di “devianza” oggi e di parentesi storica esauritasi ieri. Il fascismo è
invece la risposta, in chiave controrivoluzionaria, che la grande e la media borghesia diedero con-
tro quel vento rivoluzionario che soffiava forte anche nel nostro paese, per rafforzare il proprio
dominio di classe e scongiurare un processo rivoluzionario. La borghesia italiana - dei De Gasperi
e dei Togliatti ieri e dei Renzi e delle Boldrini oggi - afferma di voler rispondere ai fascisti sul piano
della legalità, rispetto ad una “vigilanza democratica”, ad una “competizione politica”, nel “quadro
delle garanzie costituzionali”. Una tesi, questa, che si “concretizza” nell’antifascismo borghese da
salotto delle petizioni online sui social networks e, sul terreno reale, sfocia nella garanzia di agibi-
lità ai fascisti o nel tentativo renziano di vietare cortei come quello di Macerata.

Di fronte ad un antifascismo borghese e ai fascisti che gridano “Prima gli italiani”, è necessario
rafforzare ed estendere quell’antifascismo proletario dimostratosi in tante piazze e strade d’Italia,
che sa puntare il dito contro gli effetti e le barbarie del sistema capitalista: dalla Firenze solidale
con la comunità senegalese ai facchini a Piacenza, dagli antifascisti a Palermo fino a tutti coloro
che hanno impedito i raduni dei fascisti nei propri quartieri con la pratica militante di ogni giorno.

La borghesia capitalista si è già servita del fascismo e, all’occorrenza può ancora servirsene sotto
altra maschera, per mantenere il proprio potere e continuare lo sfruttamento dei proletari, autoco-
ni quanto migranti. Il punto focale infatti non è quello dell’antifascismo come “valore” contrapposto
alla barbarie e al nazionalismo dei fascisti, ma ancora una volta quello dello Stato che, per sua
natura, è una “macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra”.
E’ in quest’ottica che va collocata la tesi che lo Stato italiano non è mai tornato indietro dal fasci-
smo, in quanto assetto che, seppur secondo sfumature variabili, consente il dominio della bor-
ghesia sugli sfruttati, per il supporto ideologico alla distruzione dello stato sociale, allo sfruttamen-
to dei lavoratori e per scaricare su di loro i costi della crisi strutturale del sistema.

Una delle espressioni del proletariato in lotta per la trasformazione sociale è proprio
l’antifascismo, consci che solo la prospettiva rivoluzionaria può spazzare via il fascismo. Con
questo orizzonte, oggi va combattuto, giorno dopo giorno, contesto per contesto, il motto “Prima
gli italiani”, rilanciando “Prima gli sfruttati”, per una ricomposizione di classe contro il capitalismo e
contro i suoi strumenti, fascisti in primis.

Seppur spesso scollegati tra loro, ci sono segnali positivi affinchè i sinceri antifascisti non siano
limitati ad essere la coda delle mobilitazioni promosse dalla borghesia. Ricordando che fascismo
e democrazia sono due facce dello stesso sistema capitalistico, nella solidarietà espressasi ai tre
compagni arrestati a Piacenza lo scorso febbraio, facchini e lavoratori del Si Cobas hanno riven-
dicato la partecipazione alla manifestazione antifascista di Piacenza come “un momento di lotta
contro il capitalismo; momento che i lavoratori della logistica, che si oppongono ai piani padronali,
vivono e praticano tutti i giorni”21. Quando la classe operaia prende in mano la definizione di fa-
scismo, è marcato il primo passo necessario per uno sviluppo in senso anticapitalista.

Note

1 M. Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, Derive Approdi,
2009, p. 8

2 http://www.resistenze.org/sito/ma/di/bi/mdbibf18-009237.htm

3 Per un approfondimento in merito a Porzûs rimandiamo all’opuscolo editato dai Quaderni di Rivoluzione
“Intervista al Comandante Giacca” http://www.cnj.it/documentazione/varie_storia/ComandanteGiacca.pdf

4 M. Recchioni, Francesco Moranino Il comandante “Gemisto” Un processo alla Resistenza, Derive Approdi,
2013, p. 13

5 C. Armati, Cuori rossi La storia, le lotte e i sogni di chi ha pagato con la vita il prezzo delle proprie idee.
Dagli eccidi di contadini e operai nel dopoguerra all’esecuzione di Valerio Verbano e Peppino Impastato, dai
caduti del ‘77 alla morte di Carlo Giuliani, Newton Compton Editori, 2008, p. 85

6 https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/05/le-nuove-foibe-3a-puntata-viaggio-dandata-al-bus-de-la-
lum/

7 Ibidem
8 http://www.diecifebbraio.info/2015/03/quando-le-foibe-ed-il-caso-simbolo-di-norma-cossetto-vennero-usati-
per-salvare-i-criminali-di-guerra-italiani/

9
http://parma.repubblica.it/cronaca/2017/09/29/news/fidenza_amministrazione_pd_omaggia_l_aviatore_gorrin
i_ex_militare_rsi-176859193/

10 https://www.wumingfoundation.com/giap/2017/10/barcellona-minniti/

11 Antitesi numero 3, aprile luglio 2017, p. 60

12 www.gazzettaufficiale.it

13 http://www.corriere.it/politica/18_gennaio_16/elezioni-2018-attilio-fontana-lega-lombardia-razza-bianca-
rischia-sparire-06f0ced2-fa33-11e7-b7a0-515b75eef21a.shtml

14 http://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/editoriale-di-emanuele-fiano-sulla-nuova-legge-contro-
lapologia-di-fascismo/

15 C. Armati, Cuori rossi, op. cit. p. 61

16 R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, storia delle classi subalterne in Italia, vol V, ed Savelli, 1977,
p.23

17 M. Becchetti, G. Ronchini, A. Zini, Nanni Balestrini Parma 1922 Una resistenza antifascista, Derive
Approdi, 2002, p. 9

18 Ibidem

19 C. Armati, Cuori rossi, op. cit. pp. 200 - 201

20 AA.VV, Ti racconto Dax, ucciso a Milano il 16 marzo 2003 perchè militante antifascista, Purple Press,
2009, p. 19 - 20

21 www.sicobas.org/news/2825-piacenza-comunicato-sul-presidio-dal-carcere
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