ANNO 2017 Notizie dal 08 settembre al 15 settembre

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ANNO 2017 Notizie dal 08 settembre al 15 settembre
HDIG ONLUS
     HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
       Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
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                                     ANNO 2017
                     Notizie dal 08 settembre al 15 settembre
                         notizie e informazioni SULL’africa e, in particoLare,
                              SULLa SomaLia e paeSi deL corno d’africa,
                               raccolte da agenzie, gruppi, istituzioni,
                           comMENTATE CON considerazioni ed osservazioni

     SOMMARIO

     Pag. 02 - 16 set. L’Italia in testa alle classifiche degli investimenti in Africa
     Pag. 03 - 16 set. Così l’Italia sta perdendo la guerra dei contractors con Usa e Gran Bretagna
     Pag. 07 - 17 set. Uganda, è guerra segreta contro il terrorismo islamico
     Pag. 08 - 17 set. In Europa oltre 50.000 jihadisti
     Pag. 10 - 17 set. Kenya, il singolare ed emozionante incontro con le giraffe bianche
     Pag. 10 - 17 set. Un paese in cui pagare con il cellulare è la norma
     Pag. 12 - 18 set. In Etiopia 850 mila rifugiati; 73 mila in 8 mesi. E Altrove …
     Pag. 13 - 18 set. Etiopia: nuovi scontri nella regione di Oromiya, 50 mila persone. I morti sarebbero
                       più di 50. Addis Abeba invia militari per presidiare l'area
     Pag. 16 - 19 set. Alfano con ministri Esteri UE a riunione sulla Libia a margine Assemblea Generale
                       Onu
     Pag. 16 - 20 set. Il lento reimpatrio dei profughi somali dallo Yemen
     Pag. 17 - 20 set. I decessi dovuti a guerre e terrorismo sono cresciuti del 143% negli ultimi dieci anni
     Pag. 18 - 21 set. Qatar: una regione somala interrompe le relazioni con Doha
     Pag. 18 - 21 set. Congo RD. Massacro di rifugiati burundesi nell’est: 34 morti e un centinaio di feriti
     Pag. 19 - 22 set. UNGA72: Gentiloni, crisi non si prevengono costruendo barrier
     Pag. 20 - 22 set. Africa: rapporto Africa Risk-Reward Index, Etiopia e Kenya destinate a diventare
                       leader dell’economia del continente

     Pag. 20 - 23 set. Cambio al comando del contingente italiano Iraq

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                     website: www.hdig.org ; e-mail: riccardo.galletti@hdig.org, mario.pellegrino@hdig.org;
                     IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703
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     16 set. Africa: l’Italia in testa alle classifiche degli investimenti
     L’Italia è il primo Paese europeo per valore degli investimenti diretti esteri (Ide/Fdi) realizzati nel 2016 in
     Africa, con un totale di 20 progetti per complessivi quattro miliardi di dollari. È uno dei dati più significativi
     contenuti nell’ultimo rapporto della società internazionale di servizi di revisione e organizzazione contabile
     Ernst&Young (EY) sull’attrattività delle economie africane, da cui emerge che a livello mondiale per valore
     degli investimenti l’Italia è dietro solo a Cina (36,1 miliardi di dollari in Ide nel 2016), Emirati Arabi Uniti
     (11 miliardi) e Marocco (4,8 miliardi). Complessivamente, secondo l’elaborazione di EY su dati fDi Markets
     (l’unità di analisi economica del Financial Times), gli investimenti italiani in Africa hanno rappresentato nel
     2016 il 4,3% del totale degli Ide nel continente.
     Il rapporto diffuso a maggio ha avuto una certo eco a livello nazionale solo quest’estate grazie al rilancio
     della notizia fatto dal viceministro degli Esteri Mario Giro sui social network, in un momento in cui
     l’immagine dell’ Africa nel dibattito politico e sociale italiano sembrava arenata solo sulla questione delle
     migrazioni. Rispetto allo scorso anno, il numero dei progetti d’investimento italiani è cresciuto da 16 a 20,
     mentre il valore assoluto degli Ide italiani è sensibilmente diminuito rispetto ai 7,4 miliardi di dollari
     registrati nel 2015. Il dato relativo all’Italia contenuto nell’ultimo rapporto di EY appare in realtà come una
     conferma di un cambiamento già in atto. Per capire se siamo di fronte ad una nuova tendenza ci sarà da
     aspettare ancora qualche anno. Ma intanto non si può ignorare che negli ultimi due anni l’Italia è tornata in
     cima alla classifica degli investitori in Africa.
     Il dato più impressionante è quello fatto registrare nel 2016 relativo agli investimenti italiani del 2015,
     quando l’Italia risultava addirittura il primo investitore in assoluto. Anche in questo caso fu il rapporto di
     EY a far emergere la novità, passata quasi in silenzio in Italia. Il numero degli investimenti diretti esteri
     (Ide/Fdi) dall’Italia verso l’ Africa nel 2015 era raddoppiato rispetto all’anno precedente, passando a un
     totale di 16 nuovi progetti per un valore complessivo di 7,4 miliardi di dollari e consentendo in questo modo
     al nostro Paese di affermarsi quale primo al mondo per volume degli investimenti diretti esteri in Africa (suoi
     il 10,4% del totale del volume degli investimenti diretti esteri verso l’Africa in quell’anno). Secondo i dati
     resi noti da EY, proprio grazie ai risultati del 2015 l’Italia è rientrata per la prima volta dopo anni
     nell’elenco dei 15 principali Paesi originari degli Ide verso il continente africano, occupando l’11o posto di
     questa speciale classifica per numero di progetti.
     Destinazione preferita dei progetti d’investimento italiani in generale è il Sudafrica, in particolare nei settori
     delle energie rinnovabili e dei prodotti di consumo e vendita al dettaglio. Seguono quali principali
     destinazioni dei progetti italiani il Marocco, l’Egitto, il Mozambico e la Tunisia. Andando a guardare più nel
     dettaglio i dati, emerge con chiarezza come il netto e improvviso aumento del volume degli Ide italiani in
     Africa sia legato in larga parte ad alcuni progetti del gruppo Eni, a cominciare da quello per lo sviluppo del
     gas naturale nel giacimento di Zohr in Egitto. Il progetto di Zohr da solo, nel 2015, aveva portato ad un
     investimento pari a sei miliardi di dollari, sui 7,4 totali fatti registrare dal nostro Paese quell’anno. In realtà
     più che sminuire, come hanno sostenuto alcuni commentatori, il ruolo dell’Italia, i progetti dell’Eni ne
     rafforzano la portata. Troppo spesso ci si dimentica che l’Eni è il primo player petrolifero del Continente e
     che dal continente a sud del Mediterraneo proviene oltre il 50% della produzione di gas e petrolio della
     compagnia del cane a sei zampe. Proprio la presenza di Eni e le nuove attività in Africa (oltre l’Egitto,
     l’azienda italiana detiene i diritti su un altro gigantesco giacimento di gas al largo delle coste del
     Mozambico) consentiranno, probabilmente, all’Italia di restare ancora per alcuni anni in testa alle classifiche
     degli investitori in Africa.
     Questo non potrà che rafforzare il peso politico di Roma nel continente e, soprattutto, consente all’Italia di
     agganciare un treno che sembrava perso. A partire dall’inizio degli Anni 2000, infatti, l’Italia appariva
     rispetto all’ Africa in totale controtendenza. Negli ultimi 15 anni, secondo i dati Ocse, gli investimenti diretti
     stranieri in Africa sono quintuplicati, con una media di circa 55 miliardi annui. Nel 2013, l’anno del picco,
     gli Ide diretti in Africa hanno rappresentato il 6% degli Ide globali.

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                 Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, facebook: hdig.ong
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     Un trend da cui l’Italia si era autoesclusa se consideriamo che, come si apprende dal rapporto Ocse ‘Italy &
     Africa 2015 ‘Deepening economic ties’, nel periodo 2009-2014 gli investimenti italiani andavano
     diminuendo e il nostro paese era al 17o posto, superato fra gli altri da Grecia, Spagna e Svizzera. Ecco quindi
     che i dati degli ultimi anni possono costituire la base necessaria a rilanciare la partnership economica tra
     Italia e Africa, andando anche oltre l’Eni.
     Una base da cui partire per facilitare l’ingresso nel continente africano di quell’universo di Pmi italiane che
     cominciano a guardare con curiosità al continente. E se l’Africa sta attraendo le Pmi, le cooperative e i
     consorzi italiani come modello di sviluppo (perché in grado di generare posti di lavoro e ricchezza per una
     popolazione in crescita esponenziale), le aziende italiane potrebbero trovare a sud del Mediterraneo e oltre il
     deserto nuovi mercati in crescita, troppo a lungo ignorati e sconosciuti.

     16 set. Così l’Italia sta perdendo la guerra dei contractors con Usa e Gran Bretagna

     La più famosa resta, indiscutibilmente, la Blackwater Usa fondata nel 1997 dall’ex-Navy Seal, Erik Prince.
     Che, dopo varie vicissitudini e altrettante polemiche – è stata pesantemente coinvolta in Iraq ed ha lavorato
     con contratti milionari per il governo degli Stati Uniti – ora si chiama Academi. Ed i cui contractors
     continuano a lavorare per governi, organizzazioni e agenzie di intelligence.
     Ma, accanto a questa, sono centinaia e centinaia le compagnie militari private che, grazie all’emergenza
     terrorismo, ai rischi della pirateria e ai conflitti che infiammano il pianeta, incassano parcelle milionarie per
     proteggere, con i propri contractors, obiettivi marittimi ma, soprattutto, terrestri, rosicchiando il lavoro (si fa
     per dire) ai militari di professione in tutti i mercati verticali del business.
     Più o meno tutti i Paesi hanno le proprie private military companies la cui forza-lavoro di contractors è
     costantemente alimentata da ex-militari, spesso delle Forze Speciali ed ex-agenti dell’intelligence. L’elenco è
     lungo, per non dire lunghissimo. Gli Stati Uniti fanno, numericamente, la parte del leone. Oltre ad Academi,
     che ha il quartier generale a McLean, in Virginia, gli Usa schierano realtà come la G4A Risk
     management fondata, con il nome di The Wackenhut Corporation addirittura nel 1954, da 4 ex-agenti Cia,
     specializzata particolarmente nella protezione delle centrali nucleari e inciampata in una serie di gravi
     incidenti di percorso che, però, pur avendone intaccato la reputazione, non le impediscono di continuare a
     detenere saldamente il terzo posto nel settore della sicurezza privata a livello mondiale con un fatturato che
     nel 2012 ha superato i 12 miliardi di dollari.
     L’Airscan, creata nell’84 da due ex-commandos delle operazioni speciali statunitensi, vanta, nel suo
     portafogli clienti, realtà come il Dipartimento della Difesa Usa, il Dipartimento dell’Energia statunitense e la
     Centrale nucleare di Savannah River. E, anch’essa, ha avuto non pochi incidenti di percorso.
     Nella girandola di fusioni societarie e acquisizioni molte delle compagnie militari private ogni tanto
     scompaiono per ricomparire poco dopo sotto altre sigle e acronimi. Tutto ciò spiega bene l’immenso giro

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     d’affari che si cela dietro a questo mondo.
     La statunitense Mvm Inc. fondata da un agente del Secret Service, ha in cassaforte contratti con il
     Dipartimento della Giustizia Usa, con l’Immigration Office, con l’Antidroga e con altre agenzie federali. Ma
     è diventata famosa per essere stata la prima agenzia militare privata statunitense a proteggere un capo di stato
     straniero, l’ex-presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide quando fu cacciato e poi reinsidiato dopo il colpo
     di Stato del 1991. Dopo l’11 settembre Mvm ha avuto contratti milionari dall’Esercito Usa e dal
     Dipartimento di Giustizia. Fra i suoi datori di lavoro c’è anche la Cia e la Nsa.
     La Triple Canopy lavora in Iraq, Sudamerica e Siria. E dà, a sua volta, lavoro ad altre private military
     companies. La Vinnel Corporation, sempre statunitense, ha preso contratti in Turchia, Arabia Saudita e Iraq.
     La Gran Bretagna non è da meno con la Control Risks Group i cui contractors privati si occupano, per
     esempio, della sicurezza delle ambasciate britanniche, l’International Intelligence Limited, specializzata in
     operazioni di sicurezza e intelligence, la Erinys International, britannico-sudafricana ma con sede a Dubai.
     Poi ci sono i contractors australiani di Sharp End International, perlopiù ex-istruttori delle Forze speciali, i
     contractors di Unity Resources Group che attingono a piene mani dalle ex-linee delle Forze speciali
     canadesi, neozelandesi, statunitensi e britanniche. E ci sono i peruviani di Defion Internacional che hanno
     lavorato con la Triple Canopy nella Green Zone di Bagdad creando quasi un caso diplomatico.
     I cinesi, accusati spesso di non andare troppo per il sottile quando si tratta di sparare sui pirati – celebre un
     video molto virale che gira in rete dove alcuni pirati vengono ammazzati senza troppi complimenti mentre
     annaspano in acqua dopo aver tentato di arrembare senza successo un mercantile – hanno trovato la
     soluzione proprio in Erik Prince, l’ex-fondatore della prestigiosa e contestata Blackwater Usa, che li ha
     aiutati a mettere in piedi un paio di private military companies fra cui la Frontier Services Group.
     Inutile dire che, nel settore delle private military companies, gli israeliani hanno una notevole voce in
     capitolo. (nella foto: Contractors privati antipirateria a bordo di navi commerciali)
      Ma quella che oggi fa davvero man bassa di contratti, e lo fa perfino in Italia, è la compagnia militare
     privata britannica Aegis Defences Services, con uffici sparpagliati in mezzo mondo e sedi in Iraq, Kenya,
     Nepal, Afghanistan, Bahrain e Stati Uniti.
     Non a caso sono proprio i contractors britannici di Aegis a occuparsi di proteggere e scortare perfino il
     personale italiano della Farnesina del Provincial
     Reconstruction Team impegnato in Iraq a prendere accordi
     con i vari signori dei clan in una prospettiva di cooperazione
     fra civili e militari per affrontare la fase di stabilizzazione del
     Paese, la messa in sicurezza, la ricostruzione delle
     infrastrutture e l’afflusso e la distribuzione di aiuti umanitari.
     Non a caso sono sempre gli stessi Pmc britannici di Aegis ad
     occuparsi di proteggere i siti sensibili e i cantieri di
     trivellazione a Bassora, in Iraq e in Libia dell’italianissima
     Eni. E gli italiani? Farnesina ed Eni non si fidano, dunque,
     delle private military companies italiane e dei pur
     addestratissimi ex-militari italiani delle Forze Speciali, fra i
     migliori al mondo, ora inquadrati nelle società militari
     private? E non ci sono solo la Farnesina e l’Eni. Sono
     centinaia e centinaia le aziende italiane, soprattutto nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture, che
     lavorano all’estero, spesso in zone particolarmente pericolose. E che ricorrono ai contractors stranieri –
     spesso inglesi – e ai contractors locali. Con tutto il rischio che questo può comportare. Basti ricordare i
     rapimenti, finiti, in qualche caso, nel sangue, dei tecnici italiani in Libia o in Nigeria.
     In Italia sono sostanzialmente due le private military companies che si spartiscono il mercato, ma con molti
     limiti, reclutando per lopiù personale proveniente dalle Forze Armate italiane anche grazie ad alcune
     convenzioni firmate con il ministero della Difesa: G7 e Metro.

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     I contractors che cercano lavoro all’estero nel settore della sicurezza privata e, nello specifico,
     nell’antipirateria, a caccia di uno stipendio che può arrivare anche a 5.000 -6.000 euro/mese, vengono
     reclutati – e formati con un corso di 3 moduli – essenzialmente da queste aziende. Che possono operare in
     mare, in assetto antipirati, ma non nel terrestre in zone di conflitto. La legge italiana lo vieta. Ed è questo il
     grande limite rispetto a tutti gli altri Paesi che si dividono, lasciando fuori l’Italia, il ricchissimo mercato dei
     contractors di terra. Un mercato che per la legge italiana è vietato. Si viene considerati dei soldati di ventura.
     Mercenari. E perseguiti penalmente. Così come chi arruola. L’articolo 288 del codice penale è molto chiaro.
     E prevede pene da 4 a 15 anni di reclusione.
     La conferma del “buco” normativo che lascia l’Italia incredibilmente fuori dal ricchissimo mercato mondiale
     dei contractors armati terrestri arriva da Luciano Campoli, amministratore delegato della G7. Che lavora sia
     sulle navi delle Ong – ma, in questo caso, senza armi – sia in funzione antipirateria che sul terrestre. Ma,
     appunto, con i limiti e i lacci della legislazione italiana.
     Campoli, ex-carabiniere in servizio alla Nato in Belgio, poi agente segreto del controspionaggio militare ai
     tempi gloriosi del generale Nicolò Pollari e del Sismi, quindi all’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza
     estera e, infine, scelto dall’allora Direttore generale della Rai, Lorenza Lei come responsabile della sicurezza
     aziendale, prima di mettersi in proprio con la sua G7 dopo essersi ricomprato le quote della britannica
     Triskel, chiarisce bene la questione mettendo a nudo tutte le contraddizioni tipicamente italiane della
     faccenda: «Esiste un decreto, il 266 del 2012, che norma l’attività antipirateria. Ma non esiste un decreto
     speculare nell’attività terrestre in zone di guerra. L’Italia è forse l’unico Paese, da questo punto di vista, che
     manca di queste norme. E così siamo costretti a bypassare il problema inviando in determinate aree i nostri
     security manager, magari ex-militari delle Forze Speciali italiane, che si limitano a coordinare le attività delle
     private military companies locali, quindi non italiane. Sono questi ultimi a imbracciare le armi. I nostri
     security manager non possono farlo. Più di questo non ci è consentito. E questo è incredibile perché poi gli
     italiani sono considerati fra i migliori al mondo in questo tipo di attività».
     Il tema più delicato è quello delle armi. L’antipirateria marittima prevede l’utilizzo delle cosiddette floating
     armories, delle vere e proprie armerie galleggianti, navi dedicate esclusivamente a questo.
     Stazionano ben al di fuori delle acque territoriali, appena ai bordi delle Hight Risk Area, le aree a rischio
     pirateria. E accolgono, come degli alberghi-fortini in mezzo al mare, i contractors inviati dalle varie
     compagnie militari private per poi smistarli, armati di tutto punto, sulle navi in transito che stanno per entrare
     nelle acque considerate più pericolose al mondo per il brigantaggio marittimo: il Golfo di Aden ed il bacino
     Somalo all’interno delle congiungenti Haradere-Seychelles-Kysmayo, le coste della Tanzania e del Kenya, il
     sud del Mar Rosso, il Golfo di Oman, nei pressi delle Maldive, delle Comore e delle Seychelles, lo stretto di
     Bāb el-Mandeb, che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden, aprendosi, poi, vero l’Oceano Indiano
     oltre al famoso e delicatissimo IRTC, il corridoio internazionale di transito raccomandato dove vigilano
     costantemente le navi della Quinta Flotta della Marina Usa, quelle dell’Unione Europea e quelle della Nato e
     dove è obbligatorio, per alcune navi di una certa stazza, transitare al buio, completamente oscurate, per
     celarsi agli occhi dei pirati, oppure attendere al punto di raccolta dove si parte scortati, solo con la luce del
     giorno, da un convoglio militare pesantemente armato. Tutte zone dove bisogna stare sempre con gli occhi
     apertissimi. Anche se le scorrerie sono notevolmente diminuite sia per la presenza dei contractors armati a
     bordo nave, sia per lo strettissimo controllo delle flotte militari.
     Gli attacchi dei pirati contro le navi commerciali vengono portati, tipicamente, durante le prime ore della
     mattina o anche in orari notturni in caso di buona visibilità, da barchini a volte in vetroresina, i siddetti skiffs,
     il cui materiale di costruzione non può essere “battuto” dai radar della nave. Sono praticamente invisibili ai
     radar mentre si avvicinano. Se l’attacco avviene in mare aperto invece che in prossimità della costa, c’è il
     supporto di una nave Madre, in genere ex-pescherecci, utilizzata sia per trasportare i pirati che
     l’equipaggiamento, gli skiff, il combustibile e, ovviamente, le armi, perlopiù leggere, tipo i Kalashnikov AK
     47 e i razzi RPG per intimare lo stop alla nave. Il fuoco viene sviluppato verso il ponte di comando della

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     nave per obbligare l’equipaggio a ridurre la velocità e poterla così abbordare con scalette di metallo
     telescopiche e con uncini da ancorare alle paratie.

                             Attacco di pirati somali armati di Ak47 a una nave commerciale
     I contractors imbarcati dalle varie agenzie di sicurezza private in funzione antipirateria hanno, prima di tutto,
     un ruolo di deterrenza. Ma se la situazione precipita, per esempio per l’abbordaggio della nave che stanno
     proteggendo, sono autorizzati ad eliminare la minaccia facendo fuoco con le armi in dotazione. Naturalmente
     non è tutto così automatico. Esiste un coordinamento, in caso di attacco pirata, fra il Team Leader del
     gruppo di contractors, generalmente 4, ed il Comandante della nave che è sempre il principale responsabile
     della sicurezza a bordo. E, comunque, il lavoro degli operatori a bordo, segue regole e procedure ben
     dettagliate e precise, nulla è lasciato al caso o all’iniziativa personale.
     I compiti operativi variano in base ai vari livelli funzionali del team: dalla messa a punto delle difese
     passive all’adeguata chiusura di tutti i possibili vani di entrata, dall’oscuramento della nave in zona-rischio,
     alle regole d’ingaggio in caso di fuoco nemico, dal briefing con il comandante della nave e con l’equipaggio,
     al controllo e alla messa a punto della cosiddetta Safe room dove tutto il personale non addetto alla
     protezione della nave deve ritrovarsi e chiudersi dentro in caso d’attacco, dalle comunicazioni fra il team e
     gli organi di controllo internazionali – il Maritime Security Center, il NATO Shipping Center, l’United
     Kingdom Maritime Trade Operations – alle nozioni di primo soccorso in caso di feriti e alle eventuali
     richieste di evacuazione medica. Già si comprende che un’attività come quella del contractors per
     l’antipirateria marittima può essere svolta praticamente solo da ex-militari più che addestrati, con
     background operativi di alto livello, possibilmente nelle Forze Speciali.
     D’altra parte gli attacchi portati contro le navi commerciali da pirati somali e yemeniti hanno, oramai, la
     stessa forma di un attacco terroristico condotto per eliminare personale civile e sequestrarne il carico. Nella
     mutazione che sta, via via, assumendo il terrorismo globale questi attacchi possono considerarsi, a tutti gli
     effetti, attacchi terroristici. E, da questo punto di vista, la tendenza di certi armatori a imbarcare, al posto di
     contractors italiani provenienti dalle Forze armate, personale poco addestrato, spesso ucraini o polacchi che
     si fanno appositamente domiciliare presso una società greca per costare di meno, rischia di essere molto
     pericolosa. Anche perché le società assicuratrici come i Lloyd’s pagano solo se vi sono determinati requisiti.
     Tuttavia non è sempre necessario sparare per respingere gli attacchi dei pirati. «A marzo dello scorso anno –
     rivela l’Ad di G7, Luciano Campoli – una nave commerciale che i nostri uomini stavano scortando nello
     stretto di Hormuz – subì un attacco dei pirati. Erano 8 barchini. Furono respinti senza sparare, in quel caso,
     un solo colpo. Furono sufficienti i classici razzi di segnalazione a mare oltre all’utilizzo di sagome di cartone
     – incredibile ma vero – che fecero credere ai pirati di essere numericamente inferiori quando invece sulla

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     nave c’erano solo 4 contractors» concluse le missioni antipirateria – che possono durare da venti giorni ad un
     paio di mesi – comunque i contractors sono tenuti a riconsegnare le armi alle floating armories che le
     custodiscono per le successive operazioni. Oppure, se è prevista una sosta intermedia in un porto amico nel
     corso della navigazione, le armi vengono date in custodia momentanea alla polizia del territorio ospitante.
     Anche se non tutti i paesi danno accesso e fanno sbarcare i contractors. Nel caso dei contractors
     terrestri italiani, come si è visto, le cose sono molto diverse. Gli italiani non possono imbracciare le armi in
     zone di guerra. E quindi sono i contractors locali ad armarsi mentre gli italiani devono limitarsi ad addestrarli
     e a coordinarli come dei veri epropri manager, sia pure della sicurezza.
     Ma il problema non è solo questo. C’è un aspetto ancora più delicato. Spiega un ex-incursore pluridecorato
     delle Forze Speciali italiane che viene spesso imbarcato dalle poche società militari private italiane sulle navi
     commerciali nei team antipirateria a protezione dei carichi che solcano i mari nelle aree più a rischio per il
     brigantaggio marittimo e utilizzato anche come security manager nel terrestre per addestrare i contractors
     stranieri delle società locali dove si opera: «purtroppo questo aspetto è molto limitante. Ma, soprattutto,
     mette a rischio buona parte delle informazioni sensibili e delicate, per non dire riservate, che realtà come Eni
     e Farnesina – ma anche molti altri – trattano o possono trattare. E’ facile capire che contractors stranieri,
     spesso provenienti anche dall’intelligence militare straniera, sono naturalmente portati ad acquisire
     informazioni. E qualcosa che hanno inevitabilmente nel Dna. E quando sono sul campo, magari scortando un
     funzionario della Farnesina o un dirigente Eni, vengono naturalmente a conoscenza di informazioni e dettagli
     che possono essere elementi preziosi per qualcun altro. In questo gli inglesi sono maestri».
     Insomma i motivi per aprire alla private military companies italiane il mercato mondiale della sicurezza
     terrestre sono molti e molto importanti. E allora cosa frena l’approvazione di una normativa ad hoc che
     consenta alle società private italiane di schierare i propri contractors nel terrestre come fanno tutti gli altri
     Paesi del mondo evitando di cedere notizie riservate a Paesi stranieri e, oltretutto, dando lavoro agli italiani
     ed evitando così che accada nuovamente ciò che accadde ai compagni di sventura di Fabrizio Quattrocchi
     processati perché ritenuti mercenari? Qualche anno fa il Centrodestra si fece promotore di una normativa in
     questo senso. Ma le cose non andarono poi in porto. Molti contractors sono convinti che la normativa
     sull’operatività delle private military companies italiane in ambito terrestre non viene adottata perché l’Arma
     dei carabinieri, che vigila, per esempio, sulle ambasciate italiane all’estero, è contraria e, sotto sotto, sta
     remando contro. Di certo è qualche anno che se ne discute. Ma non si muove nulla.
     Dice Campoli: «Non è così. C’è però da dire che i nostri contractors costano la metà di quanto costa allo
     Stato schierare un carabiniere». Di che cifre si parla? «Fatti i conti, un carabiniere schierato a difesa di un
     obiettivo sensibile costa allo Stato una media di 6.000-7.000 euro al mese oltre le spese logistiche da
     sostenere, i nostri contractors costano di meno». E soprattutto si evita il rischio di un nuovo caso Marò. Con
     le diplomazie rigidamente inchiodate su un contrasto fra Stati che sta durando anni. E sta lacerando
     l’immagine dell’Italia in tutto il mondo.

     17 set. Uganda, è guerra segreta contro il terrorismo islamico
     La sera della finale dei campionati mondiali di calcio, nel luglio 2010, centinaia di migliaia di ugandesi erano
     incollati ai teleschermi per vedere la madre di tutte le partite. Seguendo la tradizione goliardica e sociale
     della cultura ugandese, la maggioranza dei tifosi si era radunata nei pub, ristoranti e bar per condividere
     l’emozione della partita e bere fiumi di ottima birra ghiacciata e pur Waraki (Gin locale).
     Due violentissime esplosioni trasformarono una felice serata in un lutto nazionale. La più spaventosa fu fatta
     esplodere presso il Ethiopian Village a Kabalagala, noto quartiere della vita mondana notturna presso la
     capitale Kampala. Oltre 100 le vittime, circa 400 i feriti.
     Nella capitale fu dichiarato lo stato di emergenza e invasa dall’esercito in assetto di guerra. Il massacro è
     rimasto indelebile nella memoria degli ugandesi e il Presidente Yoweri Kaguta Museveni promise che il
     Paese non sarebbe stato vittima di altri attacchi del terrorismo islamico.

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     Dopo mesi di serrate indagini e caccia all’uomo, in collaborazione con le autorità keniote, furono arrestati
     vari somali collegati al gruppo terroristico Al-Shabaab che dal 2007 l’esercito ugandese combatte senza
     pietà in Somalia, dirigendo le operazioni militari del contingente africano AMISOM.
     Dalla notte del terrore del 2010, Museveni ha mantenuto la sua promessa: nessun altro attentato terroristico è
     stato realizzato, a differenza del Kenya, vittima di periodici attentati sempre rivendicati da Al-Shabaab. La
     sicurezza del Paese è dovuta da un costante lavoro di intelligence che non ha minato il rispetto, la libertà e i
     diritti umani della comunità mussulmana in Uganda e degli immigrati e rifugiati somali liberi di entrare nel
     Paese ed integrarsi nel tessuto socio economico ospitante.
     La polizia e le forze speciali anti terrorismo, addestrate dal MOSSAD, si concentrano sul controllo di una
     setta estremistica islamica denominata Tabliq, presente in Uganda. I Tabliq Eddawa sono un movimento di
                                                         islamici ‘itineranti’. Nascono negli anni ’20 in Pakistan
                                                         dall’idea di Muhammad Ilyas Kandhalawi. Da allora si sono
                                                         diffusi in tutto il mondo, Uganda compresa. Ogni membro
                                                         deve seguire sei principi fondamentali: la preghiera, il
                                                         ricordo continuo di Dio, lo studio, la generosità, la
                                                         predicazione e la missione. Cioè il Tabliq deve ‘andare a
                                                         portare il messaggio’: per questo, il loro obiettivo ultimo è
                                                         la predicazione. La setta è sospettata di aver organizzato
                                                         una serie di esecuzioni contro personalità musulmane
                                                         moderate e di essere in contatto con Al-Shabaab e la
                                                         guerriglia musulmana ugandese Alleance Democratic
     Forces ADF che opera nel est del Congo. Dal 2012 nove imam moderati sono stati uccisi. La scia di sangue
     delle cellule terroristiche islamiche ha colpito anche il Procuratore Joan Kagezi che aveva indagato
     sull’attentato di Kampala del 2010, ucciso nel marzo 2015 e un ufficiale delle ADF che aveva disertato
     mettendosi a disposizione delle autorità ugandesi per collaborare e fornire importanti informazioni. Tutte
     questi omicidi sono stati eseguiti da killer su motociclette. Le testimonianze convergono che gli autori
     avevano fisionomia somala.
     Lo scorso febbraio Sheikh Yunus Kamoga, leader della setta Tabliq fu arrestato assieme ad altri 13 membri
     per aver minacciato di morte alcuni leader della comunità mussulmana che si oppone alla radicalizzazione
     islamica in Uganda. Mercoledì 23 agosto Sheikh Yunus Kamoga è stato condannato all’ergastolo dalla Alta
     Corte di Kampala mentre altre due membri della setta a 30 anni di prigione. L’avvocato difensore aveva
     tentato di montare una campagna contro il governo durata quasi dieci giorni e solo recentemente esauritasi
     senza aver raggiunto l’obiettivo di aggregare l’opinione pubblica su sospetti di una persecuzione religiosa
     promossa dal governo. Secondo l’avvocato difensore Ladislaus Rwakafuzi, la sentenza contro il leader della
     setta Tabliq è assurda e contraddittoria. Assieme agli altri due membri della setta viene riconosciuto
     innocente rispetto alle minacce di morte rivolte ad imam moderati ma viene riconosciuto colpevole di attività
     terroristiche ricevendo condanne esemplari. «Non esistono prove evidenti. Noto solo una volontà politica del
     governo di reprimere la comunità Tabliq in Uganda» afferma Rwajafuzi.
     Il portavoce della setta Tabliq, Siraje Nsambu ha affermato che la condanna del suo leader ha matrici
     politiche e denuncia un tentativo di repressione religiosa contro i mussulmani. L’accusa di Nsambu non è
     stata appoggiata dalla maggioranza della comunità mussulmana ugandese che considerata la setta Tabliq
     estremista e pericolosa.

     17 set. In Europa oltre 50.000 jihadisti
     In Europa si cerca di dare un ordine di grandezza alla minaccia terroristica islamica. Circa 2.500 foreign
     fighters islamici provenienti dall’Europa stanno combattendo per l’Isis in Siria e in Iraq, ha detto il
     coordinatore dell’antiterrorismo di Bruxelles, Gilles de Kerchove, in un’intervista al giornale tedesco Die
     Welt.

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      “Molti moriranno in combattimento o saranno uccisi
     dallo Stato islamico, poichè l’organizzazione non tollera
     i disertori. Altri si trasferiranno nelle aree di crisi di
     Somalia, Libia o Yemen”. Kerchove ha precisato che
     circa 5.000 europei sono andati a combattere per lo Stato
     islamico (altri si sino arruolati con milizie qaediste o
     salafite), tuttavia 1.500 sono tornati e quasi 1.000 sono
     morti.
     Lo stesso de Kerchove teorizzò l’anno scorso al
     Parlamento europeo l’impossibilità di incarcerare tutti i
     miliziani e terroristi che rientrano in Europa affermando
     la necessità di “recuperarli alla società”, come cercano in
     modo quasi comico di fare alcuni Stati come Svezia e
     Danimarca che hanno pagato sussidi di disoccupazione e invalidità anche ai foreign fighters recatisi in Siria e
     Iraq o che finanziano loro gli studi universitari una volta rientrati in Europa.
     Pochi giorni fa il coordinatore della Ue aveva stimato in oltre 50 mila i jihadisti pronti a colpire in Europa,
     quasi la metà in Gran Bretagna (dove solo 500 dei 3mila considerati molto pericolosi sono sotto costante
     sorveglianza da parte dei servizi di sicurezza interna MI5), 5mila in Spagna, 17 mila in Francia, 2.500 in
     Belgio.
     La perdita di terreno in Iraq e Siria pone “un reale rischio” di vedere rafforzati da parte dell’Isis i
     finanziamenti per nuovi attacchi in Europa ha detto il 7 settembre il commissario alla Sicurezza Ue, Julian
     King, davanti alla commissione per le libertà civili dell’Europarlamento.
     Nel momento in cui stiamo vincendo sul terreno contro l’Isis, in Iraq e Siria, stanno trasferendo fondi fuori
     da Iraq e Siria”, ha detto King. “C’è un reale rischio di nuovo afflusso di fondi destinati al terrorismo.
     Dobbiamo esserne coscienti e dobbiamo lavorare assieme per vedere il da farsi.
     Una dinamica confermata, ha fatto notare il commissario King, “dal ritmo accelerato degli attacchi in
     Europa”. Le fonti di finanziamento della rganizzazione jihadista restano in buona parte i profitti dalla vendita
     di petrolio e le tasse imposte alla popolazione nelle aree sotto il suo controllo. Questo, malgrado il
     ridimensionamento territoriale del ‘Califfato” sia nell’ordine del 90% rispetto al periodo di massima
     espansione.
     King però sembra dimenticare che le cellule
     terroristiche non hanno bisogno di molto denaro per
     organizzare attentati (quello di Barcellona è costato
     meno di 2mila euro) e l’Europa continua a sborsare
     generosi sussidi del proprio welfare.
     Come ha ricordato Lorenza Formicola sul sito
     Formiche.net l’imam libico Abu Ramadan, aderente alla
     Fratellanza Musulmana, predica dal 1998 lo sterminio di
     tutti gli infedeli ma ha ricevuto in 20 anni più di 620.000
     franchi (oltre mezzo milione di euro) dal welfare
     svizzero per lo più in sussidi di disoccupazione.
     Alcuni membri del commando jihadista che attaccò
     Parigi avevano ricevuto oltre 50 mila euro di sussidi dal
     welfare belga così come Khuram Butt e altri terroristi
     jihadisti britannici, incluso Salman Abedi, il kamikaze di Manchester che ricevette migliaia di sterline solo
     per essersi iscritto all’Università.
     Sami Abu-Yusu, imam Salafita della moschea al-Tawheed di Colonia, sostiene la legittimità degli stupri
     delle donne infedeli e il rogo per i gay ma vive col sussidio di disoccupazione gentilmente offerto dallo Stato
     tedesco.

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     Julian King nel suo rapporto non ha dimenticato la lotta virtuale ai jihadisti del web. Negli ultimi due anni
     Europol ha individuato “35mila elementi di contenuto terroristico online”. Una quota compresa fra l’80 e il
     90% di questi è stata eliminata: si tratta quindi di circa 30mila contenuti.

     17 set. Kenya, il singolare ed emozionante incontro con le giraffe bianche
     Filmati, per la prima volta, due esemplari affetti da leucismo, una patologia genetica simile all'albinismo che
     impedisce la pigmentazione della pelle. Quanto avvenuto nella riserva Ishaqbini Hirola Conservacy della
     contea di Garissa, in Kenya, è qualcosa di assolutamente unico e straordinario. Mai, nella storia dei reportage
     naturalistici, era stato possibile trovarsi faccia a faccia con due esemplari di rare quanto magnifiche giraffe
     bianche e avere la fortuna di documentare il tutto con un filmato. Un’esperienza decisamente fuori del
     comune, quella avvenuta nella zona dello Tsavo est, dove sono apparsi dalla boscaglia i due bellissimi
     mammiferi. Entrambi non presentavano il caratteristico manto chiazzato tipico della loro specie (nella zona
     circola perlopiù la giraffa reticolata) ma una livrea completamente candida che, a un primo sguardo, potrebbe
     far pensare ai tratti somatici dell’albinismo. Niente di tutto questo: secondo quanto spiegato da alcuni
                                                                           studiosi, le giraffe soffrono di una
                                                                           particolarità genetica chiamata leucismo
                                                                           causato essenzialmente dall’assenza di
                                                                           melanina. Altra caratteristica che
                                                                           differenzia le due patologie, risulta il
                                                                           mantenimento dei colori dell’iride, cosa
                                                                           che non avviene nell’albinismo e che rende
                                                                           il leucismo, di fatto, una sorta di patologia
                                                                           incompleta. Addirittura, secondo quanto
                                                                           osservato dagli scienziati, gli animali affetti
                                                                           da tale particolarità genetica risulterebbero
                                                                           leggermente più resistenti al calore e, al
                                                                           contrario degli albini, non sono
     fotosensibili.
     I due esemplari, madre e cucciolo, sono stati osservati all’interno di una riserva destinata alla conservazione
     del rarissimo (e a fortissimo rischio d’estinzione) damalisco di Hunter, noto anche come hirola, antilope
     presente (allo stato selvaggio) esclusivamente in questa zona dell’Africa, compresa fra il fiume Tana e lo
     Jubia, al confine tra Kenya e Somalia. I numerosi avvistamenti susseguitisi nel tempo da parte dei residenti,
     hanno portato alcuni di loro a rintracciare e filmare gli animali che, secondo quanto riferito, sono apparsi
     estremamente mansueti e per nulla infastiditi dagli esseri umani.

     17 set. Somaliland. Un paese in cui pagare con il cellulare è la norma
     Negli ultimi anni, con le innovazioni nel campo delle carte di credito come la tecnologia contactless e la
     diffusione degli smartphone, si parla sempre più spesso della scomparsa del denaro contante e dei pagamenti
     fatti con gli smartphone. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada, secondo uno studio commissionato
     da una società che se ne occupa, si usano abbondantemente già i propri cellulari come carta di credito; ma il
     paese in cui questa nuova modalità di pagamento si sta rivelando più utile è un altro: il Somaliland, un paese
     dell’Africa orientale non riconosciuto dalla comunità internazionale.
     Lo scellino del Somaliland, introdotto nel 1994 e per anni fatto stampare da leader politici solo per acquistare
     finanziare i propri scontri di potere, ha perso moltissimo valore per via dell’inflazione. Oggi un dollaro
     americano vale circa 9mila scellini: se volessero pagare la spesa in contanti, le persone sarebbero costrette a
     portarsi dietro grandi borse piene di banconote. Per questo già dal 2009 hanno cominciato a diffondersi i
     pagamenti via SMS, quindi anche senza bisogno di una connessione a internet.

Sede centrale, via Carlo Errera 7, 00176 RM; Sede operat., via degli Avieri, 00143 RM; Sede legale, via S.Rita 22, 36010 Zanè (VI)
                 Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, facebook: hdig.ong
                     website: www.hdig.org ; e-mail: riccardo.galletti@hdig.org, mario.pellegrino@hdig.org;
                     IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703
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     HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
       Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
                    C.F.97191910583

     Il Somaliland confina con il Gibuti, con l’Etiopia e con la Somalia, da cui si è separato nel 1991 con l’inizio
     della guerra civile nel paese ancora in corso. Oggi le cose in Somaliland non vanno male come in Somalia,
     che si potrebbe definire lo stato fallito per eccellenza, ma non si può dire che il paese sia fiorente dal punto di
     vista economico: per questo è sorprendente pensare che proprio il Somaliland sia il posto “in cui il denaro
     contante si sta estinguendo”.

               Un’impiegata del ministero dell’Acqua e dell’Energia del Somaliland riceve un pagamento, il 13 ottobre 2010

     La ragione per cui i pagamenti via cellulare si sono diffusi in Somaliland è che le banconote più comuni nel
     paese sono quelle da 500 e da 1.000 scellini: ne servono tantissime per acquistare qualsiasi cosa. Nelle strade
     di Hargeisa, la capitale del paese, gli agenti di cambio che cambiano gli scellini in dollari e in euro, spostano
     carriole cariche di banconote. Le esportazioni sono molto ridotte e la merce più esportata sono i cammelli.
     Non ci sono banche riconosciute a livello internazionale e non esistono bancomat. Per queste ragioni era
     diventato necessario trovare un metodo di pagamento alternativo.
     Ci sono due servizi privati che permettono di pagare usando i cellulari: Zaad della compagnia telefonica
     Telesom, che è attivo dal 2009, ed e-Dahab, nato più di recente dalla collaborazione tra la compagnia
     telefonica Somtel e la banca somala Dahabshiil. Internet non è necessario, quindi anche i telefoni più
     semplici possono essere usati per i pagamenti: per spostare il denaro dal proprio conto corrente a quello di un
     negoziante, basta digitare due codici numerici, uno legato al proprio conto, l’altro a quello della persona da
     pagare, un po’ come quando si fa una ricarica. Tutti i negozi hanno i propri codici esposti in bella vista: nei
     mercati sono dipinti su strutture di lamiera, nei locali più costosi sono incisi su targhe appese al muro.
     Una commerciante di gioielli di Hargeisa ha fatto vedere a il suo bilancio giornaliero sul proprio cellulare –
     più di duemila dollari – e ha raccontato che più del 40 per cento dei pagamenti che riceve sono fatti usando i
     cellulari. I datori di lavoro usano i cellulari per pagare i propri dipendenti e anche le persone più povere che
     vivono nelle zone rurali usano questo sistema, perché permette loro di ricevere facilmente del denaro dai
     propri parenti. La maggior parte degli abitanti del Somaliland che vivono in città, sin dal 2016, usa i servizi
     di pagamento via cellulare; nelle campagne la percentuale è del 62 per cento. Servizi simili si stanno

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                                                                      diffondendo anche in altri paesi africani
                                                                      come il Ghana, la Tanzania e l’Uganda, e
                                                                      l’analogo kenyano di Zaad, M-Pesa, è usato
                                                                      da circa metà della popolazione.
                                                                      Non tutti però sono contenti di usare i
                                                                      cellulari per i pagamenti. La Somalia è il
                                                                      paese con più corruzione al mondo – le
                                                                      classifiche che la indicano come tale non
                                                                      riconoscono il Somaliland come uno stato
                                                                      indipendente – e molti temono che i servizi di
                                                                      pagamento via cellulare, gestiti da due
                                                                      società private, non siano amministrati con
     onestà. Inoltre il fatto che Zaad ed e-Dahab basino le transazioni in dollari e non in scellini rende il
     Somaliland più dipendente dalla moneta suscettibile di inflazione.

     18 set. In Etiopia 850 mila rifugiati; 73 mila in 8 mesi. E Altrove …
     Non ci sarà un’altra ondata di profughi siriani come il milione di uomini, donne e bambini che arrivarono in
     Europa nel 2015, né si arriverà al picco di 180 mila sbarchi in Italia come nel 2016. Nel 2017, infatti, il
     numero degli arrivi dall’Africa risulterà molto più ridotto per effetto delle politiche poste in essere dal
     governo italiano in Libia dallo scorso luglio con l’Accordo Minniti. Ma ciò non diminuirà il numero
     complessivo dei rifugiati nel mondo che è e resta di 60 milioni. Gran parte dei rifugiati africani, peraltro,
     resta in Africa. È di questi giorni il censimento di quelli ospitati in Etiopia, il Paese dell’Africa Orientale più
     organizzato tra quelli che lo circondano, tutti travagliati da guerre civili, come la Somalia e il Sud Sudan, o
     insopportabili dittature come l’Eritrea.
     Ed è proprio da Eritrea, Sud Sudan e Somalia che provengono i 72.890 rifugiati arrivati in Etiopia dall’inizio
     di quest’anno al 31 agosto e che portano a complessivi 852.721 il numero di quelli presenti nei 26 campi
     distribuiti nei sei stati regionali di Gambella, Tigray, Afar, Benishangul Gumuz, Oromia e Ogaden. Erano
     303.601 a marzo 2012. 550 mila in più in soli cinque anni (nella foto: un Campo profughi in Etiopia).
     Sono i dati riferiti lo scorso venerdì da Kisut Gebreegziabher, Portavoce di UNHCR Etiopia, il quale ha
     anche precisato che gli incrementi del 2017 sono dovuti per 44 mila unità a rifugiati in fuga dal Sud Sudan
     seguiti da 17 mila eritrei e da oltre 6.400 somali.
                                                                              I motivi della fuga dai rispettivi paesi
                                                                              sono stati così spiegati da
                                                                              Gebreegziabher: i rifugiati del Sud
                                                                              Sudan sono fuggiti in Etiopia per
                                                                              sfuggire alla guerra civile, mentre i
                                                                              rifugiati eritrei hanno citato il richiamo
                                                                              al servizio militare a tempo illimitato e
                                                                              le violazioni dei diritti umani, mentre i
                                                                              somali hanno riferito una combinazione
                                                                              di conflitti e siccità". Ai profughi in
                                                                              Etiopia l’UNHCR offre servizi sociali
                                                                              quali l'istruzione, l'acqua e la sanità, la
                                                                              sicurezza alimentare, il sostegno alla
                                                                              nutrizione e l'empowerment della
                                                                              comunità. Con gli arrivi del 2017
                                                                              l’Etiopia diventa il secondo paese
                                                                              africano più ospitale per i rifugiati in

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     tutta l’Africa. Ma non è quello dove si vive meglio da rifugiati.
     In questo senso il più apprezzato è l’Uganda con il suo campo modello di Bidi Bidi creato a seguito
     dell’aggravarsi della crisi nel Sud Sudan dove, dal 2013, le truppe del presidente Salva Kiir si scontrano con
     i ribelli vicini all’ex vicepresidente Riek Machar.
     Bidi Bidi è oggi uno dei campi profughi più organizzato. Come ha scritto Julian Hattem sul Guardian
     ”assomiglia più a un insieme di piccole città invece che a un labirinto angusto di tende” spiegando che ci
     sono mercati dove i profughi si sono attrezzati per vendere verdure, cibi confezionati e vestiti. Alcuni
     imprenditori hanno avviato piccoli negozi per aggiustare le motociclette, uno dei mezzi più usati nel campo,
     e per costruire i mobili per le case. Ci sono anche diverse strutture – scuole, campetti e cliniche – gestite da
     associazioni umanitarie che offrono servizi a migliaia di persone.
     In Uganda è l’intera politica di accoglienza che è diversa rispetto al resto del mondo. Ha riferito inoltre la
     stessa Julian Hattem, questa volta in un articolo per il Washington Post: “Piuttosto che essere rinchiusi in
     campi affollati circondati da muri di filo spinato, in Uganda 1,2 milioni di profughi hanno ricevuto grandi
     appezzamenti di terreno all’interno di insediamenti altrettanto enormi dove poter costruire proprie abitazioni
     o, se vogliono, piccole aziende agricole. Ma se la vita rurale non fa per loro, possono decidere di spostarsi
     liberamente in tutto il Paese, dirigendosi verso le città oppure verso l’animata capitale Kampala, ormai casa
     per 95.000 rifugiati”.
     All’opposto dell’accoglienza in Uganda si pongono, invece, paesi come il Sudan, la Libia, l’Egitto e il Sud
     Africa. Qui i profughi vivono in condizioni spesso terribili, in cui si consumano atrocità e violenze indicibili,
     come quelle avvenute in Sud Africa dove alcuni profughi sono stati bruciati vivi dalle organizzazioni
     criminali del posto.
     A contrasto, i cinque Paesi più ricchi (USA, Cina, Giappone, Regno Unito e Germania) – che costituiscono a
     loro volta la metà dell’economia globale – stanno accogliendo meno del 5 percento dei rifugiati mondiali,
     mentre l’86 percento di essi si trovano nei Paesi in via di sviluppo che spesse volte lottano quotidianamente
     per soddisfare le esigenze dei propri cittadini.
     Per la verità, la Convenzione di Ginevra del 1951, art. 1, comma secondo, il termine di rifugiato è
     applicabile: “… a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore
     d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
     determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la
     cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a
     chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può
     o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”. C‘è anche da dire che al momento della promulgazione
     di tale Convenzione non c’erano le emergenze che si sono ultimamente verificate, né che la questione
     venisse gestita da bande di malavitosi per sfruttare la speculazione sulla vera emergenza.

     18 set. Etiopia: nuovi scontri nella regione di Oromiya, 50 mila persone. I morti
     sarebbero più di 50. Addis Abeba invia militari per presidiare l'area
     Proseguono gli scontri nella regione di Oromiya, al confine tra Somalia e Etiopia. In una settimana almeno
     50 persone potrebbero essere state uccise negli scontri, mentre gli sfollati sono migliaia. La situazione è
     critica, tanto da spingere il governo a inviare i militari. “Non si sono verificate solo vittime – ha detto Lema
     Megersa, presidente della provincia di Oromya – Più di 50 mila persone sono state costrette ad abbandonare
     le proprie case“. Il governatore non ha però fornito il numero preciso dei morti.
     ’area è da decenni teatro di scontri sporadici. Nel 2004 per allentare le tensioni si è svolto un referendum per
     determinare lo status degli insediamenti contesi. Ma la consultazione non ha sortito gli effetti sperati.
     Secondo un’inchiesta parlamentare negli scontri verificatisi in Oromiya e in altre regioni limitrofe tra il 2015
     e il 2016 sono rimaste uccise 669 persone. Le violenze sono percepite come una minaccia per la stabilità
     dell’Etiopia, uno dei più importanti alleati dell’Occidente in Africa, dotato della maggiore economia della
     zona. Le parti in causa hanno fornito versioni contraddittorie sull’origine degli scontri della scorsa settimana.

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