PLASMARE IL FUTURO: LA FORMAZIONE PER RAPPRESENTARE E CONTRATTARE ALGORITMO E SVILUPPO - Cgil
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Formazione e Sviluppo ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Sede: Via Buonarroti, 51 - 00185 Roma - Tel. 06/492051 - Fax 06/49205453 E-mail: regionale@lazio.cgil.it PLASMARE IL FUTURO: LA FORMAZIONE PER RAPPRESENTARE E CONTRATTARE ALGORITMO E SVILUPPO Il 16 ottobre, è uscito in Italia il libro postumo di Stephen Hawking “Le mie risposte alle grandi domande” sui destini dell’essere umano dopo l’impatto delle trasformazioni climatiche sociali e tecnologiche in atto. Un libro interessante e forse anche inquietante che avrà però il merito di farci pensare al futuro di noi tutti e del Pianeta stesso. “Ricordatevi di guardare in alto, verso le stelle… siate curiosi. Per quanto difficile possa sembrare la vita, c’è sempre qualcosa che potrete fare con successo. L’importante è non arrendersi. Liberate la vostra immaginazione. PLASMATE IL FUTURO.” Il 17 ottobre, esce il rapporto Caritas sulla povertà in Italia, che cresce ed investe oramai una larga fascia della popolazione con elementi di aggravio. “Particolare attenzione è data nel rapporto al tema della povertà educativa, un fenomeno principalmente ereditario nel nostro Paese, che a sua volta favorisce la trasmissione intergenerazionale della povertà economica. I dati nazionali dei centri di ascolto, oltre a confermare una forte correlazione tra livelli di istruzione e povertà economica, dimostrano anche un’associazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà. Esiste uno “zoccolo duro” di disagio che assume connotati molto simili a quelli esistenti prima della crisi economica del 2007-2008, con la sola differenza che oggi il fenomeno è sicuramente esteso a più soggetti. Si tratta, dunque, di un “esercito di poveri” in attesa, che non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’ allarmante cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni”. Tra questi due estremi posizioniamo l’azione sindacale finalizzata a contrattare condizioni e tutele perché questo sia e rimanga un Paese civile e democratico che pensa al futuro per tutti e tutte. E pensare al futuro è oggi quello che abbiamo il compito di fare per poter garantire il benessere di lavoratrici e lavoratori, studenti, disoccupati e pensionati.
Di seguito una premessa, con rimandi bibliografici per ogni eventuale approfondimento e in finale una prima ipotesi di piano formativo regionale pluriennale. 1 – ANDAMENTO DEMOGRAFICO • Andamento demografico della popolazione residente nel Lazio dal 2001 al 2017 su dati ISTAT al 31 dicembre di ogni anno. • Flusso migratorio della popolazione Il grafico in basso visualizza il numero dei trasferimenti di residenza da e verso il Lazio negli ultimi anni. I trasferimenti di residenza sono riportati come iscritti e cancellati dall'Anagrafe dei comuni della regione. Fra gli iscritti, sono evidenziati con colore diverso i trasferimenti di residenza da altri comuni, quelli dall'estero e quelli dovuti per altri motivi (ad esempio per rettifiche amministrative). • Movimento naturale della popolazione 2
Il movimento naturale di una popolazione in un anno è determinato dalla differenza fra le nascite ed i decessi ed è detto anche saldo naturale. Le due linee del grafico in basso riportano l'andamento delle nascite e dei decessi negli ultimi anni. L'andamento del saldo naturale è visualizzato dall'area compresa fra le due linee. La tabella seguente riporta il dettaglio delle nascite e dei decessi dal 2002 al 2017. Vengono riportate anche le righe con i dati ISTAT rilevati in anagrafe prima e dopo l'ultimo censimento della popolazione. Si sottolineano i seguenti fenomeni e scenari: • Innalzamento dell’età media di lavoratori e lavoratrici e diminuzione degli occupati under 35. 3
• Da OSCE: nel 2050 l’Italia sarà il terzo Paese più anziano del mondo. Con speranza di vita alla nascita che arriverà per il Centro Italia a 85.6 anni per gli uomini e 89.7 per le donne nel 2065 • Da Istat: già nel 2018 la popolazione diminuisce di circa 100.000 residenti, aumentando i decessi e diminuendo le nascite. Nel lungo periodo si prevede una lieve controtendenza • Da Istat: i flussi migratori nel 2016 in uscita sono aumentati del 15,4% rispetto al 2015 e per il 39% hanno tra i 18 e i 35 anni 2-LA DISPERSIONE SCOLASTICA Tra le regioni con maggiore dispersione nella scuola secondaria di I grado, di alunni che hanno abbandonato gli studi in corso d’anno o nel passaggio fra un anno e l’altro, spiccano le regioni del Sud e il Lazio con l’1%. (da MIUR nov 2017) Nella scuola secondaria di II grado, il Lazio è invece in linea con i dati nazionali, con una percentuale di abbandono del 4.2%. Elevata la dispersione tra medie e superiori, dove si registra un dato superiore al 6%. Ma, sempre nel Lazio, il 4,47% di queste ragazze e questi ragazzi passa alla formazione professionale regionale, lo 0,02% è andato in apprendistato, lo 0,06% ha abbandonato per validi motivi (istruzione parentale, trasferimento all’estero). Solo l’1,61% ha abbandonato del tutto: si tratta però pur sempre di 8.949 ragazzi. (nel 2016) Ancora una volta il fenomeno della dispersione scolastica colpisce maggiormente i cittadini stranieri rispetto a quelli italiani: nel passaggio tra la scuola secondaria di I e di II grado la percentuale di alunni stranieri che ha abbandonato gli studi è del 5,72%. Da notare che il reato per abbandono della scuola non sussiste per i giudici della Corte di Cassazione, la legge è chiara e va rispettata: bastano 8 anni di scuola, non occorre la licenza media! [Da cabina regia Miur su abbandono scolastico] La rivoluzione digitale ha cambiato i modi di apprendere e tolto alla scuola il monopolio di come si impara: è una sfida gigantesca. Oggi tutte le discipline -sia teoriche che pratiche -sono, infatti, caoticamente parte della rete e sono accessibili in mille forme, rapidamente. Con la possibilità, ulteriore, di essere manipolate, variate, confuse, confrontate, espanse e ricollocate anche in termini produttivi, on demand, con un’attenzione a una domanda sempre più differenziata e resa anche singolare, personale. 4
Lo stesso modo di imparare -il funzionamento del cervello umano -viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, etc. Questa è la prima generazione di docenti ed educatori che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle e che si misura, al contempo, con l’imparare, il produrre e il comunicare su vasta scala. Ai docenti viene ora chiesto di insegnare a distinguere, scegliere, confrontare in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere e le competenze che i giovani hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola e diversi da come hanno imparato loro. 3 – TITOLI DI STUDIO E OCCUPAZIONE A -Laureati e occupazione (dati AlmaLaurea) Il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un tendenziale miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, risulta aumentato di 5,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,8 punti per i magistrali biennali. Si tratta di segnali positivi, soprattutto quelli dell’ultimo anno (il tasso di occupazione è aumentato di 2,9 punti per i laureati di primo livello e di 3,1 punti per i magistrali biennali). Tali segnali non sono però ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione osservabile tra il 2008 e il 2013 (-17,1 punti percentuali per i primi; -10,8 punti per i secondi). Le criticità, vissute da chi si è affacciato sul mercato del lavoro negli anni peggiori della crisi globale hanno inevitabilmente condizionato la performance occupazionale a tre e, in particolare, a cinque anni dal conseguimento del titolo. Per questi laureati, infatti, è solo nell’ultimo biennio che si sono manifestati i segnali di ripresa della capacità di assorbimento del mercato del lavoro. Più nel dettaglio, a tre anni dalla laurea il tasso di occupazione raggiunge l’83,8% tra i laureati di primo livello e l’85,6% tra i magistrali biennali (in aumento, rispetto all’indagine dello scorso anno, di 2,1 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 2,9 per i magistrali biennali). Ma gli esiti occupazionali qui descritti evidenziano forti differenziazioni, che in generale riguardano tutti i tipi di laurea esaminati. Si tratta di differenze che riguardano, ad esempio, il genere, la ripartizione geografica di residenza ma anche, naturalmente, il percorso di studi concluso La prima evidenza che emerge è che il gruppo disciplinare esercita un effetto determinante sulle chance occupazionali dei neo-laureati: analogamente a quanto rilevato lo scorso anno, si evidenzia che, a parità di altre condizioni, i laureati delle professioni sanitarie e di ingegneria risultano più 5
favoriti. Meno favoriti, invece, sono i laureati dei gruppi disciplinari psicologico, giuridico e geo- biologico. Si confermano significative le tradizionali differenze di genere e, soprattutto, territoriali, testimoniando la migliore collocazione degli uomini (8,2% di probabilità in più di lavorare rispetto alle donne) e di quanti risiedono o hanno studiato al Nord (per quanto riguarda la residenza, +34,1% di probabilità di essere occupati rispetto a quanti risiedono al Sud; per quanto riguarda la ripartizione geografica di studio, +44,9% di probabilità di essere occupati rispetto al Sud). Il contesto socio-culturale di origine sostiene propensioni ed aspettative, sia formative sia di realizzazione professionale, che consentono di ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro, in attesa di una migliore collocazione. A un anno dal titolo il lavoro autonomo riguarda il 12,9% dei laureati di primo livello occupati e il 7,3% di quelli magistrali biennali, mentre il contratto alle dipendenze a tempo indeterminato interessa, rispettivamente, il 23,5% e il 26,9% degli occupati. I laureati assunti con un contratto non standard (in particolare alle dipendenze a tempo determinato) rappresentano il 38,1% tra i laureati di primo livello e il 34,3% tra quelli magistrali biennali. Invece, gli occupati assunti con un contratto formativo sono rispettivamente, il 10,0% e il 15,5%. È più contenuta la diffusione delle altre forme contrattuali. L’altro lavoro autonomo (principalmente contratti di collaborazione occasionale) riguarda il 5,6% dei laureati di primo livello e il 5,9% di quelli magistrali biennali, mentre il lavoro parasubordinato interessa il 2,8% e il 3,3%. Infine, il lavoro non regolamentato riguarda il 6,5% degli occupati di primo livello e il 6,2% dei magistrali biennali. In ragione dei citati interventi normativi e in considerazione del fatto che convivono, tra gli occupati, laureati assunti in fasi temporali differenti, le tendenze non sono lineari. Rispetto al 2008 si assiste a un deciso incremento del lavoro non standard, cresciuto di 14,2 punti percentuali tra i laureati di primo livello e di 13,2 punti tra i magistrali biennali (solo nell’ultimo anno, +5,2 e +6,9 punti percentuali, rispettivamente). Sono invece diminuiti il lavoro alle dipendenze a tempo indeterminato, rispettivamente di 18,3 e di 7,0 punti percentuali (soprattutto nell’ultimo anno), e il lavoro parasubordinato, di 6,2 e di 11,9 punti. Più contenute risultano le altre variazioni: in particolare, rispetto al 2008 si registra un aumento del lavoro autonomo di 3,5 punti percentuali tra i laureati di primo livello e di 0,9 punti tra i laureati del biennio magistrale. Anche per il lavoro non regolamentato si rileva un aumento nel periodo in esame di 2,8 punti percentuali per entrambi i collettivi. Nel 2017 la retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. In un contesto caratterizzato da una sostanziale stabilità dei prezzi al consumo, nell’ultimo quadriennio le retribuzioni reali 6
risultano in aumento: +9,7% per i laureati di primo livello, +9,9% per quelli magistrali biennali (nell’ultimo anno non si registrano variazioni di rilievo). L’aumento rilevato non è ancora in grado di colmare la significativa perdita retributiva registrata nel periodo 2008-2013 (-23,2% per il primo livello,-19,5% per i magistrali biennali). E ciò contribuisce a giustificare la nefasta “fuga di cervelli” che l’Italia sta subendo. B - Diplomati nel Lazio Rapporto Alma Diploma sulle scelte di 50.000 diplomati del 2013, indagati ad un anno dal diploma, dei 350 Istituti di Scuola secondaria superiore che hanno aderito ad AlmaDiploma. “Le indagini di Alma Diploma” mostrano come si sia ridotto il passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università: come ha più volte ribadito AlmaLaurea, oggi solo il 30% dei giovani 19enni accede agli studi universitari per le difficoltà economiche incontrare dalle famiglie, la mancanza di una seria politica per il diritto allo studio e all’orientamento, ma anche per una quota crescente di figli di immigrati che non accede agli studi universitari. Così, sebbene, nel Lazio come a livello nazionale, la maggioranza dei diplomati 2013 risulti iscritta all’università, l’Indagine qui presente segnala una difficoltà rispetto ad abbandoni e ripensamenti. Il messaggio rimane preoccupante: di fronte a un Paese che avrebbe necessità di aumentare la soglia educazionale si registra una minore attrazione dei giovani verso il mondo della scuola e dello studio universitario “Il presente Rapporto fotografa le scelte formative e professionali compiute dagli studenti laziali che hanno sperimentato all'interno dei loro Istituti l'utilizzo degli strumenti messi a disposizione dal Progetto AlmaDiploma-AlmaOrièntati. In questo modo, i giovani intervistati, permettendo alla propria scuola di monitorare le loro esperienze formative e professionali dopo il diploma, contribuiscono a migliorare l'offerta formativa dei 118 Istituti coinvolti nell’Indagine, e al tempo stesso, offrono una base di dati importante per valutare l'esperienza post-diploma nel suo complesso. Ad un anno dal diploma, 63 diplomati laziali su cento proseguono la formazione e sono iscritti ad un corso di laurea (in particolare, il 49% ha optato esclusivamenteper lo studio, il 14% ha scelto di frequentare l’università lavorando). Il 32% ha preferito inserirsi direttamente nel mercato del lavoro (per la precisione il 14% studia e lavora e il 18% lavora solamente). Un altro 18% infine si divide tra chi è alla ricerca attiva di un impiego (13%), e chi invece per motivi vari (tra cui, prevalentemente, la formazione non universitaria, ma anche per motivi personali o mancanza di opportunità di lavoro) non cercano un lavoro (5%). 7
Tipo di diploma. Come era prevedibile, la quota di diplomati dediti esclusivamente allo studio universitario è nettamente più elevata tra i liceali (71%) rispetto ai diplomati del tecnico (32%) e del professionale (17%). Al contrario, i diplomati che lavorano esclusivamente sono poco diffusi tra i liceali (4%), rispetto ai diplomati del tecnico (30%) e del professionale (39%). La quota di chi dichiara invece di non aver mai avuto esperienze lavorative post-diploma è apprezzabilmente più consistente tra i liceali (50%) rispetto ai colleghi tecnici (31%) o professionali (24%) Differenze di genere. Le ragazze si dimostrano generalmente più interessate a proseguire gli studi: ad un anno dal diploma risultano iscritti ad un corso universitario (indipendentemente dall’impegno in attività lavorative) 69 diplomate e 58 diplomati su cento. La maggiore propensione delle ragazze a proseguire la formazione con corsi universitari è strettamente legata al tipo di diploma conseguito. Le diplomate sono infatti nettamente prevalenti, rispetto ai loro colleghi, tra i professionali e tecnici; mentre tra i colleghi liceali non si riscontrano differenze significative vista la generalizzata tendenza a proseguire la formazione. Analogamente, la decisione di dedicarsi esclusivamente ad un’attività lavorativa è prerogativa dei ragazzi. Non aumenta però in modo apprezzabile l’orientamento delle ragazze verso le lauree STEM (in italiano: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, termine che viene utilizzato per indicare i corsi di studio e le scelte educative volte ad incrementare la competitività in campo scientifico e tecnologico). Pur non essendoci una definizione univoca di STEM, alcune statistiche mostrano che dal 2000 al 2010 negli Stati Uniti la crescita di posti di lavoro legati a queste discipline è stata tre volte maggiore rispetto a quella di altri lavori, anche se alcune aziende statunitensi faticano ancora a trovare personale specializzato e persiste, nonostante gli sforzi del governo, il divario tra uomini e donne e tra i diversi gruppi etnici. Soddisfazione del lavoro dei diplomati Ad un anno dal termine degli studi, 19 diplomati su cento dichiarano di utilizzare le competenze acquisite durante il percorso di studi in misura elevata, mentre per 35 su cento l’utilizzo è più contenuto; ne deriva che 46 occupati su cento ritengono di non sfruttare assolutamente le conoscenze apprese nel corso della scuola secondaria superiore. Seppure le differenze siano modeste, sono in particolare i diplomati tecnici a non utilizzare ciò che hanno appreso a scuola (47%, contro il 46%e 44% rilevato, rispettivamente, tra i liceali e i diplomati professionali). Per ciò che riguarda la richiesta del diploma per l’esercizio dell’attività lavorativa, il 13% degli occupati ad un anno dal titolo dichiara che il titolo è richiesto per legge (è pari al 16,5%, fra i diplomati tecnici e all’8% fra i liceali), cui si aggiungono altri 15 diplomati su cento che ritengono il 8
titolo non richiesto per legge ma di fatto necessario. Ancora, il diploma conseguito risulta utile per 41 occupati su cento (sale al 43% tra i professionali) mentre il titolo non viene considerato né richiesto, né tantomeno utile per 30 occupati su cento (tale quota sale al 34% tra i liceali) Come anticipato, ad un anno dal titolo dichiarano di essere iscritti all’università 63 diplomati su cento; il 5%, invece, si era iscritto ad un corso di laurea, che però ha successivamente interrotto. Ne deriva che 32 intervistati su cento hanno deciso di non proseguire ulteriormente la propria formazione universitaria una volta terminati gli studi secondari. Anche il titolo di studio dei genitori influenza le scelte formative dei giovani. Come ci si poteva attendere, l’87% dei diplomati, provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato, ha deciso di iscriversi all’università (senza aver mai abbandonato gli studi) dopo la scuola secondaria superiore. Tale quota scende al 62% tra i giovani i cui genitori sono in possesso di un diploma, al 38,5% tra quanti hanno padre e madre con un titolo di scuola dell’obbligo, fino al 23% tra i diplomati con genitori con al massimo la licenza elementare. Ripensamenti dei diplomati. Per 19 diplomati su cento la scelta universitaria non si è dimostrata vincente: fra coloro che dopo il diploma hanno deciso di continuare gli studi, il 7% ha deciso di abbandonare l’università fin dal primo anno, mentre un ulteriore 12% è attualmente iscritto all’università ma ha già cambiato ateneo o corso di laurea. Gli abbandoni coinvolgono il 3,5% dei liceali, il 13,5% dei tecnici ed addirittura il 20% dei diplomati professionali. I cambi di ateneo o corso risultano distribuiti trasversalmente in tutti i gruppi di diplomati analizzati: si passa infatti dal 13% di liceali all’11% dei tecnici e professionali, e dal 12% dei diplomati con voto alto al 13% di quelli con voto basso 4- LA FORMAZIONE AI DISOCCUPATI [Da Anpal report 2016/2017 su FC] L’Italia, che nel 2016 ha registrato un tasso di conseguimento degli obiettivi di partecipazione dei disoccupati a corsi di formazione pari all’8.3%, si situa al 55,3% di conseguimento dell’obiettivo, e rispetto al 2015 ha segnato un incremento del 13.7%, mentre l’UE registra un tasso di conseguimento pari al 72,0%. Ciò è lo specchio della scarsa offerta formativa per questa utenza, della debolezza della struttura dei CpI, e rappresenta un punto molto critico del mercato del lavoro italiano, visti gli alti tassi di disoccupazione che lo caratterizzano 9
Per quanto riguarda la popolazione adulta 25/64enne che ha partecipato ad iniziative di istruzione e formazione nel mese precedente l’intervista, l’Italia con un indice di 8.3 è sotto la media UE (10.8), seguita solo da Grecia, Romania, Polonia. 5- LA FORMAZIONE CONTINUA A - Le risorse Gli investimenti delle aziende italiane, pur non essendo tra i primi in UE, sono in continua crescita e diffusione delle pratiche formative (come numero di lavoratori coinvolti e come percentuale delle imprese formative) [indagine CVTS Continuing Vocational Training Survey: questionari in tutta UE nelle aziende con più di 10 dipendenti] La formazione continua è maggiormente presente nelle aziende dei servizi finanziari e assicurativi, energia elettrica, gas, acqua e nelle costruzioni. In coda abbiamo i settori della ristorazione e alloggio, commercio al dettaglio, legno, carta, abbigliamento e tessile. È correlata alla dimensione aziendale ma proprio nelle piccole si registra il maggior incremento percentuale. Persiste invece, anzi si aggrava il divario della partecipazione tra uomini e donne che raggiunge i 5.3 punti percentuali a svantaggio di quest’ultime Nonostante gli incrementi degli ultimi anni, l’Italia dista ancora molto dalla media UE e si colloca al 22° posto probabilmente per la maggiore incidenza delle attività corsuali rispetto a quelle on-the-job e su piattaforme on-line. Inoltre si segnala, purtroppo, una maggiore partecipazione soprattutto per la formazione obbligatoria su salute e sicurezza e una contrazione per i corsi professionalizzanti. Complessivamente le risorse scaturite dallo 0.30 sono state in parte distratte da trasferimenti allo Stato e quindi diminuiscono le risorse per i fondi interprofessionali, mentre aumentano per il fondo di rotazione (MLPS), e, nel 2017, i finanziamenti destinati alla formazione continua ammontano a circa il 66% dello 0,30 e quindi tra lo 0,19 e lo 0,20%. Cubando 426.508.676,06 nel 2017 (novembre) mentre nel 2016 erano ben 647.369.202.20. In totale nel periodo dal 2004 al 2017 (novembre) sono stati trasferiti 6.547.944.801,33. E nonostante questo andamento, il valore dell’inoptato si aggira intorno al 50%. Inoltre la domanda supera l’offerta in quasi tutti gli avvisi pubblicati B - I fondi interprofessionali I fondi interprofessionali, nati dall’accordo di Cgil Cisl e Uil con le Associazioni Datoriali di settore, utilizzano le risorse dello 0,30 che l’Inps riceve come contributo sul monte salariale dei 10
lavoratori e lavoratrici delle aziende iscritte (totale 1.313.050 aziende) per un totale di dipendenti di circa 10.599.759 ad ottobre 2017 Le finalità dei piani formativi 2016 sono state principalmente l’aggiornamento delle competenze 39% dei piani e il 35% dei partecipanti; competitività e innovazione 29.7% dei piani e 29% dei lavoratori e della formazione obbligatoria 11.5% dei piani e 19.7% dei partecipanti. In netto calo rispetto agli anni precedenti dove risultava come tematica di gran lunga maggiormente presente. Sulla certificazione delle competenze acquisite il dato più evidente è che il 43.9% dei piani non ha nessun tipo di certificazione mentre nel 40% la certificazione è dell’ente stesso o del Fondo. La tipologia di contratto maggiormente presente è il Tempo Indeterminato seguito dal Tempo Determinato, mentre le altre tipologie sono scarsamente rappresentate. Il 51,3% dei dipendenti in formazione è con basso titolo di studio e bassa o medio-bassa qualifica con necessità di aggiornamento, mentre la prevalenza rispetto all’inquadramento professionale è delle figure intermedie (amministrativi e tecnici 32%) e operai generici (27%). La loro nazionalità è italiana 96%. Province Numero unità locali delle Numero dipendenti imprese aderenti Frosinone 8.553 53.033 Latina 8.374 64.847 Rieti 1.372 7.918 Roma 42.657 1.083.248 Viterbo 4.339 25.912 Totale Lazio 65.295 1.234.958 Il Lazio incide sia per iscrizione ai fondi sia per piani approvati solo per il 7% !!! In questo ambito la maggiore criticità si riscontra nelle prassi di condivisione dei piani formativi, dove sia la RSU sia il Sindacato territoriale vengono spesso sollecitati a firmare a poche ore dalla scadenza del bando, non lasciando il tempo per analizzare i piani e condividere veramente finalità, obiettivi e partecipanti. La sfida che le Parti Sociali hanno voluto giocare attivando i Fondi era soprattutto legata alla lungaggine e farraginosità delle procedure per ottenere i finanziamenti da Inps. Tale aspetto si è certamente risolto, ma restano punti critici importanti come la formazione obbligatoria su salute e sicurezza pagata con il salario differito e la mancanza di visione strategica da parte delle imprese, spesso accondiscendenti verso gli Enti di formazione … “tanto non si paga”. 11
E in questo gioco perverso il Sindacato è solo un ostacolo che deve essere rimosso o aggirato e non una voce importante nella fase di progettazione. Quindi la firma per la condivisione diventa un puro atto burocratico, soprattutto se il sindacalista coinvolto non è informato o consapevole. C – le Regioni (Istat) Nel Lazio a giugno, dopo mesi di crescita, la stima degli occupati registra un calo di 49 mila unità (-0,2%). La disoccupazione torna a salire al 10,9%, e cresce anche quella giovanile. La diminuzione congiunturale dell’occupazione coinvolge soprattutto gli uomini (-42 mila) e le persone di 35 anni o più (-56 mila). Il calo si concentra tra i dipendenti permanenti (-56 mila) e in misura più contenuta tra gli indipendenti (-9 mila). Continuano invece a crescere i dipendenti a termine (+16 mila), che aggiornano di nuovo il loro record storico, raggiungendo i 3 milioni 105 mila. A giugno il tasso di disoccupazione torna a salire, attestandosi al 10,9%, in aumento di 0,2 punti su base mensile. L’Istituto fa notare come la stima delle persone in cerca di occupazione a giugno registri un aumento del 2,1% (+60 mila). Il numero dei disoccupati risulta così pari a 2 milioni e 866 mila. Invece nei dodici mesi la disoccupazione cala lievemente, mantenendosi sui livelli della fine del 2012 Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a giugno risale, risultando pari al 32,6%, in rialzo di 0,5 punti percentuali su maggio. Il livello degli under25 in cerca di occupazione è nettamente inferiore al massimo raggiunto nel marzo del 2014 (43,5%) ma ancora di 13 punti superiore rispetto al minimo toccato nel febbraio del 2007 (quando era 19,5%). Ciò nonostante sia stata attivata un’allocazione di rifinanziamento IOG di € 32.306.850,66 per la riprogrammazione del PON IOG e del PON SPAO. Inoltre la spesa ancora da dichiarare rispetto dei POR FESR (dati al 15/2/18 in milioni di euro) è di 55.5, e relativamente al target N+3 (solo risorse UE) 116,6, con una percentuale di non dichiarato del 47,58%. Situazione in evoluzione durante l’anno. Il Lazio finanzia, tra gli altri interventi, il Contratto di ricollocazione (6 mesi) con servizi di orientamento, tirocini, formazione per l’adeguamento delle competenze (100 ore) o attività di specializzazione (150 ore), mentre altri percorsi prevedono, dopo l’orientamento, attività fino a 200 ore per la riqualificazione e di 560 ore per la qualificazione (la sperimentazione delle azioni PLUS benché efficaci non si sono rifinanziate). Il finanziamento può essere attivato anche per la certificazione delle competenze di singola unità didattica (100 ore) con impegno delle aziende all’assunzione del 50% dei partecipanti alla formazione. L’erogazione del contributo pubblico è proporzionata alle quote di assunzione Il fulcro di questa attività dovrebbero essere i Centri per l’Impiego, spesso sotto dotati e con scarsi contatti con l’apparato produttivo del territorio. 12
6 – NUOVE TECNOLOGIE E NUOVI LAVORI A – CRITICITÀ (da Excelsior) Non è facile quantificare gli impatti occupazionali della rivoluzione tecnologica. A livello schematico possiamo identificare tre macro-livelli intorno ai quali si sviluppano gli effetti della tecnologia. Un primo livello è quello della trasformazione dei lavori esistenti. È difficile pensare a lavori che non subiranno una trasformazione rilevante, in cui molte mansioni cambieranno diventando probabilmente più complesse e richiederanno competenze più elevate e sofisticate. Già oggi, l’indagine Excelsior consente di cogliere alcuni significativi mutamenti. Un esempio per tutti è quello dell’addetto inserimento dati, per cui le imprese richiedono nel 12% dei casi personale laureato mentre cinque anni fa tale quota non superava il 5%. Pur mantenendo la stessa denominazione, per questa professione – come per molte altre – è cambiato nel tempo il suo “contenuto”, in termini di competenze, conoscenze e mansioni richieste. Il secondo livello è costituito dalla creazione di nuovi posti di lavoro, si pensi ad esempio alle nuove professioni associate all’utilizzo dei big data, alla cybersecurity, o ai social media. Un recente studio del World Economic Forum (2016) ha stimato che il 65% dei bambini che frequentano attualmente la scuola primaria svolgeranno da grandi un lavoro che attualmente non esiste ancora. Purtroppo, ad oggi è molto difficile quantificare la dimensione di questo fenomeno in virtù dell’elemento di notevole innovatività e aleatorietà associato alle nuove tecnologie. Il terzo livello è quello invece legato alla potenziale distruzione di posti di lavoro. Questo tema è al centro del dibattito politico e non, poiché fonte di preoccupazioni alimentate da stime talvolta piuttosto allarmistiche. In uno studio molto noto Frey e Osborne (2017) stimano l’impatto della probabilità di automazione. …Le occupazioni in cui esistono vincoli forti risultano difficilmente automatizzabili, viceversa quelle dove i vincoli sono più leggeri risultano più facilmente automatizzabili. I vincoli identificati da Frey e Osborne si riferiscono a tre ambiti principali: la necessità di manipolare gli oggetti (destrezza manuale e necessità di lavorare in spazi ristretti e limitati), l’uso dell’intelligenza creativa (originalità, arte, etc.) e l’utilizzo dell’intelligenza sociale (capacità di persuasione, negoziazione, interazione e cura degli altri). In tutti questi ambiti le macchine e il software trovano forti vincoli che ne impediscono l’utilizzo. Lo studio di Frey e Osborne ha suscitato un ampio dibattito anche a causa delle stime piuttosto pessimistiche. Recentemente alcuni studi (McKinsey e Arntz-Gregory-Zierahn) hanno fortemente ridimensionato l’impatto avverso dell’automazione nel mercato del lavoro. Più recentemente uno 13
studio dell’OCSE ha replicato l’analisi di Frey e Osborne utilizzando anziché la descrizione delle occupazioni, l’importanza e la frequenza delle attività (task) all’interno della occupazione come rilevato dall’indagine PIIAC. Le stime a cui giunge questo studio sono molto più conservative di quelle di Frey e Osborne e indicano che nei paesi OCSE meno del 14% dei lavori sono caratterizzati da un rischio elevato di automazione. Tuttavia, nonostante queste stime siano maggiormente conservative, ciò non significa che l’automazione non possa avere un impatto rilevante su alcune professioni. Per stimare l’impatto dell’automazione sulla domanda di lavoro italiana si veda anche “l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società DESI relazione 2018 per l’Italia”, dove ci collochiamo al quartultimo posto in UE, conservando la 25° posizione su 28 Paesi, con un punteggio di 44.3, di poco superiore a quello dello scorso anno. Come negli anni precedenti la sfida principale è rappresentata dalla carenza di competenze digitali, superando la media UE solo per il parametro della copertura della banda veloce. L’Italia invece si colloca tra i pionieri della tecnologia 5G anche grazie al piano governativo “5G in 5 città”. Inoltre sul fronte del capitale umano l’Italia è retrocessa, in particolare nelle lauree STEM dall’1,4% all’1,3 nella fascia d’età 20-29 anni. Si stima (Eurispes) che complessivamente circa il 12% del fabbisogno previsto nel periodo 2018-2022 (ovvero circa 308.000 unità su un fabbisogno totale di 2.566.000) è a rischio di automazione... In particolare, risultano professioni ad alto rischio quelle medium skill (ad esempio, impiegati addetti alle funzioni di segreteria e di ufficio e alla raccolta e conservazione documentale), confermando la tendenza alla polarizzazione del mercato del lavoro in conseguenza del progresso tecnico documentata dalla letteratura (si veda Autor et al, 2003 e Goose et al, 2009), nonché le professioni non qualificate nel commercio e nei servizi. La quota di occupazione a rischio di automazione è valutata da OCSE “alta” in diversi settori, da quelli del “Made in Italy” (alimentari, moda, mobili) all’elettronica e agli apparecchi ottici e medicali, fino ai trasporti. Con riferimento alle nuove professioni è necessario anche sviluppare nuovi strumenti. Gli strumenti tradizionali (generalmente le indagini) e gli strumenti classificatori esistenti sono infatti poco adatti a catturare il cambiamento che avviene nel mercato del lavoro, in particolare quello derivante dal progresso tecnico così repentino. Alcuni dati interessanti emergono dal progetto Wollybi, sviluppato dal centro di ricerca Crisp dell’Università di Milano-Bicocca, che analizza le offerte di lavoro postate in Italia (www.wollybi.com). I dati di Wollybi consentono di identificare alcune nuove professioni emergenti e le loro relative competenze richieste dal mercato. Tra queste alcune professioni sono tipicamente legate allo sviluppo tecnologico quali il Data Scientist, l’analista del Cloud Computing, il Cyber Security Expert, il Business Intelligence Analyst, il Big Data 14
Analyst e il Social Media Marketing. Complessivamente tra il 2014 e il 2017 sono stati rilevati più di 7.000 annunci di lavoro per queste figure professionali con un incremento pari a circa il 280% tra il primo e l’ultimo anno. Si tratta di numeri ancora piccoli che tuttavia fanno intravedere il potenziale beneficio della tecnologia nella creazione di nuovi posti di lavoro Si può ora raccordare il quadro previsivo appena delineato, sotto l’aspetto dei livelli di istruzione, con la dinamica prevista dei laureati in uscita dal sistema formativo. Fra il 2010 e il 2016 essi sono stati, mediamente, circa 204.000 all’anno (per tutti i tipi di corso, al netto dei laureati dei corsi triennali che proseguono per conseguire una laurea specialistica), manifestando un tendenziale aumento, da 197.500 unità nel 2010 a 207.900 nel 2016. Tuttavia, per effetto del progressivo calo delle immatricolazioni, si prevede una riduzione dei laureati in uscita dalle università italiane nei prossimi anni e nell’ultimo anno di previsione, il 2022, il loro numero sarà di poco superiore a 190.500 unità Non tutti i laureati in uscita dall’università entrano però sul mercato del lavoro, soprattutto per il fatto che una buona parte di essi risulta già occupata e non è intenzionata a ricercare o a cambiare lavoro (questo anche per il fatto che i tempi di conseguimento del titolo superano di molto i tempi della durata “regolare” dei corsi). A fronte di una media, fra il 2010 e il 2016, di 204.000 laureati all’anno, quelli che si stima siano effettivamente in ingresso sul mercato del lavoro sono stati mediamente circa 140.500; in questo periodo essi si sono mantenuti relativamente stabili, ma nel quinquennio della previsione (2018-2022) questo valore dovrebbe scendere a una media di circa 134.800 unità all’anno, passando progressivamente da 138.800 nel 2018 a 130.600 unità nel 2022. Da ciò deriva la preoccupazione avanzata da molti osservatori che possa profilarsi, anche se non nell’immediato, una carenza di offerta rispetto al fabbisogno di laureati espresso dal sistema economico. In effetti, a fronte di questi 134.800 laureati all’anno che si prevede faranno il loro ingresso sul mercato del lavoro, tra il 2018 e il 2022, le previsioni oggetto della presente analisi indicano un fabbisogno medio di 155.600 laureati all’anno, che potrebbero salire a 175.500 nell’ipotesi di scenario “positivo”. Si prospetta quindi mediamente una carenza di circa 21.000 laureati ogni anno, che potrebbero salire a circa 41.000 unità nell’ipotesi più ottimistica. Ciò significa, nell’arco dei 5 anni della previsione, una carenza compresa fra le 100.000 e le 200.000 unità. La presenza, nella media del 2016, di uno stock di laureati disoccupati nell’ordine delle 350.000 unità (pari a circa 2 volte e mezzo il numero medio di neo-laureati in ingresso ogni anno sul mercato del lavoro), porterebbe a dire che nell’arco di alcuni anni la carenza segnalata potrebbe non presentarsi, e che il livello della domanda, dovendo necessariamente attingere al “bacino” dei disoccupati, consentirebbe di riportare la disoccupazione dei laureati al di sotto dei valori pre-crisi. Sicuramente lo stock dei disoccupati con un titolo di studio universitario appare destinato a ridursi nei prossimi anni (e già ha cominciato a ridursi nell’ultimo triennio 2015-2017), ma la misura in cui ciò avverrà dipenderà anche dalla corrispondenza qualitativa tra domanda e offerta di lavoro, nonché dalle scelte delle imprese fra neo-laureati in uscita dalle università e laureati già presenti sul mercato del lavoro con un’esperienza lavorativa e professionale alle spalle. È particolarmente importante la scomposizione di tale fabbisogno (2018-2022) per indirizzo di studi, già evidenziato in precedenza e qui riproposto per grandi aree di studio, in quanto funzionale al successivo confronto con l’offerta. Nel Lazio i fabbisogni dichiarati dalle imprese risultano spesso differenti dai dati nazionali. In particolare si evidenziano nello studio INAPP dell’ottobre 2017 le seguenti percentuali positive su base annua: Specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali: + 2.2% Ingegneri, architetti e simili + 0.6% Scienze umane, sociali, artistiche e gestionali + 1.8% Professioni tecniche in campo scientifico ingegneristico e produzione +3.4% In organizzazione, amm.ne, finanza e commerciale +01.7% Impiegati addetti a movimenti denaro e assistenza clienti + 3.2% 15
a raccolta, controllo, conservazione e recapito documenti + 4.2% Professioni qualificate nella ricezione e ristorazione +1.4% Professioni non qualificate in servizi e commercio + 2.0% attività domestiche, ricreative e culturali +0.6% manifattura, estrazione, costruzioni +2.4% Schematicamente nella regione Lazio possiamo circoscrivere il fabbisogno nel settore dei servizi principalmente ai commercio e turismo, comunicazione e finanza, e soprattutto sanità e servizi alla persona, mentre per l’industria abbiamo il dato nazionale che evidenzia soprattutto i settori farmaceutica e plastica, seguito da energia, acqua e rifiuti, poi elettronica, metalmeccanico, legno e costruzioni, e a seguire gli altri settori Fabbisogno di laureati in Italia: Con riferimento all’ammontare totale del quinquennio (778.100 unità), la quota maggiore, il 25%, riguarderà i laureati dell’area economico-sociale, pari, in valore assoluto, a 191.000 unità, di cui 151.000 del “gruppo” economico-statistico (il più numeroso in assoluto) e 40.000 del “gruppo” politico-sociale. Di poco inferiore sarà il fabbisogno di laureati dell’area umanistica, pari a 185.000 unità, per una quota del 24%; fanno parte di questa area disciplinare i laureati dei “gruppi” scienze motorie(10.300), insegnamento(81.600), letterario(42.100), linguistico(34.200) e psicologico(17.200). In terza posizione figurano i 142.000 laureati dell’area ingegneria-architettura, con una quota del 18%, seguita da vicino da quelli dell’area medico-sanitaria (137.000 unità e 18% del totale). I primi comprendono i 107.800 laureati del “gruppo” ingegneria e i 34.200 del “gruppo” architettura; dei secondi fanno parte sia medici e odontoiatri (28.600), sia i molto più numerosi laureati nelle professioni sanitarie (108.200). È decisamente inferiore il fabbisogno dei laureati delle ultime due aree disciplinari: 65.000 quelli dell’area scientifica(pari all’8%), 53.000 quelli dell’area giuridica. Tra i primi il fabbisogno riguarderà 26.400 laureati del “gruppo” scientifico- matematico-fisico, 20.400 di quello chimico-farmaceutico e 18.100 di quello geo-biologico. Inoltre si può evidenziare che nel periodo 2018-2022 il rapporto tra i 673.900 neo-laureati in ingresso sul mercato del lavoro e il fabbisogno previsto di 778.100 laureati è pari a 0,87, che indica quindi, mediamente, la presenza di 87 laureati in ingresso ogni 100 laureati richiesti nel sistema economico, o in altri termini 115 laureati richiesti per 100 in ingresso. Anche se come si è visto il fabbisogno di laureati non verrà mai coperto ricorrendo solo ai neo-laureati in ingresso sul mercato del lavoro, questo rapporto segnala certamente buone prospettive di occupabilità per i giovani neo-laureati, ma altrettanto sicuramente non sarà agevole coprire il fabbisogno previsto con le nuove leve in ingresso sul mercato del lavoro. Assumendo inoltre che nell’arco del quinquennio si riduca progressivamente lo stock dei laureati disoccupati, queste difficoltà potranno ulteriormente aumentare, arrivando a prospettare, per taluni indirizzi di studio, situazioni di carenza di offerta. Un secondo aspetto da evidenziare, anch’esso molto importante, è che il rapporto tra il fabbisogno di laureati e l’offerta di neo-laureati in ingresso sul mercato del lavoro presenta una elevata variabilità a seconda degli indirizzi di studio. Sempre considerando l’intero periodo 2018-2022, le situazioni estreme riguarderanno i laureati del gruppo geo-biologico da un lato e quelli del gruppo insegnamento dall’altro. Per i primi, a fronte di oltre 45.000 neo- laureati il fabbisogno previsto è di appena 23.700 laureati. Il fabbisogno non rappresenta quindi che lo 0,53% dell’offerta di neo-laureati, mostrando una chiara situazione di eccedenza, e quindi prospettive di occupabilità veramente difficili. La situazione opposta si riscontra invece per i laureati del gruppo insegnamento, con 42.500 neo-laureati in ingresso e un fabbisogno previsto di 91.900 unità, con un rapporto pari quindi a 2,16, che segnalerebbe una marcata carenza di offerta. Questa situazione, tipicamente legata all’elevata anzianità degli addetti del settore istruzione, non è peraltro tra le più difficili, in quanto il fabbisogno “scoperto” potrebbe essere colmato con laureati di vari indirizzi nelle rispettive materie di insegnamento, con particolare riferimento al gruppo letterario. È invece decisamente più difficile colmare la possibile carenza di offerta che si profila per i laureati dei gruppi economico-statistico, per i quali il rapporto tra il fabbisogno e l’offerta è pari a 1,6, nonché per quello scientifico- matematico-fisico (1,48) e per quello sanitario e paramedico (1,4). Al tempo stesso, non sarà facile attenuare l’eccesso di offerta che oltre all’indirizzo geo-biologico, riguarderà in particolare gli indirizzi chimico-farmaceutico, linguistico, politico-sociale e medico-odontoiatrico, per i quali i neolaureati superano il fabbisogno previsto in una misura che va da circa il 10% a circa il 40%. 16
Le situazioni di maggiore equilibrio riguarderanno gli indirizzi letterario-psicologico, giuridico e architettura (con valori molto vicini all’unità), mentre un rapporto nell’ordine di 1,17 (quindi un eccesso di domanda non troppo accentuato) si prevede per l’indirizzo ingegneria (che peraltro potrebbe essere assai diversificato al suo interno, con un probabile forte eccesso di domanda per ingegneria industriale e ingegneria elettronica e un probabile eccesso di offerta per ingegneria civile). Anche se un certo aggiustamento tra la domanda e l’offerta avviene spontaneamente (accettando di svolgere un lavoro non del tutto attinente con l’indirizzo di studi seguito, o colmando il fabbisogno con laureati il cui curriculum di studi sia il più “vicino” possibile a quello desiderato) non v’è dubbio che lo squilibrio qualitativo accentua quello quantitativo, o rende comunque più difficile raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta, o comporta soluzioni non soddisfacenti, come quelle appena suggerite. Con l’introduzione delle nuove tecnologie, certamente possiamo aspettarci, e già ne vediamo le prime avvisaglie, modifiche sostanziali delle organizzazioni del lavoro, delle competenze emergenti e obsolete, dei nuovi profili professionali, tali da modificare sostanzialmente la geografia e la distribuzione del lavoro. La trasformazione sarà pervasiva, travolgente, immediata. Occorrono quindi strumenti di policy che sappiano anticipare i trend. Il costo del lavoro sarà sempre meno rilevante nel determinare il prezzo dei prodotti e ciò determinerà una necessità di localizzazione della produzione. Infatti il paradigma tecnologico del 4.0 porterà alla personalizzazione di prodotti e servizi e delle catene di fornitura e sub-fornitura con servizi on-demand a cui occorrerà combinare la logistica integrata e il time to market per accelerare l’immissione sul mercato della nuova concezione dei prodotti. Quindi la competizione si svolgerà soprattutto sulla prossimità con il cliente per una customizzazione spinta e variabile. Di conseguenza saranno favorite le catene di fornitura corte ed integrate con un mercato regionalizzato del commercio internazionale. Il valore aggiunto sarà sempre più collegato alle competenze e alla qualità delle persone, dei fornitori e dei servizi associati al prodotto. In Italia la presenza importante delle PMI ci porta ad una struttura produttiva fragile, scarsamente innovativa, aggravata da fattori ambientali come giustizia civile, energia, burocrazia, che respinge gli investitori. Quindi è cruciale inserire le PMI nei processi di innovazione e trasformazione digitale, evitando così i rischi di polarizzazione nelle performance. E prestare attenzione a come innovano costruendo strumenti di politica industriale adeguati oltre alle infrastrutture di trasferimento tecnologico e di banda larga a favore delle PMI. Industria 4.0 ha coinvolto anche le PMI che hanno utilizzato le misure previste (35-40% medie e 20% piccole). Ma il trasferimento tecnologico deve ancora dispiegarsi (vedi Competence Center) costruendo nuove relazioni con Università e centri di ricerca. (da E.Ceccotti) Per guardare avanti, la tecnologia 5G produce una discontinuità tecnologica, concettuale e organizzativa rispetto alle precedenti applicazioni di telefonia mobile. Il salto tecnologico consiste nel fatto che la rete mobile non sarà più gestita da apparati dedicati come 17
nelle tecnologie fino al 4G, ma l’hardware sarà ridotto al minimo e la gestione della rete sarà prevalentemente via software da remoto. Non più apparati dedicati ma computer di uso generale. La grande novità del 5G è che permette di realizzare un disaccoppiamento tra reti virtuali e la rete fisica. Il disaccoppiamento si realizza con algoritmi collocati tra i vari strati della rete. Gli algoritmi di riconfigurazione delle risorse fisiche permettono di realizzare tante reti virtuali finalizzate a ciascuna tipologia di servizio. Il 5G permette di "gestire servizi a priorità differenziata" fornendoli in base alle esigenze di prestazioni diverse. A tali reti virtuali vengono fornite le risorse caratteristiche per ciascuna specifica esigenza. Il disaccoppiamento significa che la net neutrality non ha più senso. La net neutrality sta negli algoritmi e quindi nei sistemi di disaccoppiamento o cooperazione. La rete diventa configurabile in funzione delle esigenze degli utilizzatori potendo disporre di diversi parametri come i tempi di risposta, la larghezza di banda e il maggior numero di oggetti in grado di essere connessi oltre una connettività con una velocità di trasmissione più alta (fino a 1 giga b/sec). Il 5G oltre a cambiare l’approccio all’uso dello smartphone, amplierà l’utilizzo esteso della rete per apparecchiature legate all’internet delle cose (IOT). Permette di connettere contemporaneamente milioni di apparecchiature che, autonomamente rispetto all’uomo, possono colloquiare tra di loro. Aumenta sia l’alimentazione che l’accesso ai Big data, applicazioni di intelligenza artificiale con algoritmi di apprendimento automatico. Permette alle macchine di apprendere e di interagire tra di loro. Ciascuna rete virtuale richiede diversi servizi di connessione: la guida automobilistica non è uguale al broadcasting e alla sanità. Il broadcasting video richiede un ping (tempo di risposta) meno veloce dell’automotive, come pure le applicazioni di smart city sono anch’esse dinamiche come quelle della sanità. I controlli sulla salute delle persone in movimento sono diversi da ciò che si può richiedere nelle operazioni chirurgiche a distanza. Un intervento di telemedicina avrà bisogno di una soglia di latenza diversa rispetto una piattaforma IoT, mentre uno streaming ad alta risoluzione richiederà un livello di banda passante (più elevato) completamente diverso rispetto a un servizio di tracking automotive. La configurazione delle rete verticale può essere eseguita anche da ciascun utilizzatore ma lo slicing è più efficiente se avviene per tipologia di servizio piuttosto che per azienda. E’ probabile che nel primo periodo ognuno tenterà di fare il suo ma poi si imporrà un standard di servizio. Il pieno dispiegarsi del 5G cambia i rapporti tra rete fissa e rete mobile. L’intreccio sarà ancora più elevato e favorirà un’integrazione di traffico. Infatti il 5G richiede una forte integrazione con la fibra ottica a sua volta in evoluzione. La loro interazione produce un salto di qualità sia sul mobile che sul fisso. Tra l’altro permette di connettere la rete in fibra con le singole abitazioni attraverso il 5G senza la connessione fisica nell’ultimo miglio con notevoli risparmi economici nell’allacciamento. Tutto ciò produrrà effetti anche sugli altri sistemi di comunicazione oggi presenti. Cambia la funzione delle torri trasmissive non solo quelle già dedicate alla telefonia mobile ma anche quelle di diffusione del digitale terrestre. Si ridurranno le frequenze disponibili per il broadcasting ma saranno disponibili più canali per la maggiore efficienza e flessibilità degli standard di compressione del segnale. Cambierà l’uso del satellite: meno broadcasting ma più gps evoluto per la localizzazione, 18
immagini sempre più definite per la mappatura del territorio con satelliti per l’osservazione della terra. I segnali satellitari saranno gestibili attraverso il 5G realizzando tra loro una progressive correlazione. La gestione della rete via software permette di avere un approccio dinamico man mano che nel tempo cresceranno le applicazioni. Le modalità con cui si svilupperà il 5G non è del tutto programmabile ed è dipendente dalla: - disponibilità delle tecnologie in termini di software, hardware e sensori. - dalla definizione di protocolli standard di comunicazione. - dalla capacità di creare interlacciabilità tra i vari sistemi. - dall’accoglienza dei nuovi servizi da parte del mercato. Oggi siamo in una fase sperimentale. L'implementazione commerciale dovrebbe iniziare nel 2020, con alcuni lanci selezionati nel 2019. I primi servizi 5G attivi si concentreranno come isole in un mare di 4G probabilmente in zone ad alta concentrazione di popolazione, imprese, campus dove c'è una potenziale domanda. Questo è uno degli scenari prevedibili, ma per un ulteriore passo avanti occorrono politiche industriali europee su innovazione e nuove sfide tecnologiche (blockchain, intelligenza artificiale, supercomputing, microelettronica) anche per gestire con un welfare adeguato innovativo ed efficace i rischi di spiazzamento derivante da automazione e digitalizzazione. Ma al momento la criticità maggiormente rilevante è il ritardo sul fronte della domanda e offerta di competenze adeguate alle sfide della trasformazione. E occorrerebbe comprendere e superare il fallimento dei percorsi universitari 3+2, vista la percentuale bassissima di laureati in Italia. Solo il 18,7% dei 25-64enni possiede un titolo di studio terziario in Italia, un valore pari a poco più della metà rispetto alla media europea (31,4%). Sono i numeri del report sui livelli di istruzione dell’Istat riferito all'anno 2017. Rispetto al resto dell'Unione Europea, l’Italia ha una posizione molto arretrata riguardo al secondo obiettivo della strategia Europa 2020 sull’istruzione: innalzare al 40% la quota di giovani 30-34enni con titolo di studio terziario. Si tratta di un traguardo ritenuto fondamentale, "sia per stimolare la crescita economica sia per rendere compatibile crescita e inclusione sociale". Nel 2017 gli appartenenti a questa fascia d'età con un titolo di studio terziario erano il 26,9% (contro il 39,9% della media Ue): nonostante un aumento del 7,7%, fra il 2008 e il 2017, l’Italia è la penultima tra i Paesi dell’Ue. Se inoltre si prendono in considerazione le dichiarazioni di ISEE degli iscritti alle diverse Università, appare subito chiaro che i bassi e medio/bassi redditi non riescono più a far studiare i figli, vuoi per le difficoltà economiche vuoi perché lo studio non viene più percepito come un ascensore sociale sicuro. 19
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