Vita da Blogger anzi, da Farm Blogger. Cinzia Tosini - Storie di Persone di Cinzia ...
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Vita da Blogger… anzi, da Farm Blogger. Cinzia Tosini. Intervista di Giustino Catalano pubblicata l’8 Gennaio 2014 su Di Testa e Di Gola. Eclettica, solare, intelligente, curiosa, simpatica, dalla grande parlantina…. tanti gli aggettivi positivi per definire Cinzia Tosini, Farm Blogger e autrice su questo sito, ma forse il più appropriato è passionale. Avevo voglia di raccontarvela con le sue parole ed eccomi qui. • Chi è Cinzia Tosini? Innanzitutto amo farmi chiamare solo Cinzia! E’ la prima cosa che dico quando mi presento. Per dirla tutta mi chiamo anche Emilia che è il secondo nome che mi è stato dato in memoria del mio mitico nonno friulano. Dunque, per tornare alla domanda – chi sono? – mi viene immediato rispondere che sono semplicemente una donna che da oltre tre anni sta vivendo una seconda vita. Tutto è iniziato riprendendola in mano, dopo che, superato uno smarrimento iniziale, ho reinvestito il mio tempo nelle passioni di sempre: la terra, l’agricoltura, il vino, e le storie delle persone. Credo che la motivazione principale, sia da attribuire al fatto che da ragazzina sono cresciuta in campagna dai nonni a Treviso. Spesso non ci rendiamo conto che la terra, se vissuta veramente, lascia il segno nel tempo, nei ricordi, e nelle anime. Purtroppo il male del nostro secolo è che corriamo e viviamo nella continua ricerca di traguardi, senza renderci conto che l’esigenza primaria è l’armonia che riscopriamo stando a contatto con la natura. • Come hai iniziato a scrivere? La mia storia, per lo meno quella degli ultimi anni, è un
continuo susseguirsi di coincidenze e incastri che pian piano mi hanno portato a scrivere (giuro, non l’avrei mai detto). Tutto è iniziato dopo aver letto l’intervista fatta ad una vignaiola di Aosta. Le sue parole mi avevano emozionato a tal punto, da convincermi ad andare ad Aosta per conoscerla di persona. La sua, una vita difficile, un po’ come la mia. Quando mi raccontò che non aveva i soldi per stampare l’etichetta a retro della bottiglia del vino che produceva, decisi di scriverne un pezzo, che stampai, e che le regalai affinché lo omaggiasse insieme al vino. Fu allora che mi fu chiesto di pubblicarlo, inserendolo in una mia rubrica su un sito di enogastronomia: Vino Way. Accettai un po’ titubante, ma solo a patto di poter raccontare le produzioni partendo dalle persone. In seguito, avendomi limitato il campo d’azione alla sola Lombardia, decisi di uscire continuando la mia avventura con la realizzazione di in un sito, o meglio, di un sogno di cui ero socia fondatrice: World Wine Passion. Purtroppo, una non condivisione su alcune prese di posizione, mi ha convinto a trasformare la mia Rubrica presente nel sito, in un blog personale: Storie di Persone. Quello degli ultimi anni è stato un percorso a ostacoli, intenso e accelerato, passato scrivendo ciò che ho vissuto, ascoltando la gente, e viaggiando in lungo e in largo per l’Italia, il modo che piace a me per conoscere il territorio. • Perché hai deciso di scrivere partendo dalle ‘persone’? Decisi da subito di scrivere di persone, in primis perché per parlare di enogastronomia, bisogna avere alle spalle molta esperienza, e in secondo luogo, perché mi accorsi che ascoltare il cambiamento di rotta di persone che avevano deciso di investire la propria passione nella terra e nell’enogastronomia, mi affascinava molto. • Farm blogger, perché ti sei definita così? Dunque, questa definizione è nata dopo molte riflessioni fatte
con me stessa. Mi trovavo spesso a correggere l’interlocutore di turno, quando, sentendomi definire una food blogger, non trovavo per nulla calzante tale ruolo. Confesso di essere più brava a mangiare che a cucinare. Amo molto il cibo e il vino per le sue storie, per il territorio, per le sue tradizioni e per i suoi protagonisti. Mi piace conoscere e assaggiare vivendo le realtà sul ‘campo’, per me il modo migliore! Adoro visitare le aziende agricole accompagnata dai produttori, poi, vedere l’evoluzione e la nascita dei prodotti, mi permette di capire comprendendo meglio le problematiche legate ad essi. E’ da queste considerazioni che è nata la definizione che finalmente mi sono sentita calzare a pennello: farm blogger. • Dopo tre anni, che esperienze senti di aver maturato? Molte sono le esperienze, molto ho imparato, e molti ho conosciuto. Dico spesso che non è un mondo facile questo. Purtroppo gli egoismi vincono sul buon senso, rendendo spesso difficile la strada che permetterebbe di fare il giusto sistema a vantaggio di tutti. Gli italiani devono cambiare mentalità se vogliono ripartire. Bisognerebbe incominciare dalla scuola creando da subito, con la nuova generazione, un nuovo modo di pensare. Qualcuno ora sorriderà leggendo le mie parole, non ha importanza, io ci credo sul serio in quello che scrivo, utopistico o meno. Nonostante ciò, la mia maggiore soddisfazione è di aver creato nel tempo una fitta rete di rapporti basati sulla stima, sul rispetto e sull’amicizia. Questo per me è di fondamentale importanza, costruire rapporti basati sulla buona reputazione, soprattutto in un mondo come quello dell’enogastronomia, le cui fondamenta sono basate sulle passioni. • Blogger e giornalisti, argomento molto dibattuto. Cosa ne pensi? Ne ho scritto recentemente sul blog, in particolar modo perché mi sento tirata in causa.
Blogger e giornalisti, passione e professione, emozione e razionalità. Due ruoli i cui scritti hanno una carica emotiva ben diversa. Io insisto sul fatto che, comunque sia, entrambi possono aiutare comunicando, ognuno a loro modo, il territorio e le sue produzioni. La cosa fondamentale per me è la coerenza, che va mantenuta evitando di seguire le onde di comodo del momento. • Mondo blogger: chi lo ama, chi lo odia, e chi lo sfrutta. Ma a chi interessa in realtà la comunicazione fatta dai blogger? E perché? La passione che ha spinto molti blogger in questa direzione, me compresa, ha fatto emergere quanto la loro carica emotiva abbinata alla comunicazione digitale, possa essere d’aiuto in questi anni difficili che stiamo vivendo, sia al territorio che alle produzioni. Un fenomeno già in voga da anni all’estero. Molti lo hanno capito, e ne hanno preso spunto. Il mondo dei blogger non è sempre facile, c’è chi agisce seguendo la passione, e c’è chi si fa trascinare da facili traguardi. Comunque sia, spetta solo ai lettori seguire chi trasmette nel tempo, quella passione che ha aiutato molti di noi a superare momenti difficili. L’unico tasto dolente in questo contesto, è che troppi sfruttano questa passione senza riconoscere l’impegno intellettuale e non solo, nel dedicare tempo ed energie a questa attività la cui rilevanza è stata riconosciuta dalle stesse istituzioni locali. di Giustino Catalano
Lo sapevate che il vino si mette anche nel brodo… Ebbene si! Me lo ha insegnato mio nonno Giuseppe, un mantovano Doc! Di lui, oltre alle mitiche carte da gioco che mi ha regalato da bambina, mi rimangono alcuni insegnamenti, come l’abitudine di usare il cucchiaio per arrotolare le tagliatelle, o quella di mettere un
pizzico di sale sul melone per renderlo più dolce, o infine, quella di mettere un po’ di vino nel brodo. Ricordo tanti anni fa, quando, una mattina alzandomi per fare colazione, l’ho visto per la prima volta bere del brodo in cui aveva messo un goccio di vino. Figuratevi la mia faccia…: “Nonno, ma che fai?! Metti il vino nel brodo, e per giunta lo bevi a colazione?! Molti sapranno che questa usanza è praticata in alcune province della Lombardia, Emilia e Piemonte. Aggiungere del vino al brodo, intendo quello buono, quello fatto non sicuramente con il dado, per i mantovani e non solo è una vera e propria tradizione! Detto questo, partendo dal presupposto che il brodo debba essere buono, direi di seguire la ricetta che ci consiglia un caro amico, lo Chef Massimo Dellavedova. Il Brodo di carne di Massimo Dellavedova Ingredienti: 1 kg di bovino adulto (reale, punta di petto, polpa di spalla, scamone) 500 gr. cappone (va bene anche il pollo) 1 cipolla grossa 2 gambi di sedano 1 carota media 2 chiodi di garofano 3 foglie di alloro 4 grani di pepe nero Poco sale grosso 4,5 l. di acqua Preparazione: Mondare verdure e cappone (pollo) Steccare la cipolla con i chiodi di garofano Mettere tutto in una capiente pentola Fate sobbollire per almeno 3 ore schiumando con il mestolo
forato ogni volta che si forma la schiuma. Raccomando di non fare bollire. A cottura finita, filtrarlo, aggiustarlo di sale e raffreddarlo. Una volta freddo sgrassarlo. Questa operazione risulta semplice perché la parte grassa si è solidificata in superfice. In questo modo si otterranno tre litri di brodo. Oggi vado a passeggio, ma… con il cuore! Amo passeggiare nel verde, lo faccio sempre appena posso, lontano dal caos e dalla frenesia. E’ il mio momento terapeutico. Si, avete capito bene… ‘terapeutico’! Camminare mi fa bene alla mente, mi rilassa, e fa bene alla salute prevenendo molti disturbi! Forza… la pigrizia è cattiva compagnia! Cinque chilometri al giorno tolgono il medico di torno… o quasi! Vi ricordate quella canzone che diceva: “basta un poco di zucchero e la pillola va giù, e la pillola va giù, e la pillola va giù…” Ebbene, vorrei che la pillola andasse giù il meno possibile! I farmaci possono molto, ma non sono l’unica risposta a tutti i mali. Ecco le indicazioni terapeutiche per convincerci a camminare di più. L’esercizio fisico influisce positivamente su ipertensione, dislipidemie, obesità e non solo… e fin qui direi che ci siamo. Ciò che però mi preme sottolineare di più, è che non fare esercizio fisico, influisce negativamente causando alcune
malattie croniche, metaboliche, e cardiocircolatorie come: Diabete Obesità Malattie cardiovascolari Osteoporosi Ipertensione Lo so, sono cose trite e ritrite, ma io insisto! L’attività fisica è come un farmaco naturale, che, con una corretta alimentazione, permette di riequilibrare i meccanismi del nostro organismo tenendoci in forma. La dose consigliata? Trenta minuti al giorno che possiamo fare durante la giornata semplicemente evitando di frequentare una brutta compagnia: “la pigrizia”! Un po’ di chiarezza, o quasi, in tema di presentazione degli oli di oliva nei pubblici esercizi Recentemente, con un amico che si occupa di ristorazione, mi sono trovata a discutere sulla presentazione della bottiglia di olio extra vergine di oliva che mi piacerebbe vedere sul tavolo in tutti i ristoranti.
Confrontandomi con altri del settore, mi sono resa conto che molta chiarezza in effetti non c’è. Per questo motivo, visto che mi piace parlare con cognizione di causa, mi sono informata consultando Massimo Occhinegro, consulente d’impresa in ambito fiscale e di marketing internazionale, con particolare riguardo al comparto di olio di oliva nei mercati europei ed extra europei. Tenteremo di fare un po’ di chiarezza, o quasi (leggendo capirete il perché), inserendo la Legge 14 gennaio 2013 n.14 e l’interpretazione di Massimo. Legge 14 gennaio 2013 n.14 Art. 7 – Termine minimo di conservazione e presentazione degli oli di oliva nei pubblici esercizi. 1. Il termine minimo di conservazione entro il quale gli oli di oliva vergini conservano le loro proprietà specifiche in adeguate condizioni di trattamento non può essere superiore a diciotto mesi dalla data di imbottigliamento e va indicato con la dicitura «da consumarsi preferibilmente entro» seguita dalla data. 2. Gli oli di oliva vergini proposti in confezioni nei pubblici esercizi, fatti salvi gli usi di cucina e di preparazione dei pasti, devono possedere idoneo dispositivo di chiusura in modo che il contenuto non possa essere modificato senza che la confezione sia aperta o alterata, ovvero devono essere etichettati in modo da indicare almeno l’origine del prodotto ed il lotto di produzione a cui appartiene. 3. La violazione del divieto di cui al comma 1 comporta l’applicazione al titolare del pubblico esercizio di una sanzione amministrativa da € 1.000 a € 8.000 e la confisca del prodotto. 4. All’articolo 4 del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81, i commi 4-quater e 4-quinquies sono abrogati.
“Chiave interpretativa” della legge in questione di Massimo Occhinegro La legge 14 gennaio 2013 n.14 con l’articolo 7 secondo comma ha inteso abrogare la precedente legge che vietava in maniera esplicita l’uso delle “famose” ampolle dell’olio. Tuttavia sia pure in maniera confusionaria, ha voluto introdurre da un lato l’uso di bottiglie con tappi anti-rabbocco e dall’altro confermare l’obbligo del l’indicazione dell’origine nonché del lotto di produzione a cui appartiene. L’articolo è tuttavia mal scritto e soggetto a diverse interpretazioni. La “chiave” interpretativa risiede a mio parere nel significato di “ovvero”. Nella lingua italiana “ovvero” può essere interpretato come sinonimo di “oppure”, ma in tal caso, il legislatore avrebbe forse pensato a bottiglie con sistema di chiusura anti-rabbocco, senza etichetta, il che è per logica, senza senso, da un lato, mentre dall’altro confezioni senza tappo anti-rabbocco ma etichettate con indicazione di origine, data di scadenza inferiore ai 18 mesi dal confezionamento e lotto di produzione, il che anche in questo caso tale evenienza avrebbe poco senso vista la volontà di impedire il riutilizzo delle confezioni. Pertanto la parola “ovvero”, a mio parere andrebbe interpretata con il significato di “ossia”, (come spesso accade nella formulazione delle norme di legge) con l’intento di offrire una specifica in più rispetto a quanto scritto nella prima parte dello stesso articolo 7, comma 2. In definitiva tutto ciò significa che le bottiglie devono essere etichettate come da norma di legge e che in più dovrebbero avere tappi anti-rabbocco. È evidente però che la formulazione di tale articolo sia stata fatta in maniera frettolosa e confusionaria come detto in premessa. Cosa rimane da dire… mah, direi che a questo punto, l’unica cosa che mi viene da dire, è che tocca a noi prestare la giusta
attenzione scegliendo la ristorazione virtuosa attenta alla qualità. Un ‘contessino’ alla Corte Santo Stefano di Cesano Maderno Direte: “Un contessino alla Corte Santo Stefano… Cinzia, ma in che senso?!” Ora vi spiego… Dunque, mi capita spesso di rincontrare persone con cui ho collaborato a lungo negli anni passati. La cosa mi diverte alquanto, soprattutto perché spesso si trovano davanti ad una persona totalmente diversa, diciamo molto più… si, direi proprio una persona molto più simpatica e sorridente. Questo perché fino a un po’ di anni fa, ero una steccata coordinatrice vichinga costretta a tenere testa a un bel po’ di medici (alcuni ribelli), e quindi mi toccava fare la dura.. (per finta, anzi, allora sul serio!) Detto questo, dopo l’ennesimo invito di un ‘contessino’ (capirete poi perché lo chiamo così), ho deciso di accettare accompagnandolo a cena. In realtà il soggetto in questione, con cui a suo tempo ho collaborato, è una persona intelligente ed impegnata che combatte le ingiustizie scrivendone e non solo. Ero solo un po’ restia per i suoi modi, che, come diceva mio padre, sono i classici atteggiamenti da ‘baùscia’. Per chi non lo conosce, questo termine dialettale lombardo, viene usato in senso ironico per indicare una persona che si da delle arie. Comunque sia, prendendo spunto da una delle protagoniste del risorgimento italiano, la bella Gigogin, e come a volte mi
definisce il mio caro amico Giorgio Ferrari, daghela avanti un passo, dal ritornello della canzone che la ricorda per il suo coraggio nel fare un passo avanti verso l’oppressore straniero. Ovviamente qui oppressori non ce ne sono, diciamo più stranieri, visto che il contessino snobbando la zona in cui abito voleva che andassi a prenderlo per portarlo a cena nella gran Milan! Seee… spetta che tiro fuori la spider, spetta né…! Adoro Milano (a parte il traffico), e adoro anche le sfide! Quindi gli ho detto: “Caro, in primo luogo se vuoi mi passi a prendere, e in secondo, andiamo a mangiare dalle mie parti!” Il contessino, arresosi alla mia volontà, ha dovuto tirare fuori la sua ‘torpedo’ come la chiama lui, e si è deciso di venirmi a prendere! Tiè! Risolta la questione sapete dove l’ho portato? Ebbene, siamo andati a cena in un’antica corte nel centro storico di Cesano Maderno, la Corte Santo Stefano. Il malmostoso, dopo essersi lamentato per aver fatto due passi a piedi, e dopo aver premesso che non mangiava pesce perché da piccolo gli era rimasta una lisca in gola, si arreso e mi ha seguito. Nel frattempo nella mia mente un unico pensiero… stasera non ce la posso fare! E invece pensate un po’, il ‘contessino scrivano golfista medico’ ha apprezzato tutto! Dal luogo caratteristico dalle antiche mura, fino all’aperitivo nei sotterranei. Per quanto mi riguarda, oltre che a introdurlo con chi ci ha seguito nella cena come uomo-cittadino con la puzza sotto il naso, mi sono tolta pure la soddisfazione di correggerlo quando, chiedendo all’addetto in sala un Barbera, ho replicato: “Senti nobiluomo, va che si dice la Barbera!” Ehhh… quando ce vo’ ce vo’! Ma mica è finita! Mentre mi gustavo una zuppa di ceci e cozze non è riuscito a trattenersi dal dire: “Cinzia, ma ti mangi le cozze! Ma ti fidi!” Uhh signur gli ho risposto… ebbasta! La mia cena si è conclusa con una ‘Miascia comasca’, un dolce tipico fatto con pane, amaretti, mele, pere, uvetta servito su una salsa di cachi, e, un immancabile bicchierino di liquore alla liquirizia che adoro!
Ragazzi che serata… per fortuna che, come per Cenerentola, l’incantesimo è svanito a mezzanotte! Ovviamente scherzo, tutto sommato mi sono proprio divertita! Vi presento Samuele Vergari, un blogger in pigiama! Blog: FoodWineBeer Da tempo si discute sul divario della comunicazione fatta tra blogger e giornalisti. Un argomento ormai tritato e ritritato che tratta due figure i cui scritti hanno una carica emotiva ben diversa. Io insisto sul fatto che, comunque sia, entrambi possono aiutare comunicando ognuno a loro modo il territorio e le sue produzioni. La cosa fondamentale per me è la coerenza, che va mantenuta evitando le onde di comodo del momento. La passione che ha spinto molti blogger in questa direzione, me compresa, ha fatto emergere quanto la comunicazione digitale possa essere d’aiuto in questi anni difficili che stiamo vivendo. Questo non appanna in alcun modo la figura del giornalista, che, in modo professionale assolve ad altrettanto compito. Non è una gara, non potrà mai esserlo, essendo la forma comunicativa assai diversa. Ho fatto questa premessa per introdurre un blogger, o meglio, un Passion Blogger che conosco e seguo da tempo: Samuele Vergari, in arte ‘FoodWineBeer’. Anche se l’approccio di Samuele non è il mio, nel senso che a differenza di lui io amo scrivere dopo aver vissuto di persona il
territorio e i suoi protagonisti, rispetto la sua scelta dettata in questo momento da esigenze familiari. Il mondo dei blogger non è sempre facile, l’ho conosciuto tempo fa, quando, seguendo le relazioni pubbliche e i contenuti di un sito di enogastronomia di cui ero socia, volevo far conoscere con una rubrica che avevo deciso di chiamare ‘Passion Blogger’, gli ‘appassionati veri’, quelli che con impegno e coerenza trasmettono la loro passione attraverso i blog (diari in rete). Anche dopo aver lasciato quel ruolo, per una non condivisione di prese di posizione, questo mio progetto non è andato perso. A modo mio, continuo dando visibilità a chi ritengo possa ‘far bene’ nel diffondere la conoscenza delle produzioni di qualità. Samuele Vergari è nato da una famiglia dedita all’agricoltura. La passione per il vino ereditata dai nonni produttori di Sangiovese, gli ha permesso col tempo di apprezzarlo fino a diventare un punto di riferimento per gli amici, per i consigli sulla scelta dei vini. La svolta nel 2010, quando, spinto dalla crescente passione decide di aprire un blog. Molto il lavoro per darne forma, tanti i passaggi e cambi di rotta, fino alla nascita di ‘FoodWineBeer’. Un blog che punta più ai prodotti, che ai produttori. Il motivo presto svelato: Samuele è un vero e proprio pantofolone, o meglio, un papà di due bimbi piccoli che lo portano a rendersi indispensabile in famiglia. E’ così che scrive i suoi articoli, spesso in pigiama sul divano, tra le interruzioni dei suoi figli e i loro micro drammi. Nonostante gli impegni familiari, il piacere di scrivere di ciò che degusta a casa e nei ristoranti delle zone limitrofe, lo ha spinto a continuare. Poi, appena possibile, nei giorni di riposo, i viaggi per l’Italia gli permettono di ampliare la sua conoscenza. “Cinzia, le soddisfazioni sono tante, in particolar modo quella
di poter conoscere, anche se in molti casi solo in maniera virtuale, una marea di belle persone legate al mondo del vino e della birra. Certo, anche in questo mondo ci sono personaggi negativi, persone che promettono e poi non mantengono, approfittatori e millantatori di ogni genere… Io sono solo un semplice appassionato che alle spalle ha poca teoria e molta pratica. Un uomo e un padre che racconta le proprie esperienze in pigiama sul divano di casa… Samuele Vergari” Concludo con un mio pensiero. Noi blogger, tanto criticati ma nel contempo tanto ricercati, sono convinta che qualcosa di buono lo facciamo. A modo nostro tentiamo di trasmettere quella passione che ha aiutato molti di noi a superare momenti difficili della nostra vita. Ora vi chiedo: “Sono forse meglio quelli che sfruttano questa passione…?” Le rose di Hilde a ‘Vigna Petrussa’ Come passa veloce il tempo… Mi sembra ancora di sentire la voce di Hilde Petrussa mentre, orgogliosa nel mostrarmi le rose in testa ai filari delle sue vigne, mi diceva: “Hai visto le mie rose come sono belle?” Nonostante sia passato più di un mese dal nostro incontro a Prepotto, se chiudo gli occhi, il ricordo di quei colori è ancora vivo nella mia mente. Un tempo i contadini le piantavano in testa ai filari perché
soggette alle stesse malattie della vite, l’oidio e la peronospora; l’attacco alle rose però avveniva sempre in anticipo, preannunciando così l’imminente pericolo ai viticoltori che agivano con i trattamenti a base di zolfo. Oggi la loro funzione più che altro è quella di abbellire i vigneti; a me però piace ancora una volta ricordare le belle tradizioni contadine dei tempi passati apprezzando chi ne da continuità. Ho voluto introdurvi Hilde Petrussa così, con le sue rose… Una donna del vino che si è tuffata con passione ed entusiasmo nella conduzione della piccola azienda viticola di famiglia ubicata ad Albana, località del Comune di Prepotto nei Colli Orientali del Friuli. Figlia di agricoltori, ha vissuto per trent’anni fra Conegliano e Portogruaro lavorando nell’amministrazione di diverse scuole. Una volta in pensione si è dedicata alla risistemazione delle sue vigne, privilegiando le varietà autoctone e impegnandosi in una conduzione rigorosa del vigneto: guyot monolaterale nei nuovi impianti, inerbimento, basse rese per ettaro e raccolta manuale delle uve, che le hanno permesso di ottenere maggiori concentrazioni aromatiche e strutturali del vino. Ciao Hilde, a te la parola… Mi descrivi la terra su cui si trovano le tue vigne? Ciao Cinzia, la vallata in cui si trova la mia proprietà, fra lo Judrio e le colline, è protetta dai venti ed è in posizione solatia, con un microclima ed un terreno di marna eocenica (localmente detta ponka) ideali per la coltivazione della vite. Quali sono i vini a cui sei maggiormente legata? Come avrai notato ho avuto un’attenzione particolare per lo Schioppettino di Prepotto, vino tipico del mio comune. Sono stata cofondatrice dell’Associazione Produttori Schioppettino di
Prepotto assieme ad altri e prima presidente dell’associazione. Durante i 5 anni del mio mandato, con l’aiuto di tecnici in campagna e di enologi, abbiano concordato un disciplinare di produzione e ho avuto la soddisfazione di ottenere la sottozona per questo vitigno. Altro vino a cui sono particolarmente affezionata è il Bianco “Richenza”, cuvèe ottenuto da uve provenienti da vitigni autoctoni parzialmente appassite e fermentate in barriques di rovere francese. Produco inoltre Friulano, Sauvignon, Cabernet Franc e Refosco dal peduncolo rosso. Sei una donna del vino. Qual è la tua esperienza in questo mondo? Anche se donna in un mondo ancora molto maschile, sono riuscita a superare incomprensioni, diffidenza e difficoltà. Credo che la cura maniacale per il vigneto e il mio impegno siano stati determinanti per i traguardi che ho raggiunto. Con un’espressione azzardata direi che ho cercato di mettere “il territorio nella bottiglia”. Ho provato inoltre grande soddisfazione quando ho ottenuto la Gran Medaglia d’Oro alla selezione del Sindaco con il Picolit 2005. Era la prima volta che entravo in Campidoglio per ricevere l’attestato dalle mani del Ministro dell’Agricoltura.
Hilde Petrussa Il Grignolino, un vino rosso garbato Non conoscevo il Grignolino, intendo bene, come piace a me, sul ‘campo’. Non mi ritengo un’esperta, come dico spesso sono solo una donna che ama il vino e che vuole conoscerlo attraverso tutti
gli elementi che lo compongono. Il vino per me è l’espressione dell’esperienza dell’uomo applicata al vitigno, al territorio e al clima, quindi mi chiedo – come è possibile dare un giudizio completo senza conoscere ciascun elemento che contribuisce a determinare le sue caratteristiche? – Certo, con l’assaggio è possibile coglierne i difetti o i pregi, ma la cosa si ferma li. Proprio per questo, pochi giorni fa, quando un amico mi ha chiesto cosa pensassi di un vino, mi è venuto spontaneo rispondergli… – sai, posso dirti che mi piace o non mi piace, ma un vino, finché non l’ho conosciuto nella sua pienezza, mi passa solo a metà. E’ come conoscere una persona leggendo di lei, ma senza averla incontrata… non si avrà mai la percezione di ciò che è veramente – Ho fatto questa premessa per farvi capire come ‘amo vivere il vino’, ma soprattutto per farvi capire l’entusiasmo con cui ho colto l’invito di Maurizio Gily e Monica Pisciella per il #grignolinodigitour. Detto questo, pronti via… si parte! Quando inizio un viaggio, breve o lungo che sia, entro quasi in un’altra dimensione, giuro, non sto scherzando! Entro come in simbiosi con le terre che visito. Ora sto pensando che… ma quanto sono belli i paesaggi vitivinicoli! In questa stagione poi, con le tante sfumature dei colori che variano dal verde al giallo e al rosso… una vera meraviglia! Lo sapevate che i paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e Monferrato sono candidati a diventare Patrimonio Mondiale dell’Unesco? Ebbene si, e con merito! Il #GrignolinoDigiTour si è svolto Domenica 17 Novembre. Insieme agli amici dell’Officina Enoica siamo partiti da Milano puntando in direzione della Rocca di Rosignano Monferrato, una balconata che vi consiglio di visitare per la sua vista mozzafiato. Ad aspettarci Maurizio Gily, che, subito dopo i saluti di rito, si è accertato sull’altezza dei miei tacchi; l’ultima volta che ci siamo visti a Gavi ne avevo un paio stratosferici, errore che
stavolta non ho ripetuto. Una passeggiata a piedi per conoscere un territorio è il modo migliore per viverlo. E’ così che è iniziato il nostro tour nella terra del Grignolino: un percorso tra i ‘i bric e foss’, le dolci colline del Monferrato Casalese. Di tanto in tanto perdevo di vista il gruppo a causa delle mie continue soste per fotografare ogni angolo che colpiva il mio sguardo. La vista sui vigneti, gli scorci caratteristici dalle belle case in pietra da Cantoni, la pietra arenaria tipica di questi luoghi, fino al belvedere, o meglio, ‘An sal Sass’, il sasso su cui si erge il nucleo originario del paese. Arrivati in comune abbiamo trovato ad aspettarci i gentili rappresentanti delle amministrazioni di Rosignano Monferrato, Cella Monte e San Giorgio. Oltre a darci il benvenuto ci hanno esposto il loro progetto per la promozione del territorio rivolto in particolar modo ai comunicatori digitali. Non potevano mancare un caffè e i famosi Krumiri Portinaro, una tipicità del Monferrato che risale al 1878, anno in cui morì Vittorio Emanuele II. A lui sono stati dedicati ispirandosi alla forma tipica dei suoi ‘baffi a manubrio’. La tappa successiva è stata la visita all’Ecomuseo e al suo infernot situati a Cella Monte, comune caratteristico per le costruzioni a vista in pietra da Cantoni. Indovinate li chi ho incontrato? Una donna col cappello, o meglio, una bella ‘Monferrina’! Questo nome ha origine da un’antica ballata del Monferrato la cui nascita sembra risalire alla storia di una giovane piemontese, Maria Catlina, corteggiata dal suo innamorato con questa danza. Gli infernot sono nicchie sotterranee scavate nella pietra da Cantoni. Situati sotto le abitazioni private, sono senza luce ne aerazione diretta, con clima e umidità costanti. Ambienti, che nella storia della viticoltura locale, hanno trovato luogo ideale per la conservazione del vino. Un’architettura sotterranea nata dalla sapienza contadina, che ne ha fatto oggi un’espressione della tradizione rurale di questo
territorio. Arrivata l’ora di pranzo abbiamo fatto tappa al ‘Relais I Castagnoni‘, una dimora d’epoca del 1742, un tempo convento religioso. Qui abbiamo degustato i piatti tipici della tradizione monferrina a base di tartufo bianco. Maurizio Gily, dopo una degustazione alla cieca tra dodici assaggi di Grignolino, ci ha raccontato la storia e le caratteristiche di questo vino tipico del Monferrato Casalese, un vino ancora ai più poco conosciuto. L’incontro e l’ascolto dei produttori, poi, ha completato il quadro. Con loro ho avuto modo di approfondire, di degustare, e di capire meglio questo vino come è giusto che sia. Il Grignolino, un vino dal colore rubino chiaro, come più volte sottolineato da Maurizio, non un vino rosato ma un vino rosso vinificato con macerazione sulle bucce. Un vino molto sensibile al territorio d’origine da cui acquisisce i caratteri peculiari. Definito da Luigi Veronelli come anarchico e testa balorda, per la personalità indipendente e quasi ribelle, da Mario Soldati, come il più delicato tra tutti i vini piemontesi. Lo sto bevendo ora, mentre scrivo, dopo averlo conosciuto nel luogo in cui nasce, dopo aver parlato con chi lo produce. Non amo ricamare troppo sui vini, per questo motivo lo descriverò con poche parole: ‘Il Grignolino, un vino rosso garbato’. “Bisogna andare dal vino senza aspettare che sia il vino a venire da noi” Filiberto Lodi – Giornalista L’etimologia del termine Grignolino sembra risalire al termine medievale ‘berbexinus’, un vino di uve berbexine considerato pregiato. (fonte Maurizio Gily)
Lo sapevate che il Panettone è nato da una storia d’amore? Ebbene sì, il dolce natalizio tipico di Milano è nato da una storia d’amore, per lo meno così narrano le leggende. Un dolce che adoro, e non solo a Natale… Ieri sera al Ristorante Il Fauno di Cesano Maderno, il protagonista è stato proprio il Panettone. Insieme a Franco Cappello della Pasticceria Elisa di Seveso, si è parlato dei suoi ingredienti, delle sue tecniche di preparazione, e della sua storia. Detto questo, lo sapevate che il Panettone è nato da una storia d’amore? Ebbene si! Ora vi racconto… Si narra che Ugo degli Antellari, il nobile falconiere di Ludovico il Moro, fosse innamorato di Adalgisa, la bella figlia di Toni, un fornaio di Milano. Un amore vissuto in segreto, osteggiato dalla famiglia nobile di lui, che non vedeva di buon occhio la ragazza, a causa delle umili origini. Adalgisa, tra l’altro, dovendo aiutare il padre in bottega per l’assenza del garzone malato, era spesso troppo stanca per incontrarsi con il suo innamorato. Per ovviare a ciò, Ugo, indossati abiti umili, si presentò dal padre fingendosi un garzone in cerca di lavoro. Le cose però continuavano a non andare bene: una nuova bottega aveva aperto a poca distanza causando una perdita di clienti. Fu allora che Ugo capì che, per aumentare le vendite, la qualità del pane andava migliorata. Cedette di nascosto due falchi della corte, e con il ricavato comprò del burro introducendolo nell’impasto. Fu un successo!
Non contento, sotto le feste di Natale, decise di aggiungere all’impasto anche delle uova, dell’uvetta sultanina e dei pezzi di cedro candito. Il risultato fu uno specialissimo “pan del Toni” da cui ebbe origine il nome Panettone. Anche se ormai viene proposto in molte varianti, io amo quello classico, quello fatto seguendo la ricetta tradizionale di un tempo. Lo sapevate che i cachi… Da ragazzina vivevo in una casa con molti alberi da frutta. Un giorno mio padre, dovendo ampliare un’autorimessa, era in procinto di sacrificarne uno: un albero di cachi. Mi piacevano tantissimo! Ricordo che li tiravamo giù dall’albero a Novembre, per poi farli maturare lentamente adagiandoli su lunghe assi di legno. Nel mangiarli cercavo i noccioli che poi riponevo accuratamente da parte. Ero ansiosa di farmeli aprire da mio padre per vedere la forma della piccola posata che abitualmente trovavo. Se devo dirla tutta… questa cosa la faccio ancora! Ebbene direte, come finì la storia… l’albero poi è stato sacrificato? Mio padre trovò il modo di non farlo rendendomi, come potrete immaginare, molto felice! La costruzione venne ampliata, ma con un albero di cachi che spuntava dal tetto. Ebbene si! Mio padre era un grande! Oltre a farvi partecipi di un mio ricordo d’infanzia, lo sapevate che i cachi…
I cachi sono originari della Cina e del Giappone. Sono giunti in Europa sono alla fine del XIX secolo. Sono un’eccellente fonte di beta-carotene, di vitamina C e di potassio. Sono ricchi di zuccheri, quindi una buona fonte di energia. Apportano circa 60 Kcal per ogni 100 grammi. I cachi sono un frutto biologico in quanto la sua pianta non ha bisogno di trattamenti antiparassitari. La parola cachi indica il frutto sia al plurale che al singolare. Comunque sia, anche se erroneamente, nel gergo comune è ormai consuetudine utilizzare la parola caco per indicare il frutto al singolare. A proposito, i cachi vaniglia o cachi mela, dalla polpa assai più soda, sono anch’essi buoni, ma di una varietà diversa. Fonte: ‘Cibi che fanno bene, cibi che fanno male’ – Tom Sanders docente di nutrizione e dietetica King’s College University of London
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