Vita da Blogger anzi, da Farm Blogger. Cinzia Tosini - Storie di Persone di Cinzia ...

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Vita da Blogger anzi, da Farm Blogger. Cinzia Tosini - Storie di Persone di Cinzia ...
Vita da Blogger… anzi, da
Farm Blogger. Cinzia Tosini.
Intervista di Giustino Catalano pubblicata l’8 Gennaio 2014 su
Di Testa e Di Gola.

Eclettica, solare, intelligente, curiosa, simpatica, dalla
grande parlantina…. tanti gli aggettivi positivi per definire
Cinzia Tosini, Farm Blogger e autrice su questo sito, ma forse
il più appropriato è passionale. Avevo voglia di raccontarvela
con le sue parole ed eccomi qui.

• Chi è Cinzia Tosini?

Innanzitutto amo farmi chiamare solo Cinzia! E’ la prima cosa
che dico quando mi presento. Per dirla tutta mi chiamo anche
Emilia che è il secondo nome che mi è stato dato in memoria
del mio mitico nonno friulano. Dunque, per tornare alla
domanda – chi sono? – mi viene immediato rispondere che sono
semplicemente una donna che da oltre tre anni sta vivendo una
seconda vita.
Tutto è iniziato riprendendola in mano, dopo che, superato uno
smarrimento iniziale, ho reinvestito il mio tempo nelle
passioni di sempre: la terra, l’agricoltura, il vino, e le
storie delle persone. Credo che la motivazione principale, sia
da attribuire al fatto che da ragazzina sono cresciuta in
campagna dai nonni a Treviso.
Spesso non ci rendiamo conto che la terra, se vissuta
veramente, lascia il segno nel tempo, nei ricordi, e nelle
anime. Purtroppo il male del nostro secolo è che corriamo e
viviamo nella continua ricerca di traguardi, senza renderci
conto che l’esigenza primaria è l’armonia che riscopriamo
stando a contatto con la natura.

• Come hai iniziato a scrivere?

La mia storia, per lo meno quella degli ultimi anni, è un
Vita da Blogger anzi, da Farm Blogger. Cinzia Tosini - Storie di Persone di Cinzia ...
continuo susseguirsi di coincidenze e incastri che pian piano
mi hanno portato a scrivere (giuro, non l’avrei mai detto).
Tutto è iniziato dopo aver letto l’intervista fatta ad una
vignaiola di Aosta. Le sue parole mi avevano emozionato a tal
punto, da convincermi ad andare ad Aosta per conoscerla di
persona. La sua, una vita difficile, un po’ come la mia.
Quando mi raccontò che non aveva i soldi per stampare
l’etichetta a retro della bottiglia del vino che produceva,
decisi di scriverne un pezzo, che stampai, e che le regalai
affinché lo omaggiasse insieme al vino.
Fu allora che mi fu chiesto di pubblicarlo, inserendolo in una
mia rubrica su un sito di enogastronomia: Vino Way. Accettai
un po’ titubante, ma solo a patto di poter raccontare le
produzioni partendo dalle persone. In seguito, avendomi
limitato il campo d’azione alla sola Lombardia, decisi di
uscire continuando la mia avventura con la realizzazione di in
un sito, o meglio, di un sogno di cui ero socia fondatrice:
World Wine Passion. Purtroppo, una non condivisione su alcune
prese di posizione, mi ha convinto a trasformare la mia
Rubrica presente nel sito, in un blog personale: Storie di
Persone.
Quello degli ultimi anni è stato un percorso a ostacoli,
intenso e accelerato, passato scrivendo ciò che ho vissuto,
ascoltando la gente, e viaggiando in lungo e in largo per
l’Italia, il modo che piace a me per conoscere il territorio.

• Perché hai deciso di scrivere partendo dalle ‘persone’?

Decisi da subito di scrivere di persone, in primis perché per
parlare di enogastronomia, bisogna avere alle spalle molta
esperienza, e in secondo luogo, perché mi accorsi che
ascoltare il cambiamento di rotta di persone che avevano
deciso di investire la propria passione nella terra e
nell’enogastronomia, mi affascinava molto.

• Farm blogger, perché ti sei definita così?

Dunque, questa definizione è nata dopo molte riflessioni fatte
con me stessa. Mi trovavo spesso a correggere l’interlocutore
di turno, quando, sentendomi definire una food blogger, non
trovavo per nulla calzante tale ruolo. Confesso di essere più
brava a mangiare che a cucinare.
Amo molto il cibo e il vino per le sue storie, per il
territorio, per le sue tradizioni e per i suoi protagonisti.
Mi piace conoscere e assaggiare vivendo le realtà sul ‘campo’,
per me il modo migliore! Adoro visitare le aziende agricole
accompagnata dai produttori, poi, vedere l’evoluzione e la
nascita dei prodotti, mi permette di capire comprendendo
meglio le problematiche legate ad essi.
E’ da queste considerazioni che è nata la definizione che
finalmente mi sono sentita calzare a pennello: farm blogger.

• Dopo tre anni, che esperienze senti di aver maturato?

Molte sono le esperienze, molto ho imparato, e molti ho
conosciuto. Dico spesso che non è un mondo facile questo.
Purtroppo gli egoismi vincono sul buon senso, rendendo spesso
difficile la strada che permetterebbe di fare il giusto
sistema a vantaggio di tutti.
Gli italiani devono cambiare mentalità se vogliono ripartire.
Bisognerebbe incominciare dalla scuola creando da subito, con
la nuova generazione, un nuovo modo di pensare. Qualcuno ora
sorriderà leggendo le mie parole, non ha importanza, io ci
credo sul serio in quello che scrivo, utopistico o meno.
Nonostante ciò, la mia maggiore soddisfazione è di aver creato
nel tempo una fitta rete di rapporti basati sulla stima, sul
rispetto e sull’amicizia. Questo per me è di fondamentale
importanza, costruire rapporti basati sulla buona reputazione,
soprattutto in un mondo come quello dell’enogastronomia, le
cui fondamenta sono basate sulle passioni.

• Blogger e giornalisti, argomento molto dibattuto. Cosa ne
pensi?

Ne ho scritto recentemente sul blog, in particolar modo perché
mi sento tirata in causa.
Blogger e giornalisti, passione e professione, emozione e
razionalità. Due ruoli i cui scritti hanno una carica emotiva
ben diversa. Io insisto sul fatto che, comunque sia, entrambi
possono aiutare comunicando, ognuno a loro modo, il territorio
e le sue produzioni. La cosa fondamentale per me è la
coerenza, che va mantenuta evitando di seguire le onde di
comodo del momento.

• Mondo blogger: chi lo ama, chi lo odia, e chi lo sfrutta. Ma
a chi interessa in realtà la comunicazione fatta dai blogger?
E perché?

La passione che ha spinto molti blogger in questa direzione,
me compresa, ha fatto emergere quanto la loro carica emotiva
abbinata alla comunicazione digitale, possa essere d’aiuto in
questi anni difficili che stiamo vivendo, sia al territorio
che alle produzioni. Un fenomeno già in voga da anni
all’estero. Molti lo hanno capito, e ne hanno preso spunto.
Il mondo dei blogger non è sempre facile, c’è chi agisce
seguendo la passione, e c’è chi si fa trascinare da facili
traguardi. Comunque sia, spetta solo ai lettori seguire chi
trasmette nel tempo, quella passione che ha aiutato molti di
noi a superare momenti difficili.
L’unico tasto dolente in questo contesto, è che troppi
sfruttano questa passione senza riconoscere l’impegno
intellettuale e non solo, nel dedicare tempo ed energie a
questa attività la cui rilevanza è stata riconosciuta dalle
stesse istituzioni locali.

di Giustino Catalano
Lo sapevate che il vino si
mette anche nel brodo…

Ebbene si! Me lo ha insegnato mio nonno Giuseppe, un mantovano Doc!

Di lui, oltre alle mitiche carte da gioco che mi ha regalato da
bambina, mi rimangono alcuni insegnamenti, come l’abitudine di usare
il cucchiaio per arrotolare le tagliatelle, o quella di mettere un
pizzico di sale sul melone per renderlo più dolce, o infine, quella di
mettere un po’ di vino nel brodo.

Ricordo tanti anni fa, quando, una mattina alzandomi per fare
colazione, l’ho visto per la prima volta bere del brodo in cui aveva
messo un goccio di vino. Figuratevi la mia faccia…: “Nonno, ma che
fai?! Metti il vino nel brodo, e per giunta lo bevi a colazione?!

Molti sapranno che questa usanza è praticata in alcune province della
Lombardia, Emilia e Piemonte. Aggiungere del vino al brodo, intendo
quello buono, quello fatto non sicuramente con il dado, per i
mantovani e non solo è una vera e propria tradizione!

Detto questo, partendo dal presupposto che il brodo debba essere
buono, direi di seguire la ricetta che ci consiglia un caro amico, lo
Chef Massimo Dellavedova.

        Il Brodo di carne di Massimo Dellavedova

Ingredienti:

      1 kg di bovino adulto (reale, punta di petto, polpa di spalla,
      scamone)
      500 gr. cappone (va bene anche il pollo)
      1 cipolla grossa
      2 gambi di sedano
      1 carota media
      2 chiodi di garofano
      3 foglie di alloro
      4 grani di pepe nero
      Poco sale grosso
      4,5 l. di acqua

Preparazione:

      Mondare verdure e cappone (pollo)
      Steccare la cipolla con i chiodi di garofano
      Mettere tutto in una capiente pentola
      Fate sobbollire per almeno 3 ore schiumando con il mestolo
forato ogni volta che si forma la schiuma. Raccomando di non
      fare bollire.
      A   cottura     finita,   filtrarlo,   aggiustarlo   di   sale   e
      raffreddarlo. Una volta freddo sgrassarlo. Questa operazione
      risulta semplice perché la parte grassa si è solidificata in
      superfice.

In questo modo si otterranno tre litri di brodo.

Oggi vado a passeggio, ma…
con il cuore!
Amo passeggiare nel verde, lo faccio sempre appena posso, lontano
dal caos e dalla frenesia. E’ il mio momento terapeutico. Si,
avete capito bene… ‘terapeutico’!

Camminare mi fa bene alla mente, mi rilassa, e fa bene alla
salute prevenendo molti disturbi!

Forza… la pigrizia è cattiva compagnia! Cinque chilometri al
        giorno tolgono il medico di torno… o quasi!

Vi ricordate quella canzone che diceva: “basta un poco di
zucchero e la pillola va giù, e la pillola va giù, e la pillola
va giù…” Ebbene, vorrei che la pillola andasse giù il meno
possibile! I farmaci possono molto, ma non sono l’unica risposta
a tutti i mali.

Ecco le indicazioni terapeutiche per convincerci a camminare
                           di più.

L’esercizio fisico influisce positivamente su ipertensione,
dislipidemie, obesità e non solo… e fin qui direi che ci siamo.

Ciò che però mi preme sottolineare di più, è che non fare
esercizio fisico, influisce negativamente causando alcune
malattie croniche, metaboliche, e cardiocircolatorie come:

      Diabete

      Obesità

      Malattie cardiovascolari

      Osteoporosi

      Ipertensione

Lo so, sono cose trite e ritrite, ma io insisto!

L’attività fisica è come un farmaco naturale, che, con una
corretta alimentazione, permette di riequilibrare i meccanismi
del nostro organismo tenendoci in forma.

La dose consigliata? Trenta minuti al giorno che possiamo fare
durante la giornata semplicemente evitando di frequentare una
brutta compagnia: “la pigrizia”!

Un po’ di chiarezza, o quasi,
in tema di presentazione
degli   oli  di   oliva   nei
pubblici esercizi

Recentemente, con un amico che si occupa di ristorazione, mi sono
trovata a discutere sulla presentazione della bottiglia di olio
extra vergine di oliva che mi piacerebbe vedere sul tavolo in
tutti i ristoranti.
Confrontandomi con altri del settore, mi sono resa conto che
molta chiarezza in effetti non c’è.

Per questo motivo, visto che mi piace parlare con cognizione di
causa,   mi   sono    informata      consultando    Massimo       Occhinegro,
consulente      d’impresa      in    ambito   fiscale   e    di    marketing
internazionale, con particolare riguardo al comparto di olio di
oliva nei mercati europei ed extra europei.

Tenteremo di fare un po’ di chiarezza, o quasi (leggendo capirete
il   perché),    inserendo      la    Legge   14   gennaio    2013    n.14   e
l’interpretazione di Massimo.

       Legge 14 gennaio 2013 n.14

Art. 7 – Termine minimo di conservazione e presentazione degli
oli di oliva nei pubblici esercizi.

1. Il termine minimo di conservazione entro il quale gli oli di
oliva vergini conservano le loro proprietà specifiche in adeguate
condizioni di trattamento non può essere superiore a diciotto
mesi dalla data di imbottigliamento e va indicato con la dicitura
«da consumarsi preferibilmente entro» seguita dalla data.

2. Gli oli di oliva vergini proposti in confezioni nei pubblici
esercizi, fatti salvi gli usi di cucina e di preparazione dei
pasti, devono possedere idoneo dispositivo di chiusura in modo
che il contenuto non possa essere modificato senza che la
confezione      sia   aperta    o    alterata,     ovvero   devono    essere
etichettati in modo da indicare almeno l’origine del prodotto ed
il lotto di produzione a cui appartiene.

3. La violazione del divieto di cui al comma 1 comporta
l’applicazione al titolare del pubblico esercizio di una sanzione
amministrativa da € 1.000 a € 8.000 e la confisca del prodotto.

4. All’articolo 4 del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81,
i commi 4-quater e 4-quinquies sono abrogati.
“Chiave interpretativa” della legge in questione di Massimo
Occhinegro

La legge 14 gennaio 2013 n.14 con l’articolo 7 secondo comma ha
inteso abrogare la precedente legge che vietava in maniera
esplicita l’uso delle “famose” ampolle dell’olio. Tuttavia sia
pure in maniera confusionaria, ha voluto introdurre da un lato
l’uso   di    bottiglie   con    tappi   anti-rabbocco    e    dall’altro
confermare l’obbligo del l’indicazione dell’origine nonché del
lotto di produzione a cui appartiene.

L’articolo     è   tuttavia     mal   scritto   e   soggetto   a   diverse
interpretazioni. La “chiave” interpretativa risiede a mio parere
nel significato di “ovvero”. Nella lingua italiana “ovvero” può
essere interpretato come sinonimo di “oppure”, ma in tal caso, il
legislatore avrebbe forse pensato a bottiglie con sistema di
chiusura anti-rabbocco, senza etichetta, il che è per logica,
senza senso, da un lato, mentre dall’altro confezioni senza tappo
anti-rabbocco ma etichettate con indicazione di origine, data di
scadenza inferiore ai 18 mesi dal confezionamento e lotto di
produzione, il che anche in questo caso tale evenienza avrebbe
poco senso vista la volontà di impedire il riutilizzo delle
confezioni.

Pertanto la parola “ovvero”, a mio parere andrebbe interpretata
con il significato di “ossia”, (come spesso accade nella
formulazione delle norme di legge) con l’intento di offrire una
specifica in più rispetto a quanto scritto nella prima parte
dello stesso articolo 7, comma 2.

In definitiva tutto ciò significa che le bottiglie devono essere
etichettate come da norma di legge e che in più dovrebbero avere
tappi anti-rabbocco. È evidente però che la formulazione di tale
articolo sia stata fatta in maniera frettolosa e confusionaria
come detto in premessa.

Cosa rimane da dire… mah, direi che a questo punto, l’unica cosa
che mi viene da dire, è che tocca a noi prestare la giusta
attenzione scegliendo la ristorazione virtuosa attenta alla
qualità.

Un ‘contessino’ alla Corte
Santo   Stefano di  Cesano
Maderno

 Direte: “Un contessino alla Corte Santo Stefano… Cinzia,
 ma in che senso?!” Ora vi spiego…

Dunque, mi capita spesso di rincontrare persone con cui ho
collaborato a lungo negli anni passati. La cosa mi diverte
alquanto, soprattutto perché spesso si trovano davanti ad una
persona totalmente diversa, diciamo molto più… si, direi proprio
una persona molto più simpatica e sorridente. Questo perché fino
a un po’ di anni fa, ero una steccata coordinatrice vichinga
costretta a tenere testa a un bel po’ di medici (alcuni ribelli),
e quindi mi toccava fare la dura.. (per finta, anzi, allora sul
serio!)

Detto questo, dopo l’ennesimo invito di un ‘contessino’ (capirete
poi perché lo chiamo così), ho deciso di accettare
accompagnandolo a cena. In realtà il soggetto in questione, con
cui a suo tempo ho collaborato, è una persona intelligente ed
impegnata che combatte le ingiustizie scrivendone e non solo. Ero
solo un po’ restia per i suoi modi, che, come diceva mio padre,
sono i classici atteggiamenti da ‘baùscia’. Per chi non lo
conosce, questo termine dialettale lombardo, viene usato in senso
ironico per indicare una persona che si da delle arie.

Comunque sia, prendendo spunto da una delle protagoniste del
risorgimento italiano, la bella Gigogin, e come a volte mi
definisce il mio caro amico Giorgio Ferrari, daghela avanti un
passo, dal ritornello della canzone che la ricorda per il suo
coraggio nel fare un passo avanti verso l’oppressore straniero.

Ovviamente qui oppressori non ce ne sono, diciamo più stranieri,
visto che il contessino snobbando la zona in cui abito voleva che
andassi a prenderlo per portarlo a cena nella gran Milan! Seee…
spetta che tiro fuori la spider, spetta né…!

Adoro Milano (a parte il traffico), e adoro anche le sfide!
Quindi gli ho detto: “Caro, in primo luogo se vuoi mi passi a
prendere, e in secondo, andiamo a mangiare dalle mie parti!” Il
contessino, arresosi alla mia volontà, ha dovuto tirare fuori la
sua ‘torpedo’ come la chiama lui, e si è deciso di venirmi a
prendere! Tiè!

Risolta la questione sapete dove l’ho portato? Ebbene, siamo
andati a cena in un’antica corte nel centro storico di Cesano
Maderno, la Corte Santo Stefano. Il malmostoso, dopo essersi
lamentato per aver fatto due passi a piedi, e dopo aver premesso
che non mangiava pesce perché da piccolo gli era rimasta una
lisca in gola, si arreso e mi ha seguito.

  Nel frattempo nella mia mente un unico pensiero… stasera non
  ce la posso fare!

E invece pensate un po’, il ‘contessino scrivano golfista medico’
ha apprezzato tutto! Dal luogo caratteristico dalle antiche mura,
fino all’aperitivo nei sotterranei.

Per quanto mi riguarda, oltre che a introdurlo con chi ci ha
seguito nella cena come uomo-cittadino con la puzza sotto il
naso, mi sono tolta pure la soddisfazione di correggerlo quando,
chiedendo all’addetto in sala un Barbera, ho replicato: “Senti
nobiluomo, va che si dice la Barbera!” Ehhh… quando ce vo’ ce
vo’!

Ma mica è finita! Mentre mi gustavo una zuppa di ceci e cozze non
è riuscito a trattenersi dal dire: “Cinzia, ma ti mangi le cozze!
Ma ti fidi!” Uhh signur gli ho risposto… ebbasta!

La mia cena si è conclusa con una ‘Miascia comasca’, un dolce
tipico fatto con pane, amaretti, mele, pere, uvetta servito su
una salsa di cachi, e, un immancabile bicchierino di liquore alla
liquirizia che adoro!
Ragazzi che serata… per fortuna che, come per Cenerentola,
l’incantesimo è svanito a mezzanotte! Ovviamente scherzo, tutto
sommato mi sono proprio divertita!

Vi presento Samuele Vergari,
un blogger in pigiama!

Blog:   FoodWineBeer

Da tempo si discute sul divario della comunicazione fatta tra
blogger e giornalisti. Un argomento ormai tritato e ritritato che
tratta due figure i cui scritti hanno una carica emotiva ben
diversa. Io insisto sul fatto che, comunque sia, entrambi possono
aiutare comunicando ognuno a loro modo il territorio e le sue
produzioni. La cosa fondamentale per me è la coerenza, che va
mantenuta evitando le onde di comodo del momento.

La passione che ha spinto molti blogger in questa direzione, me
compresa, ha fatto emergere quanto la comunicazione digitale
possa essere d’aiuto in questi anni difficili che stiamo vivendo.
Questo non appanna in alcun modo la figura del giornalista, che,
in modo professionale assolve ad altrettanto compito. Non è una
gara, non potrà mai esserlo, essendo la forma comunicativa assai
diversa.

Ho fatto questa premessa per introdurre un blogger, o meglio, un
Passion Blogger che conosco e seguo da tempo: Samuele Vergari, in
arte ‘FoodWineBeer’.

Anche se l’approccio di Samuele non è il mio, nel senso che a
differenza di lui io amo scrivere dopo aver vissuto di persona il
territorio e i suoi protagonisti, rispetto la sua scelta dettata
in questo momento da esigenze familiari.

Il mondo dei blogger non è sempre facile, l’ho conosciuto tempo
fa, quando, seguendo le relazioni pubbliche e i contenuti di un
sito di enogastronomia di cui ero socia, volevo far conoscere con
una rubrica che avevo deciso di chiamare ‘Passion Blogger’, gli
‘appassionati   veri’,   quelli   che   con    impegno     e   coerenza
trasmettono la loro passione attraverso i blog (diari in rete).

Anche dopo aver lasciato quel ruolo, per una non condivisione di
prese di posizione, questo mio progetto non è andato perso. A
modo mio, continuo dando visibilità a chi ritengo possa ‘far
bene’ nel diffondere la conoscenza delle produzioni di qualità.

  Samuele Vergari è nato da una famiglia dedita all’agricoltura.
  La passione per il vino ereditata dai nonni produttori di
  Sangiovese, gli ha permesso col tempo di apprezzarlo fino a
  diventare un punto di riferimento per gli amici, per i
  consigli sulla scelta dei vini. La svolta nel 2010, quando,
  spinto dalla crescente passione decide di aprire un blog.
  Molto il lavoro per darne forma, tanti i passaggi e cambi di
  rotta, fino alla nascita di ‘FoodWineBeer’.

  Un blog che punta più ai prodotti, che ai produttori. Il
  motivo   presto   svelato:   Samuele     è   un   vero   e   proprio
  pantofolone, o meglio, un papà di due bimbi piccoli che lo
  portano a rendersi indispensabile in famiglia. E’ così che
  scrive i suoi articoli, spesso in pigiama sul divano, tra le
  interruzioni dei suoi figli e i loro micro drammi. Nonostante
  gli impegni familiari, il piacere di scrivere di ciò che
  degusta a casa e nei ristoranti delle zone limitrofe, lo ha
  spinto a continuare. Poi, appena possibile, nei giorni di
  riposo, i viaggi per l’Italia gli permettono di ampliare la
  sua conoscenza.

 “Cinzia, le soddisfazioni sono tante, in particolar modo quella
di poter conoscere, anche se in molti casi solo in maniera
 virtuale, una marea di belle persone legate al mondo del vino e
 della birra. Certo, anche in questo mondo ci sono personaggi
 negativi,     persone   che   promettono    e   poi   non   mantengono,
 approfittatori e millantatori di ogni genere…          Io sono solo un
 semplice appassionato che alle spalle ha poca teoria e molta
 pratica. Un uomo e un padre che racconta le proprie esperienze
 in pigiama sul divano di casa… Samuele Vergari”

Concludo con un mio pensiero. Noi blogger, tanto criticati ma nel
contempo tanto ricercati, sono convinta che qualcosa di buono lo
facciamo. A modo nostro tentiamo di trasmettere quella passione
che ha aiutato molti di noi a superare momenti difficili della
nostra vita.

  Ora vi chiedo: “Sono forse meglio quelli che sfruttano questa
                               passione…?”

Le rose di Hilde a ‘Vigna
Petrussa’

                    Come passa veloce il tempo…

Mi sembra ancora di sentire la voce di Hilde Petrussa mentre,
orgogliosa nel mostrarmi le rose in testa ai filari delle sue
vigne, mi diceva: “Hai visto le mie rose come sono belle?”
Nonostante sia passato più di un mese dal nostro incontro a
Prepotto, se chiudo gli occhi, il ricordo di quei colori è ancora
vivo nella mia mente.

Un tempo i contadini le piantavano in testa ai filari perché
soggette    alle   stesse    malattie    della     vite,   l’oidio   e   la
peronospora; l’attacco alle rose però avveniva sempre in
anticipo, preannunciando così l’imminente pericolo ai viticoltori
che agivano con i trattamenti a base di zolfo.

Oggi la loro funzione più che altro è quella di abbellire i
vigneti; a me però piace ancora una volta ricordare le belle
tradizioni contadine dei tempi passati apprezzando chi ne da
continuità.

Ho voluto introdurvi Hilde Petrussa così, con le sue rose…

Una donna del vino che si è tuffata con passione ed entusiasmo
nella conduzione della piccola azienda viticola di famiglia
ubicata ad Albana, località del Comune di Prepotto nei Colli
Orientali del Friuli.

Figlia di agricoltori, ha vissuto per trent’anni fra Conegliano e
Portogruaro lavorando nell’amministrazione di diverse scuole. Una
volta in pensione si è dedicata alla risistemazione delle sue
vigne, privilegiando le varietà autoctone e impegnandosi in una
conduzione rigorosa del vigneto: guyot monolaterale nei nuovi
impianti, inerbimento, basse rese per ettaro e raccolta manuale
delle    uve,   che   le   hanno   permesso   di    ottenere   maggiori
concentrazioni aromatiche e strutturali del vino.

Ciao Hilde, a te la parola…

        Mi descrivi la terra su cui si trovano le tue vigne?

Ciao Cinzia, la vallata in cui si trova la mia proprietà, fra lo
Judrio e le colline, è protetta dai venti ed è in posizione
solatia, con un microclima ed un terreno di marna eocenica
(localmente detta ponka) ideali per la coltivazione della vite.

        Quali sono i vini a cui sei maggiormente legata?

Come avrai notato ho avuto un’attenzione particolare per lo
Schioppettino di Prepotto, vino tipico del mio comune. Sono stata
cofondatrice    dell’Associazione       Produttori    Schioppettino      di
Prepotto assieme ad altri e prima presidente dell’associazione.

Durante i 5 anni del mio mandato, con l’aiuto di tecnici in
campagna e di enologi, abbiano concordato un disciplinare di
produzione e ho avuto la soddisfazione di ottenere la sottozona
per questo vitigno.

Altro vino a cui sono particolarmente affezionata è il Bianco
“Richenza”, cuvèe ottenuto da uve provenienti da vitigni
autoctoni parzialmente appassite e fermentate in barriques di
rovere francese. Produco inoltre Friulano, Sauvignon, Cabernet
Franc e Refosco dal peduncolo rosso.

      Sei una donna del vino. Qual è la tua esperienza in questo
      mondo?

Anche se donna in un mondo ancora molto maschile, sono riuscita a
superare incomprensioni, diffidenza e difficoltà. Credo che la
cura maniacale per il vigneto e il mio impegno siano stati
determinanti per i traguardi che ho raggiunto. Con un’espressione
azzardata direi che ho cercato di mettere “il territorio nella
bottiglia”.

Ho provato inoltre grande soddisfazione quando ho ottenuto la
Gran Medaglia d’Oro alla selezione del Sindaco con il Picolit
2005. Era la prima volta che entravo in Campidoglio per ricevere
l’attestato dalle mani del Ministro dell’Agricoltura.
Hilde Petrussa

Il Grignolino, un vino rosso
garbato

Non conoscevo il Grignolino, intendo bene, come piace a me, sul
‘campo’. Non mi ritengo un’esperta, come dico spesso sono solo
una donna che ama il vino e che vuole conoscerlo attraverso tutti
gli elementi che lo compongono.

Il vino per me è l’espressione dell’esperienza dell’uomo
applicata al vitigno, al territorio e al clima, quindi mi chiedo
– come è possibile dare un giudizio completo senza conoscere
ciascun elemento che contribuisce a determinare le sue
caratteristiche? – Certo, con l’assaggio è possibile coglierne i
difetti o i pregi, ma la cosa si ferma li.

Proprio per questo, pochi giorni fa, quando un amico mi ha
chiesto cosa pensassi di un vino, mi è venuto spontaneo
rispondergli… – sai, posso dirti che mi piace o non mi piace, ma
un vino, finché non l’ho conosciuto nella sua pienezza, mi passa
solo a metà. E’ come conoscere una persona leggendo di lei, ma
senza averla incontrata… non si avrà mai la percezione di ciò che
è veramente –

Ho fatto questa premessa per farvi capire come ‘amo vivere il
vino’, ma soprattutto per farvi capire l’entusiasmo con cui ho
colto l’invito di Maurizio Gily e Monica Pisciella per il
#grignolinodigitour. Detto questo, pronti via… si parte!

Quando inizio un viaggio, breve o lungo che sia, entro quasi in
un’altra dimensione, giuro, non sto scherzando! Entro come in
simbiosi con le terre che visito.

Ora sto pensando che… ma quanto sono belli i paesaggi
vitivinicoli! In questa stagione poi, con le tante sfumature dei
colori che variano dal verde al giallo e al rosso… una vera
meraviglia!

Lo sapevate che i paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e
Monferrato sono candidati a diventare Patrimonio Mondiale
dell’Unesco? Ebbene si, e con merito!

Il #GrignolinoDigiTour si è svolto Domenica 17 Novembre.

Insieme agli amici dell’Officina Enoica siamo partiti da Milano
puntando in direzione della Rocca di Rosignano Monferrato, una
balconata che vi consiglio di visitare per la sua vista
mozzafiato.

Ad aspettarci Maurizio Gily, che, subito dopo i saluti di rito,
si è accertato sull’altezza dei miei tacchi; l’ultima volta che
ci siamo visti a Gavi ne avevo un paio stratosferici, errore che
stavolta non ho ripetuto.

Una passeggiata a piedi per conoscere un territorio è il modo
migliore per viverlo. E’ così che è iniziato il nostro tour nella
terra del Grignolino: un percorso tra i ‘i bric e foss’, le dolci
colline del Monferrato Casalese.

Di tanto in tanto perdevo di vista il gruppo a causa delle mie
continue soste per fotografare ogni angolo che colpiva il mio
sguardo.

La vista sui vigneti, gli scorci caratteristici dalle belle case
in pietra da Cantoni, la pietra arenaria tipica di questi luoghi,
fino al belvedere, o meglio, ‘An sal Sass’, il sasso su cui si
erge il nucleo originario del paese.

Arrivati in comune abbiamo trovato ad aspettarci i gentili
rappresentanti delle amministrazioni di Rosignano Monferrato,
Cella Monte e San Giorgio. Oltre a darci il benvenuto ci hanno
esposto il loro progetto per la promozione del territorio rivolto
in particolar modo ai comunicatori digitali.

Non potevano mancare un caffè e i famosi Krumiri Portinaro, una
tipicità del Monferrato che risale al 1878, anno in cui morì
Vittorio Emanuele II. A lui sono stati dedicati ispirandosi alla
forma tipica dei suoi ‘baffi a manubrio’.

La tappa successiva è stata la visita all’Ecomuseo e al suo
infernot situati a Cella Monte, comune caratteristico per le
costruzioni a vista in pietra da Cantoni.

Indovinate li chi ho incontrato? Una donna col cappello, o
meglio, una bella ‘Monferrina’! Questo nome ha origine da
un’antica ballata del Monferrato la cui nascita sembra risalire
alla storia di una giovane piemontese, Maria Catlina, corteggiata
dal suo innamorato con questa danza.

Gli infernot sono nicchie sotterranee scavate nella pietra da
Cantoni. Situati sotto le abitazioni private, sono senza luce ne
aerazione diretta, con clima e umidità costanti. Ambienti, che
nella storia della viticoltura locale, hanno trovato luogo ideale
per la conservazione del vino.

Un’architettura sotterranea nata dalla sapienza contadina, che ne
ha fatto oggi un’espressione della tradizione rurale di questo
territorio.

Arrivata l’ora di pranzo abbiamo fatto tappa al ‘Relais I
Castagnoni‘, una dimora d’epoca del 1742, un tempo convento
religioso. Qui abbiamo degustato i piatti tipici della tradizione
monferrina a base di tartufo bianco.

Maurizio Gily, dopo una degustazione alla cieca tra dodici
assaggi di Grignolino, ci ha raccontato la storia e le
caratteristiche di questo vino tipico del Monferrato Casalese, un
vino ancora ai più poco conosciuto.

L’incontro e l’ascolto dei produttori, poi, ha completato il
quadro. Con loro ho avuto modo di approfondire, di degustare, e
di capire meglio questo vino come è giusto che sia.

Il Grignolino, un vino dal colore rubino chiaro, come più volte
sottolineato da Maurizio, non un vino rosato ma un vino rosso
vinificato con macerazione sulle bucce. Un vino molto sensibile
al territorio d’origine da cui acquisisce i caratteri peculiari.

Definito da Luigi Veronelli come anarchico e testa balorda, per
la personalità indipendente e quasi ribelle, da Mario Soldati,
come il più delicato tra tutti i vini piemontesi.

Lo sto bevendo ora, mentre scrivo, dopo averlo conosciuto nel
luogo in cui nasce, dopo aver parlato con chi lo produce. Non amo
ricamare troppo sui vini, per questo motivo lo descriverò con
poche parole: ‘Il Grignolino, un vino rosso garbato’.

“Bisogna andare dal vino senza aspettare che sia il vino a venire
                             da noi”

                  Filiberto Lodi – Giornalista

L’etimologia del termine Grignolino sembra risalire al termine
 medievale ‘berbexinus’, un vino di uve berbexine considerato
                pregiato. (fonte Maurizio Gily)
Lo sapevate che il Panettone
è nato da una storia d’amore?

 Ebbene sì, il dolce natalizio tipico di Milano è nato da una
 storia d’amore, per lo meno così narrano le leggende. Un dolce
 che adoro, e non solo a Natale…

Ieri sera al Ristorante Il Fauno di Cesano Maderno, il
protagonista è stato proprio il Panettone.

Insieme a Franco Cappello della Pasticceria Elisa di Seveso, si è
parlato dei suoi ingredienti, delle sue tecniche di preparazione,
e della sua storia.

Detto questo, lo sapevate che il Panettone è
nato da una storia d’amore?
Ebbene si! Ora vi racconto…

Si narra che Ugo degli Antellari, il nobile falconiere di
Ludovico il Moro, fosse innamorato di Adalgisa, la bella figlia
di Toni, un fornaio di Milano.

Un amore vissuto in segreto, osteggiato dalla famiglia nobile di
lui, che non vedeva di buon occhio la ragazza, a causa delle
umili origini.

Adalgisa, tra l’altro, dovendo aiutare il padre in bottega per
l’assenza del garzone malato, era spesso troppo stanca per
incontrarsi con il suo innamorato.

Per ovviare a ciò, Ugo, indossati abiti umili, si presentò dal
padre fingendosi un garzone in cerca di lavoro. Le cose però
continuavano a non andare bene: una nuova bottega aveva aperto a
poca distanza causando una perdita di clienti.

Fu allora che Ugo capì che, per aumentare le vendite, la qualità
del pane andava migliorata. Cedette di nascosto due falchi della
corte, e con il ricavato comprò del burro introducendolo
nell’impasto. Fu un successo!
Non contento, sotto le feste di Natale, decise di aggiungere
all’impasto anche delle uova, dell’uvetta sultanina e dei pezzi
di cedro candito. Il risultato fu uno specialissimo “pan del
Toni” da cui ebbe origine il nome Panettone.

Anche se ormai viene proposto in molte varianti, io amo quello
classico, quello fatto seguendo la ricetta tradizionale di un
tempo.

Lo sapevate che i cachi…

Da ragazzina vivevo in una   casa con molti alberi da frutta. Un
giorno mio padre, dovendo ampliare un’autorimessa, era in
procinto di sacrificarne uno: un albero di cachi.

Mi piacevano tantissimo! Ricordo che li tiravamo giù dall’albero
a Novembre, per poi farli maturare lentamente adagiandoli su
lunghe assi di legno.

Nel mangiarli cercavo i noccioli che poi riponevo accuratamente
da parte. Ero ansiosa di farmeli aprire da mio padre per vedere
la forma della piccola posata che abitualmente trovavo. Se devo
dirla tutta… questa cosa la faccio ancora!

    Ebbene direte, come finì la storia… l’albero poi è stato
                          sacrificato?

Mio padre trovò il modo di non farlo rendendomi, come potrete
immaginare, molto felice! La costruzione venne ampliata, ma con
un albero di cachi che spuntava dal tetto. Ebbene si! Mio padre
era un grande!

Oltre a farvi partecipi di un mio ricordo
d’infanzia, lo sapevate che i cachi…
I cachi sono originari della Cina e del Giappone. Sono
         giunti in Europa sono alla fine del XIX secolo.

         Sono un’eccellente fonte di beta-carotene, di vitamina C e
         di potassio.

         Sono ricchi di zuccheri, quindi una buona fonte di
         energia. Apportano   circa 60 Kcal per ogni 100 grammi.

         I cachi sono un frutto biologico in quanto la sua pianta
         non ha bisogno di trattamenti antiparassitari.

         La parola cachi indica il frutto sia al plurale che al
         singolare. Comunque sia, anche se erroneamente, nel gergo
         comune è ormai consuetudine utilizzare la parola caco per
         indicare il frutto al singolare.

A proposito, i cachi vaniglia o cachi mela, dalla polpa assai più
soda, sono anch’essi buoni, ma di una varietà diversa.

Fonte: ‘Cibi che fanno bene, cibi che fanno male’      – Tom Sanders
docente di nutrizione e dietetica King’s College University of
London
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