Psicologo di base: l'eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? - AltraPsicologia
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Psicologo di base: l’eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo”. Così Nietzsche concettualizza per la prima volta il concetto di “eterno ritorno dell’uguale”, quello che gli storici definiscono “il pensiero più abissale”della sua filosofia, “più simile a una oscura profezia, alla rivelazione divinatoria di un segreto, che a una rigorosa esposizione filosofica”. Praticamente la più accurata definizione di psicologo di base che io abbia mai letto. L’idea dello psicologo di base è proposta per la prima volta da Luigi Solano all’alba del Nuovo Millennio, dove ne aveva curato una prima sperimentazione che aveva portato molte speranze e risultati molto promettenti: aveva dimostrato un sostanzioso risparmio del denaro pubblico. Nonostante ciò, l’idea dello psicologo di base negli ultimi 20 anni si è ciclicamente dissolta dinanzi all’inconsistenza delle promesse. Fu proprio Solano a parlarne, con rammarico, in un intervista rilasciata ad AltraPsicologia, dove, con estremo pragmatismo ci disse: Nonostante reiterate promesse, [l’Ordine] non ha però mai realizzato alcun contatto istituzionale con autorità sanitarie per promuovere il progetto, e da diversi anni non mostra più alcun interesse per l’iniziativa
Era il 2013. Lo psicologo di Base, infatti, nel corso del tempo, più che opportunità per la cittadinanza, è parso essere una sorta di Santo Graal, utile a raccogliere il sangue, sotto forma di voti, degli psicologi ogni volta che viene appiccicato in un programma elettorale. E proprio come il Santo Graal tutti ne parlano, ma nessuno sa dire precisamente che aspetto abbia, questo psicologo di base. Nel tempo ci è stato propinato in diverse versioni, più o meno appariscenti. – Lo psicologo del territorio della Campania prometteva l’assunzione di ben SEICENTO psicologi da parte della regione Campania. L’allora presidente Felaco ci disse in una entusiasmante newsletter che eravamo “seduti sulla nostra fortuna”, bastava alzarsi per andare lì, coglierla….e invece no. La norma prevedeva chiaramente nessun aggravio di spesa per la Regione, per cui è restato tutto sulla carta. Qualcuno, qualche nostalgico romantico, ogni tanto lo evoca ancora e fa un po’ tenerezza. – In Veneto negli anni recenti più volte dall’Ordine si è strombazzato dell’istituzione dello psicologo di base, salvo poi scoprire che si trattava di minuscole sperimentazioni annuali di pochissime ore, di pochissimo denaro, di alcuna sostenibilità nel tempo. – Nella precedente consigliatura in CNOP si era promessa lotta dura senza paura per lo psicologo di base… ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. – L’ultimo sussulto ce l’aveva regalato il cosiddetto “DECRETO CALABRIA”. Nato per commissariare in toto la sanità calabrese (e quindi diciamo non con ottime premesse…), dentro il decreto ad un certo punto venivano inserite altre questioni e tra una cosa e l’altra qualcuno era riuscito a infilare le parole “…e dello psicologo” riferite alle figure professionali presenti negli studi dei Medici di Medicina Generale.
Subito spacciata dai soliti noti come il vero Graal che avrebbe prodotto nell’immediato un milione di posti di lavoro per gli psicologi, la norma si è mostrata per quello che era: un punto – necessario, intendiamoci – in un deserto arido e pieno di dune, dove non si arriva a scorgere l’orizzonte. Arriviamo ad oggi: la Pandemia, i soldi dall’Europa, il sistema sanitario stressato e soprattutto tante elezioni regionali all’orizzonte, destinate a decidersi sul filo del rasoio. In questo contesto sono nate diverse proposte di legge in alcune regioni (ad esempio in Campania e in Puglia – leggi approvate ma attualmente impugnate – ), altrove sono state fatte promesse tutte da verificare (come in Toscana), fatto sta che per la prima volta, al 31esimo anno dalla nascita della professione è accaduto un fatto mai visto. Siamo stati considerati bacino elettorale interessante, interlocutori, e non semplici questuanti, a cui tentare di dare risposte più concrete delle fumose promesse degli anni passati. Per questo, ad esempio, è un fatto significativo che la legge proposta nella regione Campania abbia visto per la prima volta un impegno di spesa di una certa consistenza. Intendiamoci: siamo ancora agli albori, ci sono aspetti normativi evidentemente da chiarire, alcuni approcci sembrano anche abbastanza primitivi, ma un passo avanti c’è e responsabilizza al massimo i nostri rappresentanti negli enti: occorre avere idee chiare, realistiche e complessive delle richieste da portare avanti. Fin qui le novità. Alcune perplessità restano e non sono banali. Quella più eclatante riguarda la definizione del ruolo che dovrebbe avere lo psicologo di base. Spostandoci su una prospettiva nazionale, in Commissione Sanità al Senato sta procedendo una legge – (il testo completo
qui) – che andrebbe ad istituire la figura dello psicologo delle cure primarie. Nell’elenco dei compiti che questi dovrebbe andare a svolgere, una grossissima parte ricalca una tipologia di servizi che in teoria dovrebbero essere già in grado di fornire i Servizi di Salute Mentale (nelle loro varie declinazioni). Se è questo il piano, perché allora banalmente non pensare di rinforzare il personale nei servizi con nuove – strutturali – assunzioni di psicologi? La sensazione è che non basterebbe. L’esperienza della pandemia ha lasciato all’interno di tutta la comunità delle professioni sanitarie la sensazione che questa volta l’abbiamo sfangata più che per l’organizzazione delle strutture, per la qualità – etica, morale e professionale – dei professionisti sul campo, che spesso si sono trovati a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Non si tratta solo delle legittime richieste di assunzioni e stabilizzazioni, ma di costruire un’organizzazione diversa dei servizi sanitari. Ognuno, però, sta ancora guardando la situazione dal proprio spioncino: così noi chiediamo “lo psicologo di base”, gli infermieri “l’infermiere di quartiere”, i fisioterapisti “il fisioterapista di famiglia” e così via. Un atteggiamento, da parte di tutti, che rischia di schiacciare il dibattito su mere richieste “pro domo”, mentre la reale sfida lanciata da questa pandemia pare essere quella di un ripensamento complessivo del sistema sanitario, capace di cogliere una nuova idea di salute. Un approccio che sia culturale e poi organizzativo, che integri strutturalmente la figura (e la competenza) psicologica in tutte le diverse fasi della presa in carico, togliendoci da quest’angolo pericoloso in cui stiamo rischiando di farci relegare: ossia essere i consulenti della seconda battuta.
Noi, come psicologi, esperti della complessità, potremmo e forse dovremmo essere i catalizzatori di un movimento culturale in grado di portare nel dibattito pubblico un’idea di salute diversa e più complessiva. Intanto, però, le assunzioni di altri psicologi e psicologhe sono quanto mai necessarie, perché persino la nostra generosità prima o poi, pure se molto poi, avrà un limite e non potremo rispondere alle chiamate alle armi gratuite in eterno (…spero…). LETTERA ANONIMA SULLO PSICOLOGO DI BASE Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera anonima. Se anche tu vuoi scriverci una lettera anonima, manda una mail a contatti@altrapsicologia.it Egregio signor dottore Zanon, Lei sa quanto io l’abbia in disgrazia. Perché lei, che si è seduto su plurime poltrone, ormai ha smarrito il senso. Lei ha perso il contatto. Lei non conosce più il significato della parola LAVORO. E allora glielo dico io, signor Dottore: quello dello Psicologo di Base non è un LAVORO. E mi permetta: anche lei un tempo lo diceva, prima di perdere tutto lo smalto che aveva: Lo diceva nel 2013: https://www.altrapsicologia.it/…/psicologo-base-chiarezza/
E lo ripeteva nel 2019: https://www.altrapsicologia.it/…/unaltra-resurrezione…/ E dunque cosa sarà mai cambiato? Non vorrà mica dirci che se il medico di base è un LAVORO, allora lo è anche lo psicologo di base? No, non lo è. Lo psicologo di base non è un lavoro. Il medico di base è un lavoro. E glielo dico io, perché: i medici di base questa capillare distribuzione sul territorio se la sono guadagnata sul campo, andando a spalare quintali di zanzare e malaria con gli stivali immersi nella merda delle paludi del Polesine. Merda fino a mezza coscia, caro Signor Dottore. Altro che vantarsi di questi cinque anni di feste universitarie e sufficienze strappate all’alcool. Di questi quattro anni di fede in psicoterapia comprata a caro prezzo sul mercato privato. Di questi tirocini improbabili e soprattutto INTROVABILI. La VERITÀ, caro Signor Dottore, è che siamo lontani terametri dalla posizione (s)comoda del nostro medico condotto. E forse, mi permetterà, siamo un’altra cosa. Il problema è capire cosa. Perché pure questo non è chiaro. Perché il medico di base di cui vorremmo imitare le sorti, un suo ruolo nel sistema sanitario ce l’ha ed è ben chiaro, codificato, costruito negli anni. E noi invece, a voler guardare tutte le varie leggi e leggine, sembriamo vagare in cerca di un ruolo, uno spazio. E persino di un nome, tanti sono i battesimi somministrati a questo psicologo: di base, di territorio, di famiglia, delle cure primarie e chissà che altro ancora. Sarà che a noi piacerebbe essere qualcosa di diverso. Ma non sappiamo cosa. E allora, per comodità, anche noi ricadiamo infine nel mito del sanitario ‘di famiglia’ insieme all’infermiere, all’ostetrica, all’auto e al gatto.
Come se si potesse creare un ruolo sanitario per assonanza. Con l’idea che forse, da adottati, qualche crocchetta almeno ce l’avremo. Mi taccio. Tanto sa benissimo di cosa sto parlando. Smettetela di raccontare frottole. Abbia il coraggio, come sempre faceva, di dire la VERITÀ e affermare che questo psicologo di base o di famiglia o di condominio o quel che sia è il frutto illusorio e sconsiderato di trent’anni di menzogne di famiglia. La nostra, famiglia. L’alienazione è morta, viva l’alienazione L’ICD-11, il sistema di classificazione nosografico dell’OMS ha confermato, nella release del settembre del 2020, una definitiva esclusione della sindrome di alienazione parentale, facendo seguito all’analoga presa di posizione del DSM-5. Contemporaneamente, una parte della psicologia, quella che si occupa più da vicino di minori in situazioni di rischio, sembra insorgere: alcuni per lodare, come incassassero una vittoria, altri per lamentare una grave carenza. Cosa succede? BREVE STORIA DELLA SINDROME DI ALIENAZIONE PARENTALE Il concetto di “alienazione parentale” fu introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner con il nome di Sindrome da
Alienazione Parentale (PAS, dalla formula in inglese). Secondo Gardner questa sindrome sarebbe costituita da una “programmazione” di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porterebbe i figli a dimostrare avversione e rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”). Sono passati 35 anni. Il mondo è cambiato. Gardner ha avuto l’indiscutibile merito storico di sottolineare una particolare circostanza, rilevante sul piano sistemico e del rischio psicopatologico, riguardante minori in situazioni di separazione conflittuale. Esistono minori, sembra dirci Gardner, che rifiutano, senza motivazioni condivisibili, un genitore. Tuttavia, complice forse anche l’humus culturale della psichiatria statunitense degli anni ‘80, Gardner commette da subito due errori esiziali. Uno. L’alienazione è un costrutto sistemico, che riguarda e coinvolge una triade formata da almeno un figlio e i suoi due genitori. E’ nel gioco relazionale delle parti che si iscrive la peculiarità di questa condizione, il che non permette di individuare un solo soggetto portatore della candidata nuova patologia. Se è una malattia, chi ne è affetto? Due. La PAS prevede la programmazione del bambino come induzione, ovvero come atto consapevole da parte del genitore alienante (quella che chiama la “campagna di denigrazione”), che esclude però paradossalmente il quadro che si riscontra invece più di frequente nella clinica attuale, in cui l’identificazione del minore con il genitore convivente è un atto inconsapevole. L’identificazione è un movimento inconscio in cui l’esclusione del genitore alienato può bene avvenire come un fatto sostanzialmente automatico, escludendo una dimensione diretta di colpa, legata a un’azione specifica e programmata.
LA STORIA SUCCESSIVA Nei successivi 35 anni, ovvero fino a oggi, quegli aspetti problematici, considerati forse eccessivamente pragmatici, colpevolizzanti e poco scientifici, quando non chiaramente ideologici, fanno scaturire intorno alla PAS due veri e propri partiti, che potremmo sintetizzare come partito dei padri e partito delle madri, custodi di istanze chiaramente individuabili come ideologiche, ovvero orientate a sostenere una tesi ovvero un’altra. I “partiti” sono oggi chiaramente individuabili in alcune “famiglie culturali” che sostengono due differenti posizioni che possiamo così riassumere, pur consapevoli di essere un po’ naif: – le realtà a favore dei padri, in Italia tendenzialmente sostenute politicamente dei partiti più conservatori, sono a favore della PAS (ma si può essere “a favore” di una patologia?). Gli stessi gruppi tendono a vedere con scetticismo le denunce e le accuse di violenza intrafamiliare, ravvisandone una troppo frequente funzione strumentale. È una posizione fortemente rappresentata dalle associazioni dei padri separati, che da sempre si battono per una maggiore “uguaglianza” nelle decisioni sull’affidamento e il collocamento di minori, che incidono su decisioni economiche riguardanti gli assegni di mantenimento a favore dell’ex coniuge e dei figli; – le realtà a favore delle madri, d’altro canto spesso negano l’esistenza stessa dei fenomeni di alienazione, che pure si riscontrano spesso nella clinica delle separazioni conflittuali, come fenomeno del tutto inesistente. Le realtà pro-madri sono sostenute naturalmente da realtà riconducibili culturalmente a nuove forme di femminismo, che trovano un loro rispecchiamento naturale nei centri antiviolenza, realtà pure importantissime nel contrastare i fenomeni di violenza intra familiare. Questo secondo partito si può considerare oggi prevalente, specie considerando le importanti innovazioni
giuridiche che si sono succedute negli ultimi 10 anni a tutela delle donne. L’esistenza di queste due posizioni, sostanzialmente entrambe ugualmente ideologiche, costituisce un evidente impedimento a un’analisi scientifica, seria e imparziale, del fenomeno dell’alienazione parentale inteso come immotivato rifiuto di un genitore da parte di un minore. È purtroppo anche troppo frequente che i consulenti tecnici d’ufficio svolgano le proprie funzioni sulla base di convincimenti ideologici, che conferiscono allora al lavoro un’impronta sostanzialmente pregiudiziale ideologica, ovvero in grado di orientare la percezione e le conclusioni in una o nell’altra direzione. Ne avevamo parlato già qui (https://www.altrapsicologia.it/articoli/verificazionismo-ovve ro-il-virus-della-psicologia-giuridica/). UN’ESCLUSIONE MOTIVATA? La giurisprudenza di merito, spesso riflesso della cultura di una società, vive l’ambivalenza della comunità scientifica sul fenomeno del rifiuto immotivato di un genitore in situazioni di separazione conflittuale con preoccupato imbarazzo e un senso di crescente scetticismo sull’effettiva affidabilità dei propri consulenti e in generale dello strumento delle consulenze e delle perizie. Ne derivano sentenze che, nell’essere talora difformi, riflettono questo imbarazzo nei confronti della scienza, che sembra essere stata di poco aiuto. Chi scrive saluta l’esclusione della PAS dall’ICD 11 con ambivalenza. Da un lato è un fatto naturale e dovuto ai vizi di forma che contraddistinguevano il costrutto fin dal momento della sua prima creazione. L’aspetto positivo della faccenda è l’avere sedato per sempre
l’idea odiosa che la PAS possa diventare uno strumento nelle mani di gruppi ideologizzati, magari pericolosi negazionisti delle frequenti forme di violenza intra familiare. L’imposizione coatta di convivenza anche laddove sia evidente un vissuto di violenza, ovvero l’eventuale coartazione, presentata come una forma di terapia di minori che rifiutano un genitore e a cui viene imposto di frequentarlo per forza, minacciando magari il collocamento in comunità, ovvero considerare che il rifiuto di un genitore sia sempre motivato, sono forme di miopia e di violenza istituzionale, figlie di una o dell’altra ideologia. Rimane tuttavia la realtà di bambini anche piccoli e di adolescenti che rifiutano anche solo di incontrare il proprio padre o, più raramente, la madre. Ne ricordo uno, adolescente, che motivava la sua scelta di non vedere più il padre perché gli incontri di quest’ultimo con la nuova compagna lo rendevano “sporco” ai suoi occhi. Un altro aveva giustificato la scelta di chiudere per sempre i rapporti con il proprio genitore perché era stato sgridato per avere fatto cadere una lattina di coca cola. Non conosco tecnici del settore che si sognerebbero di negare la realtà del rifiuto immotivato di un genitore come fenomeno psicologico, clinico: è una realtà che si incontra spesso nelle consulenze tecniche riguardanti i figli di separazioni conflittuali. Mi sono formato l’idea, negli anni, che un rifiuto immotivato di incontrare un genitore sia spesso inconsapevolmente motivato dall’identificazione con l’altro genitore, spesso una madre, amata e magari percepita come fragile o maltrattata. Una realtà che oggi rischia di rimanere al di fuori, e ingiustamente, di qualsiasi ricerca e dibattito scientifico, bollata per sempre come “questione politica”, mera ideologia.
Siamo tutti un po’ psicologi e psicologhe? Anche no! Ha poco più di trent’anni la legge che definisce la Professione psicologica, riconoscendone confini e tipicità. E questo è un fatto. Mentre non lo è, assomigliando forse più ad una fantasia o ad un sogno, la regolamentazione di altre attività che si appropriano furtivamente della nostra professione! Da maghi a cartomanti, da counselor a mental coach, solo per fare alcuni esempi, proliferano le proposte, anche in rete, di servizi psicologici offerti, dalla gestione dell’ansia al sostegno psicologico per problemi sentimentali o pseudo traumi (valutati poi da chi e con quali strumenti???). E l’emergenza da Covid-19 ha soltanto ancora più evidenziato quello a cui assistevamo quotidianamente ormai da tempo. Ancora ricordo, con sorprendente aumento durante il lockdown, il proliferare di più o meno credibili proposte di soggetti appartenenti ad altre categorie professionali o pseudo tali. Tutti impegnati, senza alcuna competenza legislativamente e culturalmente riconosciuta, a promuovere azioni di aiuto per la valutazione e il superamento del disagio psicologico derivante dall’emergenza epidemiologica o da altri eventi più o meno impattanti sul piano della comunicazione suggestiva. Patologica e allo stesso tempo, sempre e subdolamente salvifica. Ad un incalzante bisogno di benessere psicologico, spesso dimenticato dalle istituzioni governative come obiettivo prioritario di intervento e di strategie di investimento pubblico, ecco che rispondono, pure efficacemente sul piano
comunicativo, disparate realtà associative o singoli che propongono impropriamente e soprattutto furtivamente…seppur convintamente la salvezza di una cura. Altro che Lupin, che era pure simpatico! Ed ecco che arriva a supporto della nostra Professione una schiera di colleghi e colleghe, talvolta presunte vittime dirette e/o persone presumibilmente informate che stanano queste situazioni e le segnalano ai rispettivi Ordini regionali auspicando un intervento. E proprio grazie a quest’atto, di corresponsabilità professionale e/o richiesta di supporto, ci addentriamo con il lavoro istruttorio negli scenari più disparati per fare luce su questi più o meno consapevoli ladri della Professione psicologica. Al di qua e al di là della rete. Da siti internet o ambienti social, all’appartamento vicino casa: i luoghi in cui i nostri piccoli e grandi Lupin di diagnosi e sostegno psicologico gestiscono e pubblicizzano le loro magiche e pericolose avventure. Magiche perché basate su un certo buon livello di suggestione, pericolose perché mettono a rischio la salute degli inconsapevoli pazienti, talvolta anche particolarmente vulnerabili. Solo nel Lazio e solo in sei mesi, i primi di insediamento della nuova Consigliatura e della relativa Commissione Tutela abbiamo raccolto e gestito ben 65 segnalazioni di cui più del 60% hanno riguardato condotte di presunto abusivismo e usurpazione del titolo! Entrambi reati penali rispetto ai quali, se sussiste un ragionevole dubbio emergente nell’ambito dell’attività istruttoria dedicata, ci si deve rivolgere alle competenti autorità per l’attivazione dei dovuti approfondimenti: le Procure della Repubblica per l’esercizio abusivo e le Prefetture per segnalare le situazioni in cui viene usato/mostrato pubblicamente un titolo per cui lo Stato prevede una limitazione. E’ questo il caso dei tanti Lupin e delle tante Margot che esercitano come se fossero dotati delle competenze necessarie e abilitanti la professione psicologica
e di coloro che si definiscono psicologi pur non avendo completato l’iter necessario con l’iscrizione ad un albo…o non averlo nemmeno iniziato! E pensare che nel nostro caso, ovvero di una Professione per cui è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, rispetto all’esercizio abusivo, se dimostrato, la pena prevista è la reclusione da sei mesi a tre anni con multa (sanzione pecuniaria penale) da € 10.000 a 50.000 con la pubblicazione della sentenza (art. 348 c.p.), mentre nell’ipotesi di usurpazione del titolo è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da € 154,00 a 929,00 oltre alla pubblicazione del provvedimento (art. 498 c.p.). Ancora non abbiamo un dato di ritorno sulle situazioni che abbiamo segnalato ai diversi uffici giudiziari competenti territorialmente, troppo presto, ma noi attendiamo con trepida attenzione gli esiti delle indagini. E non solo. Abbiamo offerto la disponibilità di dare un contributo esperto, ad esempio supportando la raccolta della fonte di prova dichiarativa, durante, cioè, l’ascolto da parte di pubblici ministeri e/o polizia giudiziaria delle vittime del presunto esercizio abusivo. Le restanti situazioni gestite hanno riguardato bandi e avvisi pubblici che nella loro formulazione evidenziavano delle criticità prontamente segnalate ai rispettivi enti (prevalentemente ASL) e la cui risposta è stata l’annullamento del bando in autotutela oppure, accogliendo le criticità evidenziate ma anche le relative proposte di adeguamento, la sua rettifica con una maggiore linearità e legittimità del ruolo dello psicologo. E ancora: richieste di parere specialistico e segnalazioni screditanti la professione in relazione a contenuti emersi nell’ambito di contenitori televisivi, carta stampata e social network. Quali i prossimi obiettivi di tutela e protezione della nostra Professione? Non solo stanare gli abusivi certo! Non possiamo mica solo accontentarci del contrasto. Ma riuscire a promuovere una maggiore consapevolezza nella cittadinanza e
nelle istituzioni pubbliche di quelli che sono gli atti tipici della Psicologia, i margini di manovra possibili e attualmente normati per promuovere il benessere psicologico individuale e collettivo. Costruire accordi e migliorare le procedure operative, attivarci tutti e tutte per contrastare e non avallare, come richiamato dal nostro Codice Deontologico, l’esercizio abusivo, come invece spesso avviene in ambienti formativi e operativi in cui vengono preparati pseudo- professionisti all’utilizzo improprio di strumenti e metodologie cliniche. Dall’analisi della domanda al sostegno psicologico. Una battaglia in tal senso è ad esempio quella che ad oggi molti Ordini degli Psicologi regionali e finalmente anche il CNOP (meglio tardi che mai!) stanno portando avanti per contrastare il tentativo di normazione della figura del counselor presso un tavolo dedicato all’UNI, su cui è peraltro intervenuto lo stesso Ministero della Salute chiedendone la chiusura (su sollecitazione dell’Ordine Psicologi Lazio e non di certo del Consiglio Nazionale), a quanto pare senza essere ancora ascoltato. Un’altra è quella quotidiana di monitoraggio dei tanti enti che furtivamente erogano queste attività illecite anche accogliendo giovani tirocinanti in psicologia, ancora non adeguatamente sensibilizzati sulla materia. Ecco perché auspichiamo anche una sempre maggiore attenzione da parte degli Atenei universitari a prevedere degli spazi laboratoriali, seminariali o formativi sulla tutela della Professione e gli aspetti di etica deontologica, in un’ottica preventiva e promozionale. Perché la valorizzazione e il rispetto della Psicologia, senza se e senza ma, è questione e responsabilità di tutti. Solo l’occhio attento, impegnato e proattivo di cittadini e colleghi può infatti supportare il monitoraggio di queste situazioni illegittime e contribuire a ripristinare un ordine cosmico in cui ognuno rispetta il proprio margine di azione,
che peraltro spesso si è anche sudato sette camice e 15 gonne per raggiungerlo! E anche solo per questo merita di essere protetto. Ma ancora di più per il danno che si rischia di recare alle persone che hanno bisogno di un (vero) aiuto psicologico e molta poca consapevolezza del fatto che no, non tutti siamo psicologi e psicologhe, proprio no!!! di Vera Cuzzocrea, PhD psicologa giuridica e psicoterapeuta, Consigliera Ordine Psicologi Lazio e Coordinatrice della Commissione Tutela. Lo psicologo “negazionista” salito sul palco non rappresenta la nostra categoria Sta facendo il giro del web il video che documenta la manifestazione dei “negazionisti” di Roma tenutasi il 5 Settembre 2020. L’assurdità della vicenda è stata così grande che ad oggi il reportage di Fanpage ha collezionato oltre 9 Milioni di visualizzazioni. Un solo particolare è sfuggito ai mass-media: tra i relatori c’era anche uno psicologo. Sì, uno psicologo è salito sul palco, ha preso il microfono in mano e ha iniziato a esporre una serie di teorie psicologiche in favore delle tesi dei cosiddetti No-Mask. Non contento, si è anche fatto riprendere e ha pubblicato con orgoglio il video sulla sua pagina Facebook professionale, ottenendo sia commenti positivi da parte dei suoi sodali, sia
commenti di critica da parte dei suoi colleghi. La cosa mi ha lasciato stupefatto. Non potevo credere che uno psicologo usasse il suo ruolo e la sua influenza per dare corda ad un movimento tanto discutibile. Ho quindi deciso di sottoporre il video al giudizio di alcuni esperti, in modo da confermare o confutare le affermazioni fatte dal collega. Il video dura 9 minuti, ma per semplicità riporterò una trascrizione di ciò che dice nei primi due minuti (per guardare il video completo basta cliccare questo link). Un fermo immagine del video dello psicologo alla manifestazione dei No-Mask “Io sono uno psicologo psicoterapeuta e quindi posso spiegarvi qual è il danno vero che fanno queste cose [le mascherine] sui nostri bambini. Che non è semplicemente una mortificazione.
Non è un’umiliazione. Non è un qualcosa che semplicemente pone una barriera. È qualcosa che agisce sul loro cervello. Considerate che questa viene messa qua – non sulla bocca – ma qua, in testa! I bambini vengono condizionati a perdere delle facoltà o non acquisire delle facoltà che si sviluppano con l’apprendimento, con l’interazione sociale. Soprattutto per i bambini. Questo ve lo dico da neuroscienziato: esiste un’area del nostro cervello chiamato giro fusiforme, e serve a produrre il riconoscimento di identificazione dei volti. Questa parte [del cervello] si sviluppa solo se i bambini entrano in contatto con altri bambini, possono riconoscere il volto, possono distinguere l’identità sessuale. Basta un anno che i bambini indossano questa cosa [la mascherina] e perderanno la capacità di distinguere un maschio da una femmina, un amico da un nemico, un adulto da un bambino.” Sarà vero ciò che dice? Serve un esperto per verificarlo Non potevo contestare queste affermazioni, perché io non ho una formazione neuropsicologica o di psicologia dello sviluppo. Ho pensato: “chi tra i miei conoscenti psicologi è il più ferrato in materia di debunking riguardo pseudoscienze psicologiche?” Ho quindi contattato Luca Pezzullo, che da quest’anno è anche il Presidente dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi del Veneto, esponendogli il caso.
Luca ha visto il video, ha sgranato gli occhi (virtualmente parlando) e ha subito risposto alla mia richiesta d’aiuto. Insieme al gruppo di AltraPsicologia Veneto, si è messo alla ricerca di un docente universitario autorevole per analizzare rigorosamente le affermazioni dallo psicologo. Nel giro di poche ore mi hanno restituito un documento, che mio avviso è fantastico dal punto di vista divulgativo. Voglio sottolineare il fatto che io sono della Campania, mentre le psicologhe e gli psicologi che mi hanno aiutato sono del Veneto. È il grande vantaggio di AltraPsicologia: essendo la più grande associazione di psicologia professionale d’Italia, è in grado di far cooperare tra loro migliaia di psicologi distribuiti lungo tutto il Paese per una causa comune, che in questo specifico caso è tutelare la professione. Tra l’altro, ricordo a tutti che è possibile far parte di questa grande famiglia iscrivendosi gratuitamente all’Associazione tramite questo link. Ma ora bando alle ciance ed ecco la risposta alla domanda “le mascherine provocano danni cerebrali ai bambini, compromettendogli lo sviluppo e la capacità di riconoscere i volti umani?” La risposta degli esperti: non è vero che le mascherine atrofizzano il cervello dei bambini “Ci siamo confrontati anche con la Prof.ssa Sara Mondini, docente di Neuropsicologia all’Università di Padova. Le affermazioni pubbliche in merito ai presunti effetti di “atrofia” e di sequele negative al Giro Fusiforme legati all’uso delle mascherine in età evolutiva, con conseguente
induzione di una sorta di “mask-induced prosopagnosia” nei bambini, appaiono completamente prive di riscontri in letteratura scientifica, e privi di razionale neuropsicologico. Il giro fusiforme non viene certo compromesso dall’uso della mascherina in luoghi pubblici, chiusi e con molte persone! La prosopagnosia è un disturbo che segue a lesioni acquisite in età adulta, e non può essere indotta funzionalmente da mere alterazioni parziali e di breve termine dello stimolo visivo facciale, altrimenti anche l’uso di occhiali, baffi e barbe dovrebbe interferire nel lungo termine con la capacità di sviluppare il riconoscimento facciale. Non risulta che siano mai stati riportati al mondo casi, neppure isolati, di bambini cresciuti in contesti “mask- intensive” che ne abbiano riportato conseguenti forme di agnosie visive o prosopagnosie: si pensi ad esempio a certi paesi orientali, dove l’uso della mascherina in adulti e bambini è particolarmente diffuso a livello sociale anche in epoca pre-COVID, o ai contesti oncoematologici, dove non di rado bambini di diverse età devono indossare e sono circondati da adulti che indossano mascherine continuativamente, per molti mesi o anni. Ecco, in nessuno di questi casi è mai stato riportato un solo caso di “prosopagnosia indotta” dalle mascherine al mondo. Non esistono dunque studi che dimostrino queste tesi scientificamente bizzarre, né dal punto di visita neurofisiologico né clinico-neuropsicologico. Sarebbe quindi opportuno che prima di fare dichiarazioni pubbliche sul tema – soprattutto presentandosi con la qualifica di psicologo, psicoterapeuta e neuroscienziato (!) – ci si basasse solo su fonti scientifiche, e si realizzasse il grave impatto che certe asserzioni prive di riscontri possono avere sulla cittadinanza, in un momento di forte ansia sociale.“
Conclusioni Siamo di nuovo di fronte ad un caso di psicologo/a che sfrutta la sua influenza per interpretare la realtà a suo piacimento (in questo caso per fini politici), dichiarando pubblicamente l’opposto di ciò che dice la comunità scientifica. È recente il caso della sedicente psicologa (era iscritta all’Albo B dell’Ordine del Veneto), che nel 2018 salì agli onori della cronaca per i suoi post razzisti e negazionisti nei confronti dei migranti affogati nel Mediterraneo. Selvaggia Lucarelli la notò, denunciò tutto sul suo profilo da oltre un milione di follower e scoppiò un caso nazionale, con grande danno d’immagine alla nostra reputazione.
Anche in quel caso AltraPsicologia intervenne in diretta per mettere una pezza mediatica, nel frattempo che la giustizia facesse il suo corso. Ricordo che uno dei commenti più apprezzati sotto al post della Lucarelli fu quello di Federico Zanon, ma nel frattempo la frittata era fatta: a causa del comportamento scellerato di un individuo, ne avrebbe pagato le conseguenze un’intera comunità professionale.
Che sia giunta l’ora di potenziare i corsi di laurea in Psicologia per dare più spazio all’Epistemologia, alla Filosofia della Scienza e, in generale, al metodo scientifico? Anche una migliore selezione durante l’Esame di Stato non sarebbe male, analizzando queste credenze pseudoscientifiche di cui alcuni candidati sono portatori, prima di dargli la licenza di psicologo. Francamente, a me interessa di più sapere che un mio aspirante collega sappia che i vaccini non servono per impiantare micro- chip sottocutanei, piuttosto che sia in grado di elencare perfettamente tutti i modelli sulla memoria a breve termine dal 1974 ad oggi. Ma questa è solo la mia personale opinione. Un saluto e al prossimo articolo su AltraPsicologia.it, – Carlo Balestriere
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