Psicologo di base: l'eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? - AltraPsicologia

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Psicologo di base: l'eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? - AltraPsicologia
Psicologo di base: l’eroe che
ci serve o quello che ci
meritiamo?
 “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai
 viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non
 ci sarà in essa mai niente di nuovo”.

Così Nietzsche concettualizza per la prima volta il concetto
di “eterno ritorno dell’uguale”, quello che gli storici
definiscono “il pensiero più abissale”della sua filosofia,
“più simile a una oscura profezia, alla rivelazione
divinatoria di un segreto, che a una rigorosa esposizione
filosofica”.

Praticamente la più accurata definizione di psicologo di base
che io abbia mai letto.

L’idea dello psicologo di base è proposta per la prima volta
da Luigi Solano all’alba del Nuovo Millennio, dove ne aveva
curato una prima sperimentazione che aveva portato molte
speranze e risultati molto promettenti: aveva dimostrato un
sostanzioso risparmio del denaro pubblico.
Nonostante ciò, l’idea dello psicologo di base negli ultimi 20
anni si è ciclicamente dissolta dinanzi all’inconsistenza
delle promesse.
Fu proprio Solano a parlarne, con rammarico, in un intervista
rilasciata ad AltraPsicologia, dove, con estremo pragmatismo
ci disse:

 Nonostante reiterate promesse, [l’Ordine] non ha però mai
 realizzato alcun contatto istituzionale con autorità
 sanitarie per promuovere il progetto, e da diversi anni non
 mostra più alcun interesse per l’iniziativa
Psicologo di base: l'eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? - AltraPsicologia
Era il 2013.
Lo psicologo di Base, infatti, nel corso del tempo, più che
opportunità per la cittadinanza, è parso essere una sorta di
Santo Graal, utile a raccogliere il sangue, sotto forma di
voti, degli psicologi ogni volta che viene appiccicato in un
programma elettorale.
E proprio come il Santo Graal tutti ne parlano, ma nessuno sa
dire precisamente che aspetto abbia, questo psicologo di base.

Nel tempo ci è stato propinato in diverse versioni, più o meno
appariscenti.
– Lo psicologo del territorio della Campania prometteva
l’assunzione di ben SEICENTO psicologi da parte della regione
Campania. L’allora presidente Felaco ci disse in una
entusiasmante newsletter che eravamo “seduti sulla nostra
fortuna”, bastava alzarsi per andare lì, coglierla….e invece
no. La norma prevedeva chiaramente nessun aggravio di spesa
per la Regione, per cui è restato tutto sulla carta.
Qualcuno, qualche nostalgico romantico, ogni tanto lo evoca
ancora e fa un po’ tenerezza.

– In Veneto negli anni recenti più volte dall’Ordine si è
strombazzato dell’istituzione dello psicologo di base, salvo
poi scoprire che si trattava di minuscole sperimentazioni
annuali di pochissime ore, di pochissimo denaro, di alcuna
sostenibilità nel tempo.

– Nella precedente consigliatura in CNOP si era promessa lotta
dura senza paura per lo psicologo di base… ma i risultati sono
sotto gli occhi di tutti.

– L’ultimo sussulto ce l’aveva regalato il cosiddetto “DECRETO
CALABRIA”. Nato per commissariare in toto la sanità calabrese
(e quindi diciamo non con ottime premesse…), dentro il decreto
ad un certo punto venivano inserite altre questioni e tra una
cosa e l’altra qualcuno era riuscito a infilare le parole “…e
dello psicologo” riferite alle figure professionali presenti
negli studi dei Medici di Medicina Generale.
Psicologo di base: l'eroe che ci serve o quello che ci meritiamo? - AltraPsicologia
Subito spacciata dai soliti noti come il vero Graal che
avrebbe prodotto nell’immediato un milione di posti di lavoro
per gli psicologi, la norma si è mostrata per quello che era:
un punto – necessario, intendiamoci – in un deserto arido e
pieno di dune, dove non si arriva a scorgere l’orizzonte.

Arriviamo ad oggi: la Pandemia, i soldi dall’Europa, il
sistema sanitario stressato e soprattutto tante elezioni
regionali all’orizzonte, destinate a decidersi sul filo del
rasoio.
In questo contesto sono nate diverse proposte di legge in
alcune regioni (ad esempio in Campania e in Puglia – leggi
approvate ma attualmente impugnate – ), altrove sono state
fatte promesse tutte da verificare (come in Toscana), fatto
sta che per la prima volta, al 31esimo anno dalla nascita
della professione è accaduto un fatto mai visto.
Siamo stati considerati bacino elettorale interessante,
interlocutori, e non semplici questuanti, a cui tentare di
dare risposte più concrete delle fumose promesse degli anni
passati.
Per questo, ad esempio, è un fatto significativo che la legge
proposta nella regione Campania abbia visto per la prima volta
un impegno di spesa di una certa consistenza.
Intendiamoci: siamo ancora agli albori, ci sono aspetti
normativi evidentemente da chiarire, alcuni approcci sembrano
anche abbastanza primitivi, ma un passo avanti c’è e
responsabilizza al massimo i nostri rappresentanti negli enti:
occorre avere idee chiare, realistiche e complessive delle
richieste da portare avanti.

Fin qui le novità.

Alcune perplessità restano e non sono banali.

Quella più eclatante riguarda la definizione del ruolo che
dovrebbe avere lo psicologo di base.
Spostandoci su una prospettiva nazionale, in Commissione
Sanità al Senato sta procedendo una legge – (il testo completo
qui) – che andrebbe ad istituire la figura dello psicologo
delle cure primarie.
Nell’elenco dei compiti che questi dovrebbe andare a svolgere,
una grossissima parte ricalca una tipologia di servizi che in
teoria dovrebbero essere già in grado di fornire i Servizi di
Salute Mentale (nelle loro varie declinazioni).
Se è questo il piano, perché allora banalmente non pensare di
rinforzare il personale nei servizi con nuove – strutturali –
assunzioni di psicologi?

La sensazione è che non basterebbe.

L’esperienza della pandemia ha lasciato all’interno di tutta
la comunità delle professioni sanitarie la sensazione che
questa volta l’abbiamo sfangata più che per l’organizzazione
delle strutture, per la qualità – etica, morale e
professionale – dei professionisti sul campo, che spesso si
sono trovati a lanciare il cuore oltre l’ostacolo.

Non si tratta solo delle legittime richieste di assunzioni e
stabilizzazioni, ma di costruire un’organizzazione diversa dei
servizi sanitari.
Ognuno, però, sta ancora guardando la situazione dal proprio
spioncino: così noi chiediamo “lo psicologo di base”, gli
infermieri “l’infermiere di quartiere”, i fisioterapisti “il
fisioterapista di famiglia” e così via.

Un atteggiamento, da parte di tutti, che rischia di
schiacciare il dibattito su mere richieste “pro domo”, mentre
la reale sfida lanciata da questa pandemia pare essere quella
di un ripensamento complessivo del sistema sanitario, capace
di cogliere una nuova idea di salute.
Un approccio che sia culturale e poi organizzativo, che
integri strutturalmente la figura (e la competenza)
psicologica in tutte le diverse fasi della presa in carico,
togliendoci da quest’angolo pericoloso in cui stiamo
rischiando di farci relegare: ossia essere i consulenti della
seconda battuta.
Noi, come psicologi, esperti della complessità, potremmo e
forse dovremmo essere i catalizzatori di un movimento
culturale in grado di portare nel dibattito pubblico un’idea
di salute diversa e più complessiva.
Intanto, però, le assunzioni di altri psicologi e psicologhe
sono quanto mai necessarie, perché persino la nostra
generosità prima o poi, pure se molto poi, avrà un limite e
non potremo rispondere alle chiamate alle armi gratuite in
eterno (…spero…).

LETTERA    ANONIMA                                SULLO
PSICOLOGO DI BASE
 Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera anonima.

Se anche tu vuoi scriverci una lettera anonima, manda una mail
                a contatti@altrapsicologia.it

Egregio signor dottore Zanon,
Lei sa quanto io l’abbia in disgrazia. Perché lei, che si è
seduto su plurime poltrone, ormai ha smarrito il senso. Lei ha
perso il contatto. Lei non conosce più il significato della
parola LAVORO.

E allora glielo dico io, signor Dottore: quello dello
Psicologo di Base non è un LAVORO.

E mi permetta: anche lei un tempo lo diceva, prima di perdere
tutto lo smalto che aveva:
Lo diceva nel 2013:
https://www.altrapsicologia.it/…/psicologo-base-chiarezza/
E lo ripeteva nel 2019:
https://www.altrapsicologia.it/…/unaltra-resurrezione…/

E dunque cosa sarà mai cambiato?
Non vorrà mica dirci che se il medico di base è un LAVORO,
allora lo è anche lo psicologo di base?

No, non lo è. Lo psicologo di base non è un lavoro. Il medico
di base è un lavoro.
E glielo dico io, perché: i medici di base questa capillare
distribuzione sul territorio se la sono guadagnata sul campo,
andando a spalare quintali di zanzare e malaria con gli
stivali immersi nella merda delle paludi del Polesine.
Merda fino a mezza coscia, caro Signor Dottore.

Altro   che   vantarsi   di   questi   cinque     anni   di   feste
universitarie e sufficienze strappate all’alcool. Di questi
quattro anni di fede in psicoterapia comprata a caro prezzo
sul mercato privato. Di       questi   tirocini    improbabili    e
soprattutto INTROVABILI.

La VERITÀ, caro Signor Dottore, è che siamo lontani terametri
dalla posizione (s)comoda del nostro medico condotto.
E forse, mi permetterà, siamo un’altra cosa.

Il problema è capire cosa. Perché pure questo non è chiaro.
Perché il medico di base di cui vorremmo imitare le sorti, un
suo ruolo nel sistema sanitario ce l’ha ed è ben chiaro,
codificato, costruito negli anni.

E noi invece, a voler guardare tutte le varie leggi e leggine,
sembriamo vagare in cerca di un ruolo, uno spazio. E persino
di un nome, tanti sono i battesimi somministrati a questo
psicologo: di base, di territorio, di famiglia, delle cure
primarie e chissà che altro ancora.
Sarà che a noi piacerebbe essere qualcosa di diverso. Ma non
sappiamo cosa. E allora, per comodità, anche noi ricadiamo
infine nel mito del sanitario ‘di famiglia’ insieme
all’infermiere, all’ostetrica, all’auto e al gatto.
Come se si potesse creare un ruolo sanitario per assonanza.
Con l’idea che forse, da adottati, qualche crocchetta almeno
ce l’avremo.

Mi taccio. Tanto sa benissimo di cosa sto parlando. Smettetela
di raccontare frottole.

Abbia il coraggio, come sempre faceva, di dire la VERITÀ e
affermare che questo psicologo di base o di famiglia o di
condominio o quel che sia è il frutto illusorio e sconsiderato
di trent’anni di menzogne di famiglia.

La nostra, famiglia.

L’alienazione è morta, viva
l’alienazione
L’ICD-11, il sistema di classificazione nosografico dell’OMS
ha confermato, nella release del settembre del 2020, una
definitiva esclusione della sindrome di alienazione
parentale, facendo seguito all’analoga presa di posizione del
DSM-5.

Contemporaneamente, una parte della psicologia, quella che si
occupa più da vicino di minori in situazioni di rischio,
sembra insorgere: alcuni per lodare, come incassassero una
vittoria, altri per lamentare una grave carenza. Cosa succede?

BREVE STORIA DELLA SINDROME DI ALIENAZIONE PARENTALE

Il concetto di “alienazione parentale” fu introdotto per la
prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense
statunitense Richard Gardner con il nome di Sindrome da
Alienazione Parentale (PAS, dalla formula in inglese).
Secondo Gardner questa sindrome sarebbe costituita da una
“programmazione” di uno dei due genitori (definito “genitore
alienante”) che porterebbe i figli a dimostrare avversione e
rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”).
Sono passati 35 anni. Il mondo è cambiato. Gardner ha avuto
l’indiscutibile merito storico di sottolineare una particolare
circostanza, rilevante sul piano sistemico e del rischio
psicopatologico, riguardante minori in situazioni di
separazione conflittuale.
Esistono minori, sembra dirci Gardner, che rifiutano, senza
motivazioni condivisibili, un genitore.

Tuttavia,   complice   forse   anche   l’humus   culturale   della
psichiatria statunitense degli anni ‘80, Gardner commette da
subito due errori esiziali.

Uno. L’alienazione è un costrutto sistemico, che riguarda e
coinvolge una triade formata da almeno un figlio e i suoi due
genitori. E’ nel gioco relazionale delle parti che si iscrive
la peculiarità di questa condizione, il che non permette di
individuare un solo soggetto portatore della candidata nuova
patologia.

Se è una malattia, chi ne è affetto?

Due. La PAS prevede la programmazione del bambino come
induzione, ovvero come atto consapevole da parte del genitore
alienante (quella che chiama la “campagna di denigrazione”),
che esclude però paradossalmente il quadro che si riscontra
invece più di frequente nella clinica attuale, in cui
l’identificazione del minore con il genitore convivente è un
atto inconsapevole. L’identificazione è un movimento inconscio
in cui l’esclusione del genitore alienato può bene avvenire
come un fatto sostanzialmente automatico, escludendo una
dimensione diretta di colpa, legata a un’azione specifica e
programmata.
LA STORIA SUCCESSIVA

Nei successivi 35 anni, ovvero fino a oggi, quegli aspetti
problematici, considerati forse eccessivamente pragmatici,
colpevolizzanti e poco scientifici, quando non chiaramente
ideologici, fanno scaturire intorno alla PAS due veri e propri
partiti, che potremmo sintetizzare come partito dei padri e
partito delle madri, custodi di istanze chiaramente
individuabili come ideologiche, ovvero orientate a sostenere
una tesi ovvero un’altra.

I “partiti” sono oggi chiaramente individuabili in alcune
“famiglie culturali” che sostengono due differenti posizioni
che possiamo così riassumere, pur consapevoli di essere un po’
naif:

– le realtà a favore dei padri, in Italia tendenzialmente
sostenute politicamente dei partiti più conservatori, sono a
favore della PAS (ma si può essere “a favore” di una
patologia?). Gli stessi gruppi tendono a vedere con
scetticismo le denunce e le accuse di violenza intrafamiliare,
ravvisandone una troppo frequente funzione strumentale. È una
posizione fortemente rappresentata dalle associazioni dei
padri separati, che da sempre si battono per una maggiore
“uguaglianza” nelle decisioni sull’affidamento e il
collocamento di minori, che incidono su decisioni economiche
riguardanti gli assegni di mantenimento a favore dell’ex
coniuge e dei figli;
– le realtà a favore delle madri, d’altro canto spesso negano
l’esistenza stessa dei fenomeni di alienazione, che pure si
riscontrano spesso nella clinica delle separazioni
conflittuali, come fenomeno del tutto inesistente. Le realtà
pro-madri sono sostenute naturalmente da realtà riconducibili
culturalmente a nuove forme di femminismo, che trovano un loro
rispecchiamento naturale nei centri antiviolenza, realtà pure
importantissime nel contrastare i fenomeni di violenza intra
familiare. Questo secondo partito si può considerare oggi
prevalente, specie considerando le importanti innovazioni
giuridiche che si sono succedute negli ultimi 10 anni a tutela
delle donne.

L’esistenza di queste due posizioni, sostanzialmente entrambe
ugualmente ideologiche, costituisce un evidente impedimento a
un’analisi scientifica, seria e imparziale, del fenomeno
dell’alienazione parentale inteso come immotivato rifiuto di
un genitore da parte di un minore.
È purtroppo anche troppo frequente che i consulenti tecnici
d’ufficio svolgano le proprie funzioni sulla base di
convincimenti ideologici, che conferiscono allora al lavoro
un’impronta sostanzialmente pregiudiziale ideologica, ovvero
in grado di orientare la percezione e le conclusioni in una o
nell’altra direzione.

Ne         avevamo           parlato          già          qui
(https://www.altrapsicologia.it/articoli/verificazionismo-ovve
ro-il-virus-della-psicologia-giuridica/).

UN’ESCLUSIONE MOTIVATA?
La giurisprudenza di merito, spesso riflesso della cultura di
una società, vive l’ambivalenza della comunità scientifica sul
fenomeno del rifiuto immotivato di un genitore in situazioni
di separazione conflittuale con preoccupato imbarazzo e un
senso di crescente scetticismo sull’effettiva affidabilità dei
propri consulenti e in generale dello strumento delle
consulenze e delle perizie.
Ne derivano sentenze che, nell’essere talora difformi,
riflettono questo imbarazzo nei confronti della scienza, che
sembra essere stata di poco aiuto.

Chi scrive saluta l’esclusione della PAS dall’ICD 11 con
ambivalenza.

Da un lato è un fatto naturale e dovuto ai vizi di forma che
contraddistinguevano il costrutto fin dal momento della sua
prima creazione.
L’aspetto positivo della faccenda è l’avere sedato per sempre
l’idea odiosa che la PAS possa diventare uno strumento nelle
mani di gruppi ideologizzati, magari pericolosi negazionisti
delle frequenti forme di violenza intra familiare.
L’imposizione coatta di convivenza anche laddove sia evidente
un vissuto di violenza, ovvero l’eventuale coartazione,
presentata come una forma di terapia di minori che rifiutano
un genitore e a cui viene imposto di frequentarlo per forza,
minacciando magari il collocamento in comunità, ovvero
considerare che il rifiuto di un genitore sia sempre motivato,
sono forme di miopia e di violenza istituzionale, figlie di
una o dell’altra ideologia.

Rimane tuttavia la realtà di bambini anche piccoli e di
adolescenti che rifiutano anche solo di incontrare il proprio
padre o, più raramente, la madre.
Ne ricordo uno, adolescente, che motivava la sua scelta di non
vedere più il padre perché gli incontri di quest’ultimo con la
nuova compagna lo rendevano “sporco” ai suoi occhi. Un altro
aveva giustificato la scelta di chiudere per sempre i rapporti
con il proprio genitore perché era stato sgridato per avere
fatto cadere una lattina di coca cola.

Non conosco tecnici del settore che si sognerebbero di negare
la realtà del rifiuto immotivato di un genitore come fenomeno
psicologico, clinico: è una realtà che si incontra spesso
nelle consulenze tecniche riguardanti i figli di separazioni
conflittuali.
Mi sono formato l’idea, negli anni, che un rifiuto immotivato
di incontrare un genitore sia spesso inconsapevolmente
motivato dall’identificazione con l’altro genitore, spesso una
madre, amata e magari percepita come fragile o maltrattata.

Una realtà che oggi rischia di rimanere al di fuori, e
ingiustamente, di qualsiasi ricerca e dibattito scientifico,
bollata per sempre come “questione politica”, mera ideologia.
Siamo tutti un po’ psicologi
e psicologhe? Anche no!
Ha   poco   più   di   trent’anni   la   legge   che   definisce   la
Professione psicologica, riconoscendone confini e tipicità.
E questo è un fatto.
Mentre non lo è, assomigliando forse più ad una fantasia o ad
un sogno, la regolamentazione di altre attività che si
appropriano furtivamente della nostra professione!

Da maghi a cartomanti, da counselor a mental coach, solo per
fare alcuni esempi, proliferano le proposte, anche in rete, di
servizi psicologici offerti, dalla gestione dell’ansia al
sostegno psicologico per problemi sentimentali o pseudo traumi
(valutati poi da chi e con quali strumenti???).

E l’emergenza da Covid-19 ha soltanto ancora più evidenziato
quello a cui assistevamo quotidianamente ormai da tempo.
Ancora ricordo, con sorprendente aumento durante il lockdown,
il proliferare di più o meno credibili proposte di soggetti
appartenenti ad altre categorie professionali o pseudo tali.
Tutti impegnati, senza alcuna competenza legislativamente e
culturalmente riconosciuta, a promuovere azioni di aiuto per
la valutazione e il superamento del disagio psicologico
derivante dall’emergenza epidemiologica o da altri eventi più
o meno impattanti sul piano della comunicazione suggestiva.
Patologica e allo stesso tempo, sempre e subdolamente
salvifica.

Ad un incalzante bisogno di benessere psicologico, spesso
dimenticato dalle istituzioni governative come obiettivo
prioritario di intervento e di strategie di investimento
pubblico, ecco che rispondono, pure efficacemente sul piano
comunicativo, disparate realtà associative o singoli che
propongono impropriamente e soprattutto furtivamente…seppur
convintamente la salvezza di una cura. Altro che Lupin, che
era pure simpatico!

Ed ecco che arriva a supporto della nostra Professione una
schiera di colleghi e colleghe, talvolta presunte vittime
dirette e/o persone presumibilmente informate che stanano
queste situazioni e le segnalano ai rispettivi Ordini
regionali auspicando un intervento. E proprio grazie a
quest’atto, di corresponsabilità professionale e/o richiesta
di supporto, ci addentriamo con il lavoro istruttorio negli
scenari più disparati per fare luce su questi più o meno
consapevoli ladri della Professione psicologica. Al di qua e
al di là della rete. Da siti internet o ambienti social,
all’appartamento vicino casa: i luoghi in cui i nostri piccoli
e grandi Lupin di diagnosi e sostegno psicologico gestiscono e
pubblicizzano le loro magiche e pericolose avventure. Magiche
perché basate su un certo buon livello di suggestione,
pericolose perché mettono a rischio la salute degli
inconsapevoli   pazienti,   talvolta   anche   particolarmente
vulnerabili.

Solo nel Lazio e solo in sei mesi, i primi di insediamento
della nuova Consigliatura e della relativa Commissione Tutela
abbiamo raccolto e gestito ben 65 segnalazioni di cui più del
60% hanno riguardato condotte di presunto abusivismo e
usurpazione del titolo! Entrambi reati penali rispetto ai
quali, se sussiste un ragionevole dubbio emergente nell’ambito
dell’attività istruttoria dedicata, ci si deve rivolgere alle
competenti autorità per l’attivazione dei dovuti
approfondimenti: le Procure della Repubblica per l’esercizio
abusivo e le Prefetture per segnalare le situazioni in cui
viene usato/mostrato pubblicamente un titolo per cui lo Stato
prevede una limitazione. E’ questo il caso dei tanti Lupin e
delle tante Margot che esercitano come se fossero dotati delle
competenze necessarie e abilitanti la professione psicologica
e di coloro che si definiscono psicologi pur non avendo
completato l’iter necessario con l’iscrizione ad un albo…o non
averlo nemmeno iniziato! E pensare che nel nostro caso, ovvero
di una Professione per cui è richiesta una speciale
abilitazione dello Stato, rispetto all’esercizio abusivo, se
dimostrato, la pena prevista è la reclusione da sei mesi a tre
anni con multa (sanzione pecuniaria penale) da € 10.000 a
50.000 con la pubblicazione della sentenza (art. 348 c.p.),
mentre nell’ipotesi di usurpazione del titolo è prevista una
sanzione amministrativa pecuniaria da € 154,00 a 929,00 oltre
alla pubblicazione del provvedimento (art. 498 c.p.).

Ancora non abbiamo un dato di ritorno sulle situazioni che
abbiamo segnalato ai diversi uffici giudiziari competenti
territorialmente, troppo presto, ma noi attendiamo con trepida
attenzione gli esiti delle indagini. E non solo. Abbiamo
offerto la disponibilità di dare un contributo esperto, ad
esempio supportando la raccolta della fonte di prova
dichiarativa, durante, cioè, l’ascolto da parte di pubblici
ministeri e/o polizia giudiziaria delle vittime del presunto
esercizio abusivo.

Le restanti situazioni gestite hanno riguardato bandi e avvisi
pubblici che nella loro formulazione evidenziavano delle
criticità prontamente segnalate ai rispettivi enti
(prevalentemente ASL) e la cui risposta è stata l’annullamento
del bando in autotutela oppure, accogliendo le criticità
evidenziate ma anche le relative proposte di adeguamento, la
sua rettifica con una maggiore linearità e legittimità del
ruolo dello psicologo. E ancora: richieste di parere
specialistico e segnalazioni screditanti la professione in
relazione a contenuti emersi nell’ambito di contenitori
televisivi, carta stampata e social network.

Quali i prossimi obiettivi di tutela e protezione della nostra
Professione? Non solo stanare gli abusivi certo! Non possiamo
mica solo accontentarci del contrasto. Ma riuscire a
promuovere una maggiore consapevolezza nella cittadinanza e
nelle istituzioni pubbliche di quelli che sono gli atti tipici
della Psicologia, i margini di manovra possibili e attualmente
normati per promuovere il benessere psicologico individuale e
collettivo. Costruire accordi e migliorare le procedure
operative, attivarci tutti e tutte per contrastare e non
avallare, come richiamato dal nostro Codice Deontologico,
l’esercizio abusivo, come invece spesso avviene in ambienti
formativi e operativi in cui vengono preparati pseudo-
professionisti all’utilizzo improprio di strumenti e
metodologie cliniche. Dall’analisi della domanda al sostegno
psicologico.

Una battaglia in tal senso è ad esempio quella che ad oggi
molti Ordini degli Psicologi regionali e finalmente anche il
CNOP (meglio tardi che mai!) stanno portando avanti per
contrastare il tentativo di normazione della figura del
counselor presso un tavolo dedicato all’UNI, su cui è peraltro
intervenuto lo stesso Ministero della Salute chiedendone la
chiusura (su sollecitazione dell’Ordine Psicologi Lazio e non
di certo del Consiglio Nazionale), a quanto pare senza essere
ancora ascoltato.

Un’altra è quella quotidiana di monitoraggio dei tanti enti
che furtivamente erogano queste attività illecite anche
accogliendo giovani tirocinanti in psicologia, ancora non
adeguatamente sensibilizzati sulla materia. Ecco perché
auspichiamo anche una sempre maggiore attenzione da parte
degli Atenei universitari a prevedere degli spazi
laboratoriali, seminariali o formativi sulla tutela della
Professione e gli aspetti di etica deontologica, in un’ottica
preventiva e promozionale.

Perché la valorizzazione e il rispetto della Psicologia, senza
se e senza ma, è questione e responsabilità di tutti. Solo
l’occhio attento, impegnato e proattivo di cittadini e
colleghi può infatti supportare il monitoraggio di queste
situazioni illegittime e contribuire a ripristinare un ordine
cosmico in cui ognuno rispetta il proprio margine di azione,
che peraltro spesso si è anche sudato sette camice e 15 gonne
per raggiungerlo! E anche solo per questo merita di essere
protetto. Ma ancora di più per il danno che si rischia di
recare alle persone che hanno bisogno di un (vero) aiuto
psicologico e molta poca consapevolezza del fatto che no, non
tutti siamo psicologi e psicologhe, proprio no!!!

di Vera Cuzzocrea, PhD psicologa giuridica e psicoterapeuta,
Consigliera Ordine Psicologi Lazio e Coordinatrice della
Commissione Tutela.

Lo psicologo “negazionista”
salito    sul   palco    non
rappresenta    la     nostra
categoria
Sta facendo il giro del web il video che documenta la
manifestazione dei “negazionisti” di Roma tenutasi il 5
Settembre 2020.
L’assurdità della vicenda è stata così grande che ad oggi il
reportage di Fanpage ha collezionato oltre 9 Milioni di
visualizzazioni.

Un solo particolare è sfuggito ai mass-media: tra i relatori
c’era anche uno psicologo.
Sì, uno psicologo è salito sul palco, ha preso il microfono in
mano e ha iniziato a esporre una serie di teorie psicologiche
in favore delle tesi dei cosiddetti No-Mask.
Non contento, si è anche fatto riprendere e ha pubblicato con
orgoglio il video sulla sua pagina Facebook professionale,
ottenendo sia commenti positivi da parte dei suoi sodali, sia
commenti di critica da parte dei suoi colleghi.

La cosa mi ha lasciato stupefatto.
Non potevo credere che uno psicologo usasse il suo ruolo e la
sua influenza per dare corda ad un movimento tanto
discutibile.
Ho quindi deciso di sottoporre il video al giudizio di alcuni
esperti, in modo da confermare o confutare le affermazioni
fatte dal collega.

     Il video dura 9 minuti, ma per semplicità riporterò una
     trascrizione di ciò che dice nei primi due minuti (per
     guardare il video completo basta cliccare questo link).

Un   fermo   immagine   del   video   dello    psicologo   alla
manifestazione dei No-Mask

 “Io sono uno psicologo psicoterapeuta e quindi posso
 spiegarvi qual è il danno vero che fanno queste cose [le
 mascherine] sui nostri bambini.

 Che non è semplicemente una mortificazione.
Non è un’umiliazione.
 Non è un qualcosa che semplicemente pone una barriera.
 È qualcosa che agisce sul loro cervello.

 Considerate che questa viene messa qua – non sulla bocca – ma
 qua, in testa!
 I bambini vengono condizionati a perdere delle facoltà o non
 acquisire delle facoltà che si sviluppano con
 l’apprendimento, con l’interazione sociale. Soprattutto per
 i bambini.

 Questo ve lo dico da neuroscienziato: esiste un’area del
 nostro cervello chiamato giro fusiforme, e serve a produrre
 il riconoscimento di identificazione dei volti.
 Questa parte [del cervello] si sviluppa solo se i bambini
 entrano in contatto con altri bambini, possono riconoscere il
 volto, possono distinguere l’identità sessuale.
 Basta un anno che i bambini indossano questa cosa [la
 mascherina] e perderanno la capacità di distinguere un
 maschio da una femmina, un amico da un nemico, un adulto da
 un bambino.”

Sarà vero ciò che dice?                        Serve un
esperto per verificarlo
Non potevo contestare queste affermazioni, perché io non ho
una formazione neuropsicologica o di psicologia dello
sviluppo.
Ho pensato: “chi tra i miei conoscenti psicologi è il più
ferrato in materia di debunking riguardo pseudoscienze
psicologiche?”
Ho quindi contattato Luca Pezzullo, che da quest’anno è anche
il Presidente dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi
del Veneto, esponendogli il caso.
Luca ha visto il video, ha sgranato gli occhi (virtualmente
parlando) e ha subito risposto alla mia richiesta d’aiuto.
Insieme al gruppo di AltraPsicologia Veneto, si è messo alla
ricerca di un docente universitario autorevole per analizzare
rigorosamente le affermazioni dallo psicologo.
Nel giro di poche ore mi hanno restituito un documento, che
mio avviso è fantastico dal punto di vista divulgativo.

Voglio sottolineare il fatto che io sono della Campania,
mentre le psicologhe e gli psicologi che mi hanno aiutato sono
del Veneto.
È il grande vantaggio di AltraPsicologia: essendo la più
grande associazione di psicologia professionale d’Italia, è in
grado di far cooperare tra loro migliaia di psicologi
distribuiti lungo tutto il Paese per una causa comune, che in
questo specifico caso è tutelare la professione.
Tra l’altro, ricordo a tutti che è possibile far parte di
questa   grande  famiglia   iscrivendosi   gratuitamente
all’Associazione tramite questo link.

Ma ora bando alle ciance ed ecco la risposta alla domanda “le
mascherine provocano danni cerebrali ai bambini,
compromettendogli lo sviluppo e la capacità di riconoscere i
volti umani?”

La risposta degli esperti: non è
vero che le mascherine atrofizzano
il cervello dei bambini
“Ci siamo confrontati anche con la Prof.ssa Sara Mondini,
docente di Neuropsicologia all’Università di Padova.
Le affermazioni pubbliche in merito ai presunti effetti di
“atrofia” e di sequele negative al Giro Fusiforme legati
all’uso delle mascherine in età evolutiva, con conseguente
induzione di una sorta di “mask-induced prosopagnosia” nei
bambini, appaiono completamente prive di riscontri in
letteratura     scientifica,      e   privi    di   razionale
neuropsicologico.
Il giro fusiforme non viene certo compromesso dall’uso della
mascherina in luoghi pubblici, chiusi e con molte persone!

La prosopagnosia è un disturbo che segue a lesioni acquisite
in età adulta, e non può essere indotta funzionalmente da mere
alterazioni parziali e di breve termine dello stimolo visivo
facciale, altrimenti anche l’uso di occhiali, baffi e barbe
dovrebbe interferire nel lungo termine con la capacità di
sviluppare il riconoscimento facciale.
Non risulta che siano mai stati riportati al mondo casi,
neppure isolati, di bambini cresciuti in contesti “mask-
intensive” che ne abbiano riportato conseguenti forme di
agnosie visive o prosopagnosie: si pensi ad esempio a certi
paesi orientali, dove l’uso della mascherina in adulti e
bambini è particolarmente diffuso a livello sociale anche in
epoca pre-COVID, o ai contesti oncoematologici, dove non di
rado bambini di diverse età devono indossare e sono circondati
da adulti che indossano mascherine continuativamente, per
molti mesi o anni.

Ecco, in nessuno di questi casi è mai stato riportato un solo
caso di “prosopagnosia indotta” dalle mascherine al mondo.

Non esistono dunque studi che dimostrino queste tesi
scientificamente bizzarre, né dal punto di visita
neurofisiologico né clinico-neuropsicologico.
Sarebbe quindi opportuno che prima di fare dichiarazioni
pubbliche sul tema – soprattutto presentandosi con la
qualifica di psicologo, psicoterapeuta e neuroscienziato (!) –
ci si basasse solo su fonti scientifiche, e si realizzasse il
grave impatto che certe asserzioni prive di riscontri possono
avere sulla cittadinanza, in un momento di forte ansia
sociale.“
Conclusioni
Siamo di nuovo di fronte ad un caso di psicologo/a che sfrutta
la sua influenza per interpretare la realtà a suo piacimento
(in questo caso per fini politici), dichiarando pubblicamente
l’opposto di ciò che dice la comunità scientifica.

È recente il caso della sedicente psicologa (era iscritta
all’Albo B dell’Ordine del Veneto), che nel 2018 salì agli
onori della cronaca per i suoi post razzisti e negazionisti
nei confronti dei migranti affogati nel Mediterraneo.
Selvaggia Lucarelli la notò, denunciò tutto sul suo profilo da
oltre un milione di follower e scoppiò un caso nazionale, con
grande danno d’immagine alla nostra reputazione.
Anche in quel caso AltraPsicologia intervenne in diretta per
mettere una pezza mediatica, nel frattempo che la giustizia
facesse il suo corso.
Ricordo che uno dei commenti più apprezzati sotto al post
della Lucarelli fu quello di Federico Zanon, ma nel frattempo
la frittata era fatta: a causa del comportamento scellerato di
un individuo, ne avrebbe pagato le conseguenze un’intera
comunità professionale.
Che sia giunta l’ora di potenziare i corsi di laurea in
Psicologia per dare più spazio all’Epistemologia, alla
Filosofia della Scienza e, in generale, al metodo scientifico?

Anche una migliore selezione durante l’Esame di Stato non
sarebbe male, analizzando queste credenze pseudoscientifiche
di cui alcuni candidati sono portatori, prima di dargli la
licenza di psicologo.
Francamente, a me interessa di più sapere che un mio aspirante
collega sappia che i vaccini non servono per impiantare micro-
chip sottocutanei, piuttosto che sia in grado di elencare
perfettamente tutti i modelli sulla memoria a breve termine
dal 1974 ad oggi.
Ma questa è solo la mia personale opinione.

Un saluto e al prossimo articolo su AltraPsicologia.it,
– Carlo Balestriere
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