Economia e Covid-19. Le risposte dell'Ue - 2 aprile 2020 - Affarinternazionali

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I forum di AI

Economia e Covid-19. Le risposte dell’Ue
2 aprile 2020

Giovedì 2 aprile 2020, la rivista AffarInternazionali ha organizzato un web meeting sulle ri-
sposte europee alle conseguenze economiche della pandemia di Covid-19 in Europa. Sono
intervenuti al forum nell’ordine: Ferdinando Nelli Feroci (Presidente dello IAI), Prof. Carlo
Cottarelli (Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano), On. Pier Carlo Padoan (Accademico, deputato, già Ministro dell’Econo-
mia e delle Finanze, Direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale. Vice
Presidente Istituto Affari Internazionali), Prof. Franco Passacantando (Insegna all’Università
Luiss Guido Carli di Roma, già Direttore Esecutivo Banca Mondiale), Prof. Marcello Signo-
relli (Ordinario di Politica Economica all’Università degli Studi di Perugia e Componente del
Consiglio di Presidenza della Società Italiana degli Economisti) e la Prof. Paola Subacchi
(Scrittrice e commentatrice del funzionamento e governance del sistema internazionale e mo-
netario. Senior fellow di Chatham House, insegna all’Università di Bologna).

Nella seconda parte domande ai relatori da parte dell’Ambasciatore Michele Valensise (Già
Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri), Prof. Beniamino Quintieri (Ordinario di
Economia Politica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata) e Raffaele Farella (Diretto-
re servizio Attività internazionali della Provincia autonoma di Trento).

Ha moderato il forum il Direttore responsabile di AI, Francesco De Leo. Hanno anche parte-
cipato alcuni ricercatori e soci dell’Istituto Affari Internazionali assieme ai redattori della rivista.
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Francesco De Leo: “Saluto soci e collaboratori in collegamento, li ringrazio dell’attenzione
verso lo IAI. Quello che cominciamo è un forum che troverà spazio sulla nostra rivista e sul
sito dell’Istituto in formato audio e video. Il tema di oggi è “Economia e Covid-19 – le risposte
dell’Unione europea”. Ci saranno dei brevi interventi dei relatori e poi delle domande di alcuni
soci IAI. Cominciamo dando la parola a Nelli Feroci, Presidente dell’Istituto Affari Internazio-
nali”.

Ferdinando Nelli Feroci: “Grazie a tutti, grazie ai relatori che hanno accettato il nostro invito
a partecipare a questa call, a chi ci ascolta, a chi interverrà con domande e quesiti. Due parole
per inquadrare la nostra conversazione odierna. La prima considerazione è che questa è una
nuova modalità di lavoro per lo IAI, che ai tempi del coronavirus ovviamente deve adattare
le proprie modalità di lavoro. Ne stiamo facendo, soprattutto grazie a Francesco De Leo e a
Giuseppe Pinto, molte. Questa di oggi è dedicata a un tema di enorme attualità, di cui molto
si parla e si scrive, ma su cui non c’è abbastanza chiarezza. In sintesi, è evidente che la pan-
demia di Covid-19 ci pone di fronte a due sfide enormi straordinarie: la prima è quella nel bre-
ve periodo del contenimento del contagio e del superamento della fase emergenziale, e, se
possibile, anche della ricerca di terapie e di vaccini che ci consentano di far fronte in maniera
più stabilizzata a questo tipo di problemi. La seconda è quella su cui oggi ci soffermeremo ed
è l’impatto sulle economie di questa pandemia e quali misure è auspicabile adottare a livello
nazionale ed europeo, e anche – vorrei aggiungere – a livello globale. Sul piano nazionale
sono già stati adottati alcuni provvedimenti, altri sono annunciati per le prossime settimane.
Si può discutere l’ammontare e la modalità d’intervento, ma quello che mi sembra ovvio è il
disperato bisogno di misure pubbliche che intervengano a sostegno dei redditi delle perso-
ne fisiche e delle aziende che risentono di questa drammatica emergenza. Non sono state
finora molto coordinate a livello europeo e, appunto, ognuno si è mosso sulla base di scelte
nazionali anche facendo affidamento sui mezzi di cui poteva disporre. Molto più incalzante è
il dibattito su ciò che si è, si può e si dovrebbe fare a livello europeo. Due significative misure
sono state adottate (forse non se n’è abbastanza parlato a livello di opinione pubblica): la
decisione di sospendere l’operatività del Patto di Stabilità e Crescita, quindi il via libera per gli
Stati membri affinché spendano quanto si deve in una situazione di questo tipo, anche facen-
do ricorso al debito; l’altra misura, annunciata dopo un’iniziale incertezza da parte della Bce, è
stata quella di aumentare gli acquisti di titoli sovrani e non, fino ad un massimo di più di mille
miliardi entro l’anno, per consentire di iniettare liquidità nel sistema in un momento di straor-
dinaria necessità. C’è poi un tema, ed è quello su cui immagino finiremo per soffermarci oggi,
che riguarda cos’altro può fare l’Europa in un frangente di questo tipo. Molte opzioni sono in
discussione: un Mes aggiustato, rivisto, con condizionalità diverse; il tema molto controverso
degli strumenti di debito comune, su cui le vostre riflessioni saranno molto utili; anche delle
proposte nuovissime della Commissione europea (nuove perché le fa la Commissione, ma già
circolavano nel dibattito politico), visto che oggi Ursula von der Leyen, in una lettera a Repub-
blica, ha proposto l’idea di una sorta di cassa integrazione a livello europeo, quindi un fondo di
sostegno per aiutare i paesi in difficoltà sul fronte della disoccupazione. Tutto questo poi do-
vrebbe essere auspicabilmente inquadrato in un’azione un po’ più coordinata a livello globale:
abbiamo visto un G20 molto in difficoltà in queste prime battute, con una videoconferenza al
vertice che non ha prodotto niente. Anche questo potrebbe essere un tema, ovvero che cosa
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si può immaginare di fare a livello di G20, visto che è una pandemia che colpisce il pianeta e
perciò probabilmente sarà necessario concertare misure anche a quel livello. Mi fermo qui e
vi ringrazio ancora per la partecipazione”.

Carlo Cottarelli: “Grazie per avermi invitato a una discussione che è estremamente impor-
tante. Vorrei porre tre punti: in primis, sono d’accordissimo sul fatto che bisogna in questo mo-
mento spendere più soldi pubblici. Non c’è alternativa: servono tanti soldi, il deficit quest’anno
dovrebbe aumentare in Italia di circa il 7-7,5% del Pil e il rapporto debito/Pil dovrebbe crescere
di circa il 145%. Questo assumendo una caduta del Pil dell’oltre i 5-6%. Secondo punto: non
c’è niente da fare, questo succederà e deve succedere. Siamo in una situazione di emergen-
za, penseremo più in là a come ridurre il debito pubblico, avremmo dovuto farlo in passato. Ma
proprio perché non lo abbiamo fatto prima, il secondo punto diventa particolarmente impor-
tante: come finanziamo queste maggiori spese. Al momento, un enorme aiuto ci sta venendo
dalla Bce: non è soltanto una generica immissione di liquidità, non è soltanto – anche se la
Banca centrale non lo può dire – un’azione di politica monetaria, ma la Bce sta finanziando in
maniera massiccia il Tesoro italiano, il deficit pubblico italiano. Quest’anno, anche se il deficit
pubblico salirà al 7-7,5%, questo sarà finanziato stampando soldi dalla Bce e ne avanzeranno
per acquistare da parte della Bce una buona parte dei titoli che giungono in scadenza. Questo
sulla base dell’attuale tetto agli acquisti dei titoli di Stato, quei 1.050 miliardi di euro che sono
stati citati e di cui circa 220 miliardi dovrebbero venire all’Italia. Serve fare qualcosa di più.
L’emissione di uno strumento tipo eurobond era estremamente necessario e credo che, no-
nostante l’intervento della Bce, rimarrebbe utile. Questo per due motivi: toglierebbe pressione
alla politica monetaria, allo stampare soldi, che potrebbe avere conseguenze inflazionistiche
più in là, e sarebbe un importantissimo segnale di solidarietà all’interno dell’Europa, un segno
che varrebbe non soltanto a livello economico per i mercati, ma a livello politico, perché qui
è chiaro che ci sarà chi spinge per un’uscita da parte dell’Italia dall’Europa. Sono già stati
aperti nuovi siti Ital-exit e di questo genere, che in pochissimo tempo hanno avuto milioni di
adesioni. Quindi, bisogna stare molto vigili su questo fronte ed è importante che l’Ue lo tenga
in considerazione. Come fare questa cosa? Ci sono tante proposte. L’azione annunciata que-
sta mattina dalla Commissione europea, quella dei 100 miliardi di euro, mi sembra un’ottima
idea. Non è tantissimo, ma è una proposta che va nella direzione giusta. L’idea di usare questi
soldi per un’azione concreta, come la cassa integrazione, mi pare molto positiva. Credo che
una risposta più generale dei Paesi dell’Unione debba essere basata su due principi: non si
parla di mutualizzazione del debito passato, visto che ognuno rimane responsabile del proprio
debito, e non si cerca di introdurre surrettiziamente un cambiamento nell’architettura dell’Ue.
Se si raccolgono soldi in comune si decide come usarli in comune. Non è possibile che poi un
Paese usi questi soldi raccolti in comune per fare quello che desidera. Si raccolgono in comu-
ne e in comune si decide come utilizzarli. Una proposta in questa direzione uscirà domani su
Repubblica a firma mia, di Enrico Letta e di Giampaolo Galli. Una volta risolto il problema del
“dove” si trovano i soldi, è anche importante – questo è il mio terzo e ultimo punto – decidere
per cosa spenderli, ossia quali sono le priorità. Nell’immediato l’urgenza è evitare che la botta
sia troppo forte: c’è la caduta ma ci devono essere i cuscini perché non ci si faccia troppo male.
Lo Stato deve mettere i cuscini: liquidità dalle imprese, sussidi alle famiglie che ne hanno bi-
sogno, fare in modo che, a emergenza sanitaria passata – dove ovviamente ci devono essere
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spese mediche adeguate – e con il ritorno al lavoro, le imprese siano in grado di lavorare e che
non ci siano chiusure dovute a mancanza di liquidità. A quel punto però servirà un’altra cosa:
ci deve essere sufficiente domanda aggregata (consumi e investimenti), perché inizialmente
ci sarà molta incertezza. Senza una spinta da parte dello Stato in questa direzione è difficile
che la domanda riparta rapidamente. Un ulteriore punto riguarda il “come” spendere questi
soldi nella fase in cui potenzialmente torniamo al lavoro. Si parla di nuovo dell’helicopter drop
of money, ma puntando tutto su questa possibilità, visto che le risorse saranno comunque li-
mitate - cioè sul dare a tutte le famiglie mille/duemila euro da spendere - si corre il rischio che
la gente, in una situazione di incertezza, non spenda questi soldi e che non si abbia l’effetto
sulla domanda che si avrebbe nel caso in cui è lo Stato a spendere direttamente. Cosa vuol
dire che lo Stato spende direttamente? Vuol dire investimenti pubblici. Affinché si possano
fare rapidamente investimenti pubblici per far ripartire l’Italia è assolutamente necessario che
si snelliscano i processi: riduzione della burocrazia per fare investimenti pubblici e far ripartire
il cantiere al più presto. Ultimissimo punto: la riduzione della burocrazia è fondamentale per
rilanciare l’Italia e aumentare in modo permanente il tasso di crescita italiano che negli ultimi
anni è stato tra i più bassi in Europa, insieme a quello della Grecia”.

Pier Carlo Padoan: “Grazie a Carlo Cottarelli che ha anticipato moltissime delle cose che
stavo per dire. Ne approfitterò per parlare di meno. Innanzitutto, ricordo che in tutti i paesi, e
sono tanti, dove si combatte il coronavirus, c’è una dimensione sia immediata di emergenza
sia di più lungo termine. Questo è vero anche e soprattutto per l’Italia. C’è una crisi che gli
economisti definiscono da shock di offerta, cioè un arresto improvviso dell’attività economica,
a cui si affianca purtroppo uno shock di domanda. La prima urgenza della politica economica
è di evitare che questo duplice shock produca una recessione più forte di ciò che già si pre-
vede – i numeri li citava prima Cottarelli – che addirittura possa trasformare una recessione,
quindi una caduta magari profonda ma temporanea, in una depressione, che sarebbe ancora
peggio. Bisogna evidentemente fare di più in questo senso. Da questo punto di vista forse un
maggior coordinamento fra le politiche di bilancio dei Paesi dell’Ue e dell’eurozona potrebbe
essere utile per sfruttare le cosiddette esternalità dello stimolo politico fiscale, che ricordo
essere solitamente fatto di due componenti: un contributo diretto del bilancio all’attività econo-
mica e l’introduzione di garanzie di varie centinaia di miliardi che permettono, sia all’imprese
sia alle banche, di evitare di entrare in collasso. Quindi, c’è un primo problema che è quello
dell’emergenza. Poi c’è la questione di come rilanciare l’economia e qui mi sembra chiaro
ripetere una cosa ovvia: la ripresa dell’economia italiana non può che avvenire all’interno di
un contesto di strategia europea. Questo non perché l’Italia non debba fare nulla, ma perché
le azioni andrebbero coordinate meglio a livello europeo, al di là del coordinamento di politica
fiscale. L’Europa non ha fatto nulla? Falso. Anche qui Cottarelli lo ricordava in modo molto
chiaro. Intanto, l’Ue ha messo tramite la Bce un’enorme quantità di liquidità a disposizione
del finanziamento del debito pubblico italiano e di altri paesi. Ha sospeso con la clausola di
salvaguardia i vincoli posti dal Patto di Stabilità e Crescita. Ha cominciato a introdurre nuovi
strumenti. Permettetemi di rivendicare un’azione portata avanti dal governo italiano nel 2014,
quando all’Ecofin informale di Milano – allora l’Italia era presidente – ci fu una discussione
a porte chiuse fra tutti i ministri dell’Ue su uno strumento molto simile a quello che adesso
viene proposto, la “cassa integrazione europea” – chiamiamola così anche se il termine è
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impreciso. Ricordo che ci fu un totale fuoco di sbarramento contro la proposta italiana, perché
ritenuta inutile. È chiaro che eravamo in tempi diversi, in una situazione di uscita dalla grande
crisi finanziaria, e stavamo pensando a un futuro senza coronavirus. Comunque, è semplice-
mente per condividere con chi ci ascolta una proposta italiana che poi si è rivelata fruttuosa.
La mia idea è che l’Europa debba dotarsi di strumenti che hanno a che fare con le missioni
che il paese deve affrontare. Una mission è sicuramente quella di salvaguardare e difendere
l’occupazione. Poi c’è la mission della crescita sostenibile: l’Ue deve rivedere alla luce del
Covid-19 la sua strategia verde, immaginando progetti di investimento a lungo termine che
costituiscono la ragion d’essere e la motivazione dell’eventuale emissione di titoli. Io sono
molto a favore di titoli europei – chiamiamoli come volete – e sono anche d’accordo con l’idea
di cambiare il modo di funzionamento di strumenti come il Mes. Però dico una cosa semplice:
prima di introdurre nuovi strumenti chiediamoci chiaramente quali devono essere gli obiettivi.
Gli obiettivi sono quelli di una crescita sostenibile. Dopodiché, chiediamoci insieme quali sono
gli strumenti. Questo riporta alla questione italiana, alla quale naturalmente dovrà porsi, una
volta usciti dalla fase acuta della crisi, il problema della sua sostenibilità del debito, proprio
per evitare che le rinnovate allusioni alla possibilità che l’Italia esca dall’Euro trovino di nuovo
corpo. Non dimentichiamoci che questo è un virus politico che va combattuto almeno come
il virus sanitario. Ci vuole una strategia di sostenibilità che da una parte sarà aiutata dalla
politica della Bce, ma dall’altra dovrà necessariamente richiedere una strategia di crescita di
medio termine – anche qui sono d’accordo con Cottarelli – che è indispensabile. La crescita –
lo sappiamo dall’aritmetica del debito – deve essere superiore a quella del tasso di interesse
e deve essere accompagnata possibilmente da un surplus primario significativo e costante nel
tempo. Ma deve soprattutto basarsi su una nuova idea di Europa: gli eurobond possono es-
sere strumenti per cementare, una volta che gli obiettivi comuni saranno raggiunti. Mi sembra
che nel dibattito si parli poco di quale tipo di Europa si vuole dopo che la crisi sanitaria sarà
battuta. Un ultimo punto: il dibattito si sta spostando sull’uscita dalle misure di emergenza.
Io penso che occorre fare molta attenzione a porre questo discorso nei suoi termini corretti.
Innanzitutto, non si pone una scelta dicotomica (tutto il lockdown viene tolto completamente
o tutto viene mantenuto completamente), ma c’è un problema di gradualità molto complessa
che bisogna gestire anche con una osservazione da parte dello Stato e delle autorità pubbli-
che di quello che si può eliminare prima in termini di controlli e di quello che si deve sostenere
subito in termini di attività economiche. Dobbiamo fare in modo che questa uscita non sia
troppo fragile e affrettata. Mi rendo conto che è un problema serio e che impatta sulla vita dei
cittadini, ma al tempo stesso bisogna fare attenzione a non crearci nuovi problemi.

Franco Passacantando: “Prendo spunto dall’approccio che ha voluto dare Pier Carlo Pa-
doan: parlare di obiettivi e di strumenti. Ne vorrei citare cinque, di cui tre già dibattuti e due
meno. Il primo obiettivo che si deve porre ogni azione di politica economica in questo mo-
mento è di sostenere i redditi base, fornire i sussidi di disoccupazione e mantenere le attività
produttive commerciali di base. È stato detto molto soprattutto sull’emissione di nuovi titoli, sui
coronabond. Ovviamente, anche io non posso che apprezzare quest’iniziativa, di cui abbia-
mo parlato e sentito parlare questa mattina e che ha ricordato anche Carlo Cottarelli. Vorrei
però ricordare che i coronabond, o qualunque tipo di bond essi siano, sono comunque uno
strumento di debito. In quanto tali, possono sì alleviare il costo e l’onere della copertura del
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debito, ma fanno aumentare il debito e portano sempre a un aumento della posizione debi-
toria, soprattutto in Paesi come l’Italia. Quindi, bisognerebbe pensare ad altri strumenti che
non portino all’aumento del debito. Purtroppo, su questo piano c’è molto poco, perché l’Ue si
trova alla fine del settennato del ciclo di bilancio passato e ancora deve avere il nuovo: sono
stati stanziati 37 miliardi di euro, di questi in parte erano fondi che già esistevano, ma è neces-
sario fare uno sforzo per pensare ad ulteriori fondi. C’è stata la proposta, che prima pensavo
fosse una battuta di qualche studioso e che ultimamente ho visto essere formulata anche da
Klaus Regling, di consentire all’Italia di non contribuire al bilancio europeo. Mi chiedo se ab-
bia una qualche possibilità di essere attuata. Questi sarebbero soldi veri, immediati – almeno
da quando inizierebbe il nuovo ciclo di bilancio – e permetterebbero di alleviare l’onere del
debito. Secondo obiettivo è quello di far fronte a possibili difficoltà finanziarie. È vero che la
Bce ha dato un grandissimo sostegno e tutti dobbiamo apprezzare questo contributo, ma non
bisogna escludere che soprattutto i Paesi con maggiore difficoltà sanitaria possono incorrere
in difficoltà finanziarie e che queste possano trasmettersi anche al sistema bancario. Per ora
e per fortuna, la situazione è sotto controllo: sono stati ridotti anche i requisiti di capitale, ma
non possiamo escludere che ci possa essere un problema in quel campo. Da questo punto
di vista è importante non abbandonare il dibattitto sul Mes: capisco che in Italia sia politica-
mente inaccettabile, ma il dibattitto sulla enhanced conditions credit line (Eccl) deve andare
avanti, perché questa è un’occasione per disegnare queste linee di credito con una bassa
condizionalità. Non possiamo non tener conto della possibilità – sperando che rimanga re-
mota – dell’utilizzo di questo strumento. Terzo aspetto di cui si parla, ma su cui bisognerebbe
aver già dovuto avviare delle iniziative, è quello della Bei (Banca europea degli investimenti
ndr) e del Fei (Fondo europeo per gli investimenti ndr). Io ricordo che per la crisi finanziaria
ci fu approvato un aumento di capitale della Bei nel 2011 che consentì alla Bei di svolgere un
importante ruolo anticiclico durante la crisi. Poi c’è stato il piano Junker, dove con 5 miliardi di
garanzie poste dall’Ue più un contributo di capitale della Bei si è arrivati a un moltiplicatore di
16 volte e a finanziare con 315 miliardi di euro l’economia europea. Un aumento del capitale
della Bei e del Fei dovrebbe essere la priorità assoluta, perché questo permetterebbe sia di
fornire garanzie a piccole imprese e la securitizzazione di titoli già in corso sia di rilanciare
l’attività economica quando l’emergenza sarà superata. Credo siano queste le tre priorità tra
gli argomenti molto dibattuti. Ne vorrei citare due meno discusse. Il primo, più importante, è
quello del coordinamento degli interventi in campo sanitario. Non è un argomento a cui gli
economisti normalmente si dedicano, ma ultimamente ho visto che qualche attenzione a que-
sto tema proviene da economisti molto prestigiosi, come Paul Romer e in Italia l’Istituto Eief
dove alcuni economisti italiani stanno dando un contributo: qui il problema non è tanto come
limitare il contagio, ma anche come predisporre delle strutture, delle difese e delle regole per
tornare a lavorare. In tutte le principali società si stanno già adottando alcune di queste regole,
come il lavoro a distanza, la protezione contro il contagio, la gestione dei turni di lavoro… è
molto importante che su questo si arrivi anche a un’iniziativa europea comune. C’è un aspetto
da sottolineare: che succederà quando sarà finito il lockdown? Quando sarà finito, sospendia-
mo Schengen o lo riattiviamo? Per riattivare Schengen bisognerà avere per forza delle regole
comuni in campo sanitario (come vengono fatti gli screening? come vengono individuati gli
immuni?) e quindi anche un piano per un graduale ritorno a lavoro con delle regole possibil-
mente comuni. L’ultimo aspetto, di cui nessuno parla ma che vorrei menzionare, è la diffusione
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del virus nei paesi in via di sviluppo. L’Europa nei mesi precedenti aveva attivato una serie di
iniziative per riattivare il suo impegno sullo sviluppo, che ovviamente la crisi ci ha fatto dimen-
ticare. Voglio far notare che i dati della diffusione del virus in Egitto, in Marocco, in Algeria, in
Tunisia sono impressionanti e anche questo non è un aspetto che possiamo trascurare”.

Marcello Signorelli: “Concordo largamente con quanto è stato detto dai colleghi. Mi limito a
riprendere alcuni concetti, seppur rapidamente. Voglio parlare brevemente di incertezza, poi
di risorse, di sostenibilità del debito, dell’aspetto tempo e infine fare un cenno alla storia. In-
certezza: siamo in contesti di incertezza forte. Ancora non sappiamo che durata potrà avere la
pandemia e non abbiamo chiaro il quadro complessivo dell’impatto economico che avrà non
solo in Italia, ma negli altri Paesi europei e in giro per il mondo. Questo è un elemento molto
importante, perché non avere cognizione precisa del tipo di impatto – è chiaro che ci sono già
delle stime che suggeriscono che sarà molto forte e lo stesso ex presidente della Bce Mario
Draghi lo ha equiparato all’impatto di una guerra – non ci permette di saperne l’entità. Questo
è un primo elemento da tener presente. Il secondo è stato accennato dai colleghi intervenuti:
l’aspetto delle risorse. Anche queste non riusciamo a quantificarle in maniera precisa, né in
Italia, né a livello europeo, neppure a livello internazionale. Però sappiamo che sono ingenti,
quindi a quel punto l’entità delle risorse, che nessuno discute che si debbano usare. Torno a
ripetere, l’articolo sul FT di Draghi è chiarissimo: bisogna per forza fare spesa aggiuntiva in
debito. Quindi, si tratta di come farla mantenendo i debiti pubblici sostenibili. In altri paesi fuori
dall’eurozona la sostenibilità del debito pubblico è un qualcosa di significativamente diverso
da quello che accade all’interno. Senza entrare nei dettagli, distinguo la sostenibilità del debito
pubblico nell’eurozona, che ci riguarda direttamente come Italia, schematizzandola in tre mo-
menti: a breve termine, a medio termine e a lungo termine. A breve termine concordo piena-
mente con il professor Carlo Cottarelli: l’ombrello protettivo della Bce oramai, dopo le incertez-
ze della conferenza stampa del 12 marzo 2020 della Lagarde, dalla sera del 18 marzo 2020
ci proteggerà fino alla fine dell’anno e anche oltre, avendo allentato i vincoli sugli acquisti. C’è
sempre la capital cage (la composizione del capitale della Bce che guida nel medio termine la
composizione dei titoli di Stato), ma indubbiamente ritengo, come la gran parte degli economi-
sti, che nel breve termine crisi del debito sovrano nell’eurozona non siano all’orizzonte. Però
cosa potrà accadere da qui a un anno o due? Questo dipenderà molto da quanto sarà l’im-
patto e soprattutto la persistenza dell’impatto economico di questa crisi – aspetto che ancora
non conosciamo. Quindi, nel medio e lungo termine – adesso non affronto per brevità il lungo
termine – c’è un’incertezza enorme anche sulla sostenibilità del debito pubblico, soprattutto in
un Paese come l’Italia che parte da un rapporto debito/Pil elevato. Vado velocemente all’ulti-
mo punto, cercando di fare un cenno alla storia. In parte ne ho già parlato con l’equiparazione
che ha fatto opportunamente lo stesso Draghi a una guerra: è vero, l’impatto è di quel genere.
Sarebbero tante le cose da ricordare. Intanto, quando ci sono accadimenti di tipo storico, cioè
assimilabili a delle guerre, andrebbe fatta memoria della storia. In questa fase addirittura sono
più importanti gli storici contemporanei degli economisti, perché i secondi, pur partendo da
visioni diverse, convergono largamente sulla necessità di intervenire e di farlo rapidamente
per evitare effetti persistenti nel tempo, sulla profondità della recessione e sul fatto che addi-
rittura determinino crisi del debito sovrano (un qualcosa di complicato e pericoloso che va ad
impattare in ultima istanza sulle fasce più deboli della popolazione). Quindi, la storia è molto
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importante. Io ricordo solo due flash. Mi vengono in mente, tra le tante cose che si potrebbero
citare, i lavori preparatori al Trattato di Versailles (1919). Ricordo che John M. Keynes, parte
della delegazione britannica, si dimise prima di arrivare alle conclusioni di quel trattato proprio
perché riteneva, a ragione, che le riparazioni di guerra imposte alla Germania in quel trattato
fossero esagerate, insostenibili. Riparazioni che poi, insieme a tanti altri fattori, hanno portato
agli accadimenti che conosciamo. Il secondo dei tanti che si potrebbero richiamare è quello
relativo alla Conferenza di Londra (1953): la Germania dovrebbe far memoria di quell’evento.
In quella fase, per tante ragioni e per scelte politiche – come solitamente sono in queste circo-
stanze, invece che economiche – beneficiò dell’atteggiamento degli altri Stati, i quali ridussero
il debito pubblico tedesco e ne consentirono, insieme ad altri elementi, il rilancio economico.
L’ultima conclusione di questi accenni di storia è che dalle guerre – è vero questa è una guer-
ra che non provoca distruzione fisica, ma umana ed economica – macro-economicamente si
esce con le inflazioni. Siamo da anni in bassissima inflazione o addirittura in deflazione, ed
è un elemento che nel medio termine non dobbiamo dimenticare. Noi dobbiamo fare di tutto,
anche con suggerimenti non facili da dare, per uscirne con una crescita economica robusta.
Quindi, gli investimenti pubblici nella fase successiva all’emergenza saranno cruciali”.

Paola Subacchi: “Io ho il privilegio di parlare per ultima e come a scuola potrò fare il riassunto
di ciò che è stato detto. Sono pienamente d’accordo con quanto spiegato fin qui. Innanzitutto,
permettetemi una riflessione sul contesto in cui ci troviamo a operare. La prima riflessione è
che mi sembra di sentire i toni prima del 2008/2009 e poi quelli del 2010/2011, quando da-
vanti alla crisi finanziaria globale del 2008/2009, e poi davanti alla crisi del debito sovrano in
Europa, si discusse fino all’esaurimento su cosa fare e su quanto fare. La realtà è che oggi
ci troviamo davanti a una crisi che ha un impatto maggiore di quella finanziaria – poi darò un
po’ di numeri – e ci stiamo ancora chiedendo cosa e quanto fare. Bisogna fare tutto: nel breve
periodo va fatto il possibile per arginare la caduta dell’economia e anche l’impatto sociale che
questo potrebbe causare. Purtroppo, la riflessione è che l’Italia è vincolata ed è un dato di fat-
to, mentre la Germania sta spendendo più di quanto possa essere ritenuto necessario. Inoltre,
vi ricordo che gli Usa, dopo l’operazione della Federal Reserve, hanno lanciato un intervento
di politica fiscale da 2mila miliardi di dollari, quindi un intervento a tappeto che però forse non
riesce ancora ad arginare alcune falle sociali che esistono nel sistema americano. Questo per
dare la dimensione di questa crisi. Il contesto di oggi è completamente diverso da quello del
2008. Sono stati fatti molti paralleli, ma nel 2008 arrivammo alla crisi finanziaria in un contesto
di forte crescita: nel 2007 l’economia mondiale era cresciuta del 5,6%; quella dell’Ue al 3,3%,
l’Italia era già fanalino di coda e aveva all’epoca una crescita del 1,5%. Nel 2019 l’economia
mondiale era cresciuta del 3%, l’Ue dell’1,5% - infatti, abbiamo chiuso l’anno con una crescita
modesta, dicendoci che dovevamo fare qualcosa per questo new normal, questa crescita che
era troppo modesta per una realtà di economia avanzata che sta invecchiando – l’Italia ave-
va un tasso di crescita dello 0%. Quindi, questo è il contesto in cui siamo oggi e ci troviamo
di fronte a un impatto che probabilmente sarà superiore all’impatto della crisi finanziaria del
2008. Vi fornisco altri numeri basati su una serie di scenari dell’impatto di questa crisi sanita-
ria: nel caso migliore – ad esempio, per gli Stati Uniti è di 230mila decessi – si ha una perdita
del Pil, rispetto a quello che è la baseline dello scenario, dal 2 al 3% a seconda del Paese.
Secondo questa simulazione, negli Stati Uniti è del 2%, in Italia del 2,2%. Questo significa che
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dobbiamo porre la crisi in un contesto internazionale: gli Usa, che ci piaccia o no, continuano
a essere l’economia trainate per il resto del mondo e trainano l’Europa. Non siamo ancora riu-
sciti, dopo le nostre due crisi finanziarie, a collocare il decoupling dalla locomotiva americana.
I cinesi sono fermi e comunque non è mai stata un’economia capace di trainare a livello degli
Usa, quindi siamo tutti nella stessa barca e la situazione è molto grave. Oggi è importante
pensare a come intervenire in maniera coordinata a livello internazionale, a livello europeo.
Prima cosa salvare il salvabile: fare tutto il possibile per ammorbidire e attutire l’impatto della
crisi e per evitare un ulteriore collasso che potrebbe – come è stato già detto – risultare in
recessione e in stagnazione di lungo periodo. Secondo punto è cominciare ad attrezzarsi per
il medio periodo. Terzo – qui vorrei fermarmi un attimo – come creare più robustezza o resi-
lience nelle nostre economie e società. Quello che stiamo pagando noi oggi lo vedo qui nel
Regno Unito, dove il sistema sanitario nazionale era già al collasso prima del Covid-19 e che
adesso, con 2mila morti dichiarati nel paese e senza equipaggiamento medico, incomincia a
collassare. Questo è il risultato di una scelta assolutamente poco lungimirante fatta nel 2010,
quando, subito dopo la crisi finanziaria, si decise che era il momento di tirare i remi in barca
e cominciare una fase di austerità. Nel Regno Unito si è tradotta in un’austerità pesante, che
oggi ha un impatto sociale e sulla resistenza di questo sistema. L’Italia, che è uscita male dalla
crisi finanziaria e che non ha ancora recuperato le perdite della crisi, oggi si trova a subire un
impatto fortissimo. È un problema ancora una volta di resilience e di robustezza. Gli Usa han-
no una leva finanziaria molto forte, ma hanno anche un sistema sociale letteralmente a pezzi
e quindi, avendo questa leva, riescono a mettere una grossa toppa su quello che potrebbe
tradursi in un problema sociale. Penso anche a come potremmo uscirne e chiaramente non
è una riflessione a cui possiamo dedicare troppo tempo oggi nell’emergenza. Ma dovremmo
utilizzare questa esperienza per ripensare ai nostri sistemi, a come rimettere insieme un’eco-
nomia, non solo nazionale ma anche globale, che sia resistente, più giusta, più verde e che
tutte le volte che c’è una crisi non porti a situazioni di collasso”.

Michele Valensise: “Vorrei fare un’osservazione molto semplice. Sembra pacifico dire che la
crisi del virus abbia messo in evidenza innanzitutto una fragilità dal punto di vista sanitario del
nostro paese, come è altrettanto pacifico sostenere che abbia confermato una fragilità finan-
ziaria per le ragioni che sappiamo tutti (ridotti spazi a disposizione dell’Italia rispetto ad altri
Paesi che hanno una performance economica più positiva). Ma c’è un terzo punto sul quale
vorrei attirare l’attenzione dei partecipanti ed è che forse questa crisi mette in luce una fragi-
lità culturale, se così si può dire, e cioè i vincoli molto pesanti che un certo condizionamento
ideologico hanno anche sull’azione che l’Italia sta cercando di portare, soprattutto in sede
europea, a un compromesso. C’è molta ideologia nel dibattito al quale stiamo assistendo in
questi giorni, molti vincoli e molta arroganza strumentale non solo nelle file dell’opposizione
ma anche in determinati settori della maggioranza. La domanda è semplice: gli economisti - e
non mi riferisco solo al professor Padoan che è impegnato in prima persona sul fronte politico
parlamentare, ma a tutta la categoria degli studiosi d’economia – possono nelle settimane e
nei mesi prossimi avere un ruolo maggiore, più incisivo anche al di fuori dell’accademia per
ridurre il tasso ideologico del dibattito e per renderlo più pragmatico, più agevole dal punto di
vista dei compromessi necessari?”.
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Marcello Signorelli: “È un’ottima domanda a cui rispondo brevemente. È vero gli economisti
devono aiutare la politica, che ovviamente resta il decisore finale per trovare gli strumenti volti
ad agevolare il compromesso. Mi spiego: intanto è stato chiarito che non è detto che gli eu-
robond – che secondo molti economisti sono lo strumento migliore – debbano essere l’unico
strumento per affrontare a livello europeo la situazione. Gli eurobond non sono mutualizzazio-
ne del debito preesistente ed oramai è un aspetto chiaro. Però l’aspetto ancora poco limpido è
che, se si vuole politicamente e anche tecnicamente, si trovano le modalità per non emettere
eurobond che hanno effetti redistributivi. Quindi, si può o far gravare i tassi di interesse nei bi-
lanci nazionali oppure, se un Paese – mettiamo la Germania che attualmente si finanzia a tas-
si negativi – non ha bisogno di eurobond, si può acquisire un diritto per il futuro, in un orizzonte
temporale molto lungo, per utilizzare quello strumento. Questo perché in un’ottica storica non
è dato sapere, parlando su molti decenni, se uno Stato che adesso si trova economicamente
al sicuro, lo sarà tra 20, 30 o 50 anni”.

Pier Carlo Padoan: “Aggiungerei una cosa, in quanto economista. Ringrazio l’Ambasciatore
Valensise per aver risparmiato la gentile accusa di ideologismo agli economisti, ma purtroppo
non sono d’accordo: anche gli economisti sono prigionieri di ideologie. Ne vedo continua-
mente gli esempi quando, indipendentemente dal cappello che ho sulla testa, ci sono dibattiti
che non hanno niente a che fare con “l’oggettività”, ma solo con l’ideologia. Naturalmente, il
dibattito principe dell’ideologia è quello che è stato molto presente in Italia un anno e mezzo
fa, cioè l’uscita dall’Euro, e che adesso in forme surrettizie sta ritornando. Penso che uno dei
compiti degli economisti sia quello di evitare di essere ideologizzati e di provare a mettere
in piedi ragionamenti pacati. Nessuno ha la bacchetta magica, nessuno ha la scorciatoia in
mano. Cerchiamo di lavorare assieme per soluzioni indispensabili. È una situazione che non
ci si può permettere di trattare con ideologia”.

Beniamino Quintieri: “Intanto un piccolo commento: fra i pochi aspetti positivi di questa crisi
c’è il fatto che le argomentazioni no-vax siano spero per sempre venute meno. È anche impor-
tante ricordare ciò che si è detto sul ruolo della finanza: la crisi del 2008 fu finanziaria, quindi
la finanza – a torto o a ragione – è stata criminalizzata per gli effetti che aveva prodotto sull’e-
conomia reale. Oggi, paradossalmente tutti guardano alla finanza come la modalità per uscire
dalla crisi. Come direbbero i francesi, la Chiesa è stata rimessa al centro del villaggio. Volevo
fare un commento e sentire poi le valutazioni dei relatori: siamo in presenza di uno shock sim-
metrico, che implica risposte omogenee dei Paesi e che richiede politiche espansive – questo
non ha nulla a che fare con la solidarietà, perché in Italia tendiamo a sovrapporre questo
concetto, che implica trasferimenti di risorse da un paese all’altro con l’approvazione dei par-
lamenti dei vari Paesi, alle politiche espansive, che sono gli interessi dei singoli Stati. Il fatto
che lo shock sia simmetrico non implica che gli effetti lo siano. Anzi, presumibilmente, come
ricordava la professoressa Subacchi prima, gli effetti saranno asimmetrici e l’Italia pagherà un
prezzo più alto. Ma di questo non possiamo incolpare altri. In questo contesto giova ricordare
che le politiche espansive messe in campo, o annunciate, da diversi Stati in maniera pesante
come gli Usa, la Germania e la Francia, dal mio punto di vista possono avere sull’economia
italiana effetti più rilevanti di qualche eurobond di cui si sta parlando. È utile ricordare che i 7
punti di crescita che abbiamo avuto e recuperato in questi anni sono interamente dovuti alle
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nostre esportazioni. Quindi, l’impatto di un recupero del Pil di uno o due punti della Germania
o degli Stati Uniti presumibilmente avrà sulla crescita italiana un impatto maggiore di qualche
programma di aiuto di cui si sta discutendo in questi giorni”.

Paola Subacchi: “Non posso che essere d’accordo. Sulla questione della finanza, questa
è assolutamente necessaria. Il fatto che la Federal Reserve si sia mossa in maniera tempe-
stiva è dovuto al fatto che c’erano preoccupazioni sul lato finanziario. Si voleva evitare una
crisi finanziaria. Questo perché c’è una forte esposizione di Wall Street sui crediti bancari a
breve termine, quindi c’era la possibilità di un effetto a catena di fallimenti aziendali che poi
si sarebbe trascinata anche il mercato del credito. Quindi, è stato un effetto che doveva es-
sere fronteggiato. Chiaramente, non dà un grande respiro alle economie reali, ma è sempli-
cemente un modo di evitare il collasso finanziario. La questione è molto importante: non c’è
solo la leva finanziaria e la questione dei coronabond. Ci si chiede poi come questi strumenti
vengano organizzati, gestiti e immessi sul mercato dei capitali. L’altra questione importante
è invece quella di un’azione congiunta e coordinata di crescita: è evidente che, dal momento
in cui in Europa siamo molto dipendenti l’uno dagli altri e abbiamo una forte interdipendenza
commerciale, un modo per aiutare gli Stati che si trovano in difficoltà è quello di cercare di
trascinare la domanda nel proprio Paese, aiutando appunto le esportazioni di quelli più colpiti.
In particolare, l’Italia e soprattutto l’Italia del Nord, che è una macchina esportatrice soprattutto
nei Paesi dell’area Ue”.

Raffaele Farella: “La prima domanda riguarda il breve termine: sono stati fatti diversi i richiami
a un’Europa che sta intervenendo e c’è ancora molto da fare, ma nel dibattito attuale, anche
per ragioni di attualità, è poco presente il tema del quadro finanziario del prossimo settennato.
Evidentemente le scelte che riguarderanno questo negoziato, che ha visto molte difficoltà e
contrasti – ci si è scontrati su saldi netti, sull’1 anziché l’1,1% - hanno a che fare sull’impostare
politiche che invece sono in grado di affrontare il medio e lungo periodo. Su questo volevo
sapere qual è la correlazione con gli interventi di emergenza. L’altra domanda riguarda quel-
lo che richiamava la professoressa Subacchi, ossia il problema dell’industria, degli export…
avremo in ogni caso alla fine del lockdown un quadro e una geografia economica europea
completamente stravolta, che richiederà necessariamente un ruolo molto più forte dell’Europa
soprattutto per quanto riguarda la politica industriale e la strategia tecnologica. Che cosa può
e deve fare l’Ue da questo punto di vista? È arrivato il momento in base al quale forse una
politica industriale europea può essere rilanciata e rafforzata dal punto di vista dei contenuti?”.

Carlo Cottarelli: “Prima vorrei chiarire un punto che è stato sollevato sui finanziamenti della
Bce, che sono visti come operazioni di politica monetaria ininfluente sull’economia reale. Non
credo sia così: questi sono finanziamenti che agiscono enormemente sull’economia reale,
perché vanno allo Stato. Lo Stato italiano e gli altri Stati europei si finanziano attraverso la
banca centrale europea e con quei soldi ci fanno sostegno alle imprese, alle famiglie. Pensia-
mo al bilancio dello Stato nel modo tradizionale: il deficit pubblico può esser finanziato o stam-
pando moneta o con debito. Adesso lo si sta finanziando stampando moneta e questo è un
finanziamento che va all’economia reale. In più c’è il canale tradizionale della politica moneta-
ria: si crea liquidità attraverso i prestiti delle banche e c’è l’effetto del moltiplicatore monetario,
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che finora era stato frenato dagli equity requirements (i vincoli di capitale). Quindi, è una ma-
novra sostanzialmente espansiva, sia sul piano fiscale perché i deficit aumentano sia perché
questi deficit vengono finanziati dal punto di vista monetario. Questo ci dice anche qualcosa
rispetto all’altro problema che era stato sollevato, ovvero quello della sostenibilità del lungo
periodo di questo debito che viene accumulato. L’Italia alla fine di quest’anno avrà un rapporto
debito pubblico/Pil, se consolidiamo fra Banca centrale e Stato, più basso di quello che aveva
all’inizio del periodo, perché lo si è finanziato con moneta. Allora il problema è un altro: in che
misura questa moneta, che si sta stampando in quantità enormi, prima o poi avrà un impatto
inflazionistico e dovrà essere riassorbita dalle banche centrali? Per ora questo rischio non c’è,
ma è un aspetto da tenere in considerazione. Non c’è dubbio che stampando moneta, se non
c’è un impatto inflazionistico, si aiuta la sostenibilità del debito pubblico, anche nel lungo perio-
do. Se si ipotizza che quella moneta rimarrà nel sistema, cioè che lo Stato si sta finanziando
con il cosiddetto signoraggio, questo aiuta anche la sostenibilità del debito pubblico. Ci sono
enormi incertezze, non sappiamo quanto durerà, però nell’immediato questo è quello che sta
succedendo. Sulla questione della politica industriale ho sempre un po’ una reazione emotiva
quando ne si parla in termini generali, nel senso che mi fa pensare molto al dirigismo. Credo
che ci voglia una politica industriale – io non ne sono un esperto e lo lascerei a economisti di
un altro tipo – ma ritengo che per l’Italia ci sia un’esigenza fondamentale di rimuovere alcuni
impedimenti che negli ultimi decenni hanno frenato l’economia italiana: la burocrazia, una
giustizia civile che non funziona, un’evasione fiscale che continua a essere massiccia e com-
porta aliquote di tassazione per chi paga le tasse ancora più alte, un Mezzogiorno che non
si riesce a far crescere più rapidamente, una pubblica istruzione che è sotto finanziata, oltre
alla sanità. Queste sono le misure che credo siano necessarie intraprendere per l’Italia e per
il resto d’Europa, in modo da tornare a tassi di crescita che non siano uguali a quelli del resto
d’Europa ma più alti, perché abbiamo perso terreno per 20 anni. Questa è la cosa essenziale”.

Franco Passacantando: “Volevo riprendere lo spunto molto interessante di Quintieri, se-
condo cui, dopo anni di richieste alla Germania di spendere di più e ai Paesi di fare politiche
espansive, finalmente abbiamo queste politiche e sono un’opportunità per l’Italia. Questo mi
fa ritornare a un punto che avevo proposto prima. Primo: è giustissimo aver fatto un lockdown
rigido, anzi avremmo dovuto attuarne uno ancora più severo, perché ormai gli economisti
hanno dimostrato che non c’è trade off tra sicurezza sanitaria e dimensione economica. Le
due cose vanno insieme: vari studi hanno dimostrato che dove ci sono state restrizioni più forti
si è tornati prima a produrre. Secondo, e l’Italia può svolgere un ruolo importante in questo
campo: quando il contagio viene a scemare, bisogna tornare a produrre e vanno identificate
delle regole per capire come tornare a farlo e come esportare a Germania e Francia. Rischia-
mo di avere una situazione in cui alla fine del lockdown avremo ancora bloccata la possibilità
di esportare in questi Paesi perché l’Austria non ci permetterà di traferire le nostre merci.
Quindi, è necessario assolutamente che in campo europeo si apra un fronte anche su questo
aspetto”.
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