Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso

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Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso
Underwater: recensione del
monster-movie   di  William
Eubank con Kristen Stewart

L’ingegnere meccanico Norah Price (Kristen Steward) lavora
nella stazione di trivellazione Kepler 822, della Tian
Inustries, una gigantesca struttura adagiata nella Fossa delle
Marianne, a circa 7 miglia di profondità. All’improvviso si
scatena l’inferno, a causa di quello che all’inizio sembra
essere un terremoto sottomarino.

Norah riesce a cavarsela, assieme a un manipolo di
sopravvissuti, che include il capitano Lucien (Vincent
Kassel). La situazione è disperata: il nocciolo del reattore
nucleare che alimenta la stazione è in procinto di esplodere,
le capsule di salvataggio non sono raggiungibili, anche il
sottomarino della base è inservibile, la struttura è in
procinto di collassare.

A mali estremi, stremi       rimedi: l’unica possibilità per
cavarsela è scendere sulla   superficie oceanica e raggiungere a
piedi la stazione Roebuck    641. Ma già nella discesa verso il
fondo dell’abisso su un      malfermo elevatore, i superstiti
capiscono che c’è qualcosa che non va. Qualcuno, o qualcosa,
sembra aggirarsi nell’oscurità. Ma il vero orrore li attende
sul fondale oceanico.
Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso
Underwater:    un   b-movie   che
riprende tutti gli stereotipi del genere

La trama non è per niente originale, la situazione è simile a
quella descritta in Creatura degli Abissi, e il film sembra
rendere omaggio a innumerevoli pellicole analoghe che lo hanno
preceduto. L’atmosfera che si respira all’inizio è quella di
Alien, con i lunghi corridoi vuoti e male illuminati e i
superstiti che si muovono in oscuri cunicoli. Anche la plancia
di comando e la voce sintetica che risuona nell’aria,
preannunciando sventure, avvicinano l’atmosfera del film a
quella che si respirava sull’astronave Nostromo.

I mostri umanoidi sono simili a quelli di Cloverfield, mentre
le creatura più grande deve molto anche a Deep Rising. Altre
pellicole la cui storia è legata alla fuga da basi sottomarine
messe in crisi da creature più o meno ostili, che vengono in
mente guardando Underwater, sono Leviathan e The Abyss.
Insomma, niente di nuovo.

I personaggi sono molto piatti e inconsistenti, con
l’eccezione della protagonista, un’androgina Kristen Steward,
che tuttavia all’inizio del film William Eubank si diverte a
fare girare a piedi nudi nella base in disfacimento,
concedendo una piccola dose di feticismo a questa pellicola.

Guardando la Noah Price di Underwater viene spontaneo pensare
alla leggendaria Ellen Ripley di Alien. In realtà i due
personaggi sono molto diversi. Mentre Noah è una persona in
crisi che deve fare i conti con il suo passato, ritrovando sé
stessa durante il film, Ripley è una autentica guerriera,
capace di fronteggiare e sconfiggere mostri e androidi.
Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso
I componenti maschili del manipolo di sopravvissuti sono
personaggi inconsistenti, a cominciare dal capitano Lucien,
interpretato da uno sprecato Vincent Cassel. In Underwater
l’iniziativa appartiene alle due donne del gruppo, Norah in
testa, che da vera eroina giunge a sacrificare sé stessa per
gli altri.

Underwater: una onesta pellicola per intrattenere il pubblico

Va detto che la mancanza di spessore dei personaggi non è un
problema per questa pellicola, che è concepita per
intrattenere il pubblico amante di questo genere, e non certo
per riflettere sulla natura umana o ragionare sul nostro ruolo
nell’universo.

Ovviamente c’è anche l’immancabile messaggio ecologista e
l’attimo di riflessione sui limiti che l’umanità non dovrebbe
violare, ma tutto questo rimane sullo sfondo di una storia che
è basata non certo sui dialoghi, spesso avvilenti, quanto
sull’ambiente nel quale la storia si srotola.

In questo film, la tradizionale dicotomia tra natura e cultura
si traduce nella differenza tra il buio carico di inquietante
mistero, che caratterizza i minacciosi fondali oceanici, dove
si muovono sagome inquietanti, e la luce proveniente dalle
strutture della piattaforma di trivellazione, e dagli
scafandri degli uomini del suo equipaggio.

I protagonisti si muovono tra questi due mondi contrastanti,
cercando di sopravvivere. Pochi ci riusciranno, mentre la Tian
Industries riuscirà a insabbiare quanto successo, come spesso
accade in questo genere di pellicole, continuando a macinare
utili, fregandosene di quanti ci hanno lasciato la pelle. Si
tratta di un altro cliché di questo genere cinematografico.
Basti pensare alla Weyland-Yutani di Alien o alla Umbrella
Corporation di Resident Evil. Metafore del nostro mondo
globalizzato, dove spesso il potere economico delle grandi
compagnie riesce a schiacciare gli individui e i loro diritti.
Ma, ancora una volta, tutto questo rimane sullo sfondo.
Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso
Lo spettatore viene invece trascinato nella storia
dall’incalzare degli eventi. Il dramma esplode subito, nel
primo minuto della pellicola, e poi cresce, continuamente. Il
film, che comincia come un disaster-movie, diventa un monster-
movie. I personaggi devono sopravvivere, superare situazioni
che richiedono azione, non dialoghi pensosi. Agire o perire.

Quanto allo spettatore che ha pagato il biglietto, se è venuto
a vedere un monster-movie non rimarrà deluso, specie se ama il
genere e apprezza le citazioni. E poi il buon ritmo, in
continuo crescendo, la curata ambientazione sottomarina, gli
ambienti claustrofobici e la splendida fotografia possono
regalare emozioni forti. Underwater non è certo un capolavoro,
ma è un onesto b-movie che fa il suo lavoro: intrattenere il
pubblico che apprezza questo genere.

1917: la recensione del film
di guerra di Sam Mendes

6 aprile 1917. A due soldati britannici viene affidata una
missione suicida: attraversare le linee nemiche, che si
suppone essere state abbandonate dai tedeschi, e consegnare
una missiva urgente che potrebbe salvare 1600 vite umane.

Per uno dei due militari la missione è particolarmente
importante, perché nel reggimento che potrebbe cadere in una
trappola mortale combatte il proprio fratello. Il film è
liberamente tratto da una storia vera, in quanto basato sul
racconto del nonno del regista, Alfred Mendes, che realmente
combatté nella Prima guerra mondiale, e al quale il film è
dedicato.
Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart - Il Discorso
Un racconto di per sé molto asciutto, che non sembra essere
molto interessato a mostrare le inimmaginabili atrocità della
Grande Guerra, o ad approfondire dettagli storici, ma che
regala un’esperienza immersiva allo spettatore, che grazie a
una eccellente fotografia e all’uso sistematico del piano
sequenza viene letteralmente trasportato nel racconto.

                     1917: un film          tecnicamente
                     eccezionale

La povertà della storia narrata è però ampiamente compensata
dal livello tecnico stellare della pellicola. Mendes tuttavia
non ha utilizzato ritmi forsennati o fatto uso di effetti
speciali mozzafiato, come attualmente sembra essere molto di
moda nei blockbuster. Al contrario, la narrazione scorre
lentamente, per un film di guerra, e le scene splatter o
truculente vengono utilizzate con parsimonia, tenendo conto
che stiamo parlando degli orrori della Prima guerra mondiale.

In pratica, il film è un unico piano sequenza, in quanto è
molto difficile distinguere le diverse riprese. Inoltre la
telecamera è per la maggior parte del tempo all’altezza dei
due protagonisti. Lo spettatore trascorre virtualmente tutto
il film di fianco ai due soldati inglesi, ed è molto arduo non
rimanere rapiti da quanto viene narrato.

Anche perché la fotografia è di altissima qualità. In
particolare i combattimenti notturni nella cittadina francese
di Ecoust hanno una resa eccezionale, conferendo a quella
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parte del film una dimensione quasi metafisica.

L’effetto è quindi immersivo, e sottolinea la dimensione umana
dei protagonisti, piuttosto che gli accadimenti bellici, e la
stessa ricostruzione storica degli eventi narrati, peraltro
ineccepibile, passa in secondo piano.

1917: un film semplice che funziona
Questa pellicola ha una sceneggiatura molto semplice e
lineare, non sembra volere veicolare nessun messaggio
particolare, e sicuramente non può essere paragonata a
capolavori del cinema che con essa condividono l’ambientazione
storica, come Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick, del
1957.

Mendes non sembra neanche interessato a porsi domande
metafisiche sul significato della guerra, o su come questa
alteri il rapporto dell’uomo con la natura, come ha fatto
Malik con il suo complesso La Sottile Linea Rossa, del 1998.

Il regista non indugia neanche sulla sete di gloria e
l’imbecillità degli alti comandi, come il già citato Orizzonti
di Gloria, né perde tempo a sottolineare le deviazioni umane e
le perversioni che la guerra inevitabilmente alimenta
nell’animo umano, come accade in Full Metal Jacket, sempre di
Stanley Kubrick, del 1987.

Semmai questo film può essere concettualmente accostato a
Salvate il Soldato Rayan, di Steven Spielberg, del 1998. In
entrambe le pellicole quello che mette in moto la storia è la
necessità di salvare vite umane al fronte, e il loro scopo
sembra essere semplicemente quello di coinvolgere emotivamente
nella narrazione, piuttosto che veicolare messaggi complessi.

Certo, in 1917 non c’è niente di neanche lontanamente
paragonabile alla sequenza iniziale di Salvate il Soldato
Rayan, dove l’orrore di quanto accade sulla spiaggia di Omaha
Beach, durante lo sbarco in Normandia, viene buttato in faccia
allo spettatore con spietata crudezza. Sam Mendes non sembra
essere interessato neanche a fare vedere fino in fondo la
crudeltà della guerra e le sofferenze inumane che infligge a
combattenti e civili.

In compenso riesce a coinvolgere lo spettatore in una storia
molto semplice, utilizzando inquadrature accuratamente
studiate, una fotografia di alto livello, musiche efficaci e
utilizzando in maniera magistrale il piano sequenza.

1917: un film da vedere
Lo spettatore vien rapito dalla narrazione, quasi sospeso
nell’eterno presente della storia che scorre sullo schermo, e
non può che immedesimarsi nei due protagonisti (efficacemente
interpretati da Dean-Charles Chapman e George MacKay), due
ragazzi che la guerra ha strappato dalle loro famiglie e
scaraventato al fronte.

Due persone molto differenti caratterialmente ma accomunate da
una visione molto semplice della vita, lontana da ogni
intellettualismo, concentrati sull’unica cosa che può
interessare un uomo al fronte: sopravvivere.

E i due protagonisti sembrano condividere con il regista la
lontananza da ogni sovrastruttura ideologica. Tanto che nel
film, per una volta, il nemico non è una figura ambigua, di
difficile lettura, moralmente oscillante in una indistinta
zona grigia, ma è semplicemente il cattivo da combattere. Per
non essere uccisi. Mentre gli inglesi sono i buoni. Una
visione manichea che forse farà torcere il naso a qualche fine
intellettuale, ma che è senz’altro funzionale allo scopo di
questa pellicola, che è coinvolgere lo spettatore in una
storia molto semplice, utilizzando con maestria la tecnica
cinematografica.

Tra l’altro questa scelta finisce per sottolineare l’assoluta
imbecillità della guerra, dove l’unica possibilità è di
uccidere per non essere uccisi. Una visione del mondo
ristretta, è vero, ma che forse bene rispecchia la drammatica
realtà di chi, in quegli anni terribili, si ritrovava al
fronte, dove tra un assalto frontale e l’altro sicuramente non
c’era molto spazio per fini intellettualismi.

1917 è candidato a 10 Oscar. Forse troppo per questa
pellicola, che comunque vale tutti i soldi del biglietto
d’ingresso. Per una volta, viva la tecnica e chissenefrega
della storia raccontata. Il cinema è anche questo.

Richard Jewell: recensione
del film di Clint Eastwood

Con questa sua ottima pellicola, il quasi novantenne Clint
Eastwood mette in scena con grande efficacia un altro dei suoi
antieroi, ispirandosi a fatti accaduti veramente. Dimostrando
ancora una volta il suo spessore come regista.
Richard Jewell, il protagonista che dà il nome alla pellicola,
è una guardia di sicurezza che, durante le Olimpiadi estive
del 1996 ad Atlanta, in Georgia, scopre uno zaino contenente
un ordigno esplosivo in un parco. Il suo intervento evita una
strage, e gli fa guadagnare gli onori della cronaca.

I media prima lo osannano come un eroe, poi lo accusano di
essere il probabile autore dell’attentato, precipitando la sua
vita nell’abisso. L’intervento di un avvocato gli permetterà
di riabilitarsi. Il film narra quanto accaduto dall’attentato
fino al 2007, quando viene scoperto e condannato il vero
autore dell’atto criminale.

Richard Jewell: un vero antieroe

Richard Jewell è un ragazzone sovrappeso, con problemi di
salute, ossessionato dall’ambizione di diventare un
poliziotto. Sebbene abbia più di trent’anni, vive ancora con
l’anziana madre, alla quale è molto legato. Per alcuni versi
incarna molti stereotipi statunitensi: si ingozza di junk
food, fatto che è alla base dei suoi problemi fisici, possiede
un arsenale e ama le armi, non paga le tasse, è atterrito
dall’idea di venire considerato un omosessuale.

In evidente sovrappeso, sgraziato nei movimenti e
intellettualmente non superdotato, tanto che viene spesso
dileggiato dai colleghi, è tuttavia una persona intimamente
buona, caratterizzata da un alto senso della giustizia e
sempre pronta a mettersi al servizio degli altri. Il suo
maniacale senso del dovere e la perfetta conoscenza delle
procedure sono i fattori che gli permettono di scoprire la
bomba e di salvare molte vite umane.

Con un fisico sgraziato e le fattezze di un bambinone, preso
in giro da tutti, Richard è nella sua essenza una persona con
un cuore d’oro, con un alto senso delle istituzioni e pronto
ad affrontare ogni pericolo per proteggere gli altri. Ha pochi
amici. Solo l’anziana madre e un avvocato sul viale del
tramonto, Watson Bryant, lo stimano veramente.

Richard Jewell: un film contro l’abuso di potere
delle istituzioni
È proprio Bryant che lo mette in guardia, all’inizio del film,
dal pericolo di diventare uno stronzo non appena si acquisisce
un minimo di potere. Le persone che cercheranno di annientare
il protagonista sono il suo opposto: belli fisicamente,
brillanti intellettualmente, ma bacati dentro.

Kathy Scruggs è una reporter avvenente e spregiudicata, che
fiuta subito la ghiotta occasione di creare un caso
giornalistico sulle indagini, appena avviate dall’FBI, sul
conto di Richard Jewell.

In effetti il profilo psicologico del probabile bombarolo di
Atlanta coincide con le caratteristiche di Richard: un maschio
frustrato, amante delle armi, in cerca di notorietà per
evadere da una vita buia, ai margini della società. Kathy
comincia quindi il linciaggio mediatico del protagonista,
mettendo in moto un meccanismo perverso che, auto-
alimentandosi, rischia di distruggerlo.

In questo è aiutata da un agente in carriera, Tom Show, che,
in cambio di una prestazione sessuale, spiffera lo stato
dell’arte delle indagini dell’FBI alla giornalista, trovandosi
subito dopo nell’impellenza di chiudere il caso. Richard
sembra essere un capro espiatorio perfetto. Tom tenta quindi
di strappargli una confessione falsa, utilizzando mezzi
surrettizi. Tom rappresenta infatti un’istituzione, l’FBI, per
la quale il protagonista ha una fiducia cieca e quasi
disarmante. Il consapevole tentativo di abusare della
creduloneria di Richard è vomitevole, ma fallisce, perché in
realtà il protagonista è meno sprovveduto di quanto spossa
sembrare. L’intervento dell’avvocato Bryant è risolutivo per
riabilitare Richard, salvandolo sia dal linciaggio mediatico
che dalla sedia elettrica.

Le scene finali, ambientate nel 2007, vedono l’avvocato
raggiungere il protagonista nella stazione di polizia dove è
finalmente riuscito a diventare un agente, per comunicargli
che il vero colpevole ha confessato. Richard muore nello
stesso anno, per le complicazioni legate al diabete, a solo 44
anni.

Richard Jewell: un film da vedere
Clint Eastwood ha realizzato una pellicola semplice ma
efficace, centrata su pochi personaggi, molto ben
tratteggiati. Un plauso va alla splendida interpretazione di
Paul Walter Hauser, che ha ci ha regalato un Richard Jewell
molto credibile, diviso tra le sue ambiguità interiori e
sballottato in un mondo spregiudicato, dove domina
l’apparenza, nel quale i fatti possono essere fatti sparire
dalla narrazione mediatica.
Il film critica due istituzioni, l’FBI e il mondo dei media,
che diventano il simbolo del potere distorto, capace di
distruggere cittadini indifesi per soddisfare le becere
ambizioni dello stronzo di turno. E lo fa tenendosi alla larga
dal politically correct tanto abusato in Italia (basti pensare
a due recentissime pellicole nostrane, Tolo Tolo di Checco
Zalone e Hammamet di Gianni Amelio).

Il risultato è un prodotto altamente godibile, che intrattiene
e fa riflettere. Tra l’altro Clint Eastwood si è divertito a
mescolare finzione e realtà, utilizzando filmati originali
dell’epoca, che vengono trasmessi dalle televisioni in scena.
Il vero Richard Jewell convive quindi con quello della
finzione cinematografica, sia pure per pochi istanti. Una
chicca cinematografica e un omaggio per quello che è stato un
vero eroe, purtroppo dimenticato.

Perchè Clint Eastwood ha ancora una volta messo al centro
l’uomo, con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità. Un
uomo che, nonostante tutto, può trovare dentro di sé risorse
impensabili per tirarsi fuori da situazioni apparentemente
senza uscita. Diventando un eroe. Senza ricorrere agli effetti
speciali dei film della Marvel Cinematic Universe. Bravo
Clint. Aspettando il tuo prossimo film…

Lunedì 20 gennaio al cinema Centrale                RICHARD
JEWELL,in versione originale!

EU-CIAK LA FASE FINALE DEL
PROGETTO CHE EDUCA I RAGAZZI
AL LINGUAGGIO AUDIOVISIVO AL
TRIESTE FILM FESTIVAL
EU Ciak, è il progetto di educazione all’audiovisivo promosso
dall’associazione culturale Alpe Adria Cinema e dal PAG
(Progetto Area Giovani) delComune di Trieste con il sostegno
della Fondazione Pietro Pittini.

Alpe Adria Cinema è il motore della principale vetrina
internazionale espressamente dedicata alle cinematografie
dell’Europa centro-orientale degli ultimi 30 anni e osservando
i cambiamenti nella società, si è palesata sempre di più
l’esigenza didattica ed educativa di far conoscere ed amare il
cinema anche alle giovani generazioni, che grazie al web,
usufruiscono del prodotto audiovisivo in maniera più
individuale che collettiva. Tra le varie attività organizzate
da Alpe Adria Cinema all’interno del TSFF, stanno così
assumendo sempre più rilevanza e attenzione quelle dedicate ai
bambini e ai ragazzi. Negli ultimi anni sono stati sviluppati
diversi progetti e attività volti al coinvolgimento di un
pubblico giovane, nell’ottica di sviluppare interesse per il
settore dell’audiovisivo e del cinema, con un focus
particolare sulle aree del centro-est Europa.

A queste attività si è affiancata l’iniziativa EU Ciak, un
progetto che coinvolge tre classi, terze e quarte, di
tre scuole superiori della città di Trieste: l’International
School of Trieste, l’Istituto Deledda – M. Fabiani e
l’Istituto Nordio. In ciascuna classe è stato proposto un
percorso di 6 laboratori per la realizzazione di un
cortometraggio sul tema dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea. Ai ragazzi verrà dato ampio spazio di confronto e
discussione sul tema scelto grazie a ai materiali informativi
messi a disposizione delle classi e alle suggestioni e agli
stimoli forniti durante le lezioni. Ad accompagnare gli
studenti in questo percorso ci sono stati tre giovani video
maker triestini: Giulio Ladini, Fulvio Bullo e Hari Bertoja.

«L’esperienza è stata molto stimolante per gli studenti perché
a partire dalla formazione iniziale i ragazzi hanno deciso di
sviluppare la sceneggiatura dei loro cortometraggi» racconta
la referente Carolina Stera di Alpe Adria Cinema «I temi
scelti sono stati la libertà di espressione, la
discriminazione per motivi di genere e la libera circolazione
dei cittadini europei in Europa. Tutti gli studenti hanno poi
scelto dei ruoli all interno della troupe cinematografica, chi
ha fatto l aiuto regista, chi il fonico, chi l’attore… Ognuno
ha quindi potuto        immedesimarsi    e   sperimentare     una
professione. »

Nel corso dei sei giorni di laboratorio, gli studenti sono
stati accompagnati nella scrittura di una sceneggiatura e
nella creazione e organizzazione di una vera e propria troupe
cinematografica in cui ognuno svolge un ruolo preciso, come
accade nei set reali. Il risultato sarà un cortometraggio
collettivo, in cui l’apporto di ognuno sarà rilevante,
riconosciuto e condiviso.

Il   progetto   ha   inteso   innanzitutto   rendere   i   ragazzi
protagonisti di un percorso partecipato e dinamico, in cui
loro stessi potessero esprimere idee che poi, grazie al
linguaggio audiovisivo e cinematografico, venissero
rappresentate nel cortometraggio; il video diviene quindi uno
strumento per una sintesi efficace e coinvolgente delle loro
idee e del messaggio veicolato.

«È stato importante e utile far loro conoscere chi si occupa
di questo settore:hanno partecipato ai laboratori in qualità
di relatori anche la FVG Film Commission e il regista Thanos
Anastopoulos. È stata un’ esperienza che speriamo possa aver
suscitato interesse e curiosità negli studenti e siamo sicuri
che la scelta di proiettare i loro cortometraggi sul grande
schermo del teatro Miela durante un festival prestigioso come
il Trieste Film Festival li renderà orgogliosi e felici di
aver partecipato a questa prima edizione di EU Ciak.»

Le classi dell’International School of Trieste, Liceo
artistico Enrico e Umberto Nordio e Istituto Tecnico G.
Deledda – M. Fabiani presenteranno al pubblico i cortometraggi
realizzati sabato 18 alle ore 11:00. Il pubblico in sala sarà
chiamato a votare il miglior cortometraggio. Il progetto è
stato realizzato con il sostegno della Fondazione Pietro
Pittini e la collaborazione del PAG-Progetto Area Giovani del
Comune di Trieste.

VR DAYS LA REALTÀ VIRTUALE
DELLE   DONNE AL  TSFF  di
TRIESTE
Da tre anni a questa parte il Trieste Film Festival è
impegnato ad esplorare le nuove tecnologie in ambito
cinematografico e anche in questa trentesima edizione Alpe
Adria Cinema promuove il progetto TSFF goes Virtual – VR Days.

«La tecnologia ha sempre visto nomi maschili tra le file degli
inventori, dei creatori e successivamente dei CEO e
amministratori delle grandi aziende tecnologiche» ci racconta
il responsabile della sezione VR del TSFF Antonio Giacomin
«Poi arrivano i nuovi media immersivi che mettono lo
spettatore in un ruolo diverso, lo immergono in un ambiente
nel quale entra e diventa il centro dell’attenzione/azione. E
con il nuovo medium espressivo della realtà virtuale tutto ciò
viene sperimentato con nuovi contenuti e con nuove modalità di
interazione tra storia e spettatore. La narrazione è ancora
alla ricerca di un protocollo, di una serie di regole e
sensibilità per un nuovo modo di raccontare il mondo e molte
donne si sono cimentate in questo nuovo metodo, non solo per
immagini, ma soprattutto per esperienze.»

In questa terza edizione dei VR Days, promossa da Alpe Adria
Cinema e sostenuta da proESOF 2020,vogliamo discutere e capire
il ruolo delle donne nei media immersivi, esplorare nuove
tecnologie e nuove modalità di storytelling in un panel con
Stefania Casini, regista e produttrice, Sara Tirelli, artista
visiva e filmmaker e Alessia Sonaglioni dell’European Women’s
Audiovisual Network. L’incontro a ingresso libero dal titolo
“Donne E Storytelling Nella Realtà Virtuale” si tiene sabato
18 alle ore 17:00 al Cafè Rossetti ed è moderato da Agnese
Pietrobon,   psicologa   e   ricercatrice   delle   tecnologie
immersive.

Mentre per un’esperienza “fisica”, da sabato 18 a martedì 21
dalle 11:00 alle 19:00 nel foyer del Politeama Rossetti sarà
possibile ‘immergersi’ in tre esperienze in VR. La prima
è Mare Nostrum. The Nightmare (Stefania Casini, I, 2019, col.,
11’), in cui coraggio, speranza, nostalgia, paura, sofferenza,
spaesamento scandiscono il viaggio di un giovane migrante di
13 anni. Una live action, un’esperienza a 360° in realtà
virtuale che farà provare un turbinio di emozioni,
accompagnati da un sound 3D che consentirà di vivere la
tragedia in modo molto emotivo. Ingresso libero con
prenotazione obbligatoria www.marenostrum.eventbrite.it.

La seconda s’intitola Medusa Act Ii (Sara Tirelli, I – S,
2018, col., 9’) ed è un cortometraggio a 360° sulla crisi
contemporanea dell’identità europea e sulle conseguenze che
hanno i grandi flussi di migranti sulla fortezza Europa. Mette
in discussione il regresso e la perdita di memoria di una
cultura.     Ingresso    libero    con     prenotazione
obbligatoria www.medusavrexperience.eventbrite.it

La terza è parte del progetto Esterno / Giorno di Casa del
Cinema di Trieste e si intitola Set Reali E Visite Virtuali e
porta lo spettatore ad immergersi nei set dei più celebri film
e serie TV girati in Friuli Venezia Giulia senza doversi
muovere. Accompagnati dalla voce dei protagonisti si potrà
vivere un’esperienza completamente nuova grazie alla realtà
virtuale. L’esperienza è stata realizzata da Antonio Giacomin,
immersive video & VR specialist e si potrà fare da sabato 18 a
martedì 21 dalle 11:00 alle 19:00 al costo di €15,00 con
prenotazione                                   obbligatoria
su www.set-reali-visite-virtuali.eventbrite.it

Ma ci sarà anche una quarta importante esperienza la cui
postazione viene allestita da sabato 18 a martedì 21 dalle
11:00 alle 19:00 presso l’Hotel DoubleTree by Hilton Trieste e
si intitola The Key (Céline Tricart, USA, 2019, col., 20’, v.o
inglese), un’esperienza interattiva che mescola teatro
immersivo e realtà virtuale. Il partecipante prende parte a un
viaggio, esplorando dei sogni nei quali deve affrontare sfide
e decisioni difficili, compresa l’esperienza della perdita. Il
pubblico sperimenterà un viaggio metaforico dal pericolo alla
salvezza. The Key è il vincitore del Gran Premio della Giuria
per la migliore opera VR immersiva all’ultima Mostra del
Cinema di Venezia. A ingresso libero con prenotazione
obbligatoriawww.thekeyvrexperience.eventbrite.it.

dal corrispondente
Presentato il 31. TRIESTE
FILM FESTIVAL, 17-23 GENNAIO
TRIESTE
30+1: dopo i festeggiamenti – speriamo non troppo
autocelebrativi – del trentennale dell’anno scorso,
il   Trieste    Film   Festival,     diretto    da  Fabrizio
Grosoli e Nicoletta Romeo, si tuffa in un nuovo decennio,
facendo tesoro della propria storia (iniziata alla vigilia
della caduta del Muro di Berlino) ma allo stesso tempo
rimettendosi in gioco con la freschezza di una nuova prima
volta. Il giro di boa è compiuto, adesso si continua a nuotare
“sincronizzando” – proprio come fanno le campionesse della
Triestina Nuoto nella sigla firmata da Thanos Anastopoulos –
le anime del festival, tra omaggi e scommesse, azzardo e

memoria.

Mai così numerosi come quest’anno, i “maestri” si affacciano
sin dall’apertura, affidata all’anteprima italiana del nuovo
film di un autentico mito della storia del cinema, Terrence
Malick: girato interamente in Europa, LA VITA NASCOSTA –
HIDDEN LIFE (presentato in concorso all’ultimo Festival di
Cannes, e nelle nostre sale dal 9 aprile distribuito da The
Walt Disney Company Italia) racconta la storia vera di Franz
Jägerstätter, un contadino austriaco che – richiamato alle
armi durante la Seconda guerra mondiale – rifiutò di giurare
fedeltà a Hitler, e per questo fu condannato a morte
nell’agosto del 1943. “Un film – spiegano i direttori
artistici del TsFF – che ci riguarda da vicino, non solo in
senso geografico, e che dopo alcune opere molto intime riporta
l’autore di La sottile linea rossa a misurarsi con la Storia
del Novecento”.

A chiudere il festival sarà invece Corneliu Porumboiu, uno dei
nomi più eccentrici emersi dalle file del cosiddetto “nuovo
cinema rumeno”: ambientato tra Bucarest e le Canarie – più
precisamente La Gomera, l’isola che in originale dà il titolo
al film – il suo FISCHIA! (prossimamente nelle sale italiane
con Valmyn) è un noir insolito e sorprendente, che reinventa
tutti gli archetipi del genere (il poliziotto corrotto, la
femme fatale irresistibile) con un gusto e un umorismo
personalissimi. Non deve stupire, quindi, il calore con cui il
film è stato accolto dalla critica internazionale l’anno
scorso a Cannes, e l’attesa per la masterclass aperta al
pubblico che Porumboiu terrà a Trieste.

Nucleo centrale del programma si confermano i tre concorsi
internazionali                                    dedicati
a lungometraggi, cortometraggi e documentari: a decretare i
vincitori, ancora una volta, sarà il pubblico del festival.

Undici i film, tutti in anteprima italiana, che compongono
il Concorso internazionale lungometraggi. La (im)mobilità
sociale dell’Europa di oggi, fatta di migranti economici che
attraversano il continente, è tra i temi centrali: dalla
Brexit vissuta sulla propria pelle dai protagonisti bulgari
di KOT W SCIANIE (Un gatto nel muro / Cat in the Wall) di Mina
Mileva e Vesela Kazakova, già in concorso a Locarno, a NECH JE
SVETLO (Che sia fatta luce / Let There Be Light) di Marko
Škop, dove un muratore slovacco di ritorno a casa dalla
Germania scopre l’affiliazione del figlio ad un gruppo
paramilitare; e ancora l’OLEG di Juris Kursietis, macellaio
lettone che a Bruxelles cerca un buon salario e trova la
criminalità polacca; altrove la prospettiva è più intima,
persino “spietatamente” intima, come dimostra IVANA CEA
GROAZNICĂ (Ivana la Terribile / Ivana the Terrible) in cui la
regista e attrice Ivana Mladenović mette in scena – e in gioco
– le proprie vere fragilità, e i sentimenti sono al centro
anche     dell’emozionante       trittico     amoroso      del
serbo ASIMETRIJA (Asimmetria / Asymmetry) di Maša Nešković,
del viaggio di un padre e un figlio in lutto nel
bulgaro BASHTATA (Il padre / The Father) di Kristina
Grozeva e Petar Valchanov, del matrimonio giunto (forse) al
capolinea in MONȘTRI. (Mostri. / Monsters.) del rumeno Marius
Olteanu, dell’amore clandestino raccontato dalla russa Larisa
Sadilova in ODNAŽDY V TRUBČEVSKE (C’era una volta a Trubčevsk
/ Once in Trubchevsk), del dolore vissuto da un intero
villaggio per la scomparsa di OROSLAN, girato dallo
sloveno Matjaž Ivanišin.

Per       finire,         due        grandi         ritratti
femminili: LILLIAN dell’austriaco Andreas Horvath, il lungo
viaggio di un’emigrante bloccata a New York per tornare in
Russia, un road movie – liberamente ispirato alla
straordinaria storia vera di Lillian Alling – che si fa
cronaca di una lenta sparizione; e ZANA di Antoneta Kastrati,
che nel Kosovo di oggi riflette sui traumi della guerra e su
una società patriarcale che ancora condiziona pesantemente la
libertà delle donne.

Molte anche le proposte Fuori concorso, spesso all’insegna del
genere: due “polar”, il crepuscolare HEIDI di Cătălin
Mitulescu, l’ultimo caso di un agente alla vigilia della
pensione che nella periferia di Bucarest deve trovare due
prostitute disposte a testimoniare in un caso di mafia, e il
corale V KRAG (La ronda / Rounds) di Stephan Komandarev, che
intreccia le storie di tre squadre di polizia di pattuglia
nella notte di Sofia. Due commedie: l’italiano PARADISE UNA
NUOVA VITA di Davide Del Degan (presto nelle sale distribuito
da Fandango), dove un errore burocratico riunisce tra le nevi
del Friuli, con esiti inattesi e paradossali, un testimone di
giustizia sotto protezione e il killer di mafia contro cui ha
testimoniato;      e    la    prima    “commedia      zombie”
balcanica, POSLJEDNJI SRBIN U HRVATSKOJ (L’ultimo serbo in
Croazia / The Last Serb in Croatia) di Predrag Ličina; infine,
due opere prime: ZGODBE IZ KOSTANJEVIH GOZDOV (Storie dai
boschi di castagne / Stories from the Chestnut Woods)
di Gregor Božič, che mescola suggestioni letterarie (Cechov e
le fiabe della Slavia veneta) e fascinazione per luoghi
dimenticati (le Valli del Natisone, al confine tra l’Italia e
l’odierna Slovenia), e MOI DUMKI TICHI (I miei pensieri sono
silenziosi / My Thoughts Are Silent) dell’ucraino Antonio
Lukič, che si muove tra dramma e commedia per raccontare
l’ultima chance del giovane Vadym di lasciarsi alle spalle
tutto e trasferirsi in Canada.

E.L.

Hammamet: la recensione del
film di Gianni Amelio con
Pierfrancesco Favino
Questo film mette in scena la parabola discendente di Craxi,
tristemente consumatasi nel suo rifugio ad Hammamet, in
Tunisia. La storia comincia con un bambino che rompe delle
vetrate con una fionda. Scopriremo che si tratta del giovane
Craxi, che nella scena successiva viene rappresentato al
massimo del suo fulgore, sul palco del 45° Congresso del
Partito Socialista Italiano, dove viene eletto segretario con
una maggioranza bulgara, e osannato da una plaudente folla in
delirio.

Viene avvertito da quello che presumibilmente è un tesoriere
del partito che sono in corso delle perquisizioni, ma Craxi,
con supponenza e arroganza, lo invita ad andare in vacanza e
di stare tranquillo. Nella scena seguente vediamo l’ex
segretario, ormai ridotto a un dolorante relitto umano, che si
trascina zoppicando, appoggiato a un bastone, nella sua villa
ad Hammamet, in compagnia della moglie, della figlia, del
nipotino e della sua fedele scorta armata.

Il resto del film è una lenta discesa verso l’oblio di quello
che una volta era uno degli uomini più potenti d’Italia. Ecce
homo.
Hammet: un film nella quale la finzione prevale
sul dato storico
Nel film non vengono mai usati i nomi reali dei personaggi
storici. Lo stesso Craxi viene chiamato presidente, e sua
figlia, che nella realtà si chiama Stefania, è Anita, come la
figlia di Garibaldi. Non viene mai fatto il nome di un
magistrato di Mani Pulite, né di un politico, neanche di
quello che viene a trovarlo nella sua villa, in un incontro
colmo di tristezza, rimpianti e qualche rancore.

Nella storia entra in scena anche un personaggio inventato,
Fausto, figlio di un collaboratore morto suicida in seguito
alle inchieste giudiziarie. Tutte scelte che sembrano
sottolineare la volontà del regista di prendere le distanze
dalla realtà storica dei fatti, che pure costituisce il
substrato su cui si basa il film, per concentrarsi sul punto
di vista dell’assoluto dominatore della scena, Craxi, assurto
quasi a metafora dell’uomo potente caduto nella polvere.

A Fausto l’ex segretario del PSI affida una sorta di
testamento spirituale, una discorso ripreso con una telecamera
a mano nel deserto tunisino, vicino al rottame di un vecchio
carro armato inglese, nel quale gli dice cose che non ha mai
detto a nessuno. E con quel prezioso tesoro multimediale, del
quale allo spettatore non è dato conoscere i contenuti, Fausto
sparisce nel nulla. Lo ritroveremo alla fine del film, in un
manicomio, dove consegnerà ad Anita il prezioso nastro,
esortandola a non farlo vedere a nessuno, perché altrimenti
qualcuno potrebbe fare del male all’Italia. Una neanche tanto
velata allusione a un possibile complotto internazionale che
avrebbe decretato la fine di Craxi.

Che, peraltro, in tutto il film non fa altro che auto-
giustificarsi e auto-assolversi, perché le tangenti le
prendevano tutti, perché la democrazia ha un costo, perché il
politico deve soddisfare tutti, perché la magistratura non può
comandare il parlamento, perché lui è veramente malato, perché
non c’è nessun tesoro nascosto ad Hammamet. Sarà, ma visto lo
stile di vita esibito e la quantità di guardie armate
schierate a sua difesa, lo spettatore può lecitamente
chiedersi chi ha pagato il suo esilio dorato.

Un altra domanda sorge spontanea: un giovane spettatore che
non ha vissuto i tempi di mani pulite, che idea si può fare di
quel tormentato periodo storico, guardando questa pellicola?
Anche perché è facile immedesimarsi in un vecchio malato,
Craxi, peraltro magistralmente interpretato da un
Pierfrancesco Savino in stato di grazia.

Hammamet: un film del quale verrà ricordato solo
la recitazione stellare di Pierfrancesco Favino
Gianni Amelio ha scelto di rappresentare l’esilio ad Hammamet
presentando solo il punto di vista di Craxi, dei suoi
familiari e della sua amante. Una decisione legittima, per
carità, ma di comodo, che toglie spessore al film, costretto
nel perimetro delle nostalgiche, e spesso rancorose,
riflessioni di un uomo ormai finito, debilitato da una
malattia terribile e ormai abbandonato da (quasi) tutti.

Una scelta analoga a quella fatta da Checco Zalone, con il suo
mediocre Tolo Tolo: mettere in scena un tema sul quale si può
avere un’ampia risonanza mediatica senza troppi sforzi, ma
senza avere il coraggio di andare fino in fondo, rifugiandosi
nel tradizionale buonismo italico. Se Checco Zalone sembra
strizzare l’occhio ai migranti, ma non troppo, perché poi
magari qualcuno può prenderla male, Gianni Amelio sembra dare
una pacca sulla spalla a un Craxi ormai finito, ma non troppo
vigorosa, mi raccomando, non si sa mai che qualcuno si
offenda. E poi ci si può sempre rifugiare dietro al fatto che
viene messa in scena una fiction, e quindi tutto è lecito o
comunque interpretabile.

Scelte analoghe che portano a risultati simili: pellicole di
scarso spessore, che magari ottengono successo al botteghino
ma che vengono dimenticate rapidamente. Tuttavia bisogna
ammettere che Hammamet ha una marcia in più: la performance
stellare di Pierfrancesco Favino. Anche grazie a un trucco che
ha richiesto ore di lavoro ogni giorno di recitazione, la sua
interpretazione di Bettino Craxi è eccezionale. Una luce
sfavillante in un film per il resto alquanto opaco.

Perché la narrazione è molto lenta e ondivaga, schiacciata
sulla figura di Craxi e sui suoi monologhi spesso
contraddittori, che verso la fine della pellicola, quando la
malattia inesorabilmente prende il sopravvento, deborda in una
dimensione onirica e quasi metafisica, dove orientarsi non è
facile. E che lascia molto poco allo spettatore che ha pagato
il biglietto.

A dimostrazione che forse in Italia i tempi non sono ancora
maturi per affrontare certi argomenti con serenità.

Metropolis, il capolavoro di
Fritz Lang che nel 1929 creò
un nuovo immaginario nel
cinema di fantascienza
Pochi   film   hanno   lasciato   un   impronta   così   profonda
nell’immaginario collettivo come Metropolis, del 1927, di
Fritz Lang. Una pellicola costata una cifra iperbolica in
quegli anni, che alla sua uscita costituì un fiasco
commerciale che mise a rischio bancarotta la UFA, compagnia di
produzione tedesca, destinata a diventare un organo della
propaganda nazista. Ma il tempo ha reso onore a questo
capolavoro del cinema.

La storia narrata è una distopia, che vede gli abitanti di
Metropolis suddivisi in due categorie: i ricchi, che vivono
una vita idilliaca rinchiusi nei loro maestosi palazzi, e i
poveri, destinati a spaccarsi la schiena nei sotterranei della
città, trascinandosi lungo un’esistenza miserevole.

Ma la stratificazione verticale della città del futuro è
ancora più articolata: il creatore di Metropolis, Joh
Fredersen, vive nell’edificio più alto e imponente dell’area
urbana, l’immaginifica New Tower of Babel, mentre, nelle
catacombe che si celano sotto la città dei lavoratori,
avvengono delle riunioni segrete, nelle quali una giovane
donna, Maria, esorta gli operai ad avere fede nella venuta di
un mediatore, destinato a porre rimedio alle differenze di
classe inumane esistenti nella città.

  La città dei ricchi (a destra), sulla quale svetta la New
  Tower of Babel, e la città dei lavoratori (a sinistra)

Il figlio di Joh, Freder, rimane affascinato dalla figura di
Maria, che ha l’ardire di fargli vedere le miserevoli
condizioni dei bambini poveri, da lei portati negli
immaginifici Eternal Gardens, dove il rampollo del creatore di
Metropolis vive una vita dorata, in una sorta di harem
ipertecnologico.

Ma Joh Fredersen sorveglia suo figlio, e quando si rende conto
che esiste un pericolo per l’ordine costituito, non esita a
rivolgersi a Rotwang, figura e metà strada tra l’alchimista e
lo scienziato, chiedendogli di dare le sembianze di Maria e un
robot da lui costruito, per incitare i lavoratori alla rivolta
e giustificare in tal modo la loro repressione.

Le cose vanno in modo diverso da quanto calcolato dal padre,
perché i lavoratori, distruggendo le macchine che li rendevano
schiavi, provocano l’inondazione dei sotterranei e la
distruzione della principale centrale energetica della città,
mettendo a repentaglio l’esistenza della stessa Metropolis.

Alla fine ci sarà una riconciliazione tra Joh e i lavoratori,
nella cattedrale della città, che vede suo figlio Freder nel
ruolo di mediatore. Nel film vengono mescolate simbologie
religiose e esoteriche, che convivono in un’ambientazione
futuristica.

Rotwang: un nuovo immaginario per la scienza e lo
scienziato
Il personaggio di Rotwang è particolarmente interessante,
perché portatore di una nuova iconografia della scienza,
destinata ad avere un duraturo impatto nel cinema di
fantascienza successivo al capolavoro di Lang. Al di là
dell’acconciatura scapigliata, destinata a caratterizzare la
figura di innumerevoli scienziati nei decenni successivi, esso
personifica il prototipo del mad doctor, che mette il suo
sapere al servizio del potere e dei propri capricci personali.

                Lo scienziato Rotwang

La sua casa-laboratorio è l’unica in Metropolis a non essere
in stile moderno o futuribile. Sembra quasi un relitto di un
passato ormai dimenticato. Si tratta di un piccolo edificio
isolato, dal tetto spiovente, privo di finestre, la cui porta
di ingresso è marchiata con la stella a cinque punte. Nel
laboratorio, pieno di macchine dal funzionamento misterioso,
c’è il robot creato dal genio di Rotwang, inizialmente
progettato per dare una nuova vita a Hem, avvenente donna di
cui lo scienziato è innamorato, ma che è morta nel dare alla
luce il figlio di Joh.

Ma nei sotterranei della casa si nasconde anche un accesso
segreto alle catacombe della città. In pratica la casa di
Rotwang è una sorta di elemento di congiunzione tra il mondo
ipertecnologico di Metropolis e la religiosità che ancora è
ben viva nel sottosuolo, sia pure in modo non percepibile dai
palazzi dei ricchi.
La  casa-laboratorio      di
                 Rotwang

Rotwang stesso è una figura ambigua, nella quale la convivenza
tra scienza ed esoterismo trova la sua massima espressione nel
film. È capace di costruire un robot utilizzando macchinari
dal funzionamento incomprensibile, ma la sua dimora è piena di
simboli esoterici. Non indossa un camice bianco, segno
distintivo degli scienziati dagli anni trenta in poi, ma, come
il successivo dott. Frankeinstein, ha un aiutante deforme.

Lo scienziato ha una mano finta, e si vanta di averla persa
nel tentativo di creare l’uomo artificiale, il lavoratore del
futuro. Quella della disabilità dello scienziato è un tema che
ritornerà spesso nel cinema. Basta pensare a Serizawa nel
primo Godzilla, del 1954, al dottor Stranamore del capolavoro
di Kubrick, del 1964, o al Dr. Everett Scott in The Rocky
Horror Picture Show, del 1975.

Disabilità che può essere vista come un problema nel gestire
la conoscenza, e la responsabilità che da essa deriva. Ma è
forse la separazione della scienza dal corpo sociale nel quale
dovrebbe operare che costituisce l’origine del male. La casa-
laboratorio di Rotwang è infatti senza finestre, e lo stesso
inventore intima a Joh di lasciarlo solo, quando deve dare al
suo robot le sembianze di Maria.

Il mad doctor realizza le sue creazioni mostruose chiuso nella
solitudine del suo laboratorio, lontano dalle istituzioni che
dovrebbero porre un freno alla sua attività. Lo stesso schema
verrà ripetuto in innumerevoli film successivi a questa
pellicola. Basta pensare a quanto accede in Frankenstein, di
James Whale, del 1931, o al molto più recente Dr. Brenner,
della serie Stranger Things, ormai diventata un cult. La
scienza è positiva quando è al servizio della società, ma
quando si isola, o lavora nell’ombra, genera mostri, che in
genere si rivoltano contro il loro creatore.

Uno dei robot più famosi nella storia del cinema
Anche se molti sostengono che quello presente in Metropolis
sia il primo robot nella storia del cinema, in realtà ci sono
dei precedenti. Il primo è nel cortometraggio Gugusse et
l’Automaton, purtroppo andato perduto, prodotto e diretto nel
lontano 1897 da Gergoes Méliès, da molti ritenuto essere il
vero padre della fantascienza cinematografica.

                Il robot tra Joh Fredersen
                (a destra) e Rotwang, il suo
                creatore (a sinistra)

Nel 1921 viene poi girato L’uomo Meccanico, scritto, diretto e
interpretato dal comico francese André Deed, meglio noto come
Cretinetti. Oltre a essere uno dei primi film di fantascienza
a essere stato girato in Italia, è il primo conosciuto dove si
scontrano un robot buono e uno cattivo. Di questa pellicola
esiste solo una versione di 26 minuti, restaurata nel 1992
dalla Cineteca di Bologna.
Mentre questi due precedenti hanno lasciato poche tracce di
sé, molto più duratura è l’impronta lasciata dalla creatura di
Rotwang nel cinema di fantascienza contemporaneo. Basti
pensare che la struttura fisica del celebre robot C-3PO (D-3BO
nella versione italiana), personaggio dell’universo
fantascientifico di Star Wars, è chiaramente ispirata alla
creatura di Metropolis. Un robot che è stato presente in tutti
gli episodi della saga di Guerre Stellari, dal primo fino
all’ultimo, mediocre, Star Wars: l’ascesa si Skywalker,
mantenendo viva nell’immaginario collettivo un’immagine che
proviene dagli anni Venti. Potere del cinema.

                   C-3PO di Star Wars e il
                   robot di Metropolis

In generale, nella fantascienza, esistono due strade tramite
le quali l’uomo cerca di duplicare sé stesso o di creare nuova
vita: quella meccanica e quella biologica. Il robot di
Metropolis è l’antesignano più famoso della prima via, mentre
quello più celebre della seconda è la creatura del dott.
Frankenstein. Entrambe le strade portano al baratro, quando
vengono percorse in solitudine dallo scienziato, che si isola
dalla società al cui servizio dovrebbe invece operare.

Qualunque sia la via scelta, bisogna sottolineare come la
fantascienza sia di fatto un espediente narrativo per rendere
giustificabile l’accadimento di fatti che la scienza ufficiale
considera impossibili. Da questo punto di vista la
fantascienza è alla fin fine un tipo di magia, tollerabile
dall’uomo moderno. Un trucco che rende possibile la
sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore, che,
davanti all’esposizione di qualche oscuro macchinario, decide
di credere, almeno per la durata del film, che quanto sta
vedendo sia verosimile.

In Metropolis, Rotwang conserva dei caratteri riconducibili al
mondo magico-esoterico. Gli scienziati che lo seguiranno
tenderanno a perdere questa componente, come accade solo
quattro anni dopo nell’ormai mitico Frankeinstein di James
Whale, del 1931, dove lo studioso indossa un impeccabile
camice bianco, muovendosi in un laboratorio che molto deve
all’immaginario creato da Metropolis.

Ma, in fondo, gli scienziati del cinema di fantascienza
rimarranno sempre degli apprendisti stregoni e, se il film è
fatto bene, rimarrà sempre un piacere perdersi nella
narrazione, non importa quanto inverosimile possa sembrare la
storia al di fuori della sala cinematografica. Magie del
cinema!

Tolo Tolo: recensione                                  del
film di Checco Zalone
Tolo Tolo, di Checco Zalone, poco o niente ha a che fare con
la canzone Immigrato, creata per il trailer della pellicola,
che aveva suscitato accese polemiche prima della sua uscita.
Il contestato brano non fa neanche parte della colonna sonora.
Il film in ogni caso non risparmia battute per nessuno e non
può certo essere tacciato di essere razzista.

Il trailer è stato di fatto una riuscita mossa pubblicitaria,
in quanto ha contribuito ad aumentare l’interesse per questa
pellicola, stuzzicando la pancia degli italiani su temi molto
sentiti e controversi, come quelli dell’immigrazione e
dell’accoglienza, che in ogni caso accomunano trailer e film.

Probabilmente non ci sarebbe stato nessun bisogno di questo
escamotage, visto l’enorme successo commerciale dell’ultimo
lavoro di Checco Zalone, Quo Vado?, campione di incassi in
Italia, e la grande popolarità del suo protagonista, per la
prima volta impegnato anche nel ruolo di regista. Questo suo
quinto film sarà senz’altro un successo commerciale.

Tolo Tolo: l’obiettivo dell’ironia è l’italiano
medio
Il bersaglio principale della comicità di Checco Zalone rimane
l’italiano medio, non più nella forma di amante del posto
fisso e dell’eterna permanenza nella casa dei genitori, come
era nel precedente Quo Vado?, ma nella veste dell’improvvisato
imprenditore in cerca di facile successo.

Ovviamente il fallimento dell’impresa è assicurato, vista
anche l’assurdità dell’idea di aprire un sushi bar in un
paesino pugliese. Di qui la necessità di scappare dai
creditori e dai parenti, che hanno ipotecato i propri averi
per finanziare l’apertura del locale, che ben volentieri
vorrebbero lo scalpo del protagonista.

Questi fugge in Africa, a lavorare in un villaggio turistico,
ma si trova ben presto costretto a scappare di nuovo, viste le
devastazioni portate da bande di guerriglieri che spargono
morte e distruzione. La nuova terra promessa è il piccolo ma
ricco Liechtenstein, dove il segreto bancario dovrebbe
garantire il silenzio sul suo passato di imprenditore fallito.
La via di accesso all’Europa è ovviamente l’Italia, tramite un
viaggio su una precaria imbarcazione in partenza dalla Libia.
Anche in questo caso i suoi progetti falliranno, in quanto si
ritroverà costretto ad affrontare i suoi parenti e a rimanere
in Italia, contro la sua volontà.

Il protagonista incarna l’italiano medio, avido di successo ma
restio nell’impegnarsi seriamente per raggiungerlo, amante dei
suoi piccoli agi e pronto a difendere il suo orticello a tutti
i costi, indifferente alle sofferenze altrui e incapace di
comprendere i punti di vista diversi dai suoi. Un individuo
meschinamente egoista, cafone, ipocrita e amante dei soldi
facili. Una persona intrinsecamente fragile, che nei momenti
di stress subisce degli attacchi di fascismo che, come gli
viene spiegato da un migrante suo compagno di viaggio, è
dentro tutte le persone ed è pronto a emergere nei momenti di
crisi, come la Candida.

Ma il protagonista irride anche gli stereotipi di certa
sinistra, incarnati dal giornalista francese di successo, che
ha visto i poveri di tutto il mondo, ma che biasima i veri
poveri, che a suo dire sono quelli che hanno solo i soldi. E
che non esiterà ad abbandonare al loro destino i suoi compagni
di viaggio, versando una ipocrita lacrimuccia di circostanza.
Anche il cameo di Nichi Vendola è una aperta presa per i
fondelli dell’incomprensibile    linguaggio   usato   da   certi
personaggi pubblici.

Checco Zalone infatti irride la classe politica nostrana,
dipinta come fondamentalmente inetta ma capace di carriere
incredibili, con le quali il merito ha poco a che fare. Da
questo punto di vista il suo atteggiamento è bipartisan.

La prima regia di Checco Zalone
Con Tolo Tolo, Checco Zalone affronta per la prima volta la
regia. E si vede. La storia è molto fragile, di fatto è una
successione di siparietti comici, con un ritmo mutevole e
contaminazioni del genere musical e utilizza anche cartoni
animati, che formano un insieme alquanto disomogeneo. Checco
Zalone dal punto di vista attoriale primeggia, anche perché è
circondato da personaggi di scarso spessore e spesso
stereotipati.

L’immagine che viene data dell’Africa è quella dei quadri
delle cartoline, nella quale anche i terroristi, tutto
sommato, sembrano fare parte del paesaggio e non fanno poi
così paura. Nel film il mito italiani brava gente sembra
essere sostituito dall’omologo, e altrettanto opinabile,
africani brava gente. Gli autoctoni sono sempre felici e
sorridenti, al massimo si accigliano quando il loro villaggio
sta per essere raso al suolo dal gruppo armato di turno o
esplode una bomba nella casa del vicino.

Forse alcune situazioni andavano trattate con maggiore cautela
e tatto. Certo stiamo parlando di una commedia, ma i temi
trattati sono molto impegnativi e il registro del film è
mutevole, per cui in alcuni momenti il regista sembra
strizzare l’occhio alle sofferenze della gente, mentre in
altri se ne fa beffe, rischiando di urtare la sensibilità di
qualcuno. Il pericolo maggiore è di lasciare lo spettatore
disorientato, perso in una narrazione ondivaga e scarsamente
leggibile. Dove spesso si sorride, è vero, ma si fa fatica a
ridere di gusto.

Checco Zalone per larga parte del film si muove nel campo
minato di temi molto dibattuti e divisivi, come le migrazioni,
l’accoglienza, le missioni di pace internazionali e il
terrorismo. Temi sui quali il dibattito politico è
incandescente. Una scelta che, se da un lato garantisce alla
pellicola una grande visibilità, come dimostrato dalla
risonanza mediatica ottenuta dal trailer, dall’altro rischia
di creare aspettative divergenti nel pubblico.

Contrariamente a quanto avrebbe lasciato supporre la canzone
Immigrato, lo sforzo del regista di rimanere equidistante è
percepibile lungo buona parte del film, e, anche se alla fine
il piatto della bilancia sembra pendere verso i migranti, il
tentativo di rifugiarsi dietro a una satira generica per non
colpire nessuno rischia di scontentare tutti. Una scelta che
ha comunque fatto perdere mordente alla comicità del prodotto.

Chissà, forse Checco Zalone avrebbe fatto meglio a tenersi
alla larga da certi temi. Perché parlare di problemi carichi
di implicazioni politiche cercando di rimanere equidistanti è
da ingenui. O forse da furbi, pronti a cavalcare il tema più
controverso per ottenere il massimo dell’esposizione
mediatica, senza però poi prendere una posizione netta. Ma in
fin dei conti anche questo è un tipico atteggiamento
dell’italiano medio, tanto preso per i fondelli da Checco
Zalone nelle sue pellicole, strizzando l’occhio ad Alberto
Sordi.

In ogni caso questa pellicola sarà un clamoroso successo al
botteghino, visto che il suo protagonista è attualmente sulla
cresta dell’onda. Ci rimarrà a lungo? Staremo a vedere, in
attesa del suo sesto, inevitabile, film.

Star   Wars:   l’ascesa    di
Skywalker – recensione con
spoiler dell’ultimo episodio
di una saga ormai avvolta dal
mito
Che dire. Fare meglio del precedente, meno che mediocre, Gli
Ultimi Jedi non sarebbe stato difficile, ma J. J. Abrams
doveva chiudere l’intera saga di Star Wars. Confrontarsi con
un mito è un compito improbo. Tra l’altro, vista la quantità
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