Un #metoo calabrese? La voce delle ragazze e il rischio di essere invisibili 2

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Un #metoo calabrese? La voce delle ragazze e il rischio di essere invisibili 2
Un #metoo calabrese? La voce
delle ragazze e il rischio di essere
invisibili 2
written by Francesca Pignataro
Leggi la prima parte qui

Proseguiamo la conversazione con Roberta Attanasio del Centro antiviolenza
Roberta Lazino sulla vicenda delle molestie subite da alcune studentesse
dell’Istituto di istruzione superiore Valentini-Majorana di Castrolibero, alle porte
di Cosenza da un docente. «Il centro è stato vicino fin da subito ai ragazzi e alle
ragazze. Abbiamo offerto uno spazio d’ascolto presso la nostra sede e ci siamo
resi sempre disponibili. L’abbiamo fatto perché ci siamo rese conto che questo era
un fenomeno tanto antico nelle scuole, ma era diversa questa reazione di massa,
tra l’altro anche da parte dei ragazzi. Era un’intera scuola che si stava ribellando
contro       questa     situazione       e   contro      questo       professore.

Ci hanno chiesto di intervenire in assemblea in apertura. Una volta presa la
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parola, è scesa la preside per comunicare che la cosa sarebbe andata avanti per
vie ufficiali, nonostante fino a quel momento non si fosse svolto nessun consiglio
dei docenti e non ci fosse stata nessuna ispezione del consiglio scolastico
regionale. Dopodiché se n’è andata.».

Ci si potrebbe aspettare che, a questo punto, che le studentesse abbiano iniziato a
rivolgersi al centro sia per sé stesse sia per organizzare delle attività durante
l’occupazione eppure, anche in questo caso, la realtà tradisce le nostre
aspettative. «Non si è presentata assolutamente nessuna. Noi abbiamo dato un
tempo fisiologico perché al momento erano impegnate con l’occupazione. Non lo
so perché non lo abbiano fatto, noi siamo abituate alle donne che hanno subito
una violenza e te ne parlano, poi possono tornare anche dopo tre o quattro anni
perché non sempre una donna è pronta a parlare della violenza subita. Anche a
distanza di tanto tempo, può uscire la vera consapevolezza. Quindi, secondo me,
le ragazze si sono sentite minacciate da questo atteggiamento del professore, ma
non so fino a che punto siano consapevoli di essere state delle vittime e non delle
complici, perché l’atteggiamento di queste persone tende a far sentire la vittima
una complice. La mia preoccupazione è questa: non so fino a che punto sia
arrivato questo processo di consapevolezza.».

Ha senso preoccuparsi del percorso di consapevolezza tra le studentesse? Questa
storia è stata presentata come una grande lezione di democrazia che i ragazzi
hanno dato agli adulti, per il fatto che i ragazzi di oggi sono sensibili a certi temi
sociali. Quindi che cosa non mi quadrava?

Ho chiesto perché, nonostante la denuncia di Dalia risalisse al 2018, la scuola
avesse reagito quattro anni dopo: «Quando questa ragazza era a scuola c’era un
pregiudizio su di lei e molte persone avevano difficoltà a credere che potesse aver
subito una violenza fisica e verbale. Su questo abbiamo sbagliato tutti».

L’occupazione dovrebbe essere la prova che quell’ambiente tossico, cui si fa
riferimento, non trova più spazio tra i ragazzi e ragazze, grazie a Dalia che per
prima ha abbattuto il muro del silenzio. L’inizio di questa storia sembrava pieno di
promesse, finalmente il tema degli abusi sessuali nelle scuole avrebbe potuto
essere il centro del dibattito pubblico e le ragazze avrebbero potuto costruire
assieme ai propri compagni e col corpo docente un ambiente sicuro e capace di
ascoltare le loro voci. Muovendosi tra gli studenti l’entusiasmo si è
ridimensionato.
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A diventare leader dell’occupazione e della protesta è stato un ragazzo, Fausto, e
non può che renderci felici sapere che anche i giovani uomini sono sensibili ai
temi delle molestie subite dalle donne; tuttavia, è innegabile il senso di amarezza.
Sembra che si riproponga un cliché davanti ai nostri occhi: le donne raccontano le
loro storie private intrise di disagio, mentre gli uomini le rappresentano
pubblicamente diventandone i portavoce e i protagonisti del momento di
contestazione politica. Durante la manifestazione di venerdì 18 ottobre la
sensazione sul protagonismo maschile è diventata addirittura più insistente: i
primi a prendere la parola durante il corteo sono stati dei ragazzi che si
scagliavano contro gli abusi subiti dagli studenti. Gli studenti, rigorosamente al
maschile. Quando qualcuno fa notare che esistono anche le ragazze, ricordiamo
che delle molestie di cui si parla nella scuola hanno coinvolto in prima persona
solo delle studentesse, e allora ci si sveglia per un attimo e si includono nel
discorso anche le ragazze, almeno per un po’.

A questo si somma l’ampliamento della lotta. Ci raccontano infatti che dalle
molestie ci si è spostati verso qualcosa di più grande che riguarda i problemi
strutturali della scuola. Si parla di alternanza scuola lavoro, di deriva manageriale
delle scuole. Ma qual è il rischio? Essendo la prima volta che si occupa di molestie
e abusi sessuali, il pericolo è quello di lasciarsi sfuggire l’opportunità di affrontare
a pieno questo tema. Scegliere di manifestare venerdì, giorno in cui è stato
indetto uno sciopero studntesco nazionale contro l’alternativa scuola-lavoro, ha
innegabilmente contribuito a ridurre l’attenzione verso il grande tema delle
molestie.

Che cos’è una molestia sessuale? Certo, come spiega qualcuno vivere una
molestia è un’esperienza dolorosa che fa male e crea disagio, ma qual è la
differenza tra bullismo e molestie? Entrambi i fenomeni generano dolore, ma non
sono la stessa cosa. Come si riconosce una molestia? Come si interviene? Cosa
possono fare le studentesse, gli studenti, il corpo docente e la dirigenza? Quali
sono le differenze tra subire una molestia in strada ed essere molestata da un
proprio docente, magari una figura carismatica in una posizione di potere
gerarchicamente superiore alla nostra? Quali sono gli effetti che questo ambiente
tossico ha sulle ragazze e quali effetti ha sui ragazzi? A chi rivolgersi in caso di
molestie a scuola? E perché rivolgersi direttamente alla preside e non cercare
prima un contatto con le professoresse o i professori più vicini e, magari, più
disponibili all’ascolto?
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Questi temi avrebbero potuto essere sviscerati durante le due settimane di
occupazione, si sarebbe potuto pensare a dei gruppi autogestiti o a degli incontri.
La sensazione è che sia mancato il tempo per riflettere su cosa fare, su come
organizzarsi, oltre il gesto di protesta. Facciamo un esempio concreto: durante il
corteo studentesco una parte dei presenti invitava le vittime a denunciare le
molestie e gli abusi, mentre un’altra parte contestava la polizia e lo strumento
della denuncia. Che fare? Denunciare o no? Come decidere a chi rivolgersi per
capire come muoversi?

Ci aiuta a riflettere la delegata del centro antiviolenza Roberta Lanzino: «Puoi
andare dalla psicologa a parlare, però se hai bisogno di una consulenza devi
chiedere il permesso ai genitori e quindi, per forza, devi dire in famiglia quello
che succede. Magari vorresti parlare con qualcuno senza coinvolgere
immediatamente la famiglia. Com’è che questi ragazzi ne possono parlare?
Quando interveniamo nelle scuole ci rendiamo conto che raccontiamo molte più
cose di quelle previste: relazione tra i generi, il rispetto e la cura. Cerchiamo
inoltre di non fare una lezione, perché le ragazze e i ragazzi hanno una voglia di
parlare pazzesca. Comunicano, esprimono il loro disagio e se hanno dall’altra
parte una persona pronta, parlano tantissimo e vorrebbero ripetere l’esperienza
perché sentono come un vuoto. Da una parte una scuola che spinge solo a finire i
programmi, dall’altro una famiglia che non parla ai ragazzi di sesso. Abbiamo
bisogno di corsi di educazione sessuale a scuola».

Nella scorsa settimana Fausto prometteva che non si sarebbe tornati in aula
finché il patto educativo tra studenti e docenti e tra scuola e genitori non fosse
stato sanato, ma lunedì si è ufficialmente rientrati in classe. Cosa è cambiato
rispetto al 3 febbraio? Il ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi, ha inviato degli
ispettori per chiarire la situazione; la preside Maletta alla fine ha fatto un passo
indietro e si è in attesa di un preside o una preside reggente per arrivare alla fine
dell’anno scolastico; il professore accusato è stato iscritto nel registro degli
indagati della Procura di Cosenza.

Si è in attesa che la verità giudiziaria sia ricostruita, ma cosa è cambiato per le
studentesse che lunedì’ sono rientrate in aula? Cosa è cambiato in termini di
consapevolezza per le ragazze e cosa in termini di sicurezza? E cosa è cambiato
per i ragazzi che in quell’ambiente tossico hanno rischiato di normalizzare
l’atteggiamento abusivo di un uomo in una posizione di potere? Una parte degli
studenti ha giustificato il professore, altri deridevano le ragazze impegnate a
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parlare di femminismo e lotta al patriarcato durante la manifestazione, buona
parte degli studenti del biennio non ha preso parte all’occupazione. La
sostituzione di una preside delegittimata e sulla quale gravano delle accuse e
delle responsabilità grandissime è stata indispensabile, ma basta cambiare la
persona al vertice di una scuola per purificare un ambiente tossico?

Leggi qui la prima parte

La guerra è anche guerra alle
donne
written by Francesca Pignataro
Gli stereotipi sono parte di noi, sono uno strumento cognitivo che ci aiuta a
semplificare la complessità del reale per provare a capire qualcosa di distante da
noi e che non sperimentiamo direttamente. Per chi vive in Europa anche la guerra
si è trasformata in uno stereotipo: la si studia a scuola, magari anche in
università; si sente parlare delle sue atrocità durante gli anniversari o le giornate
della memoria; si sentono le notizie di guerre combattute in qualche paese di cui
forse si ignora la precisa collocazione geografica. Siamo cresciuti percependo alla
guerra come a qualcosa di temporalmente o fisicamente lontano e abbiamo
imparato a conoscerla attraverso i libri di storia o i giornali e i telegiornali.
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Ma chi racconta la storia
                                                        dimentica spesso una parte
                                                        della popolazione, le donne.
                                                        Come ricorda Simone de
                                                        Beauvoir ne “Il secondo
                                                        sesso”, le donne sono state
                                                        una presenza-assenza: sono
                                                        una presenza reale assente
                                                        nella storia scritta dagli
                                                        uomini tenendo conto solo del
                                                        genere maschile. Il racconto
                                                        della storia è influenzato da
un bias di genere, che investe anche il modo in cui si immagina la guerra. Nello
stereotipo condiviso, la guerra è combattuta dagli uomini e sono loro a morire al
fronte mentre il resto della popolazione civile è al sicuro.
Ma ora che sentiamo la guerra vicina, ora che torniamo ad aver paura per noi
stessi, ricordiamo quanto la guerra possa essere sporca e quanto la devastazione
che porta con sé non risparmi i civili.

Il lavoro di Amnesty International testimonia come nelle zone di conflitto e di
guerra aumentino le violazioni del diritto umanitario internazionale e ad esser
maggiormente colpite sono le fasce più vulnerabili della popolazione: donne,
minori, persone disabili e persone azione. In particolare, le donne durante i
conflitti sono state sistematicamente sottoposte a violenze e abusi sessuali e lo
stupro di massa è stato utilizzato come arma di guerra e strumento di terrore
verso la popolazione.

La giornalista Susan Brownmiller, nel saggio “Against Our Will: Men, Women and
Rape”, illustra come lo stupro sia usato come strumento di offesa sistematico sia a
livello che individuale che collettivo. Nel caso dei singoli stupri, gli uomini
ricorrono alla violenza sessuale per punire le donne che trasgrediscono l’ordine
maschile e quindi è un mezzo attraverso il quale far vivere le donne in uno stato
di paura perenne e sottometterle. Con gli stupri di massa, durante le guerre, la
violenza sessuale contro le donne diventa un’arma per intimidire l’intera
popolazione e diminuirne la capacità di reazione. Lo stupro, in questi casi, celebra
la conquista di un territorio da parte di una forza militare: l’abuso della donna,
l’invasione del suo corpo, diventano simboli della conquista militare di un
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territorio e della sottomissione della popolazione civile. Gli effetti di uno stupro
sono sempre devastanti per la vittima che lo subisce, passando dai danni fisici ai
traumi psicologici. Lo stupro come strumento di guerra, tuttavia, presenta delle
peculiarità: in seguito ad uno stupro, la vittima può contrarre delle malattie
sessualmente trasmissibili o restare incinta, ma in zone di conflitto è quasi
impossibile riuscire ad accedere a delle cure mediche adeguate o ricorrere ad un
aborto sicuro, inoltre le vittime di stupro di guerra rischiano di essere
stigmatizzate e allontanate dalla famiglia. Restare incinte a causa di un saldato
nemico significa, nell’ottica di guerra, partorire un nemico. Gli stupri di guerra,
inoltre, sono spesso stupri di gruppo e la vittima spesso viene abusata anche
mediante oggetti come, per esempio, le canne dei fucili.

Gli esempi sono molteplici, basta guardare alla storia recente: lo stupro delle
donne di Bengali negli anni ’70 da parte dei soldati pakistani; lo stupro delle
donne vietnamite da parte dei militari americani durante la guerra in Vietnam;
negli anni ’90 in in El Salvador, Guatemala, Liberia, Kuwait, ma anche in
Afganistan, in Somalia, in Palestina, come in Libano, Haiti, Sudan, Zambia nonché
a Timor fino ad arrivare alle atrocità commesse nel corso dei conflitti che hanno
interessato l’area balcanica il Ruanda.
Particolarmente importante fu la Risoluzione 780 del Consiglio di Sicurezza ONU,
per indagare le violazioni dei diritti umani durante le guerre jugoslave e, in
special modo, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina. Dal lavoro della
commissione emerse che erano avvenute gravi violazioni e si pose all’attenzione
come i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio siano
strutturalmente collegati alle violenze contro le donne. La Commissione condusse
un’indagine senza precedenti sugli stupri e le violenze sessuali subite dalla
popolazione civile e raccolse i dati intervistando 223 donne bosniache rifugiate in
Croazia, Slovenia e Austria. Da questo lavoro emersero diverse tipologie di
violenza sessuale compiute durante i conflitti: le violenze sessuali compiute prima
dello scoppio del conflitto, durante lo scontro, nei campi prigionia, presso i rape-
camps – ossia campi costruiti durante la guerra in Bosnia in cui si portavano
soggetti per essere ripetutamente stuprati – e, infine, violenze dopo la fine del
conflitto per l’intrattenimento dei soldati.

Con lo scoppio della guerra in Ucraina, dopo l’invasione del paese da parte della
Russia di Putin, a preoccuparci sono le donne ucraine. Già sul finire del 2020
Amnesty International denunciava un aumento dei casi di violenza sulle donne
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nelle zone di Donetsk e Luhansk. L’ONG iniziò a rilevare tale incremento fin dal
periodo 2017-2018, anni in cui il territorio caratterizzato dalla presenza di
separatisti russi fu travolto da una grave crisi economica. Le tensioni tra
filoucraini e filorussi favorirono, inoltre, la possibilità di reperire armi e il conflitto
fra le parti continuò a crescere. Questo, per le donne, si tradusse in un aumento
dei casi di violenza sessuale e domestica da parte degli uomini ucraini di entrambi
gli schieramenti. Gli abusi si consumavano sia tra le mura di casa, laddove
crescono le tensioni economiche e sociali il rischio è che gli uomini le riversioni
sulle donne della propria famiglia, che fuori ai danni delle civili da parte dei
militari.
Oggi la situazione sembra precipitare e a denunciare l’escalation di violenza è il
governo ucraino, che invocando l’intervento e l’aiuto della NATO. Anche i gruppi
di femministe russe, però, sono intervenute fermamente chiedendo al governo del
proprio paese di fermarsi.

Il   messaggio       delle    femministe,        accompagnato          dagli    hashtag
#FeministAntiWarResistance e #FeministsAgainstWar, è chiaro: “guerra significa
violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza e mancanza di
futuro. È inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali del movimento
femminista. La guerra esacerba la disuguaglianza di genere e ritarda di molti anni
le conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle
bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale: come dimostra la storia,
durante la guerra il rischio di essere violentata aumenta più volte per qualsiasi
donna. Per questi e molti altri motivi, le femministe russe e coloro che
condividono i valori femministi devono prendere una posizione forte contro questa
guerra scatenata dalla leadership del nostro Paese”.

Un #metoo calabrese? La voce
Un #metoo calabrese? La voce delle ragazze e il rischio di essere invisibili 2
delle ragazze e il rischio di essere
invisibili 1
written by Francesca Pignataro
Parte I «A Cosenza avevo un fidanzatino che io trovavo veramente troppo carino e
me ne innamorai subito. Lui mi chiese “Riprendiamoci” e io dissi di si. Perché no?
Ma poi gli dissi “Cancella questo video” e lui disse che lo avrebbe fatto, ma non lo
fece mai e nel giro di due anni sono finita sui telefoni di tutta Cosenza, di tutta la
Calabria ed è diventato un caso internazionale finendo su un gruppo Telegram di
revenge porn con 77mila iscritti. Sapete cosa mi disse la Maletta quando andai a
denunciare la questione, quando le andrai a dire che sarebbero arrivati i poliziotti
a scuola per poter interrogare le persone? Che me l’ero cercata, che era colpa
mia, era tutta colpa mia, che mia nonna – che io non ho mai conosciuto – si
sarebbe vergognata di me. Quando poi iniziai a fare attivismo, iniziai a raccontare
quello che lei mi aveva detto e che mi aveva detto di fronte a mio padre e lei iniziò
a dire che erano illazioni e che sparavo cazzate. Allora, in quel momento, nel
gennaio del 2022 mi sono tornate in testa tutte le cose che lei ha sempre
nascosto: tutte le volte che le ho raccontato del bullismo, tutte le volte che le ho
raccontato degli abusi che vivevamo in classe, soprattutto noi ragazze, e di quanto
lei minimizzava, di quanto lei diceva che non sapevamo prendere gli scherzi
perché eravamo piccole, che il professore in questione non avrebbe mai fatto
niente del genere. Cara Maletta, io mi ricordo tutto. Mi ricordo le mani su di me,
me lo ricordo che mi chiamava panterona e polpettina. Mi ricordo tutte le battute
sul mio culo e sulle mie tette, mi ricordo tutto perché gli abusi non si lavano via. È
dai nostri ricordi che è nato la pagina Instagram Call.out Noi non finiamo fino a
quando non ci sarà riconosciuto che ci sono delle realtà così tristemente radicate
che è anche difficile riconoscerle. Io le violenze le ho riconosciute dopo quattro
anni, perché pensavo fosse normale che un professore mi toccasse, che mi dicesse
che voleva farsi due botte con me, eppure non è normale e siamo qui a gridarlo a
gran voce».

In queste righe risuona la voce di Dalia, un’ex studentessa dell’Istituto di
istruzione superiore Valentini-Majorana di Castrolibero, alle porte di Cosenza.
Dalia, attivista femminista e creatrice del podcast Fai la signorina, è stata la
prima a denunciare pubblicamente le molestie di uno dei professori del suo liceo
e, grazie alla sua testimonianza, si è innescato un effetto domino che ha reso la
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scuola protagonista di una vera e propria vicenda mediatica. Questa storia, però,
inizia nel 2018, quando il video intimo condiviso senza il consenso di Dalia iniziò a
circolare anche all’interno del Valentini-Majorana. La reazione generale degli
studenti, dei professori e della presidenza non fu quella di garantire supporto a
Dalia, vittima a tutti gli effetti di una violenza, ma la ragazza fu colpevolizzata per
l’accaduto e fu vittima di battute sessiste e accuse per via del suo comportamento
sessuale. Dalia in quell’anno sporse denuncia, ma non esisteva ancora il Codice
Rosso che nel 2019 introdusse nell’ordinamento italiano il reato di revenge porn,
e l’iter legale fu lento proprio perché quando lei denunciò non esisteva un reato
specifico cui far riferimento. Il tempo passa, Dalia cresce e prosegue il suo
percorso da attivista femminista fino a quando, nel dicembre del 2021, decide di
condividere la sua storia in uno degli episodi del suo podcast e da quel giorno la
storia accelera. La storia di Dalia comincia ad esser raccontata da varie testate
giornalistiche e da allora inizia a ricevere messaggi da altre studentesse del suo
ex liceo, che le scrivono per condividere con lei le loro storie di molestie subite tra
i banchi di scuola. Dall’insieme di tutte quelle storie nasce l’esigenza di creare la
pagina Instagram @call.out.valentini.majorana, un posto sicuro in cui poter
condividere le proprie esperienze di molestia all’interno della scuola.

Chi dice che il virtuale non sia reale, come se il web rappresentasse una realtà
parallela e alternativa rispetto al mondo offline, mente e questa storia ne è la
prova: la pagina Instagram, che pubblica il suo primo post il 29 gennaio
chiedendo di liberare la scuola dai pedofili, nasce per lasciar spazio alle
testimonianze delle ragazze che offline non se la sentivano di esporsi, magari per
vergogna o per paura del giudizio altrui; dalle testimonianze social fiorisce la
consapevolezza collettiva di star vivendo un’ingiustizia e una violenza e da qui un
movimento attraversa la scuola e gli sfoghi su una pagina Instagram si
trasformano nell’occupazione di un istituto. Il 3 febbraio le studentesse e gli
studenti hanno dato il via a un’occupazione con delle finalità precise: allontanare
il professore accusato di molestie e fare in modo che la scuola potesse tornare ad
essere un luogo sicuro.
È il primo caso in Italia di
                                                    un’occupazione studentesca
                                                    portata avanti in segno di
                                                    denuncia e protesta verso delle
                                                    molestie subite da alcune
                                                    studentessa per mano di un
                                                    docente. Lo scenario ideale
                                                    sarebbe stato uno e uno
                                                    soltanto: la preside della
                                                    scuola, Iolanda Maletta,
                                                    avrebbe potuto accogliere le
testimonianze delle sue studentesse e richiedere alle autorità competenti di far
chiarezza e, nel frattempo, allontanare il docente. La realtà, tuttavia, contraddice
spesso i nostri desideri e la faccenda è proseguita con sviluppi ben diversi:
Maletta ha sporto denuncia contro la pagina Instagram, e di riflesso contro la sua
creatrice Dalia, per diffamazione negando di fatto la possibilità che il professore
abbia perpetuato gli abusi di cui si parla. Da qui gli attacchi verso la dirigente
scolastica, accusata di essere a conoscenza del comportamento del professore e di
aver deliberatamente insabbiato la storia per tutelare il buon nome della scuola.
Le studentesse spiegano di aver parlato con la preside, di averle raccontato le
loro storie e di aver avuto sempre riscontri negativi, il professore in questione al
massimo era spostato da una sezione all’altra ma restava comunque a scuola. Nei
giorni dell’occupazione anche una seconda ragazza, Jennifer, trova il coraggio di
denunciare quella volta in cui il professore le chiese una foto del seno per arrivare
alla sufficienza e racconta di averne parlato con la preside, la quale avrebbe
garantito di denunciare e licenziare il docente in questione ma ciò non accadde
mai. Alle accuse di omertà rivolte a Maletta si aggiunge quella di Adele
Sammarro, professoressa della scuola e madre di uno studente. Nel mese di
ottobre il figlio di Sammarro, Samuele, fu selvaggiamente pestato davanti i
cancelli della scuola e la madre accusa la dirigenza di non aver chiamato le forze
dell’ordine per intervenire e fare chiarezza sull’atto di bullismo, ancora una volta.

Prima di andare oltre, è interessante soffermarsi su questa indifferenza verso il
dolore delle studentesse e degli studenti. Nelle scuole, Valentini-Majorana
compreso, esistono progetti in cui si parla di violenza, bullismo, discriminazione
di genere ed esistono giornate dedicate a temi degli abusi e delle violenze contro
le donne, ma come è possibile allora che sia così difficile intervenire quando quei
fenomeni si manifestano tra le mura della propria scuola? Ne abbiamo discusso
con Roberta Attanasio, delegata del Centro Antiviolenza Roberta Lanzino di
Cosenza.

«Se la preside avesse dato la giusta attenzione a quello che le veniva detto, non
saremmo stati qui. Lei avrebbe dovuto fermare molto prima questa situazione,
che non lo volesse fare lo abbiamo capito molto prima, da quel ragazzo
malmenato violentemente davanti scuola. È inutile fare corsi contro il bullismo o
contro la violenza di genere se poi non vuoi vedere. A che ti servono? A
procacciare questa missione aziendalista della scuola che prende fondi e fa
progetti, ma poi nella qualità della vita dell’istituto non cambia niente. Dopo
qualche giorno, noi abbiamo ricevuto una richiesta di ascolto da parte di alcune
docenti, venivano per nome e per conto della preside facendo parte dello staff
della direzione, e per loro tramite la direzione ci stava chiedendo di interessarci
per un corso di formazione. Anche loro erano consapevoli che noi non avremmo
mai fatto un corso per i ragazzi, ma era necessario partire dalla classe docente e,
devo dire la verità, anche loro erano abbastanza convinte perché dicevano che,
nonostante la scuola sia una delle prime scuole a Cosenza ad aver fatto progetti
contro il bullismo, contro la violenza di genere e sulle pari opportunità, è successo
quello che è successo e loro non se ne erano accorti e ora sono innegabilmente
dalla parte dei ragazzi. Noi siamo felici che avessero individuato nel centro una
risorsa che in questo momento potesse dare una mano per la formazione, ma
abbiamo detto che aspettavamo che questa situazione, in qualche modo, trovasse
una conclusione perché come discuti con una preside che è completamente
delegittimata?

A parte una considerazione personale che posso fare, su come la scuola diventi
sempre più manageriale nell’accaparramento di fondi e nella realizzazione di
progetti. Questo conferma l’idea che abbiamo, ossia che la violenza di genere è
quasi invisibile, nel senso che non è percepita dagli occhi. In questo caso, anzi,
oltre a non essere stata percepita i ragazzi se la sono comunicata questa cosa
però non ne hanno parlato con le insegnanti».

Ma è possibile che tra i docenti nessuno abbia capito prima la situazione? «Stiamo
parlando di una scuola grandissima dove, se non erro, ci sono tra i 120 e i 130
docenti e quindi non è facilissimo avere tutto sotto controllo. Quello che abbiamo
capito è che, in qualche modo, ci fosse un inquinamento ambientale: se il
professore faceva delle battute sessiste, questo atteggiamento veniva recepito dai
compagni maschi come un’autorizzazione o un lasciapassare a fare delle battute
sessiste. Siamo in una situazione in cui c’era un inquinamento ambientale, quindi
come potevi distinguere questa cosa? Sono solo battute, no? Anche la preside
difende questo comportamento del professore e dice “sei proprio sicura? Ma lui
scherza, lui ride, lui vuole fare lo spiritoso. Sei proprio sicura di aver capito
bene?” mettendo in discussione il fatto che, se uno ti incita ad andare in bagno e
farti una foto al seno per avere la sufficienza non è una molestia ma una battuta.
Questa situazione è tossica perché, se già hai difficoltà a riconoscere una
molestia, nel momento in cui legittimi certi comportamenti autorizzi anche i
ragazzi a fare queste battute verso le loro compagne».

Disabili ma non mascotte: note a
margine di Sanremo 2022
written by Francesca Pignataro
Prima di tutto una premessa: per anni non ho visto Sanremo, non mi interessava e
preferivo utilizzare il mio tempo per fare altro, ma negli ultimi tre anni ho iniziato
a seguirlo con una certa costanza. Mi incuriosiva capire i meccanismi di un
programma nazional popolare e mi sono approcciata con curiosità, non per
giudicare in modo troppo serio o agguerrito. Qualcosa mi fa storcere il naso e
qualcosa di diverte, ma lo guardo come programma di intrattenimento e con una
certa leggerezza. Non mi aspetto le esibizioni musicali del secolo e neppure
grossa filosofia, ma se la Rai decide di voler affrontare temi sociali pretendo la
faccia con criterio.

E veniamo alla quarta sera: la co-conduttrice è stata l’attrice Maria Chiara
Giannetta e a lei è toccato il monologo della serata. L’attrice ha interpretato il
ruolo di Blanca, una carabiniera cieca. Capisco avrebbero parlato di persone
disabili e quindi smetto di commentare in modo scemo il festival con le mie
amiche e inizio ad ascoltare con serietà.
Maria Chiara Giannetta spiega che si è impegnata per entrare nel personaggio di
Blanca e spesso stava a casa senza luce per provare a capire le sensazioni che
vive una persona cieca e per restituire la stessa sensazione al pubblico, sia in sala
che a casa, ha chiesto a tutti di chiudere gli occhi e ascoltare perché avrebbero
sentito la sensazione che lei ha provato.

                                        A quel punto la mia fronte inizia a
                                        corrucciarsi perché temevo veramente la
                                        piega che il monologo avrebbe potuto
                                        prendere, mi sembrava tutto molto
                                        retorico: se non ci vedi allora senti cose
                                        che gli altri non riescono a sentire? Se non
                                        ci vedi impari a ottimizzare al meglio gli
                                        altri tuoi sensi, non diventi un guru
                                      spirituale. Ma ero ancora pronta a dar
fiducia al monologo perché è pur vero che io sono una criticona e, magari, a volte
esagero. Da qui, però, il tracollo.

L’attrice spiega di essere stata affiancata da cinque persone per entrare a pieno
nel ruolo, lei li definisce i suoi guardiani. E chi sono questi guardiani? Sul palco
Giannetta, effettivamente, non è sola e con le ci sono tre donne e un uomo. A quel
punto penso: “ok, ora parleranno loro e spiegheranno qualcosa”. No.
Sono persone senza cognome, sono persone senza un’identità, diventano solo
lezioni di vita per Giannetta.

Abbiamo Michela, senza cognome, che le ha inviato dei video di come fa il caffè a
casa da sola o di come rifà il letto. Azioni quotidiane descritte quasi come
eccezionali e perché questo è disturbante? Perché sono le persone abile a
decidere qual è il modo “normale” di svolgere azioni quotidiane, ma quelle azioni
si possono fare in modo diversi e ogni persona sviluppa un modo personale di fare
al meglio quel qualcosa. E da qui arriva la lezione di vita: Michela, senza
cognome, ha insegnato all’attrice come vivere seguendo il proprio tempo e non
affannandosi e correndo. Sul problema delle lezioni di vita torniamo dopo, per ora
soffermiamoci sulla storia del seguire i propri tempi. Michela segue i suoi temi,
ottimo, tutti dovremmo farli e dove sta il MA? Nel discorso si crea uno strano
parallelismo in cui sembra che le persone disabili vivano una vita più semplice,
lontani dalla frenesia del presente, ma no. Magari Michela sì, ma in generale no.
Poter decidere di seguire solo i propri tempi, senza affannarsi, è un privilegio che
non tutti possono godersi per il modo nel nostro sistema sociale è costruito. Noi
persone disabili non viviamo in un mondo bucolico, viviamo nella vostra stessa
società con le stesse regole del gioco con la sostanziale differenza che le regole
del gioco non sono state pensate per includere anche noi e spesso dobbiamo
affannarci pure di più.

Poi arrivano Marco e Sara, anche loro senza cognome, che si muovono in luoghi
assurdi senza difficoltà e la loro lezione di vita a Giannetta è stata quella di farle
capire che non c’è nulla di male nel chiedere aiuto. Cosa sono i luoghi assurdi?
Dei teatri con corridoi stretti e senza linee di orientamento, guida e sicurezza in
grado di rendere lo spazio accessibile anche per le persone non vedenti. Ma
torniamo alle parole di Giannetta: è vero, non è una vergogna per nessuno
chiedere aiuto, ma qui ho sentito un altro colpo al cuore perché mi è quasi
sembrato si stessero normalizzando le barriere architettoniche. Doversi muovere
in luoghi assurdi per le esigenze specifiche di una persona non è giusto. Le
persone disabili spesso devono adattarsi a situazioni non ottimali, ma adattarsi
non rende questa cosa meno ingiusta.

Poi arriva Maria, senza cognome anche lei, atleta paraolimpica, di cui c’è dato
sapere che è testarda e che a 19 anni è salita su un treno verso Roma senza
bastone e senza cane guida.

Poi arriva Veronica, che non era sul palco, e anche lei senza cognome anche se è
una campionessa nazionale di scherma e di lei conosciamo il rapporto col suo
cane guida e il modo in cui la aiuta nella sua quotidianità.

Perché mi sto appesantendo? Perché il problema non è tanto Sanremo, ma il
modo in cui in Italia si continua a parlare delle persone disabili.

Nessuno delle persone presenti ha parlato, a farlo per loro è stata una donna
abile. Queste persone cieche erano sul palco in quanto simboli, in quanto lezioni
di vita per gli altri. Non si parlava di loro in quanto persone con una vita e una
personalità, ma persone a cui manca qualcosa e che nonostante questa mancanza
vivono. L’attenzione non era verso queste persone cieche, ma verso la loro cecità.

Erano mascotte che servivano a ricordare alle persone vedenti quanto fortunate
siano nella vita.

Nota bene: il problema non è Maria Chiara Giannetta, il problema è la Rai e il
problema siamo tutti ogni volta che alimentiamo questa costruzione della realtà
sia con le nostre parole che con le nostre azioni sia con le politiche che si sceglie
di implementare.

Non siamo mascotte.
Abbiamo una voce.
Abbiamo una vita.
Non siamo la nostra disabilità, ma viviamo in un mondo che ci disabilita e ci lascia
credere non sia normale vivere a pieno.

Non solo numeri: per una
rappresentanza sostanziale delle
donne in politica
written by Francesca Pignataro
L’avvicinarsi di momenti istituzionali importanti, come le votazioni o la
composizione di un nuovo Governo, porta con sé il ripetersi di un mantra:
abbiamo bisogno di più donne in politica, dovremmo eleggere una donna. Con la
scadenza del mandato di Sergio Mattarella e l’esigenza di eleggere una nuova
figura come Presidente della Repubblica, siamo tornati a sentire questo ritornello.

Effettivamente la politica italiana – e non solo – ed i partiti che la animano hanno
uno storico problema con le donne e la rappresentanza femminile, ma
l’affermazione generica del “c’è bisogno di più donne” è tanto insidiosa quanto
controproducente. Se quando si parla di uomini da proporre per ricoprire un certo
ruolo politico, si individuano dei personaggi maschili precisi e si spiegano le
motivazioni per cui scegliere proprio lui; quando si parla di donne si fa
riferimento a delle entità astratte e interscambiabili senza un’identità.
Riflettiamo sul fraintendimento della
                                      richiesta di rappresentanza e sul problema di
                                      una politica che continua a mettere al proprio
                                      centro gli uomini. Le donne sono
                                      sottorappresentate nella politica italiana? Sì,
                                      secondo il Global Gender Gap Report 2021
                                      del Word Economic Forum, la diseguaglianza
                                      tra uomini e donne in Italia raggiunge il suo
                                      picco proprio nella distribuzione del potere
                                      politico e si stima ci vorranno 145 anni (!) per
                                      colmare questo divario. Quindi c’è bisogno di
                                      più donne in politica? Sì, le donne in politica
sono ancora una minoranza e la loro assenza è il riflesso di un problema
strutturale della nostra società, in cui più ci si avvicina a ruoli di potere e più le
donne sembrano scomparire: laddove il potere è distribuito in modo gerarchico,
l’apice della piramide è occupato dagli uomini mentre le donne restano
schiacciata sotto il cosiddetto soffitto di cristallo, un confine invisibile che divide
uomini e donne e ostacola quest’ultime a raggiungere posizioni di potere.

Il problema della sotto rappresentanza delle donne in politica non è solo
numerico, legato alla rappresentanza descrittiva, ma è una questione di
rappresentanza sostanziale, che sia capace di offrire una possibilità di cambiare il
modo in cui il potere è gestito e di proporre delle politiche in grado di rispondere
agli interessi e ai bisogni delle donne.

Sono molte le studiose e gli studiosi che si sono occupati del tema, qui faremo un
rapido riferimento al testo Genere e partecipazione politica di Sveva Magaraggia
e Giovanna Vingelli: «L’individuazione degli interessi delle donne è una questione
complessa. […] Se “interessi delle donne” è un termine ambiguo, è possibile
tuttavia descrivere le caratteristiche di una società non favorevole alle cittadine.
Alcune autrici delineano il seguente quadro: una società in cui c’è una netta
differenziazione fra privato e pubblico; una società in cui i più deboli ‒ i malati, i
bambini, gli anziani ‒ sono oggetto di cura, una cura che viene erogata nel
privato, non retribuita; una società in cui non è messo a tema il fatto che questa
divisione coincide con la differenza fra uomini e donne; una società nella quale la
violenza è considerata una questione privata, in cui persiste una situazione di
dipendenza delle donne nella sfera privata e un’inadeguatezza della loro
partecipazione nella sfera pubblica, in cui l’oppressione delle donne è ancora
mantenuta attraverso la limitazione della loro autonomia (e autodeterminazione).
Il quadro che emerge somiglia molto a un circolo vizioso: se il sistema politico non
fa i conti con la realtà delle donne, le donne non faranno i conti con la realtà di
questa politica e il sistema non cambierà».

Ripetere che “c’è bisogno di più donne”, insomma, non risolve il problema della
sotto rappresentanza politica delle donne e non presuppone che si voglia operare
in virtù di un cambiamento nella direzione della parità. Soprattutto se è un
discorso portato avanti da esponenti politici uomini, rappresentati di partiti
composti prevalentemente da uomini: il messaggio sottostante alla loro
narrazione è che la conquista dello spazio pubblico e politico delle donne avviene
grazie a uomini tanto progressisti da lasciar loro spazio. “C’è bisogno di più
donne” usata come espressione generica, che non fa riferimento a una visione
politica ben definita e a delle donne che portano avanti un preciso programma
politico, diventa un artificio retorico col quale rendere invisibili le donne e le loro
proposte, e lasciar la voce agli uomini.

Un passo per abbattere la retorica
maschile è ricordare le donne che hanno
fatto la storia politica dell’Italia e
tornando indietro agli albori della
Repubblica affiora il nome di Rita
Pisano. Il 15 agosto del 1926 nasceva a
Pedace, un piccolo comune del cosentino
che si inserisce in un territorio – la Presila
– con una forte subcultura politica rossa.
Pisano cresce in una famiglia di estrazione popolare e a diciotto anni, nel ’44, si
unisce al Partito Comunista Italiano e da lì inizia la sua fervente attività politica.
In quello stesso anno il PCI la manda a Milano per prendere parte alla scuola di
partiti dedicata alle giovani dirigenti e da lì a poco sarebbe diventata la
responsabile della Commissione femminile provinciale, ruolo conquistato grazie
alle sue doti pragmatiche e al suo stile politico semplice e diretto. Grazie alle sue
abilità è nominata anche segretaria provinciale della Confederazione Nazionale
dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa. La sua formazione comunista è
ben chiara: Pisano porta avanti una lotta di classe per assicurare condizione di
lavoro migliori, ma non è cieca di fronte all’esistenza delle diseguaglianze di
genere perpetuate anche nella classe operaia. Nel 1948 subì il suo primo arresto
a Milano per aver organizzato uno sciopero non autorizzato per i diritti delle
lavoratrici, che si occupavano della raccolta delle castagne nella zona del Savuto
in Calabria: le raccoglitrici erano pagate in natura ricevendo un terzo del
raccolto, grazie a Pisano si stabilì che avrebbero dovuto ricevere metà del
prodotto del loro lavoro.

A questo si aggiungeva l’impegno pacifista: nel 1949 fu nominata come
componente della delegazione calabrese al Congresso Mondiale della Pace a
Parigi, evento durante il quale illustrò la condizione delle contadine calabresi;
mentre nel 1951 fu arrestata nuovamente perché distribuiva manifesti per la pace
mentre a Cosenza arrivava un battaglione di soldati di leva.

L’impegno politico dimostrato fino a quel momento la portò a d essere eletta
consigliera comunale a Cosenza nel 1960 e sei anni dopo ad essere eletta sindaca
del suo paese, Pedace. La sua gestione politica si incentrò su politiche di
ammodernamento delle infrastrutture locali e culturali e i cittadini
riconfermarono la sua buona gestione riconfermandola sindaca nelle successive
elezioni del 1970, tuttavia, con l’avvicinarsi delle elezioni del ’75 qualcosa iniziò a
cambiare. Il PCI iniziò a emarginarla dal partito senza un apparente motivo e finì
con espellerla quando Pisano manifestò la volontà di candidarsi nuovamente alle
elezioni comunali, alla fine fondò la lista “Sveglia” e vinse ancora una volta le
elezioni battendo addirittura il suo vecchio partito. I suoi cittadini la
riconfermarono sindaca sia nel ’75 che nel 1980, carica che ricopri fino al giorno
della sua morte il trentuno gennaio 1984. Rita Pisano incarna la figura di una
politica di estrazione contadina capace di individuare e rappresentare gli interessi
di un preciso gruppo di donne, le lavoratrici.

Nell’Italia divisa in mille comuni, queste piccole storie restituiscono il quadro di
un paese costruito anche dalle donne che hanno conquistato il loro spazio
portando avanti una precisa visione politica, anche in barba ai loro partiti di
appartenenza. Alla retorica maschile si oppone la concreta azione femminile.
Da migranti a rivoluzionari: storie
di desaparecidos italiani
written by Francesca Pignataro
«Il colpo di Stato lascia una strana sensazione, un aroma che ritrovi addosso alle
cose. Tutto è pervaso da un senso di vuoto, come in una grande storia d’amore
finita per una cosa da niente». Il nostro viaggio attraverso storie di lotte e
resistenza inizia da un libro, Joca. Il “Che” dimenticato, scritto da giornalista
Alfredo Sprovieri ed edito da Mimesis con l’introduzione di Goffredo Fofi.

La nostra nuova avventura sembra iniziare in modo quasi banale: è il 1955 e la
famiglia Castiglia lascia San Lucido, cittadina della provincia cosentina in
Calabria, ed emigra verso il Brasile. Questa, però, non è solo una storia di
emigrazione simile a quella di mille altre famiglie pronte ad abbandonare il
proprio paese e a adottare una nuova cittadinanza pur di trovare un lavoro e delle
condizioni di vita migliori.

                                         Sono passati quasi dieci anni da quando la
                                         famiglia Castiglia è arrivata a Rio de
                                         Janeiro. È la mattina del primo aprile 1964
                                         e Libero Giancarlo, figlio di mamma Elena
                                         e papà Luigi Castiglia, è già uscito per
                                         andare a lavorare in fabbrica. In casa i
                                         suoi genitori fremono, sono preoccupati
                                         per la sua incolumità e Walter Mario, suo
fratello, si affretta a cercare tutti i libri e gli appunti ed i giornali di Libero
Giancarlo. Ogni copia di A Classe Operaia, il giornale che era stato fondato dal
partito comunista brasiliano e che si proponeva di essere “Giornale dei lavoratori,
fatto dai lavoratori, per i lavoratori” e che aveva lo scopo di diffondere il
marxismo anche in Brasile, era un pericolo. Come pericolosa era la copia del
Capitale e ogni traccia che potesse testimoniare un legame tra Libero Giancarlo
ed il Partito Comunista. Walter Mario doveva far sparire tutto.
Ma perché? Cosa stava succedendo?

Le Forze armate brasiliane avevano destituito il Presidente João Goulart: quella
mattina il Brasile si era svegliato sotto la morsa di un colpo di Stato. Iniziarono le
persecuzioni politiche, nessuna forma di opposizione e dissenso sarebbe stato più
tollerata. Quella mattina Walter Mario vide il corpo di un suo amico giacere in
una pozza di sangue, era il segretario del sindacato degli studenti. Nulla sarebbe
stato più come prima, era iniziata la dittatura militare dei Gorillaz.

Nulla sarebbe stato più come prima
neppure per Libero Giancarlo, che quella
mattina scelse la via delle armi per opporsi
alla dittatura. Dopo l’addestramento in
Cina, Libero Giancarlo e le compagne ed i
compagni del Partito Comunista
costituirono un piccolo esercito partigiano
pronto a sfidare la dittatura. Libero Giancarlo, soprannominato Joca, era tra i
leader della resistenza. L’esercito partigiano resiste, ma la lotta fu dura e la
sproporzione numerica rispetto all’esercito militare era importante. Lentamente
le compagne ed i compagni di Joca iniziano a cadere: donne e uomini iniziano a
scomparire, ad essere torturati e uccisi. Alla fine, la stessa sorte toccò a Joca. Il
suo corpo sparì e non bastò la fine della dittatura nel 1985 per garantire giustizia
a Libero Giancarlo e per restituire le sue spoglie alla famiglia.

                                        Questa, però, non è solo la tragica storia
                                        umana e politica che ha visto Libero
                                         Giancarlo come uno dei protagonisti,
                                         questa è anche la storia del giornalista
                                         Alfredo Sporiveri. Era il 2009 e Alfredo
                                         lavorava come cronista nella redazione di
                                         Calabria Ora ed il giornale sta per andare
                                         in stampa quando arriva una notizia
                                         diversa e interessante: era stato ritrovato
il corpo di un ragazzo calabrese scomparso in Brasile trent’anni prima. Alfredo, ai
tempi, non conosceva la storia di Libero Giancarlo, ma si pose immediatamente
una domanda: «come è possibile che una storia così, diremmo, giornalisticamente
“appetibile” sia passata sotto traccia in questo modo, addormentata in un take di
agenzia di nemmeno cinque righe? Come posso riuscire a lavorarci e a ottenere
l’attenzione di un mondo che ormai non va al di là del titolo?».

Alfredo è un giornalista d’inchiesta, ha naso e si mette sulle tracce di una storia
ingiustamente dimenticata. Ma come raccontare una storia così lontana nel tempo
e ancora più lontana nello spazio? Inizia da vicino ritornando alle origini: va a San
Lucido, cerca la famiglia di Libero Giancarlo e inizia a parlare con loro, a
ripercorrere la vicenda umana dietro questa storia. Ma il lavoro di Alfredo non si
ferma, per ben dieci anni inizia a cercare, leggere e studiare documenti in
portoghese per cercare di ricostruire oggettivamente una storia dolorosa e
complessa.

Da quello sforzo di ricostruzione giornalistica non nasce solo un libro, ma un
intero progetto. La storia di Libero Giancarlo, infatti, non si inserisce solo nella
storia della lotta al regime dei Gorillaz, ma nella più ampia tragedia dei
desaparecidos dell’America Latina. Libero Giancarlo sparì come tante altre
compagne e tanti altri compagni, perseguitati per motivi politici, per mano dei
regimi militari non solo del Brasile, ma di altri Paesi come in Argentina o in Cile o
in Uruguay.

Quante sono le persone italiane scompare come Libero Giancarlo? Quali sono le
loro storie? Per rispondere a queste domande e ripercorrere lo sterminio condotto
dalle dittature militari sudamericane nasce l’Archivio Desaparecido, un
serbatoio di storie frutto del lavoro del “Centro di Giornalismo permanente”, «un
collettivo di giornalisti che collaborano per costruire un modello alternativo di
creazione e sostentamento per lavori di inchiesta, analisi e reportage», tra i cui
primi soci ritroviamo Alfredo.

Mai più orfani di madre: un
viaggio      attraverso    la
discriminazione di genere nel
mondo accademico
written by Francesca Pignataro
Con quale criterio si scelgono gli autori da inserire nei libri da studiare tra scuola
e università? Ufficialmente si selezionano i pensatori fondamentali per la
formulazione teorica di quel preciso campo di studi. Il processo di selezione, se lo
si guarda da questa prospettiva, potrebbe sembrare neutrale: gli studiosi più acuti
e che per primi hanno studiato alcuni fenomeni hanno buone possibilità di
diventare classici, e gli studenti hanno buone possibilità di doverli studiare per
forza.

Questo processo, che potremmo definire di inclusione-esclusione, diventa
interessante analiticamente se non lo si osserva da un punto di vista individuale e
si presta attenzione ai gruppi sociali inclusi ed esclusi dalla categoria dei classici.
In questo caso l’esclusione non si fonda sulla validità o l’innovatività del pensiero
o della proposta scientifica, a farsi avanti è un principio discriminatorio.

Quanto frequentemente si sente parlare dei “padri fondatori” di una certa
disciplina o di un certo filone di pensiero? Ma è possibile che tutta la storia del
pensiero sia orfana di madre? Questo è un chiaro esempio di esclusione su base
discriminatoria. Si potrebbe contestare la mia affermazione dicendo che gli
uomini -in particolare gli uomini delle classi sociali più ricche- storicamente
abbiano avuto più liberamente accesso all’istruzione; dunque, siano stati più
istruiti e liberi di dedicarsi alla attività intellettuale. Le donne, al contrario, sono
state relegate in una dimensione domestica e privata vedendo negato il
riconoscimento delle proprie capacità cognitive. Il che è vero, ma questa
spiegazione è sufficiente o è viziata dal senso comune?

                               Cerchiamo di rispondere partendo da un esempio
                               concreto, il caso di Marianne Weber. Nei corsi di
                               sociologia è un evento più unico che raro sentir
                             parlare di lei, al massimo la si cita in quanto moglie
                             di Max Weber, tra “i padri fondatori” della
                             sociologia. Ma prima di essere moglie di qualcuno,
                             Marianne Weber è stata una sociologa, una politica
                             ed una femminista. Nacque in Vestfalia nel 1870 in
                             una famiglia della medio-alta borghesia tedesca: il
                             padre era un medico e la madre era figlia di un
                             importante uomo d’affari, Karl Weber. Dopo la
                             morte dei suoi genitori, Marianne si trasferì e iniziò
a studiare in un collegio ad Hannover, grazie al sostegno economico del nonno
Karl che pagava la sua retta. In seguito, si trasferì da una zia, Alwine Weber, e lì
incontrò Max.
Dopo il loro matrimonio Marianne continuò a studiare, seguì soprattutto corsi di
filosofia, sostenuta dallo stesso Max. Iniziò a militare in movimenti femministi
liberal-borghesi, iniziò a pubblicare i suoi primi libri, nel 1919 entrò nel Partito
Democratico Tedesco diventando la prima donna eletta nella Repubblica di Baden
e fu anche presidente dell’Unione delle organizzazioni femministe tedesche. In
seguito, anche dopo la morte del marito, continuò a dedicarsi alle sue attività di
ricerca e scrittura e nel 1924 le fu concessa una laurea honoris causa in
giurisprudenza.

Marianne era una parte attiva della socialità accademica tedesca, eppure tutti
ricordano il marito dimenticando lei. Questa non vuole essere una battaglia tra i
sessi, tra chi è più meritevole e chi non lo è, ma è interessante constatare quanto
fin da allora le studiose fossero delegittimate rispetto ai propri colleghi. Non
erano percepite come sociologhe, per esempio, ma viste primariamente come
mogli-figlie-compagne di qualcuno, come se vivessero all’ombra degli uomini della
loro vita, e al massimo percepite come attiviste più che come accademiche.

È facile intuire perché, da un punto di vista femminista, dimenticare l’esistenza di
queste donne e le idee portate avanti da loro sia discriminatorio, ma questo non è
l’unico aspetto problematico della vicenda. Riprendiamo il caso di Marianne
Weber: dimenticare lei, i suoi libri e la sua produzione intellettuale significa
ridurre gli strumenti analitici a propria disposizione per studiare la realtà ed i
suoi processi sociali. Smettere di ignorare le studiose che si sono susseguite nei
secoli non è solo un atto politico, permette anche di superare uno stato di
ignoranza recuperando delle conoscenze andate perse.

In questo caso il concetto di “ignoranza” non è usato
per descrivere un semplice stato di non conoscenza,
ma assume delle caratteristiche filosofiche peculiari:
l’ignoranza sul sapere prodotto
dalle donne è un prodotto culturale, in quanto deriva
da un sistema sociale fondato su rapporti di genere
diseguali in cui la voce delle donne è silenziata in virtù
del dominio maschile sulla scena pubblica. Non è
un’ignoranza inconsapevole, ma un’ignoranza
colpevole. Le accademiche sono state vittime, per
riprendere un concetto teorizzato dalla filosofa
Miranda Fricker, di un’ingiustizia epistemica: le donne
anche nel mondo accademico sono state oggetto di un deficit di credibilità a causa
dei pregiudizi legati alla femminilità e agli stereotipi di genere: dipingerle come
meno razionali rispetto agli uomini, e per natura meno inclini al pensiero logico e
astratto, ha generato lo stereotipo per cui le loro idee sono da considerarsi meno
valide. Cosa aspetta il mondo accademico a riscattarsi da un’arretratezza
culturale che condiziona la formazione di studenti e studentesse?

                                                            Francesca Pignataro

La Mala fimmina di Instagram:
prospettive di un femminismo
siculo
written by Francesca Pignataro
Il nostro cammino attraverso storie di lotta prosegue cavalcando la quarta ondata
femminista e la nostra compagna d’avventura sarà Claudia, alias La Mala fimmina
su Instagram. Claudia è un’economista siciliana esperta in studi di genere, e La
Mala fimmina è il suo progetto online attraverso il quale, utilizzando lo spazio
virtuale di Instagram, fa divulgazione su tematiche femministe.

Sul profilo di La Mala fimmina si approfondiscono i temi delle disuguaglianze di
genere e si parla di sessualità e delle discriminazioni legate alla propria identità
di genere o al proprio orientamento sessuale, ma la prospettiva che Claudia
adotta è particolare perché alla prospettiva di genere affianca un’attenzione
particolare alla questione meridionale. Claudia non è solo una femminista, ma è
anche una donna siciliana e sono le sue origini, assieme alla sua storia personale,
a rendere unico il suo punto di vista sul movimento femminista italiano.
Foto di Francesca Pignataro

Il movimento femminista ha una storia lunga due secoli ed è stato caratterizzato
da una pluralità di voci e prospettive. Potremmo parlare di un movimento
ondivago e ogni ondata ha portato con sé delle questioni nuove e ha fatto spazio a
soggettività fino ad allora silenziate nel dibattito pubblico. Questa graduale
apertura a diverse soggettività ha consentito al movimento di diventare
intersezionale riconoscendo l’esistenza di discriminazioni multiple, le quali
attraversano la vita degli individui e si intersecano aumentano le discriminazioni
vissute da chi appartiene contemporaneamente a più gruppi sociali marginalizzati
e/o vittime di violenze.

Ma oggi il movimento femminista italiano quali voci dimentica? Lasciamo che a
raccontarlo sia la nostra mala fimmina Claudia.

«Per me il movimento femminista è il movimento politico su cui ripongo la mia
totale fiducia, per me è l’unico movimento che oggi può cambiare il mondo (gli
altri movimenti non lo so), ma solo nel momento in cui il femminismo sa mettersi
in discussione cercando di includere altre prospettive. Io mi sono unita ai
movimenti femministi in Spagna, quando facevo l’Erasmus, e poi ho intrapreso la
magistrale in studi di genere e delle donne a Bologna. Studiavamo in una
prospettiva di Italia unitaria e quindi studiavamo le femministe italiane degli anni
’60, tutti i movimenti che c’erano stati anche prima, ma comunque li studiavamo
come se l’Itala fosse un territorio unitario, come se si potesse parlare del
femminismo italiano con una sola voce. Io non avevo ancora coscienza delle mie
origini, non solo come persona ma anche come femminista. Succede che torno in
Sicilia, dopo aver finito la magistrale, e mi rendo conto che la mia prospettiva è
peculiare perché ho una storia ben precisa di appartenenza territoriale e di
genealogia. Molte delle donne e delle persone all’interno dei movimenti che mi
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