Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
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SOMMARIO marzo- aprile 3 EDITORIALE Pasqua di trasformazione 2021 Maria Grazia Luise edizione italiana Anno XLVI n. 2 1961-2021 60° DELLE MISSIONARIE marzo-aprile 2021 SECOLARI SCALABRINIANE direzione e spedizione: 6 Una vita missione Missionarie Secolari Scalabriniane Rita Bonassi Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D) Tel. +49/711/541055 redazione: ATTUALITÀ M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli 13 Il primo Papa M. Guidotti, A. Aprigliano che viene a farci visita! grafica e realizzazione tecnica: A cura di Regina Widmann M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti, e Róza Mika M.G. Luise, L. Bortolamai disegni e fotografie: 18 Ne avevamo bisogno Copertina e p. 6-12, 14-15, 22-25, 30: ar- chivio Missionarie Secolari Scalabriniane; Asel Al Sindy 3-5, 20: Pixabay; p. 13, 19: Vatican News; p. 14: Di CIA - CIA, The World Factbook; p. 20 Il significato della visita 16: Vatican Media; p. 17: Jan Kurdistani; del Papa in Iraq 18: M. Lubinski; p. 8: Asel Al Sindy; p. 20: Maya El Malek; p. 26: Haris Miah; p. 27: Maya El Malek Chiara Caruso; p. 29: Annalisa Vandelli/ Nexus; p. 30-34: Nguyễn Thị Bích Ngọc Gemma; p. 33: Pinterest. CONDIVISIONE 22 Quando ci si sente Per sostenere le famiglia spese di stampa e spedizione contiamo sul vostro Nadia Antoniazzi libero contributo annuale a: e Alessia Aprigliano Missionarie Secolari Scalabriniane * c.c.p. n° 23259203 Milano -I- o conti bancari: GIOVANI *CH25 8097 6000 0121 7008 9 27 “Gocce di libertà“ Raiffeisenbank Solothurn -CH- A cura di Christiane Lubos Swift-Code: RAIFCH22 *DE30 6009 0100 0548 4000 08 Volksbank Stuttgart -D- EMIGRAZIONE BIC: VOBADESS 30 Viaggio verso sud Le Missionarie Secolari Nguyễn Thị Bích Ngọc Gemma Scalabriniane, Istituto Secolare nella Famiglia Scalabriniana, sono donne consacrate chia mate a 35 PROSSIMAMENTE condividere l‘esodo dei migranti. Pubblicano questo periodico in quattro lingue come strumento di dialogo e di 2 incontro tra le diversità.
n questo tempo speciale ci accomunano paure, fragilità e povertà a causa della pandemia. E, mentre cadono sicurezze e appoggi illusori, emerge come necessità impellente un bisogno radicale di salvezza, per ricominciare a cre- dere nel futuro della propria vita e di tutta l’umanità. Come vivere questo tempo, mentre ci si accorge di non avere in mano la chia- ve del proprio esistere? Fra i valori preziosi, forse dimenticati, occorre farci più attenti a cogliere la sapienza che nella vita ci è stata donata, ma che forse abbiamo considerato spesso superflua, rispetto ai nostri interessi immediati e totalizzanti. La sapienza ci ha raggiunto nuovamente attraverso le parole di Papa Fran- cesco, risuonate in tutto il mondo dalla sua visita pastorale in Iraq. Una terra distrutta e martoriata da guerre e violenze inaudite che hanno costretto gene- razioni intere ad emigrare altrove, per trovare la possibilità di seguire, nella libertà e nella pace, la propria fede. 3
Proprio durante la Messa a Baghdad, il 6 marzo scor- so, Papa Francesco ha parlato della sapienza di Gesù. Una sapienza che «si incarna nelle Beatitudini, chiede la testimonianza e offre la ricompensa contenuta nelle promesse divine…». Il Papa ci ha annunciato che tali promesse «assicurano una gioia senza uguali e non deludono. Ma come si compiono? Attraverso le nostre debolezze. Dio fa beati coloro che percorrono la via del- la loro povertà interiore. La strada è questa, non ce n’è un’altra». Si presenta a noi, allora, l’opportunità di valorizzare quel cammino umile di discesa che non teme di attraversare l’esperienza della nostra povertà interiore. È un invito a lasciare ogni indebita autoaffermazione o arroganza per poter ricevere, nella nostra stessa fragilità, il dono più grande: l’esperien- za sempre più personale dell’amore di Dio, amore che possiamo condividere nella fiducia e nella gioia. Lo stesso cardinale Kurt Koch, già vescovo di Basilea, sottolineava che nell’e- sperienza radicale della nostra povertà non esiste nessuna distanza che ci separi da Dio, dalla sua presenza creatrice, dal suo amore infinito. Egli, che ci ha donato la vita, può sempre rigenerarci trasformandoci in figli, appartenenti all’unico Corpo di comunione di Gesù: via sicura per riconoscerci tutti fratelli. Tale trasformazione, che ci immette sulla via della fraternità e della pace, ci apre alla consapevolezza che stiamo già vivendo, figli nel Figlio, nella vita trinitaria di Dio. Questo dono, confermato dal bat- tesimo, ci rende partecipi dell’esodo trasformante di Gesù. Egli, nella sua Pasqua, ci ha liberati per amore dal dominio della morte, unendoci alla sua stessa vita umano-divina. Non è un’ideologia con- solante, ma una realtà che si manifesta anche nella stessa natura at- traverso molteplici segni di trasformazione. Per esempio quella del seme che aprendosi nella terra diventa una spiga; così come la metamorfosi di un piccolo bruco, strisciante nel fango, che si trasfor- ma in farfalla libera di volare. 4
Così la nostra vita si realizza trasformandosi. Essa, infatti, mentre tocca il suo fondo può rim- balzare, aprendosi al dono di una vita sempre nuova nella Pasqua di Gesù, morto e risorto per ciascuno di noi e per tutti. Dio poteva mostrare un maggiore amore per la nostra umanità? Nell’incarnazione del suo Figlio Gesù, Egli l’ha assunta fino a trasformarla nell’evento di sal- vezza universale della sua Pasqua! Inoltre, Dio stesso - attraverso il suo Figlio croci- fisso e risorto - ha voluto trasformare in salvez- za tutto il dolore, dovuto al peccato del mondo. Egli che sub-abbraccia l’universo, ci risolleva dall’abisso del male per rigenerarci ad una nuova umanità, capace, nella fede, di partecipare alla mensa del suo amore. Un amore invincibile che vuole trasparire nelle nostre stesse relazioni quo- tidiane, rivelando quella comunione umano-divina che ci unisce con tutte le nostre diversità in una appartenenza fraterna. Un immenso dono che può sa- ziare la sete di amore di ogni uomo e colmare le tristi valli di ogni storia di vita. Mai come ora potevamo sentire così necessaria e vicina ad ognuno la Pasqua di Gesù, il quale, condividendo fino in fondo la nostra realtà, intende compiere veramente - per noi e con noi per il mondo intero - ciò che Lui stesso ha pro- messo: Io sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza (cfr. Gv. 10.10). Maria Grazia 5
l prossimo 25 luglio il nostro Istituto Secolare di Missionarie Secolari Scalabriniane compirà 60 anni! Per l’occasione, in questi mesi “Sulle strade dell’esodo” ospiterà la testimonianza di alcune missionarie evi- denziando così diversi aspetti della nostra missione tra i migranti e i giovani nel corso degli anni. In questo numero diamo la parola a Rita a cui abbiamo chiesto come è iniziato il suo cammino missionario e come è continuato tra Europa e Brasile, paese in cui vive attualmente. Sono nata e cresciuta a Bergamo in una famiglia numerosa. Mio padre era imprenditore. Io sognavo un grande amore, disinteressato, gratuito, una rela- zione d’amore reciproca e per sempre. Mio fratello con i suoi amici mi diceva che un amore così non esiste e che ero stupida a pensarlo, dovevo godermi la vita. Ma io continuavo a crederci e a conservare in me questo desiderio. Il mio rapporto con Dio, tanto intenso da bambina, si era con il tempo e le difficoltà affievolito e un miscuglio di sentimenti di ribellione, a cui non sapevo dare nome, mi hanno fatto allontanare dalla fede durante l’adolescenza. Sen- tivo il mondo ostile. In quel periodo mio padre aveva bisogno di una segretaria e io ho cominciato a lavorare con lui. Avevo diciassette anni. Ogni mattina partivamo da Berga- mo per Milano e ritornavamo la sera. A poco a poco mi sono tuffata nel lavoro: mi occupavo della corrispondenza in italiano, francese e tedesco. Per il lavoro 6
papà viaggiava spesso all’estero, specialmente nei paesi allora ap- partenenti al blocco socialista, nei quali la ditta aveva la rappresen- tanza per acquisti e vendite di pro- dotti siderurgici. Ho cominciato a viaggiare anch’io con lui ed ero trattata da principes- sa da chi ci accoglieva: hotel di lusso con un appartamento tutto per me e i migliori ristoranti dove un musicista suonava le canzoni che sceglievo. Tutti quegli “onori” mi infastidivano. A Budapest mi colpiva la cattedrale di S. Stefano, molto bel- la, ma adibita in quel tempo a magazzeno. Ho conosciuto la sofferenza della gente per la mancanza di libertà, per non poter esprimere la diversità e creati- vità personale, e ricordo i rigidi controlli agli arrivi e alle partenze. Sentivo che i rapporti, sia in ditta che fuori, erano interessati, mentre deside- ravo rapporti gratuiti, semplici e sinceri e li trovavo nella semplicità di alcune persone che non erano gradite in famiglia. Avevo tutto, potevo chiedere qualsiasi cosa, ma ero insoddisfatta, inquieta, mi sentivo prigioniera in una gabbia d’oro. Riflettevo sul senso della mia vita e mi chiedevo: vale la pena vivere se la vita non ha un senso? Ho cominciato a leggere un libriccino sulla passione di Gesù, scoprendo con stupore un amore che si offre al dolore e alla morte, per me. Mi piaceva leg- gere e compravo libri per corrispondenza, tra cui una Bibbia illustrata a fa- scicoli settimanali, che ho cominciato a leggere ogni sera. La Parola di Dio, quell’amore ostinato e fedele di Dio, suscitava un certo fascino in me, essa mi accompagnava, misteriosa e inavvertita. Mio fratello Antonio ogni domenica con l’auto portava i miei genitori in chiesa a Bergamo e dopo il suo matrimonio ho svolto io questo servizio. Da diversi anni non andavo a Messa. All’inizio, con la scusa di cercare un parcheggio ri- manevo fuori, poi ho iniziato ad entrare. Una domenica celebrava un anziano missionario dell’America Latina che parlava dell’amore di Dio come perdono e gioia in modo così vitale che ha attratto la mia attenzione: le sue parole an- nunciavano un amore senza riserve, un perdono illimitato. Intanto, la Parola di Dio continuava a scaldarmi il cuore. Ho letto la Bibbia intera e ritornavo a leggerla da capo. Un cammino di conversione Un sabato pomeriggio, passeggiando per le vie del centro di Bergamo con mia sorella Giusy, passando davanti alla chiesa di S. Alessandro, per un impulso interiore, le ho detto: “Io vado a confessarmi”. Lei mi ha guardato incredula. Dopo la confessione, mentre pregavo ho avvertito una gioia e una luce sfol- goranti e ho avuto l’intuizione di un’appartenenza totale a Dio: una felicità tale 7
che quella notte non ho dormito. Improvvisamente mi sono trovata in pace con me stessa e con tutti, la vita aveva un senso, il senso dell’amore di Gesù crocifisso e risorto per me. Mia madre mi ha chiesto se mi fossi innamorata. Cercavo di vivere nel quotidiano le parole trovate nel Vangelo: “A chi mi ama mi manifesterò” (cfr. Gv 14,21) e “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Le relazioni in casa e sul lavoro sono cambiate. Ho cominciato ad andare a Messa ogni mattina alle 6:00 prima del lavoro e a partecipare al gruppo dei giovani in oratorio, dove mi sentivo a mio agio nei rapporti semplici e veri. Spesso chiedevo a Dio dove mi volesse, ero disponibile a qualsiasi stra- da. Un sabato sera mi ha telefonato suor Faustina, della nostra parrocchia, chiedendomi se l’indomani avrei potuto accompagnare in auto a Piacenza al- cune ragazze: nel Duomo c’era un evento impor- tante. Durante la Messa, quattro giovani avrebbero pronunciato i voti di consacrazione a Dio. Erano le prime quattro Missionarie Secolari Scalabri- niane: Adelia, Pasqualina, Maria Grazia e Anna R., era il 1° ottobre 1967. In seguito, mia sorella mi ha passato un invito per un campo estivo tra i migranti in Svizzera, a Solothurn. Lì per lì, non so perché, ho detto che potevo andare io! Così a Solothurn ho conosciuto la comunità del- le Missionarie Secolari Scalabriniane, che aveva iniziato il suo cammino di consacrazione e condi- visione da pochi anni. Mi sono sentita subito nella mia acqua, avevo l’impressione di essere arrivata a casa. Sono venuta a contatto per la prima volta con la realtà dell’emigrazione che mi ha toccato profondamente. Avevo sempre sentito parlare non molto bene dei migranti che dal Sud Italia si reca- vano in Svizzera, Francia e Germania in cerca di lavoro. Inoltre si diceva anche in famiglia che l’emi- grazione sarebbe terminata con il progresso. Ma in quei pochi giorni di campo quanta vita di sacrificio, coraggio, gioia, fede e speranza ho trovato nei migranti, in mezzo a ingiustizie e sfruttamenti! A contatto con la vita delle Missionarie, mi sono sentita libera di offrire me stessa a Dio con gioia. Avevo trovato il Tesoro e non potevo che vendere tutto per averlo. Proprio la gioia, che non mi ha mai lasciato e che ancora mi conduce, mi ha fatto superare diverse difficoltà e il 30 settembre 1968 sono partita per Solothurn per iniziare la mia avventura missionaria alla sequela di Gesù, nella comunità delle Missionarie Secolari Scalabriniane. 8
I primi passi tra i migranti in Svizzera e Germania Già durante la formazione iniziale ho lavorato nel Servizio Sociale della Mis- sione Cattolica Italiana di Solothurn, affrontando tante situazioni difficili tra i migranti: giovani, uomini soli, famiglie, carcerati, ammalati. Vi erano ingiu- stizie sul lavoro, lo sfruttamento degli stagionali che per cavilli legislativi non raggiungevano mai i mesi necessari per ottenere il permesso di soggiorno annuale e di conseguen- za portare in Svizzera la famiglia. Si generavano situazioni drammatiche di clandestinità. Le fami- glie si ricongiungevano anche senza permesso e i bambini dovevano rimanere chiusi in casa men- tre i genitori lavoravano, senza poter frequentare la scuola e senza neanche poter piangere o fare rumore per non essere scoperti. In queste realtà continuavo a vivere l’incontro con Gesù crocifisso risorto. Dopo i voti, nell’ottobre 1972 ho ricevuto l’invio mis- sionario a Stoccarda, in Germania, dove ho lavora- to nel servizio sociale della Missione Cattolica Ita- liana a Bad Cannstatt, quartiere dove ancora oggi il 50% della popolazione è composto da migranti e rifugiati di diverse provenienze. Oltre alla presenza di varie famiglie, c’era una forte realtà di uomini soli in alloggi collettivi, gli ultimi tra i migranti. Faceva- mo visita ad alcuni di loro anche nelle prigioni e nei vari ospedali. Molti non si avvicinavano alle struttu- re pastorali ordinarie della chiesa. Per questo, abbiamo iniziato una comunità di base formata da alcune di noi Missionarie e da p. Ga- briele Bortolamai, Missionario Scalabriniano. Con questi migranti è cresciuta una storia di amicizia, di evangelizzazione quotidiana, di vicinanza nei pro- blemi, nel dolore e nelle gioie, tenendo al centro della nostra giornata l’Eucaristia. Abbiamo potuto avviare un corso di alfabetizzazione per un grup- po di uomini migranti, seguendo il metodo del pe- dagogista brasiliano Paulo Freire, che rispondeva alle nostre esigenze con la sua educazione in movimento: una pedagogia che diventa politica, ponendo al centro la persona umana, insieme al rispetto e alla valorizzazione delle culture diverse. l Un nuovo invio missionario: in Brasile Sono arrivata a Porto Alegre il 2 gennaio 1979, raggiungendo Adelia e Pace, le prime due Missionarie che erano partite per il Brasile nel 1978. Vivevamo a Vila Nova, in periferia. 9
Dopo una presenza nella favela Vila Monte Cristo, con cinquecento famiglie di migranti interni, nel 1980 ho iniziato un servizio socio-giuridico-pastorale tra migranti e rifugiati ispano-americani, presso il CIBAI-Migrações, a Porto Ale- gre, negli spazi della parrocchia Nossa Senhora da Pompéia, dei Missionari Scalabriniani. In quell’anno i Missionari avevano ampliato il loro servizio ai latinos oltre a quello tra gli immigrati italiani e i migranti interni. Il 20 agosto di quell’anno era stato promulgato lo Statuto degli Stranieri, che aveva un carattere penale e repressivo. Ma i migranti continuavano ad arriva- re, fuggendo dalle dittature latinoamericane di quell’epoca e rimanevano per la maggior parte irregolari. La grande maggioranza veniva dal Cile, dall’Ar- gentina, dall’Uruguay, ma vi erano anche gruppi più piccoli provenienti da altri paesi dell’America Latina. Tutto era nuovo per me. Con i migranti e i rifugiati abbiamo vissuto esperienze drammatiche, insieme a sogni, gioie e speranze e a tanta solidarietà. Di fronte a situazioni apparentemente senza via d’uscita, specialmente a cau- sa delle restrizioni della legge, sperimentavo spesso di non poter fare nulla. Così mi rendevo sempre più conto che quello che rimane è l’incontro con la persona, vissuto nell’ascolto e nella stima, fino a trovarci insieme ad accoglie- re la realtà e ad attraversarla con fiducia e speranza. “L’emigrazione allarga il concetto di patria oltre i confini materiali, facendo patria dell’uomo il mondo” (G.B. Scalabrini). Queste parole si sono fatte vita in me allargando i confini del mio cuore, nella gioia di sentirmi brasiliana con i brasiliani, cilena con i cileni, uruguaiana con gli uruguaiani, angolana con gli angolani, e così via, senza negare le mie radici, anzi in forza di queste che mi inviano ad accogliere tutti. È Lui, il Cristo crocifisso e risorto che mi fa riconoscere l’altro come parte di me, come fratello, perché attraendoci a sé ci raduna nell’unica famiglia umana in cui nessuno può mancare. In quel periodo ci è stato dato il permesso di entrare nella Prigione Centrale di Porto Alegre per incontrare un gruppo di migranti. Riflettevamo su argomenti scelti da loro e nei momenti liturgici forti abbiamo potuto celebrare l’Eucaristia 10
con un Missionario Scalabriniano. Ci scrivevano: “Le vostre visite sono per noi momenti di libertà”. Era molto forte in questi giovani la coscienza della dignità della persona uma- na. Testimoniavano una speranza ostinata, assieme alla lotta instancabile per la libertà, un futuro diverso, consapevoli dei loro errori, che, dicevano, li ren- devano uguali ad ogni persona nella propria fragilità, ma non per questo meno degni di quelli che vivevano in libertà, “una libertà molte volte usata male, pri- gioniera in tante sbarre: della violenza, della disperazione, del consumismo e, specialmente per noi migranti, una libertà intrappolata nelle sbarre delle leggi ingiuste che impediscono una vita normale”, diceva uno di loro. La formazione dei giovani e l’impegno politico Fin dal nostro arrivo in Brasile, assieme ai migranti, abbiamo camminato con i giovani nei vari gruppi parrocchiali o nelle scuole con diversi incontri, per una apertura missionaria. Giovani e migranti hanno in comune il desiderio di un futuro migliore. Nel 1989 sono stata inviata nella metropoli di San Paolo. Mi sono inserita quasi subito nel lavoro socio-giuridico e pastorale tra i migranti latino-americani nel Centro Pastoral dos Migrantes Nossa Senhora da Paz, oggi Missão Paz, dei Missionari Scalabriniani. Ricordo il dramma di tante famiglie in situazione irregolare nel vedere im- provvisamente i loro figli privati del diritto all’istruzione. Chi già frequentava la scuola da anni non poteva continuare e chi doveva iniziare la prima elementa- re ne era escluso. Infatti, l’8 gennaio 1990 era stata emanata una risoluzione della Segreteria dell’Educazione dello Stato di San Paolo, che si basava sullo Statuto degli Stranieri e proibiva ai figli dei migranti irregolari di andare a scuo- la. Un avvocato amico era disposto a procedere per chiedere l’annullamen- to della risoluzione basandosi sullo Statuto del Bambino e dell’Adolescente (1990), posteriore allo Statuto degli Stranieri, che dichiarava l’obbligo di fre- 11
quenza alla scuola per tutti i bambini e gli adolescenti, indipendentemente dalla condi- zione migratoria. Ma era necessaria un’azio- ne collettiva: occorreva presentare una lista di almeno cinquanta alunni irregolari. Non è stato facile perché le famiglie avevano pau- ra, ma siamo riusciti a redigere un dossier e a presentarlo all’avvocato. Finalmente, il 3 febbraio 1992, il giorno tanto atteso, erava- mo là all’Assemblea Legislativa dello Stato di San Paolo con un gruppetto di bambini e di famiglie migranti, nel momento in cui il go- vernatore, dopo un discorso commovente, annullava la risoluzione tra battimani e pianti di gioia. Intanto lo spazio dell’appartamento a San Paolo era diventato troppo stretto per gli in- contri con i giovani, e così nel 1995 la Provvidenza, attraverso la diocesi di Rottenburg-Stoccarda, ci ha donato una casa, che è l’attuale nostra residenza e Centro Internacional para Jovens - J. B. Scalabrini. Con tanti giovani abbiamo con- diviso sogni, speranze, fatiche, sofferen- ze, crescendo insieme nella fede aperta a tutti, vivendo in ogni incontro le parole del Vangelo: “Ero straniero e mi avete accol- to” (Mt 25,35). I migranti e i rifugiati, che con i giovani incontriamo nelle loro abitazioni o nella Casa del Migrante (ora nella pandemia gli incontri avvengono online), sono vive testimonianze che ci mettono in cammino per accogliere ogni persona come fratel- lo e sorella. Con gli anni si sono aggiunti nuovi volti: africani, haitiani, siriani, vene- zuelani… Ma sempre le ferite, il dolore di tanti migranti e rifugiati che fuggono da povertà, guerre e persecuzioni sono come una semente di vita nuova in noi e nell’u- manità. Nell’incontro ci riconosciamo re- sponsabili reciprocamente del destino di ciascuno. L’emigrazione apre orizzonti impensabili alla comunione tra le diversità e alla fra- ternità universale. Rita 12
e parole e i gesti del primo Papa che ha compiuto una visita in Iraq hanno toccato il cuore di tanti. Subito dopo il suo viaggio (5-8 marzo 2021), abbiamo avuto la possibilità di entrare in dialogo con i nostri amici che provengono da questo paese, cristiani e rappresentanti di altre religioni, che vivono a Stoccar- da (Germania). Riportiamo qui alcune delle loro risposte alle nostre domande. P. Sizar, Lei è parroco della chiesa cattolico-caldea di Stoccarda. La sua comunità come si è organizzata nei giorni della visita del Papa in Iraq? P. Sizar: La comunità cattolico-caldea di Stoccarda e dintorni conta 2500 membri. Come parrocchia avevamo previsto di seguire insieme la visita del Papa. Per questo abbiamo anticipato a venerdì la nostra S. Messa settima- nale. Le misure di protezione contro il coronavirus ci hanno tuttavia indotto a seguire l’evento da casa. Molte famiglie mi hanno raccontato di essere rima- ste davanti alla televisione dall’inizio alla fine della visita: “Il Papa è venuto a trovarci!”. Farah, da sette anni vivi in Germania con la tua famiglia e stai frequen- tando una formazione come assistente tecnica farmacista. Come avete vissuto questi giorni tu e la tua famiglia? 13
Farah: Abbiamo seguito la diretta per tre giorni. La visita del Papa è stata un momento storico non solo per i cristia- ni in Iraq, ma per tutto il mondo! Mi sono rimaste impresse le immagini della gioia delle persone nel mio paese. Dopo tutto quello che è successo in Iraq negli ultimi anni, vedere i cristiani ballare pieni di gioia per le strade... è stato molto emozionante! Che cosa significa questa visita per la gente del po- sto, P. Sizar? P. Sizar: Le persone in Iraq hanno conosciuto per molti anni, decenni, solo guerra, violenza, miseria... Per tutti, non solo per i cristiani, ma anche per i musulmani, gli ya- zidi e le altre minoranze, questo avvenimento è un segno di speranza e di pace, di apertura a nuove prospettive di vita. La cosa più bella nella vita è poter vivere nella pace. C’è una nuova speranza anche per la politica? P. Sizar: Papa Francesco non si è incontrato solo con i cristiani, ma anche con dei politici e dei rappresentanti delle varie comunità religiose, e ha cer- cato di promuovere la fraternità tra le diverse religioni. Diversi politici iracheni hanno affermato dopo la visita che vorrebbero continuare gli incontri tra i vari gruppi del paese. Questi passi ci fanno sperare perché la nostra terra ha bi- sogno di riconciliazione. C’è stata anche una prima deci- sione “simbolica”, vero? Waleed: Sì. L’incontro con il capo spirituale degli sciiti Ali Al-Sistani, che ha dato molti segnali di umiltà, amore, pace e accettazione nei con- fronti dell’altro, ha indotto il Presiden- te dei Ministri iracheno a dichiarare il 6 marzo Festa Nazionale come Giornata della tolleranza e della co- esistenza. Quali parole del Papa ritieni impor- tanti per il futuro del tuo paese? Waleed: Quando Sua Santità ha parlato con il governo iracheno e i politici, ha insistito sulla pace e sul- la necessità della partecipazione di tutti nella società per garantire il fu- turo dell’Iraq. Ha sottolineato anche l’urgenza di lavorare sodo per com- battere l’ingiustizia e la corruzione. 14
Speriamo che le sue parole: “Fate tacere le armi” abbiano interpellato la co- scienza di tutti coloro che lo hanno ascoltato. Alicia, tu stai studiando economia all’Università di Ulm, hai avuto qual- che riscontro da persone di altre religioni riguardo al viaggio del Papa? Alicia: “Il Papa pensa a noi! Abbiamo bisogno di qualcuno come lui, perché è un uomo di pace e porta la pace”, ho sentito dire in questi giorni dai miei conoscenti musulmani. Tutti desiderano vivere in pace e vedono nel Papa un uomo mandato da Dio. Dalle notizie ho saputo, ad esempio, che in occasione della visita tutti, cristiani e musulmani, hanno col- laborato a ripulire i luoghi ancora segnati dalle distruzioni… Questo non avveniva da anni! Rejin, tu fai parte della minoranza etnico-religiosa degli yazidi, che vivono anche loro in Iraq e che negli ultimi anni hanno subito una dura persecuzione da parte del sedicente Stato Islamico. Che cosa significa per te que- sto evento? Rejin: Non solo io ho seguito il viaggio del Papa, ma anche la mia famiglia che vive in patria. Penso che prima quasi nessu- no conoscesse gli yazidi. Grazie a questo evento il mondo si rende conto del fatto che esistiamo e di quanto il nostro popolo abbia sofferto. Perciò questi giorni sono stati anche per noi un segno di speranza. Noi yazidi desideriamo che il Papa ritorni presto: grazie alla sua visita le nostre città sono diventate più belle, molti edifici sono stati rinnovati. Sapevo che in Kurdistan vivono molti cristiani, ma non ero consapevole che fossero così tanti. Sono certa che la fiducia nel futuro cresce quando scopriamo che tutti noi esseri umani siamo fratelli e sorelle. Peyam, insieme a tua madre stai frequentando il nostro corso di tede- sco. Voi siete del Kurdistan iracheno. Come musulmani cosa pensate della visita del Papa? Peyam: Quando abbiamo visto le immagini in televisione abbiamo pianto. Non potevamo fare a meno di pensare ai nostri parenti che vivono là e soffro- no. Nel nostro paese tutti combattono gli uni contro gli altri. È la prima volta nella storia che un Papa, una persona che arriva dall’Europa, viene in Iraq per portare speranza e pace. C’è stato un gesto del Papa che per te è stato importante? Farah: Il Papa ha salutato, sorriso e stretto la mano ad ogni persona, ad ogni politico… senza fare distinzioni. Questo modo di fare porta già con sé la pace. Tutti dobbiamo imparare da lui, anche i politici. Cosa ti ha più impressionato? Alicia: Durante la visita abbiamo visto immagini di convivenza e fraternità e questo permette alle persone che vivono in un paese distrutto dal terrorismo 15
di sperare. Abbiamo bisogno di coesione e dobbiamo imparare ad accettare l’altro nella sua diversità. Per me, però, un momento molto speciale è stato la preghiera insieme ai rappresentanti delle altre religioni per le vittime della guerra nella piazza della chiesa di Mosul, circondati dalle macerie delle chie- se e della moschea distrutte. È stato un segno molto forte. Come vedete la situazione dei giovani in Iraq? Farah: So dai miei amici che la vita in Iraq è difficile per tutti, soprattutto per i cristiani. Sebbene alcuni di loro abbiano studiato, non trovano lavoro, proprio perché sono cristiani. Alicia: In Iraq vivono giovani con grandi potenzialità, ma senza prospettive. I cristiani in Iraq sono una minoranza e spesso vivono ai margini, sperando di essere accettati. Quando si vive in un paese senza prospettive di futuro non si può far altro che andarsene. I nostri parenti vivono in Australia, Stati Uniti o dispersi per tutta Europa. Quale momento è stato significativo per te e per quale motivo? Farah: Ci sono stati molti momenti. Il Papa si è avvicinato alla vita delle perso- ne e ci ha richiamati a non arrenderci, anzi a impegnarci a vivere come fratelli e sorelle. Nello stadio di Erbil si è tenuta la celebrazione eucaristica conclu- siva alla fine della visita del Papa, alla quale hanno partecipato anche tanti musulmani. È stato per me un segno di speranza: la pace tanto desiderata è diventata realtà almeno in questi giorni! Insieme, come credenti, possiamo cambiare qualcosa. Questa visita ha potuto guarire le ferite dei cristiani perseguitati? Waleed: Il Papa ha riacceso la speranza nel cuore dei cristiani che vivono ancora là, perché le sue parole hanno dato voce al vero dolore dei credenti orientali. Nella città di Mosul, in mezzo alle rovine il Santo Padre ha pregato allo stesso modo per i cristiani, i musulmani, gli yazidi e gli altri abitanti che hanno perso la vita a causa dell’ISIS. 16
Il riconoscimento della gravità della persecuzione e della barbarie, la preghie- ra comune e le parole del Papa hanno potuto curare le ferite di molte persone e città. Ci ha incoraggiato e ha sofferto con noi, quando ha detto: “Com’è cru- dele che questo Paese, culla di civiltà, sia stato colpito da una tempesta così disumana, con antichi luoghi di culto distrutti e migliaia e migliaia di persone - musulmani, cristiani, yazidi e altri - sfollati con la forza o uccisi!”. Dall’altra parte ha aperto gli occhi agli iracheni seguaci di altre religioni sul vero significato della fratellanza e della pace. Queste parole benedette ci han- no ricordato le parole sante di nostro Signore: “Chi ha orecchi, ascolti!”. Quali parole di Papa Francesco rimangono nel cuore degli iracheni? P. Sizar: Quello che ha toccato molti sono state le ultime parole del Papa prima del viaggio di ritorno a Roma: “L’Iraq rimarrà sempre con me, nel mio cuore. Chiedo a tutti voi, cari fratelli e sorelle, di lavorare insieme in unità per un futuro di pace e prosperità che non lasci indietro nessuno e non discrimi- ni nessuno. Vi assicuro le mie preghiere per questo amato Paese. In modo particolare, prego perché i membri delle varie comunità religiose, insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, cooperino per stringere legami di fraternità e solidarietà al servizio del bene e della pace” (Saluto al termine della Messa nello stadio di Erbil, 7 marzo 2021). E mi ha impressionato che alla fine del suo saluto abbia ripetuto tre volte: “Sa- lam, salam, salam! [Pace] Shukrán! [Grazie] Dio benedica tutti! Dio benedica l’Iraq! Allah ma’akum! [Dio sia con voi]”. A cura di Regina e di Róża 17
sel è iracheno cattolico caldeo e vive vicino a Berna in Svizzera da diversi anni, dopo aver lasciato il suo paese di origine. Ha partecipato spesso alla Scalabrini-Fest di Primavera a Solothurn aiutandoci con la traduzione dall’italiano all’arabo per altri amici rifugiati. Ora parla anche tedesco, lavora e studia nella capitale elvetica. Gli abbiamo chiesto qualche impressione riguardo al recente viaggio di Papa Francesco in Iraq. Durante una chiamata telefonica con i miei genitori nei primi giorni del mese di marzo, poco prima dell’attesa visita apostolica in Iraq, mio padre ha espresso la sua forte preoccupazione per quell’evento, e mi ha detto: “Il nostro Papa ha scelto il tempo sbagliato, non è il momento giusto, potrebbe mettere sé stesso e i nostri compaesani in gran pericolo”. Queste parole hanno suscitato in me tante domande, e mi hanno spinto ad essere scettico per quanto riguarda la decisione del Papa di visitare l’Iraq nell’attuale situazione mondiale di pandemia e considerando, a livello nazionale, le precarie condizioni di sicurezza del mio paese. È giunto poi il giorno tanto aspettato, ecco il nostro amatissimo Papa con la sua umile borsa nera scendere la scaletta dell’aeroplano e fare il suo primo passo sul suolo di questo paese ferito e morituro. Guardando questa scena, 18
tante emozioni si sono mosse dentro di me, il successore di Pietro cammina sulla mia terra, la terra irachena! Sono stato anche molto sorpreso dall’accoglienza e dall’organizzazione rea- lizzata dal governo iracheno e da tutte le chiese cattoliche dell’Iraq. Per dire la verità, era da tanto tempo che non mi sentivo così fiero di essere iracheno. Le principali tappe che ha compiuto il Papa in territorio iracheno hanno portato un fortissimo messaggio di pace e fratellanza, in un ambiente colmo di conflitti ed odio. Ogni sua parola è stata sentita da tutto il popolo come un grido profe- tico, come una chiamata all’amore, al perdono e alla fratellanza. “Asel, ne avevamo veramente bisogno”. Queste sono state le prime parole che mi hanno detto i miei genitori al telefono dopo la vista del Papa in Iraq. Sì è vero, ne avevamo bisogno: avevamo bisogno di un gesto paterno in un pae- se abbandonato, avevamo bisogno di un grido d’umanità in una terra piena di mostri umani, avevamo bisogno di uno sguardo di tenerezza rivolto al nostro essere disperati, avevamo bisogno di una carezza, di un abbraccio e di una mano che ci fa rialzare dal nostro presente privo di speranza. Secondo me, questa visita storica avrà di sicuro un impatto molto importante sul destino politico e sociale dell’Iraq, perciò come iracheno vorrei ringraziare il nostro Papa Francesco per questo gesto paterno e coraggioso. Grazie San- to Padre … Viva il Papa! Asel Al Sindy 19
aya è una giornalista di nazionalità irachena e olandese, di religione musulmana, amica “Sulle strade dell’esodo”. A lei abbiamo chiesto un breve commento sul viaggio apostoli- co del Papa nel suo Paese. Io credo nel tentativo di donare luce agli altri, qualunque sia la situazione che li porta a perdere la fiducia in una vita migliore. Questa è stata la mia prima impressione riguardo alla visita di Papa Francesco in Iraq, la prima in assoluto di un Papa in questa terra. Il suo messaggio si riferisce al fondamento per cui ci apparteniamo tutti gli uni agli altri e riguarda l’unità nelle sue diverse forme; questo è il messaggio di pace e unità del Papa: noi come esseri umani, pur avendo ancora diversi modi di pensare e di credere, manteniamo la capacità di avere sen- timenti di bene gli uni per gli altri. Ciò è apparso nel suo atteggiamento umile nel momento del suo arrivo nel paese. Questo atteggiamento è apparso con chiarezza in molti canali televisivi locali dell’Iraq che hanno parlato del modo con cui ha trattato tutti coloro che sono venuti a dargli il 20
benvenuto e a salutarlo a Baghdad, Erbil, Ur, Mosul e Najaf. La gioia della sua visita ha unito molte comunità, in cui tanti diversi gruppi religiosi, oltre ai cristiani, stavano aspettando il suo appello con gioia e speranza. Una canzone, composta appositamen- te per lui e mandata in onda nei canali locali, diceva quanto era stupendo riceverlo in Iraq. Il Papa ha sfidato da una parte la situazione di insicurezza nella regione e dall’al- tra i rischi della pandemia da coronavirus. Il messaggio di pace La sua visita ha anche indicato fortemente che la pace parte da dentro. La pace, che è amare la vita che ci è stata donata e rispettare quella degli altri, inizia in noi. Questo è il cammino – e non il movimento contrario, cioè da “fuori” a “dentro” – che realizzerà la pace nella società. Il Papa ha invitato a guardarci gli uni gli altri come un tutt’uno, senza forzare nessuna comunità a cambiare la propria fede per poter essere accet- tata. È ora che tutte le comunità scoprano il valore del loro essere differenti, come ha mostrato nei suoi discorsi e nel suo comportamento, per esempio durante l’incontro con il leader islamico iracheno Ali Al-Sistani, in una delle città sante dell’Iraq, Najaf. Quello del Papa è stato il primo messaggio di pace che si è potuto ascoltare dopo de- cenni di guerre e conflitti armati in Iraq, a partire non solo dal 2003, quando è crollato il regime, ma già dal 1990. Il collasso della comunità è stato a vari livelli: sono venute meno la consapevolezza del senso dell’esistenza e dell’amore alla vita, la realizzazio- ne di una vita degna di un essere umano, la stima delle varie comunità, si è perso il rispetto della diversità in questa stupenda area geografica. Le persone nate in Iraq con le loro diverse tradizioni religiose sono una delle risorse e non sono il punto debole del paese: non è questa diversità che ci porta a perdere la pace e la fede. Influenze Il tono di voce con cui il Papa ha espresso le sue parole era molto chiaro e così ha la- sciato il segno dappertutto intorno a sé in Iraq. La gente intervistata dai canali televisivi locali ha mostrato emozioni profonde nei confronti della sua visita; si trattava di per- sone di diverse età: bambini, uomini e donne giovani e anziani. Le emozioni partivano dalla speranza che la sua visita potesse essere un passo in avanti nel trovare delle soluzioni riguardo al terrorismo, in quanto il leader cattolico ha insistito nel dire che i terroristi sono senza religione. Il viaggio del Papa non ha solo avuto un effetto sul morale del paese, ma ha anche contribuito a un cambiamento materiale, evidente nelle comunità irachene che hanno riparato le strade danneggiate perché egli potesse muoversi facilmente con la sua delegazione. Gli iracheni da parte loro hanno dimostrato di dare molto valore a questa visita storica, che ha toccato i loro sentimenti. Si potrebbe pensare che una sola visita non possa cambiare tutta la situazione in Iraq come per miracolo, ma ho fiducia che quando un capo religioso santo si pre- senta come un esempio, camminando per le strade dell’Iraq senza paura e inviando molteplici messaggi di pace, amore e unità, questo è ciò che conta alla fine. I risultati non sono nelle mani di uno solo, i risultati vengono dalle azioni di tutta la società in collaborazione con il governo e i capi religiosi per creare condizioni di vita in cui tutte le comunità possano convivere senza violenza. Ciò che conta è quello che nella tua vita mostri agli altri per indicargli la strada verso la luce. Maya El Malek 21
e nostre vite sono tessute e sostenute da persone comu- ni - solitamente dimenticate - che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia (…) Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostra- no ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimo- lando la preghiera”. Così Papa Francesco introduce la figura di San Giu- seppe nella Lettera Apostolica a lui dedicata. In un articolo a due voci, Nadia e Alessia hanno pensato di condividere le vicende di Haris e della sua famiglia: un amico bengalese, una di quelle persone comuni di cui forse pochi si accorgono, ma il cui amore e coraggio sostengono la vita non facile della sua famiglia immigrata ad Agrigento e contribuiscono al bene di tutti coloro che gli vivono accanto. Era fine marzo di due anni fa quando abbiamo conosciuto Haris: si è pre- sentato al corso di italiano, che animiamo presso la Caritas di Agrigento, con la moglie e i suoi tre figli arrivati da pochi giorni dal Bangladesh con il ricon- giungimento familiare: due ragazzi adolescenti, Wahid e Taher, con gli occhi dall’aria timida, la mamma e una bambina con i loro abiti tradizionali pieni di colore. Fateha, la più piccola, aveva già imparato a dire “grazie” e lo ripeteva in continuazione. Li abbiamo accolti e, grazie al metodo flessibile del corso e alla disponibilità dei volontari, è subito partita una classe ad hoc per loro per le prime lezioni. La mamma dopo un po’ ha desistito, ma i ragazzi hanno continuato, puntuali e costanti e, presto, sono stati inseriti in altri gruppi, nel rispetto del loro ritmo di apprendimento. Con gli occhi attentissimi, desiderosa di imparare e velocissima, Fateha è diventata il punto di riferimento dei fratelli, che allungavano l’occhio sul suo quaderno per scoprire quel che aveva capito più di loro. Si vedeva che lei ave- 22
va già imparato parecchio, ma quando le facevamo una domanda era un’im- presa farle dire una parola, almeno fino a quando non l’abbiamo messa nel viva- cissimo gruppo di Marcel- lo, che ogni tanto sentiva- mo ammonire, con la sua voce sonora: “Fateha, non rispondere subito tu, lascia parlare un po’ gli altri!”. Fin dal primo giorno abbia- mo prospettato al papà l’i- dea di iscrivere i tre ragazzi a scuola, ma non poteva essere subito, ormai l’anno scolastico si avviava alla fine, però a inizio settem- bre, Nadia, che insegna religione alla scuola dell’in- fanzia in un Istituto Com- prensivo del centro città, ha accompagnato Haris in segreteria e ha iniziato le pratiche per l’iscrizione. Avevo già parlato con la preside per l’inserimento dei tre fratelli: Wahid, quindici anni, in terza media, Taher, tredici, in seconda media e Fateha, otto, in terza elementare, ma dopo il suo assenso, sono iniziate le pratiche burocratiche, che sono sempre tante, soprattutto per chi è straniero. Un primo scoglio è stato quello delle vaccinazioni: anche in Bangladesh si fanno, ma non esattamente le stesse che risultano obbligatorie in Italia. Haris era organizzatissimo, aveva tutti i documenti delle vaccinazioni dei figli, ma scritti in bengalese, una scrittura che per me e per le segretarie appariva come tanti ricami appesi ad un filo. Così un giorno Haris, che in Bangladesh non era potuto andare a scuola (fin da piccolo, infatti, aveva dovuto aiutare il padre nel lavoro dei campi), si è presentato con un connazionale e, insieme, abbiamo tradotto il documento. Il passaggio successivo era recarsi all’ufficio dell’Azienda Sanitaria per capire come completare le vaccinazioni e farsi ri- lasciare i certificati per proseguire con l’iscrizione a scuola. Nonostante le tante difficoltà, tutto questo Haris l’ha portato avanti da sé, con un coraggio e un’intraprendenza che, nel tempo, ho visto ancora tante volte e che continua a riempirmi di ammirazione per questo papà sempre pronto a tentare tutto per il bene della sua famiglia. Nei suoi ventiquattro anni in Italia aveva imparato a cavarsela in tante cose, a girare per uffici, a presentare documenti in questura… Ma di pratiche per 23
la scuola non ne aveva mai fatte e, oltre a quelle, c’era l’avventura dei libri di testo, di tutto il materiale scolastico! Allargando la rete di relazioni intorno a loro, abbiamo contattato il centro d’ascolto diocesano della Caritas, che ad ogni anno scolastico sostiene le famiglie meno abbienti con le spese per i libri. Haris ci è andato da solo, ma poi ha chiamato per riferire tutto e ricevere conferma di aver capito bene. Mentre si procedeva sul fronte della scuola, si affacciava quello della salute, soprattutto per qualche malore di Shirina, la moglie di Haris. Alessia ha potuto aiutarli a sistemare le prime questioni sanitarie. Un giorno abbiamo parlato con marito e moglie per capire quali fossero le loro esigenze riguardo alla sa- lute e lì sono iniziati a venire al pettine i veri nodi: nes- suno, tranne Haris, era ancora stato iscritto al sistema sanitario. Quando la moglie aveva avuto bisogno del medico, al principio erano ricorsi a quello del marito, ma questa volta si trattava di fare accertamenti e non si poteva scrivere l’impegnativa a nome di Haris per gli esami della moglie. Così abbiamo colto l’occasio- ne per spiegare che sia lei che i figli avevano diritto all’iscrizione al sistema sanitario, che era importante esercitare questo diritto e scegliersi un medico curan- te. Anche in questa circostanza, una volta spiegato cosa fare, è stato Haris stesso a provvedere a tutte le pratiche negli uffici dell’azienda sanitaria. In verità, poco dopo, è stato lui il primo ad avere più bisogno di cure. È capitato più volte che durante la notte Haris fosse colto da dolori insopportabili alla schiena e mi tele- fonasse per chiedere di chiamargli un’ambulanza: “Io sono straniero, sorella mia, se li chiamo io forse non verranno…”. Ed è così che poco alla volta abbiamo scoperto che quest’uomo instancabile, che gira la città a piedi da un ufficio all’altro, dalla libreria indicata dalla Caritas al centro diagnostico convenzionato, in verità si trascina da anni diversi problemi di salute. Ha pas- sato a Vicenza i suoi primi otto anni in Italia, lavoran- do come operaio alla Marelli Motori ma poi, in seguito ad un intervento chirurgico per un’ernia al disco, quel lavoro era diventato troppo pesante e dannoso per la sua salute. Così è passato a fare il collaboratore do- mestico a Palermo per due anni e ora, da quattordici anni, ad Agrigento, fa il commerciante ambulante. Un lavoro meno esigente fisicamente, ma molto precario. Infatti, durante il primo lockdown questa famiglia, come tante altre che cono- sciamo, si è ritrovata completamente priva di entrate economiche. Innanzitutto c’era tanta paura, incertezza, scoraggiamento per il fatto di non comprendere fino in fondo che cosa stava succedendo, come bisognava comportarsi, che 24
cosa si poteva o non si poteva fare, come si compilavano le autocertificazioni per poter uscire di casa, come stamparle… Con loro e con altri abbiamo cercato di fare rete con tutte le realtà che stavano offrendo aiuto: la Caritas e il comune per i buoni spesa, la scuola per le risorse tecnologiche per permettere ai ragazzi di restare connessi e poi, soprattutto, gli altri insegnanti perché nei confronti dei loro alunni più svantaggiati si met- tessero in un’ottica non solo didattica, ma integrale. Per quanto una volontaria del corso d’italiano tentas- se di aiutare Fateha a distanza, inevitabilmente in quei lunghi mesi una buona parte dei suoi progressi nella lingua italiana si sono persi con l’isolamento. Wahid, invece, nonostante le difficili condizioni, ha superato l’esame di terza media, con la grande soddisfazione di poter sostenere l’esame orale, grazie alla sensibi- lità di uno dei suoi professori che, vista l’impossibilità del ragazzo di connettersi da casa, si è reso disponi- bile per collegarsi insieme a lui da un computer della scuola. E la licenza di scuola media è un certificato che vale oro per chi è straniero! Mentre si attraversava tutto questo, ecco che una nuo- va vita si è affacciata in questa famiglia: una creatura accolta e amata, ma una gravidanza non facile in un tempo in cui anche le visite di controllo al consultorio familiare erano un’impresa. All’inizio dell’ottavo mese di gestazione, proprio di ritorno da una visita di control- lo, la mamma si è sentita male. Questa volta Haris ha chiesto aiuto per chiamare il 112 per sua moglie e subi- to la corsa in ospedale. Asik è nato prematuro, quattro giorni di lotta tra la vita e la morte, ma alla fine non ce l’ha fatta. Un dolore fortissimo per tutta la famiglia che, già provata da tante difficoltà, si trovava anche travolta da un lutto che non aveva modo di guardare in faccia: la mamma ha avuto solo il tempo di uno sguardo velo- ce al bimbo prima della corsa in terapia intensiva e al- trettanto rapido è stato lo sguardo del papà al momento della morte. Noi, seppure a distanza, con tutte le tele- fonate possibili, cercavamo di essere presenti, di so stenerli, di aiutarli, così come potevamo, anche con la compilazione delle numerose e complesse pratiche perché almeno una degna sepoltura potesse lenire un po’ quella ferita. Abbiamo cercato un cimitero islamico in cui avrebbero potuto riconsegnare il loro bambino alle braccia di Allah. Non lo abbiamo trovato ed è stato perciò sepolto in un cimitero nelle vicinanze. Ma la morte non ha l’ultima parola… ...e quando la vita bussa non si può che aprire, anche se può costare. Nel mese di agosto dello scorso anno, mentre ero a Milano per qualche giorno in 25
famiglia, sono stata raggiunta da una chiamata di Haris il quale, con trepida- zione, mi comunicava che la moglie attendeva un bambino, ma non sapevano che cosa fare. “Abbiamo tanta paura che si ripeta quanto è accaduto ad Asik, ci hanno detto che si può interrompere la gravidanza, ma noi ci fidiamo di te, aiutaci, sorella mia, aiutaci a decidere”. Così abbiamo parlato, soprattutto pre- gato insieme, ciascuno il proprio Dio; li abbiamo messi in contatto con il CAV (Centro Aiuto alla Vita) di Agrigento e poi, di nuovo, abbiamo preso in mano la situazione sanitaria, in particolare Alessia, ormai prossima a partire per il nuovo invio missionario verso il Messico. Dai racconti di Haris, infatti, emergeva che forse la precedente gravidanza della moglie, a parte le difficoltà dovute alla pandemia, non era stata gestita al meglio. Così abbiamo chiesto al mio medico di base di poter iscrivere la famiglia presso di lei. Da quel momento, sempre con le limitazioni dovute alla prevenzione anti-covid, la dottoressa ha assunto la situazione di Shirina e, dopo una serie di accertamenti, ha costatato che era diabetica, le ha prescrit- to una gravidanza in assoluto riposo e le cure adatte, favorendo anche il collegamento con il reparto di ostetricia per i monitoraggi periodici necessari. Inoltre ha dato inizio ad una serie di accertamenti anche per il marito, perché il suo quadro di salute potesse essere affrontato in modo sistematico e non dovesse più ricorrere a continui ricoveri al pronto soccorso. Dopo la mia partenza, Nadia ha continuato a fare da mediatrice culturale fra la dottoressa e la famiglia (oltre che con tutti gli altri medici del reparto di ostetricia e gli impiegati dell’a- zienda sanitaria), ed ha sostenuto la famiglia in questi lunghi mesi di attesa e di angoscia… Haris in questo tempo è diventato un fratello, da sostenere mentre portava grandi respon- sabilità e fatiche, e allo stesso tempo doveva fare i conti con le paure che riaffioravano ad ogni malore della moglie. Il giorno del parto li ho accompagnati in ospedale, perché la paura era troppo grande ed era spaventato all’idea che, se fosse successo qualcosa, non ce l’avrebbe fatta ad affrontarla da solo. Il 29 marzo, lunedì santo, è nato Mahfuz! 3,7 kg, guance paffute e boccuccia sorri- dente, quasi a dire il trionfo della vita, per lui, per il fratellino che l’ha preceduto e per i suoi genitori che hanno avuto il coraggio e la gioia di accoglierlo e di fargli spazio, anche se a caro prezzo. A casa lo attendevano i suoi fratelli, che non vedevano l’ora di abbracciarlo con la mamma e il papà, per ripartire insieme con fiducia e gratitudine. Nadia e Alessia 26
hiara abita vicino a Solothurn in Svizzera e conosciamo lei e la sua famiglia da molti anni. Hanno partecipato spesso alla Scalabrini-Fest e, nel frattempo, Chiara è cresciuta e ora sta per fare l’esame di maturità. In vista di questa prova ha dovuto scri- vere un elaborato per il quale ha scelto un tema davvero speciale e che è diventato un libro. Chri- stiane dell’IBZ-Scalabrini l’ha in- tervistata. Chiara, qual è il tema del tuo testo di maturità e come ti è venu- ta in mente questa idea? In realtà, si tratta della trasposizione letteraria della storia di una donna rifugia- ta. Sono arrivata a questa idea durante la lezione di italiano, quando abbiamo letto il libro “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda. La volontà di resistere del protagonista Enaiat mi ha davvero affascinata. E mentre il suo cammino lo ha condotto in Italia, molti rifugiati arrivano nel loro viaggio anche in Svizzera. Ciascuno di loro porta un bagaglio pieno di diverse esperienze e di storie non raccontate. Ho voluto dare ascolto a una di queste vicende. È un tema tanto at- tuale che riguarda molte persone e, siccome leggo volentieri e scrivo io stessa dei brevi racconti, sono arrivata all’idea di un libro scritto da me. Di cosa tratta il libro? Il punto di partenza è la storia di una donna dell’Africa orientale che si è resa disponibile per alcuni colloqui con me. Nel racconto si chiama Hirut. Ha dovu- to fuggire da sola e non ha potuto portare con sé il suo bambino piccolo, Elias. Il libro si intitola: “Gocce di libertà” e inizia con un prologo che permette subito al lettore di immergersi nei sentimenti di madre e figlio: “È già notte avanzata e tu sei sveglio sdraiato nel letto. Nella casa il freddo e il vuoto sono palpabili. Tutto è immobile. Ti stai chiedendo dov’è tua madre. Vorresti essere tra le mie braccia, il posto migliore per poter dormire. Sei an- 27
cora troppo piccolo per capire perché sono andata via, tuo padre non ne vuole parlare. «Elias, la mamma non c’è!». È sparita. Ma il ricordo è ancora vivo e qualche volta hai la sensazione che se piangessi abbastanza forte, io potrei da un momento all’altro entrare dalla porta nella tua stanza. Ma per quanto tu possa gridare, io non verrò”. Hirut arriva da sola a Zurigo in inverno. Un connazionale le rivolge la parola nella sua lingua e le dà aiuto. Il racconto prende il suo corso, anche se vi sono continui sguardi retrospettivi sulla sua vita precedente e la prospettiva cambia. È una storia immaginaria, che ha un retroterra reale. Inserendo nella vicenda le mie rappresentazioni e interpretazioni del vissuto ho mescolato elementi reali e inventati. Qualche volta la mia interlocutrice ha accennato brevemente ad un avvenimento che a lei sembrava irrilevante, ma che mi ha così attratto che a tavolino ho potuto redigere un ulteriore intreccio a partire da questo piccolo fatto. Puoi riferirti a un brano che illustra tutto questo? Hirut - utilizzo ancora il nome inventato - ha dovuto vivere per un anno in un Centro per rifugiati in Svizzera. Era esausta dopo la fuga e il lungo viaggio che aveva alle spalle, ma questo non interessava a nessuno. La prima accoglienza è stata traumatizzante. Le hanno subito tolto il cellulare, ma il telefonino non è un articolo di lusso, bensì l’unico contatto con la famiglia. Nel libro si legge a questo punto: “All’interno [del Centro] Hirut venne perquisita dalla testa ai piedi alla ricerca di droga o armi. Le presero le impronte digitali e le fecero una fotografia. Hirut non capiva bene cosa le stesse succedendo. Tutto avvenne rapidamente. Si sentì come una criminale e questa sensazione sgradevole si propagò per tutto il suo corpo. Dopo che furono controllati anche i suoi capelli, una signora accompagnò Hirut in una piccola stanza. Doveva aspettare là. Il suo zaino era in un angolo. Il primo pensiero di Hirut fu il suo cellulare: non appena avesse avuto un momento tranquillo, avrebbe voluto chiamare a casa per chiedere di suo figlio. Aprì lo zaino e cominciò a frugare dentro. Il cellulare non si trovava da nessuna parte. Hirut andò subito in panico. La signora della sicurezza se ne accorse. «Sta cercando il suo telefonino? I cellulari qui sono vietati. Adesso non ne ha più bisogno». Hirut guardò la donna come inebetita. Il suo cellulare era l’unico contatto con suo figlio. Mandò giù senza reagire e sentì d’improvviso la gola completamente secca”. Come sei arrivata al titolo: “Gocce di libertà”? Su un possibile titolo per il libro ho riflettuto a lungo, ma solo verso la fine della stesura mi è venuto in mente: ogni capitolo è come una goccia, una goccia nei ricordi di Hirut. Tutte insieme compongono la sua storia e, poiché questo nome nella sua lingua materna significa “libertà”, ho scelto “Gocce di libertà”. La libertà è un tema centrale nel libro: in Africa orientale Hirut era schiacciata da un sistema in cui non poteva disporre liberamente della propria vita. Che esperienza hai vissuto durante i colloqui con Hirut? Qualco- sa è cambiato anche nella tua prospettiva? Ho ricevuto una nuova ottica riguardo a molte cose, ad esempio alla situazio- ne delle persone nei Centri per i rifugiati. Grazie a questi dialoghi ho potuto 28
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