Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café

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Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café
Shakespeare a Venezia
        Itinerari

Alessandro Bullo

2020 - Venice Café - Anno 1 – Fascicolo 1
Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café
2020 Bullo Alessandro

Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione -
                  Non commerciale 4.0 Internazionale.
Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café
SOMMARIO

INTRODUZIONE ...................................................................................................................................... 3
WILLIAM SHAKESPEARE E IL SUO VIAGGIO IN ITALIA ...................................................................... 4

   Chi era William Shakespeare? .................................................................................. 4
   Shakespeare … quante identità per un solo uomo! .................................................. 6
   John Florio era William Shakespeare? .................................................................... 10
   L'Italia vista dagli elisabettiani ... ............................................................................ 14
   Il Veneto di Shakespeare ........................................................................................ 16
   Venezia, città di confine e al limite, palcoscenico perfetto per i drammi
shakespeariani ........................................................................................................... 18
   Le fonti scritte della Venezia di Shakespeare .......................................................... 19
   Venezia, città Vergine e Doppio di Londra .............................................................. 21
   I due drammi veneziani: Il mercante di Venezia e l’Otello ...................................... 22
ITINERARI DI SHAKESPEARE A VENEZIA ........................................................................................... 30

   Il Ghetto di Venezia e Il mercante di Shakespeare .................................................. 30
   La sinagoga del mercante di Venezia ...................................................................... 33
   Shylock e gli ebrei veneziani, tolleranza o sfruttamento ......................................... 35
   Il Mercante di Venezia, la Kabbalah e l’armonia cosmica ....................................... 38
   Rialto e Il Mercante di Venezia ............................................................................... 43
   Desdemona, il meretricio a Venezia e il Castelletto di Rialto .................................. 47
   Il Mercante di Venezia e la critica alla dissoluta società veneziana ......................... 51
   Venezia e Belmonte, due facce della stessa medaglia ... ......................................... 53
   Il Mercante di Venezia, il traghetto, la gondola e il cavallo ..................................... 55
   Palazzo Ducale e la Giustizia veneta nell’Otello e Il mercante di Venezia ............... 58
Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café
I mori di Piazza San Marco e il Moro di Shakespeare .............................................. 64
   Il Sagittario e l’Otello di Shakespeare ..................................................................... 67
   I Signori di Notte al Criminal nell’Otello .................................................................. 69
   I palazzi di Otello e Desdemona a Venezia .............................................................. 71
BIBLIOGRAFIA....................................................................................................................................... 73
RINGRAZIAMENTI ................................................................................................................................ 83
«In Shakespeare, i personaggi si sviluppano anziché rivelarsi, e lo fanno perché concepiscono
nuovamente se stessi. A volte ciò accade perché si origliano mentre parlano da soli o con altri.
Questo modo di autoascoltarsi è la via principale all’individualizzazione, e nessun altro
scrittore, prima o dopo Shakespeare, ha compiuto così bene il miracolo di creare voci diverse ma
coerenti per i suoi oltre cento protagonisti e per molte centinaia di interessantissimi personaggi
secondari.»

  (H. Bloom, 2003)
Alessandro Bullo

                               INTRODUZIONE

    Questo opuscolo è il primo di una serie, dedicata da Venice Café, all’Arte, alle
 Curiosità e alla Storia di Venezia. Gli opuscoli saranno distribuiti gratuitamente in
                            versione digitale sul nostro sito.

  Questo primo opuscolo è dedicato a William Shakespeare e al suo
presunto viaggio a Venezia. L’autore inglese scrisse due opere ambientate
nella città lagunare: Il mercante di Venezia e l’Otello. Venice Café cercherà di
accompagnarvi, nel modo più piacevole possibile, attraverso i luoghi in cui
sono o potrebbero essere state ambientate alcune scene di questi drammi.

  L’opuscolo è diviso in due parti. I primi capitoli, che potrete benissimo
saltare, sono dedicati alla misteriosa figura di Shakespeare e al suo viaggio
in Italia. All’interno degli innumerevoli studi, dedicati al collegamento
esistente tra l’Italia e le opere di Shakespeare, un problema tra i più discussi
è certamente quello dell’ipotetico viaggio del Bardo in Italia: Shakespeare
vide il Belpaese con i suoi occhi o lo conobbe solo attraverso il racconto di
chi ci era stato e i numerosi libri italiani pubblicati a Londra? Per quanti
studiosi sostengano che Shakespeare fece un viaggio in Italia, altrettanti
sono certi del contrario.
  La seconda parte è dedicata agli “itinerari shakespiariani”, che
attraversano idealmente Venezia, partendo dal Ghetto, passando per Rialto
e arrivando a Piazza San Marco.

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Shakespeare a Venezia

      WILLIAM SHAKESPEARE E IL SUO VIAGGIO IN ITALIA

                          Chi era William Shakespeare?

 William Shakespeare (1564 - 1616), è considerato, insieme a Dante Alighieri, uno dei
  più grandi poeti di tutti i tempi, l’iniziatore del teatro moderno, e sicuramente il più
                              grande drammaturgo del mondo.
  William Shakespeare nacque a Stratford-upon-Avon nel 1564, da una
famiglia di modesta borghesia artigianale. Tradizionalmente si indica il 23
aprile, perché in quel giorno si celebra la festa di San Giorgio, protettore
dell'Inghilterra; in realtà l'esatto giorno di nascita è una questione ancora oggi
molto dibattuta tra gli studiosi. Si sposò con una donna più vecchia di lui ed
ebbe tre figli. Poco più che ventenne, lasciò la città natale per recarsi in cerca
di fortuna a Londra. Qui, dopo vari lavori, diventò attore e successivamente
scrittore di drammi. Dopo il successo del Riccardo III, a Londra scoppiò la
peste (nel 1593 il 14% della popolazione londinese morì di peste) e i teatri
vennero chiusi. Nel 1594, finito il pericolo e riaperti i teatri, Shakespeare
divenne co-titolare della compagnia teatrale Lord Chamberlain's Men,

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Alessandro Bullo

proprietaria del Globe Theatre e al servizio del re Giacomo I (venivano
chiamati i King’s men). Shakespeare si ritirò infine a Stratford nel 1613,
dove morì il 23 aprile 1616 (data iscritta sul monumento funebre che si
trova nella chiesa parrocchiale della Santa Trinità). Alcuni anni dopo la sua
morte, gli attori che lavoravano per lui, raccolsero e pubblicarono tutte le
sue opere in un unico volume.
   Nel periodo in cui visse, Shakespeare non era considerato un grande scrittore; era un
drammaturgo come molti altri, che produceva opere per intrattenere il pubblico londinese
 che affollava i teatri. Alcuni suoi contemporanei lo accusarono addirittura di essere un
  ladro, un autore che ai giorni nostri sarebbe stato accusato di plagio e denunciato per
 violazione dei copyright. Della sua vita non conosciamo molto, anche se esistono alcuni
                         documenti, contratti, firme e il testamento.
  Queste sono le poche notizie certe su William Shakespeare di Stratford,
attore ed impresario teatrale realmente esistito. Il dubbio si pone per la
figura dello Shakespeare drammaturgo, su cui esistono profonde quanto
discordanti opinioni.
 Esistono fondamentalmente               due     grandi    partiti    sull’identità    di
Shakespeare:

    -   gli Stratfordiani sostengono che William Shakespeare di Stratford-
        upon-Avon (personaggio reale e vissuto storicamente) sia l'unico
        reale autore delle opere di Shakespeare conosciute in tutto il mondo.
        Secondo gli Stratfordiani, le descrizioni dell’Italia sono frutto della
        sua fervida fantasia, unita alla lettura di libri di viaggio e di
        informazioni avute da amici e viaggiatori.
    -   gli Anti-Stratfordiani, che sono invece quelli che non credono che
        l’uomo nato a Stratford possa essere il creatore delle opere di
        William Shakespeare, che sarebbe solo uno pseudonimo. Secondo
        questo partito, la vasta e profonda cultura dimostrata nei drammi
        shakespeariani così come le precise indicazioni topografiche di vari
        paesi europei dimostrerebbero che il Bardo era un personaggio
        nobile e di alto livello culturale, che aveva avuto la possibilità di
        viaggiare in Europa e quindi anche in Italia. Gli Anti-Stratfordiani si
        dividono ulteriormente in due grandi gruppi: i Baconiani, secondo
        cui dietro Shakespeare si celerebbe il grande Francis Bacon (Londra,
        22 gennaio 1561 – Londra, 9 aprile 1626), celebre filosofo, politico e

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Shakespeare a Venezia

        saggista inglese vissuto alla corte inglese, sotto il regno di Elisabetta I
        Tudor e di Giacomo I Stuart; e gli Oxfordiani che identificano il
        Bardo con Edward de Vere (Essex, 12 aprile 1550 – Hackney, 24
        giugno 1604) XVII conte di Oxford. I due gentiluomini inglesi
        (Bacon e De Vere) avevano soggiornato in Italia, e avevano quindi
        una conoscenza diretta di essa, evidenziata poi nei drammi. Ma come
        vedremo nel capitolo successivo il problema sull’identità del Bardo è
        molto più complessa.
  Persino il celebre ritratto del Bardo, conosciuto come “Droeshout portrait”,
dal nome dell’incisore, William Droeshout (1601 - c. 1650), e contenuto
in Mr. William Shakespeares comedies, histories, & tragedies : published according to the
true originall copies, ossia la prima edizione completa dei suoi drammi,
pubblicata nel 1623, sette anni dopo la sua morte, è da molti considerato un
falso (cfr. Orsi2, 2016, p. 143).

    William Droeshout, Ritratto di William Shakespeare, in Mr. William Shakespeares comedies,
         histories, & tragedies published according to the true originall copies, London 1623

              Shakespeare … quante identità per un solo uomo!

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Alessandro Bullo

     Alcuni libri sostengono che Shakespeare non sia mai esistito, altri che fosse il
  celebre filosofo e politico inglese Francis Bacon; altri il drammaturgo Christopher
Marlowe (1564-1593); altri ancora addirittura la Regina Elisabetta I (1533–1603).
  Elisabetta non è stata la prima né l'ultima donna ad essere identificata
come l'autrice dei drammi shakespiriani. Nel 2014, John Hudson, nel suo
saggio Shakespeare's The Dark Lady: Amelia Bassano Lanier: The Woman Behind
Shakespeare's Plays?, ipotizza che ad aver scritto i drammi di Shakespeare sia
stata Emilia Bassano Lanier (1569–1645), poetessa inglese, conosciuta
anche come la “dark lady” di Shakespeare, ossia colei che avrebbe avuto una
tempestosa relazione con il Bardo e che avrebbe ispirato alcuni dei suoi più
bei sonetti. L’ipotesi che Shakespeare fosse una donna affascinò anche la
grande scrittrice Virginia Woolf che, nel suo saggio A Room of One’s Own,
del 1929, sostiene che «Shakespeare was androgynous» (Woolf, 1935, p. 156).
   «There is a mystery about the identity of William Shakespeare. The mystery is this: why
should anyone doubt that he was William Shakespeare, the actor from Stratford-upon-Avon?
… Sometimes it is suspected that the academics are covering up a scandal: it is said that we do
not know who wrote the plays attributed to Shakespeare. Every now and then - it has been
happening for over a hundred years - an amateur literary sleuth comes forward and, amidst a
flurry of publicity, claims to have solved the mystery. The professore are likened to the plodding
Inspector Lestrade; the truth can only be revealed by some unacknowledged Sherlock Holmes.»

  (J. Bate, 1997, p. 65)

    Sono dunque assai numerosi gli scettici sull'identità storica di Shakespeare. Ma
quando iniziò questa contestazione della tradizione, secondo cui “William Shakespeare
        di Stratford-upon-Avon” non era l'autore dell'Otello e dell'Amleto?
  In un suo celebre saggio, Contested Will. Who wrote Shakespeare?, James
Shapiro racconta come tutti questi dubbi sull'identità di Shakespeare siano
nati nell'Ottocento con il movimento Romantico. Fu in quel periodo che
nacque il mito di Shakespeare. I Romantici, infatti, non potevano accettare
che l'autore di capolavori, quali l'Amleto e il MacBeth, potesse essere una
persona normale. L'esistenza di Shakespeare, un borghese, sposato con
una donna più vecchia di lui, audace e astuto impresario teatrale, a quanto
pare anche molto legato al denaro (molti documenti riguardano l'acquisto
di case, il guadagno tramite interessi), non era infatti abbastanza
"romantica". Iniziarono così a mettere in dubbio che Shakespeare fosse

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Shakespeare a Venezia

l'autore di quelle opere meravigliose, e a trovare altri candidati più adatti ad
essere identificati con il grande poeta e drammaturgo elisabettiano.
    •   La prima a rifiutare questa identità fu Delia Bacon (Tallmadge, 2
        febbraio 1811 – Hartford, 2 settembre 1859), discendente del celebre
        Sir Francis Bacon, nel suo saggio The Philosophy of the Plays of
        Shakespeare Unfolded, pubblicato nel 1857, con la prestigiosa
        prefazione di Nathaniel Hawthorne (l'autore della Lettera scarlatta).
        Delia riteneva William Shakespeare un uomo ignorante, incapace di
        scrivere i capolavori che gli venivano attribuiti (uno Shakespeare di
        questo tipo, arrogante, egoista, legato al denaro e volgare, è quello
        del film Anonymous del 2011 diretto da Roland Emmerich). Tentò
        quindi di dimostrare che le opere teatrali erano state scritte da una
        confraternita di uomini, tra cui Francis Bacon, Sir Walter Raleigh,
        Edmund Spencer ed Edward de Vere (riuniti in una specie di cenacolo o
        tavola rotonda), con l'intenzione di educare segretamente il popolo,
        rendendolo conscio della dispotica tirannia della regina Elisabetta e
        di re Giacomo, e promuovere la filosofia sociale e la politica
        riformista di Bacon. Dopo la pubblicazione del saggio, Delia Bacon
        ebbe una grave crisi nervosa e fu internata all'Hartford Retreat for
        the Insane, dove morì nel 1859.
    •   Nel 1898, Wilbur Gleason Zeigler pubblicò il suo saggio It Was
        Marlowe, in cui veniva ipotizzato che i drammi di Shakespeare fossero
        in realtà stati scritti da Christopher Marlowe. Questa stralunata
        ipotesi (Marlowe era già morto nel 1593 e il suo stile è
        completamente diverso da quello di Shakespeare) fu riproposta nel
        fortunato libro The Man Who Was Shakespeare (1955) scritto da Calvin
        Hoffman.
    •   Anche il celebre Mark Twain, nel suo libro Is Shakespeare Dead????
        From My Autobiography, dubitava fortemente che Shakespeare potesse
        essere l'autore delle opere teatrali a lui attribuite.
    •   Henry James (1843-1916), in una lettera a Violet Hunt, datata 26
        agosto 1903, scrisse: «Lamb House, Rye. Aug. 26th, 1903. Dear
        Violet Hunt ... I am ‘a sort of ’ haunted by the conviction that the divine
        William is the biggest and most successful fraud ever practised on a patient world
        ... and I can only express my general sense that by saying that I find it almost as

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Alessandro Bullo

         impossible to conceive that Bacon wrote the plays as to conceive that the man from
         Stratford, as we know the man from Stratford, did» (1920, p. 432).
    •    Il celeberrimo Sigmund Freud (Freiberg, 6 maggio 1856 – Londra,
         23 settembre 1939), in un primo tempo, appoggiò l’ipotesi di Delia
         Bacon, ma poi ritenne più fondata quella proposta da John Thomas
         Looney nel suo Shakespeare Identified in Edward de Vere the Seventeenth
         Earl of Oxford (1920), in cui viene elaborata la teoria “oxfordiana”,
         ossia che dietro il nome di Shakespeare si celasse Edward de Vere
         (Essex, 12 aprile 1550 – Hackney, 24 giugno 1604) XVII conte di
         Oxford, protagonista del film Anonymous (2011) diretto da Roland
         Emmerich.

        Anonymous di Roland Emmerich: Edward de Vere e Henry
              Wriothesley, figli della Regina Elisabetta
  J. Thomas Looney è celebre per aver pubblicato Shakespeare identified, in cui
sostiene che le opere di William Shakespeare sarebbero in realtà state scritte dal
nobiluomo Edward de Vere, allora Lord Ciambellano, cioè il secondo dignitario
per importanza alla Corte d'Inghilterra, e XVII conte di Oxford, che le avrebbe
consegnate al drammaturgo Ben Johnson che, a sua volta, le avrebbe date a
Shakespeare. Questo saggio ha ispirato il film Anonymous del 2011 di Roland
Emmerich. Vale la pena ricordare a questo proposito che, nello "Stationer's
Register" (un catalogo delle opere letterarie pubblicato in Inghilterra, dal 1554 al
1708), nell’anno 1598, risulta la registrazione da parte di un certo James Roberts
del manoscritto de "Il mercante di Venezia", con l'annotazione che esso poteva
essere stampato soltanto con il consenso del Lord Ciambellano, ossia Edward de
Vere (cfr. E. K. Chambers, 1930, I, pp. 131 e 145).

  Per il suo film, Emmerich si ispirò alla "teoria del principe Tudor", secondo la quale
Edward de Vere ed Elisabetta erano stati amanti e dalla loro relazione sarebbe
nato Henry Wriothesley, in seguito divenuto III conte di Southampton. In
Anonymous, inoltre, Edward de Vere è allo stesso tempo figlio di Elisabetta, e
quindi Henry Wriothesley sarebbe il frutto di un incesto. Questa storia non è
molto più che una leggenda metropolitana.

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Shakespeare a Venezia

                        John Florio era William Shakespeare?

     Una delle ipotesi più accreditate, negli ultimi decenni, è che il vero autore delle opere
  teatrali di William Shakespeare fosse John Florio (Londra, 1552 – Fulham, 1626).
  Indiscutibile è l'importanza di John Florio per la sua opera di trasmissione
della cultura italiana in Inghilterra, attraverso la pubblicazione di due celebri
opere:

     -    dizionario italo-inglese A Worlde of Wordes (1598), con ben 46.000
          parole italiane;
     -    il Queen Anna's New World of Words (1611), con circa 74.000 parole
          italiane.
  Florio tradusse in inglese anche gli Essais di Montaigne (1603). Nel 1954,
inoltre, H.G Wright attribuì per la prima volta la traduzione inglese ed
anonima del Decamerone del Boccaccio (1620) a John Florio; attribuzione
recentemente confermata da Hermann W. Haller, Lamberto Tassinari e
Laura Orsi.
    Florio era, inoltre, istitutore di Henry Wriothesley (Cowdray, 6 ottobre 1573 – 10
 novembre 1624), III conte di Southampton. Florio era contemporaneo di Shakespeare
(era undici anni più vecchio di lui), ed è quindi possibile ipotizzare in modo abbastanza
plausibile che si conoscessero. Entrambi erano legati alla famiglia di Henry Wriothesley,
nel periodo in cui Shakespeare gli dedicò le sue poesie Venus e Adonis e Lucrece, cioè tra
          l’aprile 1593 e il maggio del 1594 (cfr. D. Montini, 2015, p. 113).
  «egli aveva modo di procacciarsi tutte le notizie, che gli occorrevano, proprio nella casa dove più
spesso andava, nella casa di quel giovane conte di Southampton, che fu suo patrono ed amico
[…]Tra coloro, che godevano della sua splendida ospitalità, si contavano parecchi compatriotti
nostri, su cui primeggiava Giovanni Fiorio, che fu addirittura ai suoi stipendi. E il Fiorio era in
Inghilterra la grande, indiscussa autorità a que’tempi in fatto di cultura e civiltà italiana:

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Alessandro Bullo

insegnante abilissimo, ricercato e accarezzato dai più ricchi e potenti, egli aveva co’ suoi libri e
colla sua parola popolarizzata l’Italia tra i geniali cortigiani e corteggiatori di Elisabetta. In un
simile ambiente quanti elementi poteva raccogliere lo Shakespeare, ascoltando e interrogando, per
ricostruire lo scenario pittoresco della Laguna, delle calli veneziane e delle verdeggianti rive della
Brenta, la vita vissuta tra i rumori commerciali di Rialto»

  (C. Segrè, 1911, p. 42)

  Laura Orsi, laureata all’Università di Pisa e docente di Italian Studies alla
Franklin University Switzerland di Lugano e di Letteratura inglese alla Scuola
Superiore per Mediatori Linguistici di Padova, ha recentemente pubblicato
alcuni articoli in cui, in base ad una analisi linguistica comparativa, sia
lessicale che stilistica, delle opere di Shakespeare e di John Florio,
sostiene la perfetta compatibilità della creatività linguistica di Shakespeare
con quella di John Florio:

     -    entrambi inventavano neologismi (Shakespeare: 1508; Florio: 1200);
     -    entrambi utilizzavano spesso la figura retorica della copia, ossia
          dell'amplificazione di un concetto attraverso "l'utilizzo in successione di
          3-4 parole sinonimiche (para-semantiche)" (L. Orsi2, 2016, p. 224);
     -    entrambi amavano usare proverbi e massime. Per Florio era un
          ottimo mezzo per insegnare l'italiano; mentre Shakespeare ne fa
          largo uso nei suoi drammi (cfr. D. Montini, 2015, p. 121).
 Non mancano, inoltre, le citazioni delle opere di Florio nei drammi di
Shakespeare. In Otello, ad esempio, l’attacco di Iago ai costumi delle
donne è ispirato da un passo dei Second Fruites di Florio:

     -    Iago: Come on, come on, you are pictures out of door, Bells in your parlours,
          wildcats in your kitchens, Saints in your injuries; devils being offended, Players in
          your housewifery, and hussies in your beds (Otello, Atto II, Scena I);
     -    Women are in churches, Saints: abroad, Angels: at home, deuills: at windowes
          Syrens: at doores, pyes: and in gardens, Goates. (Second Fruites, capitolo
          12)
  Molti autorevoli studiosi hanno quindi collegato William Shakespeare,
attore e astuto impresario, alla figura di John Florio, eccezionale
conoscitore della lingua italiana, sottolineando il ruolo svolto da Florio
«nell’assistenza, linguistica, letteraria, culturale in senso lato, a Shakespeare» (L.
Orsi1, 2016, p. XXXIX).

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Shakespeare a Venezia

   «Il vocabolario di Florio ha un colorito prevalentemente lombardo-veneto, Venezia è per lui la
principale città italiana, come può vedersi nell’ottavo capitolo dei First Fruites, tutto ciò può
aiutarci a capire perché le allusioni locali nei drammi italiani di Shakespeare siano limitate a
Venezia e alle città vicine … la sua versione di Montaigne, pur farcita com’è di pretese eleganze,
divenne un classico e una fonte di pensieri pei drammaturghi elisabettiani, prima di tutti
Shakespeare, che ne nutrì il suo Amleto; ai suoi manuali di conversazione e al suo vocabolario
italiano i contemporanei di Shakespeare dovettero molta della conoscenza che ebbero della nostra
lingua»

  (M. Praz, 1969, p. 107)

     Questo collegamento tra Shakespeare e Florio ha portato inevitabilmente qualcuno a
pensare che essi potessero essere la stessa persona: che lo Shakespeare di Stratford fosse solo
   un prestanome, che portava a teatro i drammi scritti da Florio, che preferiva rimanere
 nella sicurezza dell’anonimato: il teatro, anche se amato dagli aristocratici e dagli uomini
 di cultura, era pur sempre malamente tollerato dai puritani che governavano l'Inghilterra.
  Molti siti internet e libri dedicati a Shakespeare riportano che, nel 1927, un
giornalista siciliano, Santi Paladino, ipotizzò per primo la possibilità
che Shakespeare fosse lo pseudonimo di un poeta italiano, Michelangelo
Florio, padre di Giovanni Florio, che successivamente tradusse le opere di
suo padre dall'italiano all'inglese. In realtà, il primo collegamento tra
Shakespeare e la famiglia Florio risale al lontano 1747, quando William
Warburton, nella sua edizione delle opere di Shakespeare (The Works of
Shakespear), dichiarò che per il personaggio di Oloferne il drammaturgo si era
ispirato a John Florio, un insegnante di lingua italiana a Londra.

  Vale la pena ricordare che nella commedia Pene d'amor perdute, opera giovanile di
Shakespeare, il maestro di scuola Oloferne declama:

 "Oh, buon vecchio Mantovano! Potrei parlare di te come il viaggiatore parla di Venezia:
Vinegia, Vinegia, Chi non ti vede, non ti pregia."

  (Atto IV, Scena II - 1993, p. 271).

  Questo motto si trova anche nel volume The second fruits, pubblicato da Giovanni
Florio nel 1591. E questo non è l'unica citazione, molti proverbi declamati nelle
opere di Shakespeare sono presenti nei vocabolari di Florio.

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Alessandro Bullo

  Sempre nel settecento, un certo Herbert Lawrence, nel suo romanzo
picaresco The Life and Adventures of Common Sense: An Historical Allegory,
Veluti in Speculum (London 1769), in forma ironica e allegorica, insinuava
che l'attore e impresario Shakespeare avesse derubato due stranieri
(identificabili con John Florio e suo padre Michelangelo) della loro arte.
   «Amongst my Father’s Baggage, he presently cast his Eye upon a common place Book, in
which was contained, an infinite variety of Modes and Forms, to express all the different
Sentiments of the human Mind, together with Rules for their Combinations and Connections
upon every Subject or Occasion that might Occur in Dramatic Writing. He found too in a small
Cabinet, a Glass, possessed of very extraordinary Properties, belonging to GENIUS and
invented by him; by the Help of this Glass he could, not only approximate the external Surface
of any Object, but even penetrate into the deep Recesses of the Soul of Man – could discover all
the Passions and note their various Operations in the human Heart. In a Hat-box, wherein all
the Goods and Chattels of HUMOUR were deposited, he met with a Mask of curious
Workmanship, it had the Power of making every Sentence that came out of the Mouth of the
Wearer, appear extremely pleasant and entertaining – the jocose Expression was exceedingly
natural, and it had Nothing of that shining Polish common to other Masks, which is too apt to
cast disagreeable Reflections»

  (H. Lawrence, 1769, pp. 147-148)

   Da quel momento, iniziò in ogni modo una elettrizzante ed intrigante
gara per provare l'esistenza di un collegamento, sia in una prospettiva
biografica che in una prospettiva linguistica, tra questi due giganti della
cultura elisabettiana (cfr. D. Montini, 2015, p. 109); e soprattutto dopo
l’intervento di Santi Paladino, negli anni Venti e Trenta, altri studiosi
misero in evidenza punti di contatto tra la figura del Bardo e la famiglia
Florio (cfr. L. Orsi1, 2016, p. XII).
   All’inizio del 2000, alcuni saggi e anche documentari televisivi, piuttosto
superficiali e privi di prove documentarie, hanno nuovamente attirato
l’attenzione del grande pubblico su questo problema, ma senza aggiungere
alcuna prova definitiva: per quanto affascinante sia la possibilità che
Giovanni Florio sia il vero autore dei drammi shakespeariani, non esiste
alcuna prova a riguardo.

                                                13
Shakespeare a Venezia

                         L'Italia vista dagli elisabettiani ...

    Particolarmente complesso e anche contraddittorio era il modo in cui gli inglesi, tra la
seconda metà del Cinquecento e l'inizio del Seicento, vedevano l'Italia (soprattutto a causa
  del rapporto conflittuale derivato dalla separazione religiosa provocata dalla Riforma).
  L’Italia era la terra del vizio, degli omicidi, dei complotti, dei veleni e
tradimenti; immagini legate soprattutto a Roma e al papato, in cui la
depravazione e corruzione della famiglia dei Borgia faceva considerare la
città come la sede terrena dell'Anticristo. Si tratta di un’immagine
stereotipata, frequente nei drammaturghi elisabettiani e giacobiani,
soprattutto nel teatro di John Marston (1576-1634) e di John Webster (1580
ca. - 1625 ca.). Quest'ultimo, nelle sue opere, si compiace di mostrare
un'Italia, palcoscenico di omicidi grondanti di sangue, di micidiali veleni, di
intrighi e menzogne (cfr. R. Severi, 2009, p. 277). Per gli inglesi, l'Italia era,
inoltre, la patria di Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze,
21 giugno 1527), considerato una vera e propria personificazione del
Diavolo. Il Principe di Machiavelli fu tradotto e stampato per la prima volta
in Inghilterra solo nel 1640, ma già alla fine del Cinquecento circolavano
traduzioni francesi e copie in italiano stampate clandestinamente: «in quanto,
in quest’epoca, leggere e far circolare Machiavelli significava appartenere alla schiera degli
infedeli, degli empi e degli atei [...] I critici di M. – soprattutto in ambiente puritano –
giunsero addirittura a costruirne uno stereotipo negativo, quasi una «leggenda nera»,
facendone una personificazione del male e di tutti i vizi umani» (C. Altini, 2014, p. 20-
21).
  Agli scrittori elisabettiani, Machiavelli e la sua opera erano noti soprattutto
attraverso un libro pubblicato a Parigi nel 1576: Anti-Machiavel di Innocent
Gentillet, che era convinto che il massacro degli ugonotti, nella notte di San
Bartolomeo fosse stato causato dalle idee politiche di Machiavelli. In questo

                                               14
Alessandro Bullo

saggio, lo scrittore fiorentino viene raffigurato come un maestro
dell'inganno politico e dell'assassinio, che insegna ai tiranni le strategie più
immorali per detenere il potere e raggiungere i propri obbiettivi, un «nemico
del genere umano» e autore di un «libro scritto con il dito del diavolo».
 L'esempio classico di Machiavelli mefistofelico, che viene spesso citato, è
quello del prologo di The Jew of Malta, la tragedia di Christopher Marlowe,
portata in scena probabilmente nel 1592. A recitare il prologo è lo stesso
Machiavelli, che illustra e difende le sue idee politiche: è la forza a creare i
Re e con essa le leggi sono più salde, anche se scritte nel sangue. Anche
Shakespeare cita il Machiavelli più volte nelle sue opere:
    •   Nell'Enrico VI, il personaggio del Duca di York maledice Alecon
        come famigerato e rinomato Machiavelli (I, 4); e sempre nella stessa
        tragedia Richard of Gloucester declama: «So aggiungere colori al
        camaleonte e cambiar forma come Proteo, se ciò mi giova, e dar lezioni a
        quell’assassino di Machiavelli. Se sono capace dì far questo, non saprò anche
        ottenere una corona? Via! la coglierò, anche se fosse assai più lontana di quel che
        non sia.» (Atto III, Scena III - 1993, p. 88).
    •   L'oste delle Allegre comari di Windsor si vanta invece della sua
        intelligenza machiavellica: «Non sono io un buon politico? Un volpone? Un
        Machiavelli?» (Atto III, Scena I, p. 740)
    Shakespeare, in ogni modo, pur utilizzando personaggi fortemente drammatici e
moralmente abbietti come Shylock e Iago, evita l'Italia esageratamente sanguinosa
e machiavellica di John Webster e di altri drammaturghi elisabettiani, preferendo
   approfondire la psicologia dei personaggi in situazioni al limite (la vendetta nel
                      Mercante, l'odio e la gelosia nell'Otello).
  Accanto alla visione negativa dell'Italia, ve ne era una diversa: essa era
vista come la culla della cultura (Rinascimento) e sede di prestigiose
università (come quella di Padova, citata nel Mercante), della moda e
dell'eleganza e quindi fonte inesauribile per i testi teatrali.
  I modelli culturali dell'Inghilterra elisabettiana erano italiani: Il cortegiano
di Baldassar Castiglione, Il galateo di monsignor Della Casa, e la sonettistica
stilnovistica e petrarchesca.

                                           15
Shakespeare a Venezia

  «Sappiamo che non esisteva praticamente libro a stampa italiano ignorato dagli Inglesi, che
possedettero perciò più libri italiani che inglesi [...] Più di quattrocento libri furono tradotti da oltre
duecento-duecentocinquanta autori italiani […] Trionfava il Petrarca, letto nell’originale, tradotto,
imitato; trionfava del pari il Boccaccio.»

  (A. Obertello, 1964, p. 417)

                                   Il Veneto di Shakespeare

       Shakespeare ha ambientato 106 scene in Italia in cui si possono trovare oltre 800
  riferimenti all'Italia in generale; 400 riferimenti a Roma; 52 a Venezia; 34 a Napoli;
    25 a Milano; 23 a Firenze; 22 a Padova e 20 a Verona. Oltre a questi si possono
 trovare riferimenti casuali ma precisi di Genova, Mantova, Pisa, Ferrara, Liza Fusina,
  Villafranca di Verona, Messina in Sicilia e molti altri (cfr. A. Waugh, 2013, p. 80).
  Shakespeare ambienta nel Veneto quattro drammi
     •    il primo atto dell'Othello a Venezia (negli atti successivi il dramma è
          ambientato nella colonia veneziana di Cipro);
     •    Il mercante di Venezia;
     •    I due gentiluomini di Verona
     •    Giulietta e Romeo (Verona e Mantova)
  La critica, sottolineando come in questi drammi si possano riscontrare precisi riferimenti
  alle città venete e attenzione per l'ambientazione, ha ipotizzato che Shakespeare avesse
viaggiato in Veneto, magari proprio in quegli anni che vanno dal 1586 al 1592, durante
                               i quali non abbiamo sue notizie.

                                                     16
Alessandro Bullo

  Secondo molti studiosi e accademici i drammi shakespeariani possono
essere stati scritti solo da una persona con una conoscenza diretta
dell'Italia: l’analisi dei dieci drammi ambientati in Italia ha, infatti,
evidenziato precisi riferimenti a luoghi reali, a personaggi e a magistrature
storiche, e al tempo stesso una ambientazione intima e colorita (atmosfera
locale) della vita reale delle città italiane.
   «that of all English poets who visited Italy, with possible exception of Shelley and Byron, no
one has depicted our scenes, our life, our character and our nature better than Shakespeare. The
portrayer of spirit of humanity, genius of English Renaissance, in whose works we find not only
true life and passion, but all European institutions with their chivalry, courtesy and ambitions,
could not have sung praises of classical yet ever romantic land of Italy without having paid her at
least a fleeting visit.»

  (E. Grillo, 1949, p. 148)

  «Alcuno ha trovato “una pura atmosfera padovana” in The Taming of thè Shrew (Ch.
Knight), altri, che il primo atto d’Othello è completamente veneziano di spirito. Un critico
osserva che come nel Merchant of Venice Portia è il tipo della brillante e vivace donna
veneziana, così in Othello Desdemona personifica il tipo di donna amorosa, sottomessa e gentile,
caro agl’italiani; lo stesso critico (Horatio F. Brown) dichiara che per molti aspetti Shylock è
più veneziano che ebreo.»

  (M. Praz, 1969, p. 79).

  Una delle motivazioni più spesso ripetute dagli accademici per provare
che Shakespeare non è mai stato a Venezia è quella che il drammaturgo ha
omesso di citare i siti più famosi della città: il Canal Grande, il Palazzo
Ducale, Piazza San Marco, l'Arsenale. Come giustamente sostenuto da
Alexander Waugh, un’argomentazione più debole non potrebbe essere
immaginata:
   «That Dickens’ London does not mention Trafalgar Square and Buckingham Palace, or that
Tom Wolfe’s New York does not incorporate the Statue of Liberty and the Empire State
Building, tells us nothing about those writers’ relationships to those cities. Shakespeare was not
a travel writer in the manner of his contemporaries, Coryat and Fynes Morrison, nor, like Ben
Jonson (who set Volpone in Venice without ever having been there), did he need to overstate his
claim by listing all the most obvious and celebrated features of those places where he set his plays.
Shakespeare’s method, which we see repeated time and again, was to pepper his plays with
frequent, minor and precise touches of local color. In both of his Venetian plays he presents
many little facts about the city that can be traced neither to the original sources from which he
drew his plots, nor to any known travel books of the time. In Othello, for instance, he mentions

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Shakespeare a Venezia

the “Sagittary,” a dark, narrow street where the arrow makers lived (now called the Frezzaria);
he mentions the “penthouse” in the Ghetto Nuovo (still standing on the square today); the
Venetian clogs, or zoccoli; the “tranect” at Liza Fusina; he shows knowledge of the “common
ferry,” (the traghetti which brought passengers from the “tranect” to Venice); he is precise in his
measurement of distance between his Belmont (The Villa Foscari), Liza Fusina and Venice; he
refers to the gondola and the gondolier, to Magnificos and Signiors, to the merchants’ Rialto
district, and the Venetian custom of presenting “a dish of doves” as a gift or peace offering.»

  (A. Waugh, 2013, pp. 78-79)

      Venezia, città di confine e al limite, palcoscenico perfetto per i
                          drammi shakespeariani

    Fin dall'antichità, Venezia fu una città affascinante, capace di stupire e di sfidare le
    regole; un vero e proprio paradosso, dovuto a quell'essere, in modo quasi naturale,
   una discordia concors o coincidentia oppositorum o, come sostenuto da Peter
                        Platt, «a resonating play of opposites».
   Venezia era dunque una coincidentia oppositorum: città di terra e di mare;
modello politico complesso e misto (Senato e Doge); porta d'Oriente e
potenza militare occidentale; sede di centinaia di chiese cattoliche, eppure
considerata dagli inglesi una città potenzialmente protestante; protettiva e
conservatrice per quanto riguarda la castità delle figlie, eppure tollerante nei
confronti delle cortigiane (cfr. P. G. Platt, 2001, p. 124). Come poteva una
città del genere non attrarre l'attenzione di un grande scrittore come William
Shakespeare?
  Alla fine del Cinquecento, inoltre, Venezia non era più la potenza
economica e militare di un secolo prima: tra il 1499 e il 1503, era stata
costretta ad affrontare ancora una volta il nemico turco, dissanguando le
finanze pubbliche, e rendendosi conto di essere sempre più debole; il

                                                 18
Alessandro Bullo

Portogallo, alla fine del XVI secolo, aveva trovato una nuova rotta verso le
Indie per il commercio delle spezie (missione portata a termine da Vasco
da Gama nel 1498), interrompendo così il monopolio commerciale di
veneziani, turchi e arabi; nel 1509, la Lega di Cambrai aveva bloccato le
mire espansioniste della Repubblica verso la terraferma; la vittoria di
Lepanto del 1571 era stata più apparente che reale (cfr. D. McPherson,
1990, pp. 31-32).
   Il teatro di Shakespeare è famoso perché esprime la crisi intellettuale e morale della
sua epoca. Shakespeare pone al centro dei suoi drammi l'uomo con i suoi dubbi e il suo
  senso di precarietà, e quindi anche la sua incapacità ad affrontare il divenire. E la
  Venezia della fine del Cinquecento, una città con i turchi alle porte, il commercio in
       crisi, una moralità dubbia, ben si prestava come sfondo ai suoi personaggi.

                  Le fonti scritte della Venezia di Shakespeare

 Alcune parti della celebre guida artistica e storica Venetia città nobilissima di
     Francesco Sansovino (1581) furono tradotte in inglese da Lewes
      Lewkenor, il quale tradusse anche il De Magistratibus et Republica
Venetorum di Gasparo Contarini (1543), che fu pubblicato in Inghilterra nel
       1599, con il titolo The Commonwealth and Government of Venice.
  Quest’ultimo libro è considerato
   «one of the central documents through which the myth (di Venezia) was transmitted to
England—and England, after all, was the country in northem Europe in which the myth had
its most profound effects. Lewkenor’s book is interesting not only because of its importance in the
history of politicai thought but also because it was probably used as a minor source by
Shakespeare for Othello and by Ben Jonson for Volpone»

                                                 19
Shakespeare a Venezia

  (D. McPherson, 1988, p. 459).

  La principale fonte del libro di Lewkenor è il trattato del Cardinale
Gasparo Contarini, opera molto popolare all'epoca, come lo era l'autore
stesso: membro di una nobile famiglia veneziana, considerato il più
importante uomo di chiesa veneziano del suo tempo, che celebrava la messa
per il papa.
  La raffigurazione che Gasparo Contarini offre nel sul libro di Venezia è
quella mitica (e fin troppo ideale!) di una città retta da una perfetta miscela di
«monarchy (the Doge), aristocracy (the Senate), and democracy (the Great Council) and as
a System in which institutional checks and balances held corruption at bay. Also
appealing was his idea that the Venetian government had existed essentially unchanged for
1100 years» (D. McPherson, 1988, p. 462).

                                  Il mito di Venezia
  Il mito di Venezia, nei tempi antichi, era costituito da:

  Governo misto: lo stato veneziano era retto da un governo che prevedeva tutti e tre i
tipi di governo di Aristotele: monarchia (il Doge), oligarchia (il Senato) e
democrazia (il Gran Consiglio).

  Saggezza politica: aveva permesso alla Serenissima di essere la più longeva delle
moderne repubbliche. E per questo Venezia era molto ammirata in Europa. La
metafora preferita per la longevità della Repubblica era Venezia Vergine: gli scrittori
identificavano la preservazione della libertà con la castità sessuale.

  Giustizia imparziale e severa: Venezia era molto conosciuta per la sua giustizia, e
Shakespeare e Johnson fecero un largo uso della reputazione della giustizia
veneziana nei loro drammi. La giustizia veneziana era nota soprattutto per la sua
imparzialità, anche nei confronti delle classi inferiori e degli stranieri, come nel caso
di Shylock. Oltre che per la sua imparzialità, la giustizia veneta era elogiata per la
sua severità.

   Venezia città galante: Venezia era per l'Europa la città del piacere. I turisti
accorrevano per vedere le bellezze architettoniche e femminili. Senza dubbio la
ricerca del piacere sessuale e la licenziosità sessuale erano normali a Venezia; e le
cortigiane veneziane erano famose e numerose (si dice che all'inizio del Seicento
fossero circa 20.000). Anche nel periodo di Shakespeare e di Jonson il turismo era
una delle principali fonti di guadagno per i veneziani, e il "turismo sessuale" faceva

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Alessandro Bullo

parte dell'offerta. Durante l'anno si celebravano, inoltre, molte feste, tra cui le più
spettacolari erano il Carnevale, l'Ascensione ("Sensa") e il Corpus Christi, una
solenne processione lungo Piazza di San Marco. Nel Fontego dei Tedeschi, ad
esempio, era consuetudine fare una festa che durava tre giorni: turisti e cittadini
mascherati ballavano notte e giorno senza mai fermarsi, fino a cadere stremati.

                  Venezia, città Vergine e Doppio di Londra

    A proposito della longevità della Serenissima su cui insiste Contarini, l'aspetto che,
forse, più affascinava gli inglesi era l'inviolabilità della Repubblica marinara: Venezia
  era infatti definita città VERGINE (inviolata) perché nessuno era mai riuscito ad
                                           invaderla.
  In Inghilterra veniva invece utilizzata la metafora di Elisabetta I “regina
vergine”, in quanto simbolo della “inviolabilità” della nazione. Coryat così
descrive la città di Venezia nel 1607: «and so at length I finish the treatise of this
incomparable city, this most beautiful Queene, this untainted virgine, this Paradise, this
Tempe, this rich Diademe and most flourishing garland of Christendome : of which the
inhabitants may as proudly vaunt» (1905, p. 427)
  L'Inghilterra considerava quindi la Repubblica di Venezia una specie di
doppio. Molti aspetti accomunavano infatti i due paesi: entrambi basavano
la loro economia sul commercio via mare; il Canal Grande che attraversa la
città richiama il fiume Tamigi; Venezia era la porta d'Oriente, mentre
Londra, nella mente della sua Regina, sarebbe divenuta la porta
dell’Occidente (cfr. A. Serpieri, 1987, p. 68). Non è quindi così strano che,
quando ambienta i suoi drammi a Venezia, Shakespeare riecheggi le
ambientazioni tipiche della sua Londra:

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Shakespeare a Venezia

   «Il Tevere è il Tamigi, con le alte e basse maree; Verona e Mantova e Venezia e Milano sono
situate insieme in Italia e in nessun luogo; però chi ascolta o legge non ha difficoltà ad ambientarle
in plaghe note della propria esperienza inglese e insieme in una propria fantasia di luoghi senza
veruna sudditanza di scienze o conoscenze storiche, geografiche, ambientali. E forse questa, più
ancora della scarsa o incerta conoscenza, è la ragione per cui ha così poca importanza l’esattezza
dei riferimenti in Shakespeare.»

  (A. Obertello, 1964, pp. 421-422)

  Questa opinione è confermata da un recente saggio di Michael Saenger del
2014. Secondo lo studioso, professore alla Southwestern University, ne Il
Mercante di Venezia i protagonisti italiani del dramma parlano un linguaggio
tipicamente londinese che neutralizza l'idea di estraneità: la lingua inglese è
"invisibile"; i pochi riferimenti alla città di Venezia e qualche occasionale
frase straniera servono a condurre il pubblico inglese in Italia, ma senza
allontanarlo veramente da Londra: «the audience is to see themselves as citizens of
London and Venice simultaneously» (cfr. M. Saenger, 2014, p. 147).

          I due drammi veneziani: Il mercante di Venezia e l’Otello

                    Il Mercante di Venezia e le sue fonti italiane

  Prima di ambientare un suo dramma a Venezia, Shakespeare ne aveva fatto
già riferimento nella Bisbetica domata (1592-93) e in Pene d’amore perdute (1594-
95), ma è nel Mercante di Venezia che la città viene scelta da Shakespeare
come palcoscenico delle azioni dei suoi personaggi. Il Mercante di Venezia si
sviluppa intorno a due storie:

                                                   22
Alessandro Bullo

     -    quella dei tre scrigni d’oro, d’argento e di piombo, con la gara dei
          Cavalieri, pretendenti alla mano di Porzia, che devono scegliere
          quello in cui è nascosto un ritratto della tanto desiderata sposa;
     -    quella del prestito che l’ebreo Shylock fa ad Antonio, mercante
          cristiano, con la clausola che, in caso mancato o ritardato rimborso,
          egli avrà diritto di strappargli una libbra di carne.
  Per quanto possa apparire un poco strano alternare il dramma dell'ebreo
Shylock alla "favola" dell'amore tra Porzia e Bassanio, dobbiamo pensare
che, all'epoca di Shakespeare, Venezia era vista come una città al confine
della cristianità, la porta dell'Oriente; un vero e proprio crocevia di culture
diverse; una città esotica e fiabesca. Tutto questo era affascinante e
potentemente teatrale: Venezia con le sue strade d'acqua, i palazzi
meravigliosi e colorati (a quel tempo le facciate erano tutte affrescate dai
grandi pittori veneziani), le calli oscure che si aprivano in larghi campi
spesso rallegrati da feste popolari, era un vero e proprio palcoscenico a
cielo aperto.
   «Under Shakespeare’s pen, Venice the great state, small in territory, mighty in spirit and in
compass, rears herself up and dominates the play. Shakespeare reconstructs the grave merchant
life thronging the Rialto : the Jew rubbing shoulders with the worthy magnates. He brings to life
the gaiety of narrow streets in the city of carnival, crowded by night with masquers with
varnished faces, romping and merry-making. He wakens with his pen the Venice of the Ducal
Palace, and shows thc powerful machinery of Venetian law in all its inviolable grandeur. The
doge himself appears, and in his mighty presence the climax is reached. Venice herself is the
protagonist.»

  (V. M. Jeffery, 1932, p. 28)

   La storia di Porzia e Bassanio deriva dalla novella della Giornata IV del Pecorone
di Ser Giovanni Fiorentino (scritta nella seconda metà del Quattrocento, ma pubblicata
     nel 1558). La scena dei tre forzieri era molto celebre e conosciuta al tempo di
 Shakespeare e ne esistono molte versioni, tra cui quella del Decamerone del Boccaccio e
quella più antica presente nella famosissima Legenda Aurea di Jacopo Da Varagine.
  Probabile, viste le strette coincidenze, che Shakespeare abbia tenuto
conto della versione della leggenda proposta nel Gesta Romanorum, una
collezione in lingua latina di aneddoti e racconti (fine del XIII secolo -

                                                23
Shakespeare a Venezia

inizio del XIV), un libro molto popolare che ispirò Geoffrey Chaucer,
Giovanni Boccaccio e naturalmente anche William Shakespeare.

            La storia della libbra di carne è tratta da un fatto storico
  Per quanto riguarda, invece, la fonte della storia della libbra di carne, secondo
Elio Toaff (1966) deriverebbe da un fatto storico realmente accaduto a Roma e
raccontato da Gregorio Leti, nella sua celeberrima Vita di Sisto V Pontefice romano.

   «Quel che più importa, che questo buon pontefice non solo si compiaceva di render grande il
rigore nel suo governo per spurgare più tosto (così soleva egli parlare) la città e lo Stato dalle
infettazioni ed immondizie che aveva portato il torrente delle troppe indulgenze del suo anticessore;
ma di più godeva di far rendere certi atti di giustizia straordinari e fuor dell’uso, forse acciò meglio
si parlasse di lui: né sarà discaro al lettore di aggiungerne qui alcuni. S’era sparsa la voce in Roma
che Francesco Drago, ammiraglio inglese della regina Elisabetta, aveva preso e saccheggiato la città
di San Domenico, nell’isola Spagnuola, dove aveva fatto grandissima preda; [84] e questa nuova
era pervenuta con particolar lettera al signor Paolo Maria Secchi, mercante ricco ed autorevole in
Roma, che aveva qualche interesse in quelle parti, e come aveva in qualche maniera ancora per suo
mallevadore un tal giudeo Sansone Ceneda, fattolo chiamare, gli fece rapporto dell’avviso. Il giudeo,
di cui vi andava l’interesse a far conoscere falsa tal nuova, si diede a muover ragioni in contrario, o
sia che fosse trasportato dalla propria passione, o che veramente si lasciasse persuadere che falso
fosse l’avviso, o che pure a qualsisia prezzo volesse sostenere i suoi sentimenti, basta che si lasciò
scappar di bocca la parola: scommetto una libbra di carne del mio corpo, che questo non è vero; che,
per dire il vero, sono scommesse che sogliono farsi da quei che son duri nel loro sentimento, cioè,
scommetto la mia testa, scommetto una mano, e cose simili. Il Secchi, ch’era un poco fiero e
capriccioso, sentendo tal proposta, rispose subito: ed io scommetterò mille scudi contro la vostra
libbra di carne che questo è vero. Il giudeo fu così ostinato e temerario nel suo sentimento, che nel
punto istesso stesa la mano, soggiunse: ne faremo anche una scrittura, se vuole; ed il Secchi, assai
umorista, senza più ritardo, in presenza di due testimoni, conchiuse un bi glietto, il quale portava:
ch’essendo falsa la nuova che la città di San Domenico, nell’isola Spagnuola, sia stata presa dal
Drago per un tal tempo, il signor Paolo Maria Secchi sarà obbligato di pagare al giudeo Sansone
Ceneda mille scudi in contanti di buona moneta; ed al contrario, essendo vera, sarà permesso al
detto Secchi di tagliare con sua propria mano e con suo coltello bene affilato, una libbra di carne
dal corpo d’esso giudeo in quella parte che lo stimerà a proposito; e questo biglietto non solo venne
sottoscritto di loro propria mano con doppia copia, ma di più da due testimoni, cioè da un cristiano
e da un giudeo, ambidue mercanti di qualche comodo. La disgrazia per l’ebreo volle che prima di
tre mesi si verificò per indubitabile tal presa e sacco di tal città, di modo che, tutto afflitto, avendo
inteso che ostinatamente giurava il Secchi di volergli tagliare una libbra di carne, in virtù del
compromesso, col scegliere quella parte che il lettore può intendere, e che la modestia non vuol che io
nomini, gli fece offrire di pagargli mille scudi, che corrispondeva al prezzo della sua scommessa; ma
il Secchi protestò con gran fierezza e giuramento di voler che dal giudeo si soddisfacesse all’obbligo

                                                    24
Alessandro Bullo

del biglietto, onde questo meschino corse al governatore di Roma con il disegno di fare obbligare il
Secchi a contentarsi di ricevere l’equivalente di mille scudi. Il governatore, che sapeva molto bene
quanto si compiacesse il papa di dar sentenza egli stesso in cose di tal natura, andò ad
informarlo del tutto, e così vennero chiamati ambidue in sua presenza: da cui lettosi il biglietto
dell’obbligazione ed informato dalla lor bocca più ampiamente delle difficoltà, rispose: Quando si
fanno scommesse bisogna osservarlo, e noi intendiamo che da voi sia esattamente osservata la
vostra. Pigliate dunque voi il vostro coltello tagliente, ed in nostra presenza tagliate al giudeo una
libbra di carne in quella parte che vi piacerà del suo corpo; ma pigliate ben guardia al taglio,
perché se ne tagliate una semplice dragma più o meno, si darà contro di voi irremissibilmente
sentenza di forca: che si prepari dunque il coltello ed un paia di bilance per l’esecuzione del tutto.
Nell’udir tale sentenza il povero mercante Secchi cominciò a tremar da capo a piedi, come se gli
cominciasse la febbre quartana; e baciando la terra innanzi i piedi del papa, con amare lacrime
negli occhi faceva conoscere con tali gesti di esser molto lontano dal pensiere d’una tal esecuzione;
ed in tanto interrogato dal papa di quello risolvesse di fare, così lacrimante rispose: son contento,
Padre Santo, né altro domando che la sola benedizione della Santità Vostra, e che si stracci il
biglietto. Rivolto poi al giudeo, gli disse: e tu che cosa dici? sei tu ancora contento? Rispose
l’infelice giudeo, che si stimava felice d’avere ottenuto una così favorevole sentenza, per
l’impossibilità di tagliare un così giusto peso: contentissimo, Padre Santo. Replicò il pontefice:
ma noi non siamo contenti, né il nostro governatore, capo della nostra giustizia: e da qual legge
avete voi imparato di fare scommesse di tal natura? I sudditi de’ prencipi, siano gli uomini del
mondo tutto, non hanno che l’uso solo del loro corpo, ma non possono venderlo né tutto, né in
parte, senza espressa licenza del sovrano. Vennero dunque condotti ambidue in prigione, e nel
punto istesso ordinò al governatore di Roma, che per dare esempio ad altri di non impegnarsi a
così scandalose scommesse, dovesse esercitar contro di loro l’ultimo rigore della giustizia. Non
mancò il governatore di rappresentargli che veramente meritavano d’esser condannati ambidue in
un’emenda di mille scudi ciascuno; a cui rispose Sisto: e non altro? Dunque sarà permesso ad un
suddito di disporre della sua vita a suo piacere? Non è forse vero che il giudeo col permettere che
se gli tagli una libbra di carne del suo corpo, con un biglietto di sua mano, ha esposto la sua vita
alla morte? e questo non è un essere omicida di se stesso? Non è forse vero che il Secchi ha
commesso un omicidio volontario nel trattar prima, nel conchiudere poi, e nel voler finalmente
eseguire la scommessa di tagliare una libbra di carne al giudeo? Che? si metterà forse in dubbio
da voi, che tagliandosi la libbra di carne al giudeo, non fosse infallibilmente morto, visto il
cattivo disegno dell’altro nella natura del luogo che avea disegnato per il taglio? Dunque ecco due
omicidi volontari, e questi si castigheranno nel nostro pontificato con una sola emenda? Rispose a
questo il governatore, che il Secchi protestava di non avere avuto pensiero alcuno d’eseguire il
fatto, ma solo di far scorno e paura al giudeo; e questo ancora testimoniava d’aver fatto tale
scommessa, perché non credeva che fosse mai l’altro per venire al fatto. Ripigliò Sisto: ma quelle
proteste si sono fatte da che sono state le parti nella nostra presenza e del giudice, che vuol dire
per timore della giustizia; e qual credito deve darsi ad una tal confessione? Che vadino ambidue
alle forche, che se gli dia la sentenza di morte, e nostra sarà poi la cura di quello dovrà farsi del
resto. In somma vennero ambidue sentenziati alla testa, e la sentenza gli venne pronunziata

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