Shakespeare a Venezia Itinerari - Alessandro Bullo - Venice Café
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
2020 Bullo Alessandro Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
SOMMARIO INTRODUZIONE ...................................................................................................................................... 3 WILLIAM SHAKESPEARE E IL SUO VIAGGIO IN ITALIA ...................................................................... 4 Chi era William Shakespeare? .................................................................................. 4 Shakespeare … quante identità per un solo uomo! .................................................. 6 John Florio era William Shakespeare? .................................................................... 10 L'Italia vista dagli elisabettiani ... ............................................................................ 14 Il Veneto di Shakespeare ........................................................................................ 16 Venezia, città di confine e al limite, palcoscenico perfetto per i drammi shakespeariani ........................................................................................................... 18 Le fonti scritte della Venezia di Shakespeare .......................................................... 19 Venezia, città Vergine e Doppio di Londra .............................................................. 21 I due drammi veneziani: Il mercante di Venezia e l’Otello ...................................... 22 ITINERARI DI SHAKESPEARE A VENEZIA ........................................................................................... 30 Il Ghetto di Venezia e Il mercante di Shakespeare .................................................. 30 La sinagoga del mercante di Venezia ...................................................................... 33 Shylock e gli ebrei veneziani, tolleranza o sfruttamento ......................................... 35 Il Mercante di Venezia, la Kabbalah e l’armonia cosmica ....................................... 38 Rialto e Il Mercante di Venezia ............................................................................... 43 Desdemona, il meretricio a Venezia e il Castelletto di Rialto .................................. 47 Il Mercante di Venezia e la critica alla dissoluta società veneziana ......................... 51 Venezia e Belmonte, due facce della stessa medaglia ... ......................................... 53 Il Mercante di Venezia, il traghetto, la gondola e il cavallo ..................................... 55 Palazzo Ducale e la Giustizia veneta nell’Otello e Il mercante di Venezia ............... 58
I mori di Piazza San Marco e il Moro di Shakespeare .............................................. 64 Il Sagittario e l’Otello di Shakespeare ..................................................................... 67 I Signori di Notte al Criminal nell’Otello .................................................................. 69 I palazzi di Otello e Desdemona a Venezia .............................................................. 71 BIBLIOGRAFIA....................................................................................................................................... 73 RINGRAZIAMENTI ................................................................................................................................ 83
«In Shakespeare, i personaggi si sviluppano anziché rivelarsi, e lo fanno perché concepiscono nuovamente se stessi. A volte ciò accade perché si origliano mentre parlano da soli o con altri. Questo modo di autoascoltarsi è la via principale all’individualizzazione, e nessun altro scrittore, prima o dopo Shakespeare, ha compiuto così bene il miracolo di creare voci diverse ma coerenti per i suoi oltre cento protagonisti e per molte centinaia di interessantissimi personaggi secondari.» (H. Bloom, 2003)
Alessandro Bullo INTRODUZIONE Questo opuscolo è il primo di una serie, dedicata da Venice Café, all’Arte, alle Curiosità e alla Storia di Venezia. Gli opuscoli saranno distribuiti gratuitamente in versione digitale sul nostro sito. Questo primo opuscolo è dedicato a William Shakespeare e al suo presunto viaggio a Venezia. L’autore inglese scrisse due opere ambientate nella città lagunare: Il mercante di Venezia e l’Otello. Venice Café cercherà di accompagnarvi, nel modo più piacevole possibile, attraverso i luoghi in cui sono o potrebbero essere state ambientate alcune scene di questi drammi. L’opuscolo è diviso in due parti. I primi capitoli, che potrete benissimo saltare, sono dedicati alla misteriosa figura di Shakespeare e al suo viaggio in Italia. All’interno degli innumerevoli studi, dedicati al collegamento esistente tra l’Italia e le opere di Shakespeare, un problema tra i più discussi è certamente quello dell’ipotetico viaggio del Bardo in Italia: Shakespeare vide il Belpaese con i suoi occhi o lo conobbe solo attraverso il racconto di chi ci era stato e i numerosi libri italiani pubblicati a Londra? Per quanti studiosi sostengano che Shakespeare fece un viaggio in Italia, altrettanti sono certi del contrario. La seconda parte è dedicata agli “itinerari shakespiariani”, che attraversano idealmente Venezia, partendo dal Ghetto, passando per Rialto e arrivando a Piazza San Marco. 3
Shakespeare a Venezia WILLIAM SHAKESPEARE E IL SUO VIAGGIO IN ITALIA Chi era William Shakespeare? William Shakespeare (1564 - 1616), è considerato, insieme a Dante Alighieri, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, l’iniziatore del teatro moderno, e sicuramente il più grande drammaturgo del mondo. William Shakespeare nacque a Stratford-upon-Avon nel 1564, da una famiglia di modesta borghesia artigianale. Tradizionalmente si indica il 23 aprile, perché in quel giorno si celebra la festa di San Giorgio, protettore dell'Inghilterra; in realtà l'esatto giorno di nascita è una questione ancora oggi molto dibattuta tra gli studiosi. Si sposò con una donna più vecchia di lui ed ebbe tre figli. Poco più che ventenne, lasciò la città natale per recarsi in cerca di fortuna a Londra. Qui, dopo vari lavori, diventò attore e successivamente scrittore di drammi. Dopo il successo del Riccardo III, a Londra scoppiò la peste (nel 1593 il 14% della popolazione londinese morì di peste) e i teatri vennero chiusi. Nel 1594, finito il pericolo e riaperti i teatri, Shakespeare divenne co-titolare della compagnia teatrale Lord Chamberlain's Men, 4
Alessandro Bullo proprietaria del Globe Theatre e al servizio del re Giacomo I (venivano chiamati i King’s men). Shakespeare si ritirò infine a Stratford nel 1613, dove morì il 23 aprile 1616 (data iscritta sul monumento funebre che si trova nella chiesa parrocchiale della Santa Trinità). Alcuni anni dopo la sua morte, gli attori che lavoravano per lui, raccolsero e pubblicarono tutte le sue opere in un unico volume. Nel periodo in cui visse, Shakespeare non era considerato un grande scrittore; era un drammaturgo come molti altri, che produceva opere per intrattenere il pubblico londinese che affollava i teatri. Alcuni suoi contemporanei lo accusarono addirittura di essere un ladro, un autore che ai giorni nostri sarebbe stato accusato di plagio e denunciato per violazione dei copyright. Della sua vita non conosciamo molto, anche se esistono alcuni documenti, contratti, firme e il testamento. Queste sono le poche notizie certe su William Shakespeare di Stratford, attore ed impresario teatrale realmente esistito. Il dubbio si pone per la figura dello Shakespeare drammaturgo, su cui esistono profonde quanto discordanti opinioni. Esistono fondamentalmente due grandi partiti sull’identità di Shakespeare: - gli Stratfordiani sostengono che William Shakespeare di Stratford- upon-Avon (personaggio reale e vissuto storicamente) sia l'unico reale autore delle opere di Shakespeare conosciute in tutto il mondo. Secondo gli Stratfordiani, le descrizioni dell’Italia sono frutto della sua fervida fantasia, unita alla lettura di libri di viaggio e di informazioni avute da amici e viaggiatori. - gli Anti-Stratfordiani, che sono invece quelli che non credono che l’uomo nato a Stratford possa essere il creatore delle opere di William Shakespeare, che sarebbe solo uno pseudonimo. Secondo questo partito, la vasta e profonda cultura dimostrata nei drammi shakespeariani così come le precise indicazioni topografiche di vari paesi europei dimostrerebbero che il Bardo era un personaggio nobile e di alto livello culturale, che aveva avuto la possibilità di viaggiare in Europa e quindi anche in Italia. Gli Anti-Stratfordiani si dividono ulteriormente in due grandi gruppi: i Baconiani, secondo cui dietro Shakespeare si celerebbe il grande Francis Bacon (Londra, 22 gennaio 1561 – Londra, 9 aprile 1626), celebre filosofo, politico e 5
Shakespeare a Venezia saggista inglese vissuto alla corte inglese, sotto il regno di Elisabetta I Tudor e di Giacomo I Stuart; e gli Oxfordiani che identificano il Bardo con Edward de Vere (Essex, 12 aprile 1550 – Hackney, 24 giugno 1604) XVII conte di Oxford. I due gentiluomini inglesi (Bacon e De Vere) avevano soggiornato in Italia, e avevano quindi una conoscenza diretta di essa, evidenziata poi nei drammi. Ma come vedremo nel capitolo successivo il problema sull’identità del Bardo è molto più complessa. Persino il celebre ritratto del Bardo, conosciuto come “Droeshout portrait”, dal nome dell’incisore, William Droeshout (1601 - c. 1650), e contenuto in Mr. William Shakespeares comedies, histories, & tragedies : published according to the true originall copies, ossia la prima edizione completa dei suoi drammi, pubblicata nel 1623, sette anni dopo la sua morte, è da molti considerato un falso (cfr. Orsi2, 2016, p. 143). William Droeshout, Ritratto di William Shakespeare, in Mr. William Shakespeares comedies, histories, & tragedies published according to the true originall copies, London 1623 Shakespeare … quante identità per un solo uomo! 6
Alessandro Bullo Alcuni libri sostengono che Shakespeare non sia mai esistito, altri che fosse il celebre filosofo e politico inglese Francis Bacon; altri il drammaturgo Christopher Marlowe (1564-1593); altri ancora addirittura la Regina Elisabetta I (1533–1603). Elisabetta non è stata la prima né l'ultima donna ad essere identificata come l'autrice dei drammi shakespiriani. Nel 2014, John Hudson, nel suo saggio Shakespeare's The Dark Lady: Amelia Bassano Lanier: The Woman Behind Shakespeare's Plays?, ipotizza che ad aver scritto i drammi di Shakespeare sia stata Emilia Bassano Lanier (1569–1645), poetessa inglese, conosciuta anche come la “dark lady” di Shakespeare, ossia colei che avrebbe avuto una tempestosa relazione con il Bardo e che avrebbe ispirato alcuni dei suoi più bei sonetti. L’ipotesi che Shakespeare fosse una donna affascinò anche la grande scrittrice Virginia Woolf che, nel suo saggio A Room of One’s Own, del 1929, sostiene che «Shakespeare was androgynous» (Woolf, 1935, p. 156). «There is a mystery about the identity of William Shakespeare. The mystery is this: why should anyone doubt that he was William Shakespeare, the actor from Stratford-upon-Avon? … Sometimes it is suspected that the academics are covering up a scandal: it is said that we do not know who wrote the plays attributed to Shakespeare. Every now and then - it has been happening for over a hundred years - an amateur literary sleuth comes forward and, amidst a flurry of publicity, claims to have solved the mystery. The professore are likened to the plodding Inspector Lestrade; the truth can only be revealed by some unacknowledged Sherlock Holmes.» (J. Bate, 1997, p. 65) Sono dunque assai numerosi gli scettici sull'identità storica di Shakespeare. Ma quando iniziò questa contestazione della tradizione, secondo cui “William Shakespeare di Stratford-upon-Avon” non era l'autore dell'Otello e dell'Amleto? In un suo celebre saggio, Contested Will. Who wrote Shakespeare?, James Shapiro racconta come tutti questi dubbi sull'identità di Shakespeare siano nati nell'Ottocento con il movimento Romantico. Fu in quel periodo che nacque il mito di Shakespeare. I Romantici, infatti, non potevano accettare che l'autore di capolavori, quali l'Amleto e il MacBeth, potesse essere una persona normale. L'esistenza di Shakespeare, un borghese, sposato con una donna più vecchia di lui, audace e astuto impresario teatrale, a quanto pare anche molto legato al denaro (molti documenti riguardano l'acquisto di case, il guadagno tramite interessi), non era infatti abbastanza "romantica". Iniziarono così a mettere in dubbio che Shakespeare fosse 7
Shakespeare a Venezia l'autore di quelle opere meravigliose, e a trovare altri candidati più adatti ad essere identificati con il grande poeta e drammaturgo elisabettiano. • La prima a rifiutare questa identità fu Delia Bacon (Tallmadge, 2 febbraio 1811 – Hartford, 2 settembre 1859), discendente del celebre Sir Francis Bacon, nel suo saggio The Philosophy of the Plays of Shakespeare Unfolded, pubblicato nel 1857, con la prestigiosa prefazione di Nathaniel Hawthorne (l'autore della Lettera scarlatta). Delia riteneva William Shakespeare un uomo ignorante, incapace di scrivere i capolavori che gli venivano attribuiti (uno Shakespeare di questo tipo, arrogante, egoista, legato al denaro e volgare, è quello del film Anonymous del 2011 diretto da Roland Emmerich). Tentò quindi di dimostrare che le opere teatrali erano state scritte da una confraternita di uomini, tra cui Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Edmund Spencer ed Edward de Vere (riuniti in una specie di cenacolo o tavola rotonda), con l'intenzione di educare segretamente il popolo, rendendolo conscio della dispotica tirannia della regina Elisabetta e di re Giacomo, e promuovere la filosofia sociale e la politica riformista di Bacon. Dopo la pubblicazione del saggio, Delia Bacon ebbe una grave crisi nervosa e fu internata all'Hartford Retreat for the Insane, dove morì nel 1859. • Nel 1898, Wilbur Gleason Zeigler pubblicò il suo saggio It Was Marlowe, in cui veniva ipotizzato che i drammi di Shakespeare fossero in realtà stati scritti da Christopher Marlowe. Questa stralunata ipotesi (Marlowe era già morto nel 1593 e il suo stile è completamente diverso da quello di Shakespeare) fu riproposta nel fortunato libro The Man Who Was Shakespeare (1955) scritto da Calvin Hoffman. • Anche il celebre Mark Twain, nel suo libro Is Shakespeare Dead???? From My Autobiography, dubitava fortemente che Shakespeare potesse essere l'autore delle opere teatrali a lui attribuite. • Henry James (1843-1916), in una lettera a Violet Hunt, datata 26 agosto 1903, scrisse: «Lamb House, Rye. Aug. 26th, 1903. Dear Violet Hunt ... I am ‘a sort of ’ haunted by the conviction that the divine William is the biggest and most successful fraud ever practised on a patient world ... and I can only express my general sense that by saying that I find it almost as 8
Alessandro Bullo impossible to conceive that Bacon wrote the plays as to conceive that the man from Stratford, as we know the man from Stratford, did» (1920, p. 432). • Il celeberrimo Sigmund Freud (Freiberg, 6 maggio 1856 – Londra, 23 settembre 1939), in un primo tempo, appoggiò l’ipotesi di Delia Bacon, ma poi ritenne più fondata quella proposta da John Thomas Looney nel suo Shakespeare Identified in Edward de Vere the Seventeenth Earl of Oxford (1920), in cui viene elaborata la teoria “oxfordiana”, ossia che dietro il nome di Shakespeare si celasse Edward de Vere (Essex, 12 aprile 1550 – Hackney, 24 giugno 1604) XVII conte di Oxford, protagonista del film Anonymous (2011) diretto da Roland Emmerich. Anonymous di Roland Emmerich: Edward de Vere e Henry Wriothesley, figli della Regina Elisabetta J. Thomas Looney è celebre per aver pubblicato Shakespeare identified, in cui sostiene che le opere di William Shakespeare sarebbero in realtà state scritte dal nobiluomo Edward de Vere, allora Lord Ciambellano, cioè il secondo dignitario per importanza alla Corte d'Inghilterra, e XVII conte di Oxford, che le avrebbe consegnate al drammaturgo Ben Johnson che, a sua volta, le avrebbe date a Shakespeare. Questo saggio ha ispirato il film Anonymous del 2011 di Roland Emmerich. Vale la pena ricordare a questo proposito che, nello "Stationer's Register" (un catalogo delle opere letterarie pubblicato in Inghilterra, dal 1554 al 1708), nell’anno 1598, risulta la registrazione da parte di un certo James Roberts del manoscritto de "Il mercante di Venezia", con l'annotazione che esso poteva essere stampato soltanto con il consenso del Lord Ciambellano, ossia Edward de Vere (cfr. E. K. Chambers, 1930, I, pp. 131 e 145). Per il suo film, Emmerich si ispirò alla "teoria del principe Tudor", secondo la quale Edward de Vere ed Elisabetta erano stati amanti e dalla loro relazione sarebbe nato Henry Wriothesley, in seguito divenuto III conte di Southampton. In Anonymous, inoltre, Edward de Vere è allo stesso tempo figlio di Elisabetta, e quindi Henry Wriothesley sarebbe il frutto di un incesto. Questa storia non è molto più che una leggenda metropolitana. 9
Shakespeare a Venezia John Florio era William Shakespeare? Una delle ipotesi più accreditate, negli ultimi decenni, è che il vero autore delle opere teatrali di William Shakespeare fosse John Florio (Londra, 1552 – Fulham, 1626). Indiscutibile è l'importanza di John Florio per la sua opera di trasmissione della cultura italiana in Inghilterra, attraverso la pubblicazione di due celebri opere: - dizionario italo-inglese A Worlde of Wordes (1598), con ben 46.000 parole italiane; - il Queen Anna's New World of Words (1611), con circa 74.000 parole italiane. Florio tradusse in inglese anche gli Essais di Montaigne (1603). Nel 1954, inoltre, H.G Wright attribuì per la prima volta la traduzione inglese ed anonima del Decamerone del Boccaccio (1620) a John Florio; attribuzione recentemente confermata da Hermann W. Haller, Lamberto Tassinari e Laura Orsi. Florio era, inoltre, istitutore di Henry Wriothesley (Cowdray, 6 ottobre 1573 – 10 novembre 1624), III conte di Southampton. Florio era contemporaneo di Shakespeare (era undici anni più vecchio di lui), ed è quindi possibile ipotizzare in modo abbastanza plausibile che si conoscessero. Entrambi erano legati alla famiglia di Henry Wriothesley, nel periodo in cui Shakespeare gli dedicò le sue poesie Venus e Adonis e Lucrece, cioè tra l’aprile 1593 e il maggio del 1594 (cfr. D. Montini, 2015, p. 113). «egli aveva modo di procacciarsi tutte le notizie, che gli occorrevano, proprio nella casa dove più spesso andava, nella casa di quel giovane conte di Southampton, che fu suo patrono ed amico […]Tra coloro, che godevano della sua splendida ospitalità, si contavano parecchi compatriotti nostri, su cui primeggiava Giovanni Fiorio, che fu addirittura ai suoi stipendi. E il Fiorio era in Inghilterra la grande, indiscussa autorità a que’tempi in fatto di cultura e civiltà italiana: 10
Alessandro Bullo insegnante abilissimo, ricercato e accarezzato dai più ricchi e potenti, egli aveva co’ suoi libri e colla sua parola popolarizzata l’Italia tra i geniali cortigiani e corteggiatori di Elisabetta. In un simile ambiente quanti elementi poteva raccogliere lo Shakespeare, ascoltando e interrogando, per ricostruire lo scenario pittoresco della Laguna, delle calli veneziane e delle verdeggianti rive della Brenta, la vita vissuta tra i rumori commerciali di Rialto» (C. Segrè, 1911, p. 42) Laura Orsi, laureata all’Università di Pisa e docente di Italian Studies alla Franklin University Switzerland di Lugano e di Letteratura inglese alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Padova, ha recentemente pubblicato alcuni articoli in cui, in base ad una analisi linguistica comparativa, sia lessicale che stilistica, delle opere di Shakespeare e di John Florio, sostiene la perfetta compatibilità della creatività linguistica di Shakespeare con quella di John Florio: - entrambi inventavano neologismi (Shakespeare: 1508; Florio: 1200); - entrambi utilizzavano spesso la figura retorica della copia, ossia dell'amplificazione di un concetto attraverso "l'utilizzo in successione di 3-4 parole sinonimiche (para-semantiche)" (L. Orsi2, 2016, p. 224); - entrambi amavano usare proverbi e massime. Per Florio era un ottimo mezzo per insegnare l'italiano; mentre Shakespeare ne fa largo uso nei suoi drammi (cfr. D. Montini, 2015, p. 121). Non mancano, inoltre, le citazioni delle opere di Florio nei drammi di Shakespeare. In Otello, ad esempio, l’attacco di Iago ai costumi delle donne è ispirato da un passo dei Second Fruites di Florio: - Iago: Come on, come on, you are pictures out of door, Bells in your parlours, wildcats in your kitchens, Saints in your injuries; devils being offended, Players in your housewifery, and hussies in your beds (Otello, Atto II, Scena I); - Women are in churches, Saints: abroad, Angels: at home, deuills: at windowes Syrens: at doores, pyes: and in gardens, Goates. (Second Fruites, capitolo 12) Molti autorevoli studiosi hanno quindi collegato William Shakespeare, attore e astuto impresario, alla figura di John Florio, eccezionale conoscitore della lingua italiana, sottolineando il ruolo svolto da Florio «nell’assistenza, linguistica, letteraria, culturale in senso lato, a Shakespeare» (L. Orsi1, 2016, p. XXXIX). 11
Shakespeare a Venezia «Il vocabolario di Florio ha un colorito prevalentemente lombardo-veneto, Venezia è per lui la principale città italiana, come può vedersi nell’ottavo capitolo dei First Fruites, tutto ciò può aiutarci a capire perché le allusioni locali nei drammi italiani di Shakespeare siano limitate a Venezia e alle città vicine … la sua versione di Montaigne, pur farcita com’è di pretese eleganze, divenne un classico e una fonte di pensieri pei drammaturghi elisabettiani, prima di tutti Shakespeare, che ne nutrì il suo Amleto; ai suoi manuali di conversazione e al suo vocabolario italiano i contemporanei di Shakespeare dovettero molta della conoscenza che ebbero della nostra lingua» (M. Praz, 1969, p. 107) Questo collegamento tra Shakespeare e Florio ha portato inevitabilmente qualcuno a pensare che essi potessero essere la stessa persona: che lo Shakespeare di Stratford fosse solo un prestanome, che portava a teatro i drammi scritti da Florio, che preferiva rimanere nella sicurezza dell’anonimato: il teatro, anche se amato dagli aristocratici e dagli uomini di cultura, era pur sempre malamente tollerato dai puritani che governavano l'Inghilterra. Molti siti internet e libri dedicati a Shakespeare riportano che, nel 1927, un giornalista siciliano, Santi Paladino, ipotizzò per primo la possibilità che Shakespeare fosse lo pseudonimo di un poeta italiano, Michelangelo Florio, padre di Giovanni Florio, che successivamente tradusse le opere di suo padre dall'italiano all'inglese. In realtà, il primo collegamento tra Shakespeare e la famiglia Florio risale al lontano 1747, quando William Warburton, nella sua edizione delle opere di Shakespeare (The Works of Shakespear), dichiarò che per il personaggio di Oloferne il drammaturgo si era ispirato a John Florio, un insegnante di lingua italiana a Londra. Vale la pena ricordare che nella commedia Pene d'amor perdute, opera giovanile di Shakespeare, il maestro di scuola Oloferne declama: "Oh, buon vecchio Mantovano! Potrei parlare di te come il viaggiatore parla di Venezia: Vinegia, Vinegia, Chi non ti vede, non ti pregia." (Atto IV, Scena II - 1993, p. 271). Questo motto si trova anche nel volume The second fruits, pubblicato da Giovanni Florio nel 1591. E questo non è l'unica citazione, molti proverbi declamati nelle opere di Shakespeare sono presenti nei vocabolari di Florio. 12
Alessandro Bullo Sempre nel settecento, un certo Herbert Lawrence, nel suo romanzo picaresco The Life and Adventures of Common Sense: An Historical Allegory, Veluti in Speculum (London 1769), in forma ironica e allegorica, insinuava che l'attore e impresario Shakespeare avesse derubato due stranieri (identificabili con John Florio e suo padre Michelangelo) della loro arte. «Amongst my Father’s Baggage, he presently cast his Eye upon a common place Book, in which was contained, an infinite variety of Modes and Forms, to express all the different Sentiments of the human Mind, together with Rules for their Combinations and Connections upon every Subject or Occasion that might Occur in Dramatic Writing. He found too in a small Cabinet, a Glass, possessed of very extraordinary Properties, belonging to GENIUS and invented by him; by the Help of this Glass he could, not only approximate the external Surface of any Object, but even penetrate into the deep Recesses of the Soul of Man – could discover all the Passions and note their various Operations in the human Heart. In a Hat-box, wherein all the Goods and Chattels of HUMOUR were deposited, he met with a Mask of curious Workmanship, it had the Power of making every Sentence that came out of the Mouth of the Wearer, appear extremely pleasant and entertaining – the jocose Expression was exceedingly natural, and it had Nothing of that shining Polish common to other Masks, which is too apt to cast disagreeable Reflections» (H. Lawrence, 1769, pp. 147-148) Da quel momento, iniziò in ogni modo una elettrizzante ed intrigante gara per provare l'esistenza di un collegamento, sia in una prospettiva biografica che in una prospettiva linguistica, tra questi due giganti della cultura elisabettiana (cfr. D. Montini, 2015, p. 109); e soprattutto dopo l’intervento di Santi Paladino, negli anni Venti e Trenta, altri studiosi misero in evidenza punti di contatto tra la figura del Bardo e la famiglia Florio (cfr. L. Orsi1, 2016, p. XII). All’inizio del 2000, alcuni saggi e anche documentari televisivi, piuttosto superficiali e privi di prove documentarie, hanno nuovamente attirato l’attenzione del grande pubblico su questo problema, ma senza aggiungere alcuna prova definitiva: per quanto affascinante sia la possibilità che Giovanni Florio sia il vero autore dei drammi shakespeariani, non esiste alcuna prova a riguardo. 13
Shakespeare a Venezia L'Italia vista dagli elisabettiani ... Particolarmente complesso e anche contraddittorio era il modo in cui gli inglesi, tra la seconda metà del Cinquecento e l'inizio del Seicento, vedevano l'Italia (soprattutto a causa del rapporto conflittuale derivato dalla separazione religiosa provocata dalla Riforma). L’Italia era la terra del vizio, degli omicidi, dei complotti, dei veleni e tradimenti; immagini legate soprattutto a Roma e al papato, in cui la depravazione e corruzione della famiglia dei Borgia faceva considerare la città come la sede terrena dell'Anticristo. Si tratta di un’immagine stereotipata, frequente nei drammaturghi elisabettiani e giacobiani, soprattutto nel teatro di John Marston (1576-1634) e di John Webster (1580 ca. - 1625 ca.). Quest'ultimo, nelle sue opere, si compiace di mostrare un'Italia, palcoscenico di omicidi grondanti di sangue, di micidiali veleni, di intrighi e menzogne (cfr. R. Severi, 2009, p. 277). Per gli inglesi, l'Italia era, inoltre, la patria di Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527), considerato una vera e propria personificazione del Diavolo. Il Principe di Machiavelli fu tradotto e stampato per la prima volta in Inghilterra solo nel 1640, ma già alla fine del Cinquecento circolavano traduzioni francesi e copie in italiano stampate clandestinamente: «in quanto, in quest’epoca, leggere e far circolare Machiavelli significava appartenere alla schiera degli infedeli, degli empi e degli atei [...] I critici di M. – soprattutto in ambiente puritano – giunsero addirittura a costruirne uno stereotipo negativo, quasi una «leggenda nera», facendone una personificazione del male e di tutti i vizi umani» (C. Altini, 2014, p. 20- 21). Agli scrittori elisabettiani, Machiavelli e la sua opera erano noti soprattutto attraverso un libro pubblicato a Parigi nel 1576: Anti-Machiavel di Innocent Gentillet, che era convinto che il massacro degli ugonotti, nella notte di San Bartolomeo fosse stato causato dalle idee politiche di Machiavelli. In questo 14
Alessandro Bullo saggio, lo scrittore fiorentino viene raffigurato come un maestro dell'inganno politico e dell'assassinio, che insegna ai tiranni le strategie più immorali per detenere il potere e raggiungere i propri obbiettivi, un «nemico del genere umano» e autore di un «libro scritto con il dito del diavolo». L'esempio classico di Machiavelli mefistofelico, che viene spesso citato, è quello del prologo di The Jew of Malta, la tragedia di Christopher Marlowe, portata in scena probabilmente nel 1592. A recitare il prologo è lo stesso Machiavelli, che illustra e difende le sue idee politiche: è la forza a creare i Re e con essa le leggi sono più salde, anche se scritte nel sangue. Anche Shakespeare cita il Machiavelli più volte nelle sue opere: • Nell'Enrico VI, il personaggio del Duca di York maledice Alecon come famigerato e rinomato Machiavelli (I, 4); e sempre nella stessa tragedia Richard of Gloucester declama: «So aggiungere colori al camaleonte e cambiar forma come Proteo, se ciò mi giova, e dar lezioni a quell’assassino di Machiavelli. Se sono capace dì far questo, non saprò anche ottenere una corona? Via! la coglierò, anche se fosse assai più lontana di quel che non sia.» (Atto III, Scena III - 1993, p. 88). • L'oste delle Allegre comari di Windsor si vanta invece della sua intelligenza machiavellica: «Non sono io un buon politico? Un volpone? Un Machiavelli?» (Atto III, Scena I, p. 740) Shakespeare, in ogni modo, pur utilizzando personaggi fortemente drammatici e moralmente abbietti come Shylock e Iago, evita l'Italia esageratamente sanguinosa e machiavellica di John Webster e di altri drammaturghi elisabettiani, preferendo approfondire la psicologia dei personaggi in situazioni al limite (la vendetta nel Mercante, l'odio e la gelosia nell'Otello). Accanto alla visione negativa dell'Italia, ve ne era una diversa: essa era vista come la culla della cultura (Rinascimento) e sede di prestigiose università (come quella di Padova, citata nel Mercante), della moda e dell'eleganza e quindi fonte inesauribile per i testi teatrali. I modelli culturali dell'Inghilterra elisabettiana erano italiani: Il cortegiano di Baldassar Castiglione, Il galateo di monsignor Della Casa, e la sonettistica stilnovistica e petrarchesca. 15
Shakespeare a Venezia «Sappiamo che non esisteva praticamente libro a stampa italiano ignorato dagli Inglesi, che possedettero perciò più libri italiani che inglesi [...] Più di quattrocento libri furono tradotti da oltre duecento-duecentocinquanta autori italiani […] Trionfava il Petrarca, letto nell’originale, tradotto, imitato; trionfava del pari il Boccaccio.» (A. Obertello, 1964, p. 417) Il Veneto di Shakespeare Shakespeare ha ambientato 106 scene in Italia in cui si possono trovare oltre 800 riferimenti all'Italia in generale; 400 riferimenti a Roma; 52 a Venezia; 34 a Napoli; 25 a Milano; 23 a Firenze; 22 a Padova e 20 a Verona. Oltre a questi si possono trovare riferimenti casuali ma precisi di Genova, Mantova, Pisa, Ferrara, Liza Fusina, Villafranca di Verona, Messina in Sicilia e molti altri (cfr. A. Waugh, 2013, p. 80). Shakespeare ambienta nel Veneto quattro drammi • il primo atto dell'Othello a Venezia (negli atti successivi il dramma è ambientato nella colonia veneziana di Cipro); • Il mercante di Venezia; • I due gentiluomini di Verona • Giulietta e Romeo (Verona e Mantova) La critica, sottolineando come in questi drammi si possano riscontrare precisi riferimenti alle città venete e attenzione per l'ambientazione, ha ipotizzato che Shakespeare avesse viaggiato in Veneto, magari proprio in quegli anni che vanno dal 1586 al 1592, durante i quali non abbiamo sue notizie. 16
Alessandro Bullo Secondo molti studiosi e accademici i drammi shakespeariani possono essere stati scritti solo da una persona con una conoscenza diretta dell'Italia: l’analisi dei dieci drammi ambientati in Italia ha, infatti, evidenziato precisi riferimenti a luoghi reali, a personaggi e a magistrature storiche, e al tempo stesso una ambientazione intima e colorita (atmosfera locale) della vita reale delle città italiane. «that of all English poets who visited Italy, with possible exception of Shelley and Byron, no one has depicted our scenes, our life, our character and our nature better than Shakespeare. The portrayer of spirit of humanity, genius of English Renaissance, in whose works we find not only true life and passion, but all European institutions with their chivalry, courtesy and ambitions, could not have sung praises of classical yet ever romantic land of Italy without having paid her at least a fleeting visit.» (E. Grillo, 1949, p. 148) «Alcuno ha trovato “una pura atmosfera padovana” in The Taming of thè Shrew (Ch. Knight), altri, che il primo atto d’Othello è completamente veneziano di spirito. Un critico osserva che come nel Merchant of Venice Portia è il tipo della brillante e vivace donna veneziana, così in Othello Desdemona personifica il tipo di donna amorosa, sottomessa e gentile, caro agl’italiani; lo stesso critico (Horatio F. Brown) dichiara che per molti aspetti Shylock è più veneziano che ebreo.» (M. Praz, 1969, p. 79). Una delle motivazioni più spesso ripetute dagli accademici per provare che Shakespeare non è mai stato a Venezia è quella che il drammaturgo ha omesso di citare i siti più famosi della città: il Canal Grande, il Palazzo Ducale, Piazza San Marco, l'Arsenale. Come giustamente sostenuto da Alexander Waugh, un’argomentazione più debole non potrebbe essere immaginata: «That Dickens’ London does not mention Trafalgar Square and Buckingham Palace, or that Tom Wolfe’s New York does not incorporate the Statue of Liberty and the Empire State Building, tells us nothing about those writers’ relationships to those cities. Shakespeare was not a travel writer in the manner of his contemporaries, Coryat and Fynes Morrison, nor, like Ben Jonson (who set Volpone in Venice without ever having been there), did he need to overstate his claim by listing all the most obvious and celebrated features of those places where he set his plays. Shakespeare’s method, which we see repeated time and again, was to pepper his plays with frequent, minor and precise touches of local color. In both of his Venetian plays he presents many little facts about the city that can be traced neither to the original sources from which he drew his plots, nor to any known travel books of the time. In Othello, for instance, he mentions 17
Shakespeare a Venezia the “Sagittary,” a dark, narrow street where the arrow makers lived (now called the Frezzaria); he mentions the “penthouse” in the Ghetto Nuovo (still standing on the square today); the Venetian clogs, or zoccoli; the “tranect” at Liza Fusina; he shows knowledge of the “common ferry,” (the traghetti which brought passengers from the “tranect” to Venice); he is precise in his measurement of distance between his Belmont (The Villa Foscari), Liza Fusina and Venice; he refers to the gondola and the gondolier, to Magnificos and Signiors, to the merchants’ Rialto district, and the Venetian custom of presenting “a dish of doves” as a gift or peace offering.» (A. Waugh, 2013, pp. 78-79) Venezia, città di confine e al limite, palcoscenico perfetto per i drammi shakespeariani Fin dall'antichità, Venezia fu una città affascinante, capace di stupire e di sfidare le regole; un vero e proprio paradosso, dovuto a quell'essere, in modo quasi naturale, una discordia concors o coincidentia oppositorum o, come sostenuto da Peter Platt, «a resonating play of opposites». Venezia era dunque una coincidentia oppositorum: città di terra e di mare; modello politico complesso e misto (Senato e Doge); porta d'Oriente e potenza militare occidentale; sede di centinaia di chiese cattoliche, eppure considerata dagli inglesi una città potenzialmente protestante; protettiva e conservatrice per quanto riguarda la castità delle figlie, eppure tollerante nei confronti delle cortigiane (cfr. P. G. Platt, 2001, p. 124). Come poteva una città del genere non attrarre l'attenzione di un grande scrittore come William Shakespeare? Alla fine del Cinquecento, inoltre, Venezia non era più la potenza economica e militare di un secolo prima: tra il 1499 e il 1503, era stata costretta ad affrontare ancora una volta il nemico turco, dissanguando le finanze pubbliche, e rendendosi conto di essere sempre più debole; il 18
Alessandro Bullo Portogallo, alla fine del XVI secolo, aveva trovato una nuova rotta verso le Indie per il commercio delle spezie (missione portata a termine da Vasco da Gama nel 1498), interrompendo così il monopolio commerciale di veneziani, turchi e arabi; nel 1509, la Lega di Cambrai aveva bloccato le mire espansioniste della Repubblica verso la terraferma; la vittoria di Lepanto del 1571 era stata più apparente che reale (cfr. D. McPherson, 1990, pp. 31-32). Il teatro di Shakespeare è famoso perché esprime la crisi intellettuale e morale della sua epoca. Shakespeare pone al centro dei suoi drammi l'uomo con i suoi dubbi e il suo senso di precarietà, e quindi anche la sua incapacità ad affrontare il divenire. E la Venezia della fine del Cinquecento, una città con i turchi alle porte, il commercio in crisi, una moralità dubbia, ben si prestava come sfondo ai suoi personaggi. Le fonti scritte della Venezia di Shakespeare Alcune parti della celebre guida artistica e storica Venetia città nobilissima di Francesco Sansovino (1581) furono tradotte in inglese da Lewes Lewkenor, il quale tradusse anche il De Magistratibus et Republica Venetorum di Gasparo Contarini (1543), che fu pubblicato in Inghilterra nel 1599, con il titolo The Commonwealth and Government of Venice. Quest’ultimo libro è considerato «one of the central documents through which the myth (di Venezia) was transmitted to England—and England, after all, was the country in northem Europe in which the myth had its most profound effects. Lewkenor’s book is interesting not only because of its importance in the history of politicai thought but also because it was probably used as a minor source by Shakespeare for Othello and by Ben Jonson for Volpone» 19
Shakespeare a Venezia (D. McPherson, 1988, p. 459). La principale fonte del libro di Lewkenor è il trattato del Cardinale Gasparo Contarini, opera molto popolare all'epoca, come lo era l'autore stesso: membro di una nobile famiglia veneziana, considerato il più importante uomo di chiesa veneziano del suo tempo, che celebrava la messa per il papa. La raffigurazione che Gasparo Contarini offre nel sul libro di Venezia è quella mitica (e fin troppo ideale!) di una città retta da una perfetta miscela di «monarchy (the Doge), aristocracy (the Senate), and democracy (the Great Council) and as a System in which institutional checks and balances held corruption at bay. Also appealing was his idea that the Venetian government had existed essentially unchanged for 1100 years» (D. McPherson, 1988, p. 462). Il mito di Venezia Il mito di Venezia, nei tempi antichi, era costituito da: Governo misto: lo stato veneziano era retto da un governo che prevedeva tutti e tre i tipi di governo di Aristotele: monarchia (il Doge), oligarchia (il Senato) e democrazia (il Gran Consiglio). Saggezza politica: aveva permesso alla Serenissima di essere la più longeva delle moderne repubbliche. E per questo Venezia era molto ammirata in Europa. La metafora preferita per la longevità della Repubblica era Venezia Vergine: gli scrittori identificavano la preservazione della libertà con la castità sessuale. Giustizia imparziale e severa: Venezia era molto conosciuta per la sua giustizia, e Shakespeare e Johnson fecero un largo uso della reputazione della giustizia veneziana nei loro drammi. La giustizia veneziana era nota soprattutto per la sua imparzialità, anche nei confronti delle classi inferiori e degli stranieri, come nel caso di Shylock. Oltre che per la sua imparzialità, la giustizia veneta era elogiata per la sua severità. Venezia città galante: Venezia era per l'Europa la città del piacere. I turisti accorrevano per vedere le bellezze architettoniche e femminili. Senza dubbio la ricerca del piacere sessuale e la licenziosità sessuale erano normali a Venezia; e le cortigiane veneziane erano famose e numerose (si dice che all'inizio del Seicento fossero circa 20.000). Anche nel periodo di Shakespeare e di Jonson il turismo era una delle principali fonti di guadagno per i veneziani, e il "turismo sessuale" faceva 20
Alessandro Bullo parte dell'offerta. Durante l'anno si celebravano, inoltre, molte feste, tra cui le più spettacolari erano il Carnevale, l'Ascensione ("Sensa") e il Corpus Christi, una solenne processione lungo Piazza di San Marco. Nel Fontego dei Tedeschi, ad esempio, era consuetudine fare una festa che durava tre giorni: turisti e cittadini mascherati ballavano notte e giorno senza mai fermarsi, fino a cadere stremati. Venezia, città Vergine e Doppio di Londra A proposito della longevità della Serenissima su cui insiste Contarini, l'aspetto che, forse, più affascinava gli inglesi era l'inviolabilità della Repubblica marinara: Venezia era infatti definita città VERGINE (inviolata) perché nessuno era mai riuscito ad invaderla. In Inghilterra veniva invece utilizzata la metafora di Elisabetta I “regina vergine”, in quanto simbolo della “inviolabilità” della nazione. Coryat così descrive la città di Venezia nel 1607: «and so at length I finish the treatise of this incomparable city, this most beautiful Queene, this untainted virgine, this Paradise, this Tempe, this rich Diademe and most flourishing garland of Christendome : of which the inhabitants may as proudly vaunt» (1905, p. 427) L'Inghilterra considerava quindi la Repubblica di Venezia una specie di doppio. Molti aspetti accomunavano infatti i due paesi: entrambi basavano la loro economia sul commercio via mare; il Canal Grande che attraversa la città richiama il fiume Tamigi; Venezia era la porta d'Oriente, mentre Londra, nella mente della sua Regina, sarebbe divenuta la porta dell’Occidente (cfr. A. Serpieri, 1987, p. 68). Non è quindi così strano che, quando ambienta i suoi drammi a Venezia, Shakespeare riecheggi le ambientazioni tipiche della sua Londra: 21
Shakespeare a Venezia «Il Tevere è il Tamigi, con le alte e basse maree; Verona e Mantova e Venezia e Milano sono situate insieme in Italia e in nessun luogo; però chi ascolta o legge non ha difficoltà ad ambientarle in plaghe note della propria esperienza inglese e insieme in una propria fantasia di luoghi senza veruna sudditanza di scienze o conoscenze storiche, geografiche, ambientali. E forse questa, più ancora della scarsa o incerta conoscenza, è la ragione per cui ha così poca importanza l’esattezza dei riferimenti in Shakespeare.» (A. Obertello, 1964, pp. 421-422) Questa opinione è confermata da un recente saggio di Michael Saenger del 2014. Secondo lo studioso, professore alla Southwestern University, ne Il Mercante di Venezia i protagonisti italiani del dramma parlano un linguaggio tipicamente londinese che neutralizza l'idea di estraneità: la lingua inglese è "invisibile"; i pochi riferimenti alla città di Venezia e qualche occasionale frase straniera servono a condurre il pubblico inglese in Italia, ma senza allontanarlo veramente da Londra: «the audience is to see themselves as citizens of London and Venice simultaneously» (cfr. M. Saenger, 2014, p. 147). I due drammi veneziani: Il mercante di Venezia e l’Otello Il Mercante di Venezia e le sue fonti italiane Prima di ambientare un suo dramma a Venezia, Shakespeare ne aveva fatto già riferimento nella Bisbetica domata (1592-93) e in Pene d’amore perdute (1594- 95), ma è nel Mercante di Venezia che la città viene scelta da Shakespeare come palcoscenico delle azioni dei suoi personaggi. Il Mercante di Venezia si sviluppa intorno a due storie: 22
Alessandro Bullo - quella dei tre scrigni d’oro, d’argento e di piombo, con la gara dei Cavalieri, pretendenti alla mano di Porzia, che devono scegliere quello in cui è nascosto un ritratto della tanto desiderata sposa; - quella del prestito che l’ebreo Shylock fa ad Antonio, mercante cristiano, con la clausola che, in caso mancato o ritardato rimborso, egli avrà diritto di strappargli una libbra di carne. Per quanto possa apparire un poco strano alternare il dramma dell'ebreo Shylock alla "favola" dell'amore tra Porzia e Bassanio, dobbiamo pensare che, all'epoca di Shakespeare, Venezia era vista come una città al confine della cristianità, la porta dell'Oriente; un vero e proprio crocevia di culture diverse; una città esotica e fiabesca. Tutto questo era affascinante e potentemente teatrale: Venezia con le sue strade d'acqua, i palazzi meravigliosi e colorati (a quel tempo le facciate erano tutte affrescate dai grandi pittori veneziani), le calli oscure che si aprivano in larghi campi spesso rallegrati da feste popolari, era un vero e proprio palcoscenico a cielo aperto. «Under Shakespeare’s pen, Venice the great state, small in territory, mighty in spirit and in compass, rears herself up and dominates the play. Shakespeare reconstructs the grave merchant life thronging the Rialto : the Jew rubbing shoulders with the worthy magnates. He brings to life the gaiety of narrow streets in the city of carnival, crowded by night with masquers with varnished faces, romping and merry-making. He wakens with his pen the Venice of the Ducal Palace, and shows thc powerful machinery of Venetian law in all its inviolable grandeur. The doge himself appears, and in his mighty presence the climax is reached. Venice herself is the protagonist.» (V. M. Jeffery, 1932, p. 28) La storia di Porzia e Bassanio deriva dalla novella della Giornata IV del Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino (scritta nella seconda metà del Quattrocento, ma pubblicata nel 1558). La scena dei tre forzieri era molto celebre e conosciuta al tempo di Shakespeare e ne esistono molte versioni, tra cui quella del Decamerone del Boccaccio e quella più antica presente nella famosissima Legenda Aurea di Jacopo Da Varagine. Probabile, viste le strette coincidenze, che Shakespeare abbia tenuto conto della versione della leggenda proposta nel Gesta Romanorum, una collezione in lingua latina di aneddoti e racconti (fine del XIII secolo - 23
Shakespeare a Venezia inizio del XIV), un libro molto popolare che ispirò Geoffrey Chaucer, Giovanni Boccaccio e naturalmente anche William Shakespeare. La storia della libbra di carne è tratta da un fatto storico Per quanto riguarda, invece, la fonte della storia della libbra di carne, secondo Elio Toaff (1966) deriverebbe da un fatto storico realmente accaduto a Roma e raccontato da Gregorio Leti, nella sua celeberrima Vita di Sisto V Pontefice romano. «Quel che più importa, che questo buon pontefice non solo si compiaceva di render grande il rigore nel suo governo per spurgare più tosto (così soleva egli parlare) la città e lo Stato dalle infettazioni ed immondizie che aveva portato il torrente delle troppe indulgenze del suo anticessore; ma di più godeva di far rendere certi atti di giustizia straordinari e fuor dell’uso, forse acciò meglio si parlasse di lui: né sarà discaro al lettore di aggiungerne qui alcuni. S’era sparsa la voce in Roma che Francesco Drago, ammiraglio inglese della regina Elisabetta, aveva preso e saccheggiato la città di San Domenico, nell’isola Spagnuola, dove aveva fatto grandissima preda; [84] e questa nuova era pervenuta con particolar lettera al signor Paolo Maria Secchi, mercante ricco ed autorevole in Roma, che aveva qualche interesse in quelle parti, e come aveva in qualche maniera ancora per suo mallevadore un tal giudeo Sansone Ceneda, fattolo chiamare, gli fece rapporto dell’avviso. Il giudeo, di cui vi andava l’interesse a far conoscere falsa tal nuova, si diede a muover ragioni in contrario, o sia che fosse trasportato dalla propria passione, o che veramente si lasciasse persuadere che falso fosse l’avviso, o che pure a qualsisia prezzo volesse sostenere i suoi sentimenti, basta che si lasciò scappar di bocca la parola: scommetto una libbra di carne del mio corpo, che questo non è vero; che, per dire il vero, sono scommesse che sogliono farsi da quei che son duri nel loro sentimento, cioè, scommetto la mia testa, scommetto una mano, e cose simili. Il Secchi, ch’era un poco fiero e capriccioso, sentendo tal proposta, rispose subito: ed io scommetterò mille scudi contro la vostra libbra di carne che questo è vero. Il giudeo fu così ostinato e temerario nel suo sentimento, che nel punto istesso stesa la mano, soggiunse: ne faremo anche una scrittura, se vuole; ed il Secchi, assai umorista, senza più ritardo, in presenza di due testimoni, conchiuse un bi glietto, il quale portava: ch’essendo falsa la nuova che la città di San Domenico, nell’isola Spagnuola, sia stata presa dal Drago per un tal tempo, il signor Paolo Maria Secchi sarà obbligato di pagare al giudeo Sansone Ceneda mille scudi in contanti di buona moneta; ed al contrario, essendo vera, sarà permesso al detto Secchi di tagliare con sua propria mano e con suo coltello bene affilato, una libbra di carne dal corpo d’esso giudeo in quella parte che lo stimerà a proposito; e questo biglietto non solo venne sottoscritto di loro propria mano con doppia copia, ma di più da due testimoni, cioè da un cristiano e da un giudeo, ambidue mercanti di qualche comodo. La disgrazia per l’ebreo volle che prima di tre mesi si verificò per indubitabile tal presa e sacco di tal città, di modo che, tutto afflitto, avendo inteso che ostinatamente giurava il Secchi di volergli tagliare una libbra di carne, in virtù del compromesso, col scegliere quella parte che il lettore può intendere, e che la modestia non vuol che io nomini, gli fece offrire di pagargli mille scudi, che corrispondeva al prezzo della sua scommessa; ma il Secchi protestò con gran fierezza e giuramento di voler che dal giudeo si soddisfacesse all’obbligo 24
Alessandro Bullo del biglietto, onde questo meschino corse al governatore di Roma con il disegno di fare obbligare il Secchi a contentarsi di ricevere l’equivalente di mille scudi. Il governatore, che sapeva molto bene quanto si compiacesse il papa di dar sentenza egli stesso in cose di tal natura, andò ad informarlo del tutto, e così vennero chiamati ambidue in sua presenza: da cui lettosi il biglietto dell’obbligazione ed informato dalla lor bocca più ampiamente delle difficoltà, rispose: Quando si fanno scommesse bisogna osservarlo, e noi intendiamo che da voi sia esattamente osservata la vostra. Pigliate dunque voi il vostro coltello tagliente, ed in nostra presenza tagliate al giudeo una libbra di carne in quella parte che vi piacerà del suo corpo; ma pigliate ben guardia al taglio, perché se ne tagliate una semplice dragma più o meno, si darà contro di voi irremissibilmente sentenza di forca: che si prepari dunque il coltello ed un paia di bilance per l’esecuzione del tutto. Nell’udir tale sentenza il povero mercante Secchi cominciò a tremar da capo a piedi, come se gli cominciasse la febbre quartana; e baciando la terra innanzi i piedi del papa, con amare lacrime negli occhi faceva conoscere con tali gesti di esser molto lontano dal pensiere d’una tal esecuzione; ed in tanto interrogato dal papa di quello risolvesse di fare, così lacrimante rispose: son contento, Padre Santo, né altro domando che la sola benedizione della Santità Vostra, e che si stracci il biglietto. Rivolto poi al giudeo, gli disse: e tu che cosa dici? sei tu ancora contento? Rispose l’infelice giudeo, che si stimava felice d’avere ottenuto una così favorevole sentenza, per l’impossibilità di tagliare un così giusto peso: contentissimo, Padre Santo. Replicò il pontefice: ma noi non siamo contenti, né il nostro governatore, capo della nostra giustizia: e da qual legge avete voi imparato di fare scommesse di tal natura? I sudditi de’ prencipi, siano gli uomini del mondo tutto, non hanno che l’uso solo del loro corpo, ma non possono venderlo né tutto, né in parte, senza espressa licenza del sovrano. Vennero dunque condotti ambidue in prigione, e nel punto istesso ordinò al governatore di Roma, che per dare esempio ad altri di non impegnarsi a così scandalose scommesse, dovesse esercitar contro di loro l’ultimo rigore della giustizia. Non mancò il governatore di rappresentargli che veramente meritavano d’esser condannati ambidue in un’emenda di mille scudi ciascuno; a cui rispose Sisto: e non altro? Dunque sarà permesso ad un suddito di disporre della sua vita a suo piacere? Non è forse vero che il giudeo col permettere che se gli tagli una libbra di carne del suo corpo, con un biglietto di sua mano, ha esposto la sua vita alla morte? e questo non è un essere omicida di se stesso? Non è forse vero che il Secchi ha commesso un omicidio volontario nel trattar prima, nel conchiudere poi, e nel voler finalmente eseguire la scommessa di tagliare una libbra di carne al giudeo? Che? si metterà forse in dubbio da voi, che tagliandosi la libbra di carne al giudeo, non fosse infallibilmente morto, visto il cattivo disegno dell’altro nella natura del luogo che avea disegnato per il taglio? Dunque ecco due omicidi volontari, e questi si castigheranno nel nostro pontificato con una sola emenda? Rispose a questo il governatore, che il Secchi protestava di non avere avuto pensiero alcuno d’eseguire il fatto, ma solo di far scorno e paura al giudeo; e questo ancora testimoniava d’aver fatto tale scommessa, perché non credeva che fosse mai l’altro per venire al fatto. Ripigliò Sisto: ma quelle proteste si sono fatte da che sono state le parti nella nostra presenza e del giudice, che vuol dire per timore della giustizia; e qual credito deve darsi ad una tal confessione? Che vadino ambidue alle forche, che se gli dia la sentenza di morte, e nostra sarà poi la cura di quello dovrà farsi del resto. In somma vennero ambidue sentenziati alla testa, e la sentenza gli venne pronunziata 25
Puoi anche leggere