Se questo è un credente. Albert Einstein a Princeton

Pagina creata da Fabio Napolitano
 
CONTINUA A LEGGERE
Se questo è un credente. Albert Einstein a Princeton
                                    di Giuseppe Panissidi

Il processo di digitalizzazione dei Collected Papers of Albert Einstein è impresa di grande
importanza, che ci permette di riconsiderare la annosa questione del rapporto fra Einstein
e la religione. In questa prima parte del suo saggio, Giuseppe Panissidi ci spiega perché
Einstein vada anzitutto considerato alla luce della sua critica radicale all'idea di un Dio
personale

Finalmente. Il sito web della Princeton University ha cominciato a pubblicare la
corrispondenza e innumerevoli altri scritti di Albert Einstein, migliaia di testi e documenti
originali. Dalle lettere ai giornali, al diario personale, fino ai messaggi disseminati dallo
scienziato in luoghi improbabili, come, solo per fare un esempio, dentro le scatole da
scarpe.

Una parte considerevole degli ‘storici’ “Collected Papers of Albert Einstein” è già stata
trasferita nel nuovo archivio, risultato finale di un lungo processo di digitalizzazione di
una quantità sterminata di documenti, mentre in precedenza si era fermi a circa 900. Il
nuovo archivio digitale è da pochi giorni disponibile per la consultazione online,
nell’originale tedesco e in parziale traduzione inglese. Il mese prossimo, si prevede la
pubblicazione di un altro migliaio di documenti, ma, complessivamente, i documenti
originali su cui si lavora alacremente sono circa 80mila.

I documenti già disponibili, che si riferiscono al periodo che corre dall’adolescenza al 1923,
quando Einstein aveva 44 anni, coprono un arco di tempo che, a giudizio del direttore del
progetto, rappresenta “uno dei periodi più emozionanti della scienza moderna”.
L’’iniziativa prevede la realizzazione e la successiva diffusione online di un totale di 30
volumi, dopo questi primi 13. “Einstein espresse chiaramente il desiderio che non ci
sarebbero dovuti essere monumenti fisici o memoriali per lui”, scrive l’editore nella
prefazione al primo volume. Crediamo che i suoi scritti siano il suo monumento e il suo
memoriale”.

L’archivio racchiude di tutto un po’: dai manoscritti scientifici sulla teoria della relatività
generale, al materiale pop, dalle lettere d’amore dei tempi del liceo, alle sue frasi più
celebri, fino ai documenti sul suo divorzio. E si estende, appunto, fino al 1923, quando
Einstein aveva appena ricevuto, nel 1921, il Premio Nobel per la fisica, “per i contributi alla
fisica teorica, in particolare per la scoperta dell’effetto fotoelettrico”.
Sebbene i manoscritti pubblicati non siano tutti inediti, poiché, come s’è detto, una parte
esigua, era già disponibile dal 2003 sul sito “Einstein Archives Online” grazie al lavoro
coordinato dell’università ebraica di Gerusalemme, del Caltech, l’istituto californiano di
tecnologia, e dell’università di Princeton, tuttavia il grande vantaggio odierno risiede in
un’ottimale organizzazione dell’archivio secondo un ordine cronologico, oltre alla
possibilità   di   accedere    ai   singoli   documenti     attraverso    un   semplice     link:
htpp://einsteinpapers.press.princeton.edu/

Va da sé che, ai fini di un buon orientamento, risulta imprescindibile la conoscenza dei
rivolgimenti salienti della vita e del pensiero di Einstein, dal momento che i semplici titoli
non sono sufficienti e, anzi, potrebbero ingannare.

Com’è noto, dopo l’avvento del regime nazionalsocialista, nell'ottobre del 1933 il teorico
della relatività si trasferì   in questa città del New Jersey, sotto l’imperversare delle
persecuzioni antisemite. Squadracce di funzionari, di ogni ordine e grado, fu coinvolta
nella campagna persecutoria contro gli Ebrei, allo scopo di elaborare, scrivere e applicare
la legislazione anti-ebraica. Tutta la Germania fu brutalmente passata a setaccio.

Il primo provvedimento contro i diritti civili dei cittadini ebrei fu la “Legge per la
Restaurazione del Servizio Civile Professionale”, varata il 7 aprile 1933. Esso prevedeva
che funzionari e impiegati pubblici ebrei, oltre quelli giudicati “politicamente inaffidabili”,
fossero esclusi dalle cariche e dalle funzioni pubbliche. Il nuovo “Codice della Pubblica
Amministrazione” anticipava il cosiddetto “Paragrafo Ariano”, un regolamento
appositamente concepito per escludere sia gli Ebrei, sia, spesso, altri gruppi “non ariani”.
Questo documento aprì la via alle “Leggi Razziali di Norimberga” del 1935, le quali – ecco
il punto – ‘classificavano gli Ebrei non in base al credo religioso, ma bensì secondo la loro
ascendenza, formalizzando la separazione della popolazione ebraica dalla restante.

Dopo il pogrom della “Kristallnacht”, la “Notte dei Cristalli”, tra il 9 e il 10 novembre
1938, le leggi naziste proibirono agli Ebrei l’accesso non solo alle scuole pubbliche e alle
università, ma anche ai teatri, ai cinema e persino agli impianti sportivi. Nella maggior
parte delle città, agli Ebrei era precluso l’accesso a determinate zone classificate “ariane”. Il
tutto, mentre le gerarchie naziste imprimevano l’accelerazione finale ai preparativi per la
folle guerra finalizzata al dominio del mondo, cominciando dall’Europa. De facto, è palese
che la precedente legislazione antisemita costituiva soltanto l’abbrivio per una ben più
radicale e totale persecuzione degli Ebrei.

Difficile dimenticare che addirittura due premi Nobel, Philipp von Lenard e Johannes
Stark, distintisi altresì per una reprimenda contro Max Planck, scatenarono una campagna
ad personam, etichettando, la “Teoria della relatività” e altre ricerche di Einstein come
"fisica ebraica", in contrasto con la "fisica tedesca" o "ariana". Oppure che, nel 1944,
a Rignano sull'Arno, la moglie e le figlie di suo cugino Robert furono uccise in una
indiretta rappresaglia contro di lui da un reparto delle SS, e questa strage, unita , l’anno
dopo, al suicidio del cugino, turbò profondamente Einstein, il quale nel 1940 assumeva la
cittadinanza statunitense. Non rientrerà mai più in Europa e, fino alla morte, rimarrà in
USA, dove proseguì le sue ricerche all'”Institute for Advanced Study”, appunto, a
Princeton, intorno ad alcuni problemi cosmologici e alle probabilità delle transizioni
atomiche. Negli ultimi anni di vita concentrò i suoi sforzi nel tentativo di unificare le due
forze fondamentali allora conosciute, la gravità e l'elettromagnetismo, sebbene Enrico
Fermi, negli anni ’30, avesse già sviluppato una teoria di base della forza debole.

A causa di un’improvvisa emorragia, provocata dalla rottura di un aneurisma, morì
all’ospedale di Princeton, nella notte del 18 aprile del 1955.

Ebbene, ormai quasi da un secolo, uno dei temi più tenaci e affascinanti del dibattito
intorno al padre della relatività concerne il significato della sua “religiosità”, della sua
“fede”, nonché la sua interpretazione del “fatto religioso”. Il campo della discussione
appare, tuttora, equamente diviso tra i sostenitori dell’”ateismo” dello scienziato e gli
assertori, in prevalenza di parte cattolica, della sua prossimità al Dio della fede cristiana.

L’archivio comincia a fornire utili indicazioni, conferme e smentite rispetto a quanto era
ampiamente già noto, soprattutto agli addetti ai lavori. Proviamo, tuttavia, a compiere un
passo indietro.

Einstein aborriva tutto ciò che viene presentato e svilito in termini superficiali e
schematici, tutto ciò che non viene interrogato in profondità. Che è, poi, a ben guardare,
una delle ragioni che lo spinsero verso la scoperta della “relatività speciale”, nel 1905,
verso ossia la soluzione dello ‘storico’ conflitto tra la teoria meccanica classica e la teoria
elettromagnetica della luce, distintivi della fisica dell'Ottocento dopo Newton. Una
conquista guadagnata in virtù e per l’effetto di una revisione radicale dei concetti di spazio
e di tempo assoluti.

Il grande fisico tedesco mostrava una spiccata propensione a considerare i molteplici
aspetti della vita, individuale e collettiva, in una prospettiva latamente “culturale”, nella
luce e nello spirito della ricerca, a cominciare dalla sua stessa appartenenza all’ebraismo.

L’archivio digitale appena pubblicato esibisce un notevole numero di documenti dai quali
si desume che “Dio” rappresenti per Einstein un essenziale riferimento lessicale, una
‘costante’, in certo modo anch’essa ‘cosmologica’, del suo stile comunicativo, persino della
sua riflessione monologica.
In una lettera da Zurigo del mese di giugno del 1897, arriva ad affermare: “God is sending
to me by one of those angels…”, Dio manda a me uno di quegli angeli. Per chiarire, subito
dopo, che “this angel is a lady who is already grandmother”, questo angelo è ormai
nonna… Pochi anni dopo, nel 1905, da un’altra, in cui ipotizza che “il dio onnipotente”
potrebbe averlo “preso per il naso”. Nel febbraio del 1919, in riferimento a una questione
controversa, scrive al ricercatore medico di Zurigo Heinrich Zangger, un ottimo amico:
“Dio sa quale sarà la fine di tutto ciò”. Zangger lo considerava “un docente di prima
classe, le cui lezioni costringono gli ascoltatori a pensare insieme con lui” e si era
inutilmente prodigato per lui presso il Politecnico. Ma Einstein lo aveva invitato a “lasciare
il Politecnico alle mosse imperscrutabili di Dio”.

Ancora. Da Berlino, nel mese di gennaio del 1920, scrive di essere “convinto del fatto che
l’atteggiamento aggressivo del Monismo verso le organizzazioni religiose non è
giustificato in linea di principio. Il contenuto sovra-personale veicolato dalla religione, per
quanto primitivo nelle forma, primitive in form though it is, ha un valore più prezioso,
more valuable”. E aggiunge: “L’eliminazione della tradizione religiosa, pious, comporterà
un impoverimento, impoverishment, spirituale e morale”.

Si giunge, così, al mese di dicembre del 1922, un anno decisivo ai fini di un primo bilancio
dell’atteggiamento in cui Einstein si pone riguardo alla “questione religiosa” e alle sue
implicazioni. L’occasione si presentò sotto forma di un questionario che gli fu sottoposto, e
che verteva intorno alle seguenti domande.

Il rapporto tra “verità scientifica e verità religiosa” e, in particolare, se esse possano
“promuoversi reciprocamente”. Ovvero: “se la scoperta scientifica valga a valorizzare e
confermare [to improve] la fede religiosa e rimuovere la superstizione, dal momento che il
senso religioso può favorire l’impetus alla scoperta scientifica”. “Quale concetto di Dio”
Einstein coltivasse. “Quale opinione avesse sul Salvatore”.

Ed ecco, di seguito, le risposte del grande teorico della relatività, ovvero, come taluno
preferisce, delle relatività.

Chiarisce, in premessa, di ritenere “non facile” annettere un “significato chiaro”
all’espressione “verità scientifica”, poiché esso “muta in ragione del suo ambito di
riferimento: un fatto d’esperienza; un teorema matematico; una teoria scientifica”. E
aggiunge che quella locuzione non gli suggeriva e non lo induceva a concepire “nulla [at
all] di univoco e chiaro”. Quanto alla “superstizione”, poi, si dice convinto che la ricerca
scientifica possa contribuire a “ridurne” l’impatto, incoraggiando il “pensiero causale”,
ossia l’esame razionale. “E’, infatti, certo, soggiunge, che un appassionato convincimento
(an appassionate conviction), relativo al senso religioso, circa la razionalità e intellegibilità
del mondo, si fonda [lies at the basis] su ogni più raffinata opera scientifica”. In risposta
alla terza domanda, Einstein sottolinea, ancora, come la “profonda convinzione di una
superiore razionalità, che si manifesta nelle forme del mondo sensibile, costituisce il mio
concetto di Dio. Si potrebbe esprimerlo, conclude, con il nome di “panteismo”. Infine, in
merito al “Salvatore”, dichiara di “riuscire a guardare le tradizioni confessionali soltanto
in chiave storica e psicologica”, e di non considerare “altra possibilità di rapporto con
esse”.

Come si può facilmente constatare, si tratta di posizioni di pensiero giovanile, e però di
straordinaria rilevanza. Che Einstein sostanzialmente, talora persino nell’espressione, non
modificherà mai più.

Basti considerare, tra l’altro, il fatto che, più di trent’anni dopo, nel 1954, l’anno precedente
la scomparsa, vergherà parole letteralmente consonanti e inequivoche, fortemente critiche
rispetto a ogni forma di “antropomorfismo”: “Io non credo in un Dio personale [leggi:
Dio-persona] e l’ho sempre dichiarato esplicitamente. In me di religioso c’è solo una
sconfinata ammirazione per la struttura del mondo”. E’ qui in parola quel “sentimento
religioso cosmico” evocato nell’ultima fase della sua vita. L’anno successivo, nel 1955, in
un’altra lettera, recentemente pubblicata, dichiara di considerarsi “appagato dal mistero
dell’eternità e della vita” e, ancora, “dalla meravigliosa struttura del mondo esistente”, che
sollecita la Ragione, manifesta nella Natura, a “comprenderne una parte, sia pure
minuscola”. E “Dio”, scriveva al filosofo ebreo tedesco Eric Gutkind, “non è nulla di più
che una parola che esprime l’umana debolezza”. Una parola. “Nessuna interpretazione,
per quanto sottile, può modificare il mio pensiero sul punto”.

E’ palese che un siffatto movimento di pensiero lo avvicinava notevolmente a Spinoza,
come lui stesso aveva anticipato, inducendo molti studiosi a parlare tout court di
“panteismo” di Einstein. In realtà, nel prosieguo, è divenuto sempre più evidente che il
solo “Dio” spinoziano che lo interessasse era lo spettacolo dell’”ordinaria armonia di ciò
che esiste”. Non il Dio-persona-volontà del cattolicesimo, “preoccupato dell’umano”,
peraltro estraneo al pensiero di Spinoza. Per questi ovvi motivi, rifiutò sempre sia
l’etichetta di ateo, sia quella, uguale e contraria, di panteista, sebbene, come dichiara,
accettasse quest’ultima come indicazione astratta, utile al discorso: “si potrebbe dire”.
Mentre non cessava di contemplare, commosso, “l’ordine incredibile dell’universo”,
ragionevolmente certo che “i nostri limitati pensieri non possono afferrare la forza
misteriosa che muove le costellazioni”.

Descrive così “la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente, di fronte a Dio: la
convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere
razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea su Dio".
Un superiore potere razionale e la (antispinoziana) incomprensibilità dell’universo.

In un’importante occasione, alla domanda: "Professore, sento dire che lei è profondamente
religioso", Einstein rispose: "Vero. Cerchi e penetri con i limiti della nostra mente i segreti
della natura e scoprirà che, dietro tutte le discernibili concatenazioni, rimane sempre
qualcosa di sottile, di intangibile e inesplicabile. La venerazione per questa forza, al di là di
ogni altra cosa che noi possiamo comprendere, è la mia religione. A questo titolo io sono
religioso". Chiamava, infatti, questo Dio "ausserpersönlichen", sovra o extra-personale, un
Dio "fisico", insomma, non l’entità morale e spirituale della concezione ebraico-cristiana,
fonte spuria di “superstizione primitiva” e credenze irrazionali. Einstein attribuisce alla
nozione di “superstizione” la medesima valenza del concetto di “superstitio”, traduzione
del greco “deisidaimonia”, elaborato dalla cultura classica, da Teofrasto a Polibio e
Plutarco, dal “De natura deorum” di Cicerone, al “De Rerum Natura” di Lucrezio. Una
rozza congerie di idee e pratiche miste, condannate, per ragioni ovviamente diverse, dalla
stessa Chiesa cattolica, sul presupposto di una “religione” superiore a fronte di altre
“inferiori”. In ogni caso, pur implicitamente aderendo a una raffinata interpretazione del
lemma, secondo la quale “superstitio” indica l’atteggiamento di chi, appunto, “stat”, “si
ferma”, attonito, al cospetto dei segni celesti, Einstein rigetta tale forma di “credenza” per
sostituirla con l’esercizio dello sguardo libero sul cosmo, uno sguardo sempre nuovamente
ammirato, ma razionale, investigativo e conoscitivo. Lo sguardo dell’episteme. Fuori,
perciò, tanto dai paradigmi della teologia razionale, quanto da quelli della teologia
naturale. Un Dio, quindi, esistente e presente in modo misterioso nella natura, pur senza
identificarsi con essa, diversamente dall’entità panica del “maledetto Spinoza”, come si
legge nel testo di “cherem”, il violento atto di scomunica del 1656.

Perché il Dio di Spinoza, per quanto impersonale, è l’uno-tutto, origine di sé e di tutto
l’esistente, e viene a coincidere in toto con l'universo: “Deus sive Natura”, per l’appunto,
Dio, ovvero la Natura. Nessuna differenza tra lui e tutte le cose, cosicché non esiste alcuna
cosa al di fuori di Dio, nessun un limite ‘esterno’. Il triangolo, somma degli angoli interni
eguale a 180°, è Dio. Dunque la natura è perfetta? Ecco il punctum dolens. Spinoza cerca di
fronteggiarlo con la teoria della “doppia causalità”, che esula dalla presente riflessione.

Ciò che, invece, rileva, è il fatto incontrovertibile che Einstein, da qui in avanti, percorrerà
un cammino differente e laterale rispetto alla linea di pensiero di Spinoza. Come vedremo.

E tuttavia, quando l’intransigente vescovo di Boston, William Henry O’Connell, gli rivolse
l’accusa di “ateismo autentico, mascherato da panteismo cosmico”, il padre della relatività
rimase profondamente turbato, convinto com’era della sua estraneità a quell’addebito,
poiché riteneva che a un ateismo irragionevole o del tutto irrazionale resti
irreparabilmente precluso lo splendore del cosmo, la possibilità di “sentire la musica delle
sfere”. In breve. Il “miracolo” del mondo, il suo “mistero”, pur intellegibile, è che esso
rivela “un alto grado d’ordine”, che rende possibile il parziale successo degli “assiomi
della teoria posti dall’uomo”. Come attesta “la teoria della gravitazione di Newton”: il
successo dell’impresa scientifica, quale creazione umana, è sempre parziale e revocabile,
non necessariamente nell’accezione popperiana dell’aggettivo. Un alto grado d’ordine,
infatti, non suppone per un ordine totale e assoluto.

Questi i tratti salienti della “fede” religiosa di Einstein, la “fede” in un universo, certo,
ordinato e funzionante, seppure privo di garanzie quanto alla sua intellegibilità mediante
le procedure, i protocolli e la ‘legislazione’ della scienza.

Lungo questa via, si può ora più agevolmente raggiungere il punto più alto della presente
riflessione. Si può, vale a dire, cercare di comprendere il senso dell’equazione kantiana di
Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Per
intendere, nel contempo, il valore e la portata di un interrogativo cruciale: “Posto che la
fisica non cancella Dio, in quanto che deve domandarsi non solo il , ma altresì il
 dei fenomeni, Dio avrebbe potuto creare un ordine diverso?”.

Siamo al nocciolo della questione.

Alla stregua delle considerazioni precedenti, Albert Einstein, che aveva più volte espresso
una sentita ammirazione per la figura ‘storica’ del Nazareno, quale valore e significato
vuole annettere al suo linguaggio religioso, spinto fino alla continua invocazione di Dio e
finanche all’evocazione, ancorché metaforica, degli “angeli”? Quale ai lemmi “Dio” e
“creare”, ove si tenga presente che la “creazione dal nulla” – il nulla dell’esistente,
s’intende - rappresenta il principale tratto distintivo della “potentia absoluta Dei”, la
potenza assoluta di Dio, celebrata nelle Scritture e nella tradizione religiosa e teologica che
egli rifiuta? In riferimento all’intelligenza cosmica dell’universo spazio-temporale, che
cosa intende con una terminologia come “incarnazione” e “trascendenza”? In particolare,
quale precisa relazione lega uno dei massimi fisici della storia della scienza alla tradizione
culturale occidentale? Einstein, insomma, può essere considerato a pieno titolo uno dei
paradigmi vitali di questa tradizione, e non solo uno dei più importanti e geniali pensatori
del ‘900? E può costituire un efficace antidoto contro-nichilistico, nell’odierno crescendo di
pittoresche - e rassegnate - forme di ‘sbullonamento’ intellettuale e morale?

Dopo cent’anni di fraintendimenti, non sempre involontari e incolpevoli, però sempre
inopportuni e talora capziosi, bisognerà pur trovare o, almeno, saggiare ipotesi di risposta
tendenzialmente più coerenti e plausibili.

Il “Dio” di Einstein, si diceva. Un’entità “sovra-personale”, che manifesta la sua radicale
alterità rispetto non solo e non tanto all’entità soprannaturale delle Scritture e della
rivelazione cristiana. E però, emblematicamente, anche a quella del fondatore della scienza
moderna, Galileo Galilei.

Ad apertura del “Sidereus Nuncius” – che preferiamo interpretare come “L’informatore
cosmico”, in luogo della traduzione convenzionale “L’avviso o il Messaggero celeste” - nel
1610, Galileo propone “all’osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura
grandi cose, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai udita nei
secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate
al nostro senso”. Proprio l’anno precedente, aveva puntato per la prima volta verso il cielo
uno strumento da lui “escogitato”, previa illuminazione, come precisa, della “grazia
divina”. Il telescopio. “Grande cosa è certamente aggiungere all'immensa moltitudine
delle stelle fisse, che con la naturale facoltà visiva si sono potute scorgere fino ad oggi,
altre innumerevoli stelle, non mai vedute prima d'ora e che superano più di dieci volte il
numero delle stelle antiche già note”. Il riferimento alla “grazia divina” appare
inequivoco, ed è tanto più significativo in quanto, a quel tempo, al termine del periodo
padovano, Galilei ignorava che il suo pur giustificato entusiasmo stava suscitare le prime
reazioni di diffidenza in ambito ecclesiastico. Di lì a poco, il cardinale Roberto Bellarmino
avrebbe chiesto ai matematici vaticani una relazione sulle nuove scoperte di “un valente
matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale”. Mentre la
Congregazione del Santo Uffizio, in via cautelare, avrebbe chiesto all'Inquisizione
padovana se ivi pendessero procedimenti a carico di Galilei. Invero, le alte gerarchie
vaticane già subodoravano gli effetti che “avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi
della scienza sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri
principi della teologia tradizionale”.

Malgrado ciò, rapidamente maturava la percezione forte di essere giunti a uno snodo
cruciale della storia dell'umanità. La conoscenza e la scienza si avviavano lungo la via
‘inaudita’ dell’osservazione diretta dei fenomeni, tendenzialmente affrancate dal
paradigma “deduttivo” classico, e dal quadro di principi auto-evidenti e universali di
matrice aristotelica. La nuova metodologia induttiva apriva la strada alla sperimentazione,
nel contempo modificando in radice, dopo venti secoli, la concezione del mondo e
dell'uomo. Le vie sconosciute dell'universo spalancavano la porta agli osservatori
dell’immensità dello spazio e consentivano di “risalire” persino il tempo, sulla spinta di
interrogativi riguardanti l'origine stessa del cosmo e la sua storia.

Una storia, tuttavia – ecco il punto – iniziata con la “creazione”, dunque sussunta nella
sfera della fede cristiana, anima dell’istituzione religiosa cattolica. Naturalmente, a
condizione di annettere al termine “religione” il suo proprio – l’”idion” aristotelico –
valore latamente culturale, a prescindere dal significato etimologico, ancora controverso e
controvertibile. Vincolo, se positivo o negativo sotto tale profilo non rileva, al divino,
anche come “sacro”, in proiezione “totalmente altra”.

Perché Galilei, è noto, è un uomo di fede. Dio, sostiene con forza e coerenza, “ci parla”
grazie a due “libri”: la Scrittura e il libro della creazione, squadernato sotto i nostri occhi.
Nella lettera del 1615 a Madama Cristina di Lorena, sviluppo della precedente, del 1613, a
Benedetto Castelli, scrive: “Che quell’istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e
d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che
per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle
sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi agli occhi e
all’intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il
crederlo”. Cosicché, la verità della Scrittura e quella della scienza non possono
contraddirsi. “Nelle quistioni naturali – ancora a Madama Cristina - e che non sian de fide
prima si deva considerar se elle sieno indubitabilmente dimostrate. ..o vero se una tal
cognizione e dimostrazione aver si possa: la qual ottenendosi ed essendo ella ancora dono
di Dio, si deva applicare all’investigazione dei veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi
che in apparenza mostrano di sonar diversamente”. Richiamandosi ad Agostino, ricorda la
lettera a Foscarini del cardinale Bellarmino. Per giungere alla conclusione, secondo cui, in
consonanza con la frase, famosa e pressoché certa, del cardinale Cesare Baronio:
“l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia in cielo e non come
vadia il cielo… La teologia non discende alle più basse e umili speculazioni delle inferiori
scienze; anzi quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine”. Come si vada in
cielo, è lo Spirito a insegnarci. Come vada il cielo, è la scienza. Senza conflitto, è palese.

La testimonianza scritturale, insomma, dovrebbe, secondo Galileo, “esser riserbata
nell’ultimo luogo”, ossia posposta a quanto emerge dalle risultanze dell’indagine
scientifica. Benché, infatti, la Sacra Scrittura e la natura siano ambedue un prodotto della
potenza creatrice di Dio, scaturendo entrambe dal ‘Verbo divino’, la prima deve adattarsi
al limitato intendimento delle persone comuni, mentre la seconda si attiene strettamente ai
termini delle ‘leggi imposteli’, ed è “inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue
recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini”.

La Natura, pertanto, dotata di una intrinseca necessità – si pensi alla cogenza “legale”
aristotelica – è sottratta a qualunque possibilità di mediazione ermeneutica e governata da
leggi immutabili, dunque insensibili ai desideri e alle aspettative degli uomini, nel senso
precipuo declinato in un nostro recente articolo sul tema della relazione che stringe
l’”onnipotenza divina” e la realtà del “male”, apparso in questo spazio. Una connotazione
del divino, l’”inesorabilità”, che esibisce la specifica accezione etimologica del lemma
latino “in-exorabilis”: ‘non passibile di preghiere e invocazioni’, da cui non si lascia
vincere.

Ne discende, nella prospettiva di Galilei, che, mentre la conoscenza dei fenomeni naturali
si dimostra intrinsecamente refrattaria all’approfondimento ermeneutico e, perciò,
immodificabile nella sua necessità, il testo scritturale appare suscettibile di molteplici
letture, in armonia con la ricerca di significati coerenti con le acquisizioni progressive
dell’impresa scientifica.

Di conseguenza, argomenta lo scienziato pisano, in ragione di una siffatta relazione
‘asimmetrica’ tra la cogenza naturalistica e l’indeterminatezza ermeneutica, “quello de gli
effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie
dimostrazioni ci concludono”, non deve in nessun modo “esser revocato in dubbio per
luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto
della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura”.

Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Dio è la sorgente prima e assoluta
dell’esistente, e la sua “grazia”, dono gratuito, per l’appunto, inerisce ed illumina, vera e
propria guida ontologica e corroborante, le dinamiche procedurali e gli esiti della ricerca
scientifica. Fin qui Galilei.

Possiamo, ora, riprendere la riflessione sul ‘nostro’ Einstein.

Nel teorico della relatività, il rifiuto preliminare della tradizione religiosa ebraico-cristiana
è netto, costante e intransigente. Essa non viene mai interpretata e riconosciuta come la
“sede” istituzionale naturale del Dio della rivelazione e della creazione. Ché, anzi,
quest’ultima rimane ancora tutta da decodificare nel suo significato autentico, mentre la
prima trova ampie dilucidazioni nel testo di Einstein. La sola “rivelazione” pensabile e
plausibile è il “superiore potere razionale” di cui la metafora filosofico-scientifica
contempla l’“incarnazione” nel cosmo, come il grande fisico ribadisce a ogni piè sospinto.
Entro tale manifestazione vivente di un ”ordine meraviglioso”, come ospiti, non signori,
noi ci troviamo immersi e l’impresa scientifica mette a dura prova l’umano intelletto.
Quanto alle Scritture, non può che stupire la loro incredibile ‘ricchezza’ di leggende
primitive e infantili, intorno alle quali c’è ben poco da “interpretare”.

“La principale fonte dei conflitti odierni tra le sfere della religione e della scienza sta tutta
in questa idea di un Dio personale… fonte della paura e della speranza, che nel passato ha
garantito ai preti un potere così ampio”, è l’inevitabile conclusione.

Il cosmo è l’ordine, la potenza dell’universo, scenario e sfondo delle nostre vite e del nostro
‘naturale’ bisogno di sapere e di saperi. “La ragione umana – scrive Kant - viene afflitta da
domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione
stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità
della ragione umana”. E Nietzsche, di rincalzo: “Si possono concepire i filosofi come
persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l' uomo possa
elevarsi”. Fino a che punto, ossia, ed entro quali limiti, possano curare la trattazione di
questioni intrattabili, pur rinunciando all’illusione di potere “tentar l’essenza”, come
suggeriscono Galilei, prima di Hume e Kant, e lo stesso Einstein.

E però il cosmo non appare come un ordinamento qualsiasi, ma, bensì e classicamente,
come una configurazione, se finita o infinita ora non importa, dotata della massima
‘autorevolezza’ e di “splendore”, a mente del radicale “kens” che costituisce e genera, tra
l’altro, il lemma latino “censeo”, “penso autorevolmente”. Come ciò, insomma, che
gloriosamente trionfa sul “chaos”, l’infinita apertura primordiale dell’universo, lo
spalancamento dell’immensa “voragine” originaria dell’essere. Un trionfo che non esclude
parziali commistioni e ‘simbiosi’ tra “chaos” e “kosmos”.

Questo il conclamato “Dio” di Einstein. Le cui espressioni al riguardo restano sempre
sufficientemente distanti da qualsiasi attestazione di “fede” istituzionale e chiesastica – la
chiesa è un’istituzione civile, che talora, a parer suo, non ha demeritato - anche quando lo
scienziato, spontaneamente od occasionalmente sollecitato, non nega la sua “religiosità”.
La sua, ossia, profonda adesione al “mistero” e alla “gloria” dell’universo, concepito come
incessante “challenge”: la “sfida” più grande per la ragione umana.

Dio è il ‘nome’ dell’essere nella luce. “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft
(hinterlisting) ist Er nicht”, “Sottile è il Signore, ma non malizioso”. Queste parole, ora
incise sopra un caminetto nella sala di ritrovo del Dipartimento di Matematica di
Princeton, significano che la mente di Dio è sottile, non già che egli è furbo o astuto, che è
profondo ma non falso e ingannatore. Che “Dio non mette in piazza le sue cose” significa
soltanto che “i segreti della natura” non sono penetrabili e dominabili in modo estrinseco
e superficiale. La realtà ultima dell’universo, di Dio-ordine, è profonda, non falsa, e, per
quanto complessa e sottile, nel contempo semplice e affidabile. Le trame dell’ordine,
insomma, in quanto innervano le interconnessioni dell'universo, in tanto sono degne di
fiducia ed esibiscono la loro intellegibilità, anche quando ciò non appaia, quando ossia
non disponiamo di una comprensione razionale immediatistica.

Ecco il ‘razionalismo’ di Einstein, esplicitamente ribadito in una conversazione con Aldo
Sorani, apparsa sul “Messaggero” di Roma, il 26 ottobre del 1921, e ora disponibile sul
website di Princeton. “Si dice che la mia teoria è anti-razionalista; mentre io credo di essere
un perfetto razionalista. Io proseguo Newton, non lo annullo. Non sono un poeta”.
E’ di assoluta evidenza che uno statuto siffatto ha a che fare con il tema della luce, cui
abbiamo fatto riferimento, nel suo significato fisico, poiché lo spazio e il tempo si
definiscono in riferimento alla luce. Che è la costante generale, rispetto alla quale tutti gli
enti definiscono la loro conoscibilità.

E, nonostante l’instabilità di alcuni principi della fisica e dell’astrofisica, la “costanza” della
luce fornisce la ragionevole certezza che il ‘divino’ ordine cosmico immanente non solo
non ci inganna, ma bensì suggerisce e rende possibile l’investigazione della ragione.
Altrimenti, la nostra (kantiana e marxiana) condizione di “enti naturali finiti”, situati entro
le coordinate spazio-temporali, non ci permetterebbe l’esercizio delle funzioni razionali.
Senza la luce, insomma, non si darebbe neanche l’impresa scientifica, lungo la medesima
linea di pensiero inaugurata ad Atene alcuni secoli prima della era cristiana. “Dio” come
“ordine” rappresenta una tale essenziale garanzia.

Tale la risposta di Einstein agli agguerriti assertori della teoria quantistica, e al loro
convincimento concernente i valori di causalità e discontinuità nel dominio sub-atomico.
La risposta, nel consueto spirito di umiltà, di chi riteneva di essersi guadagnato il “diritto
di commettere degli errori” eventuali.

In perfetta armonia con una complessa e ricca famiglia lessicale indoeuropea – “deiwos”,
“div”, “dev”, etc. - Dio è ‘per l’appunto, ciò che risplende, lo “splendore” del giorno e del
cielo, dies-giorno in latino, la luce dell’essere disponibile al nostro sguardo, alla nostra
sconfinata ammirazione, nonché, non da ultimo, all’intelletto che interroga. Dio è, dunque,
il nome di una condizione ontologica, l’eccelsa “dignità” dell’intero ‘olofrasticamente’
condensata in un nome: olo-frase, anzi, più che parola-frase, parola-pensiero, puro segno
linguistico denotativo dell’“oggetto” in termini referenziali. Ben più che nelle lingue di
origine germanica, infatti, dall’antico germanico “Got” al moderno “Gott”, l’”invocato”, e
invocato con frequenza anche da parte di Einstein, “Dio” s’identifica nella sfera semantica
del “Deus” della tradizione culturale greco-latina – dal genitivo di Zeus “diòs” e, tra gli
altri, secondo Emile Benveniste, dalla voce “ho theòs”. Ma poiché “Dio non mette in
piazza le sue cose”, non ci è possibile vedere la luce stessa, ma solo ciò che è illuminato
dalla luce, “la realtà nella sua profondità, mediante l’intercettazione dei pensieri del
Grande Vecchio”, l’Universo, come Einstein talora amava esprimersi. Perché ciò che si
manifesta nella luce è la regolarità dell’ordine, senza necessità alcuna di escogitare cause
occulte e separate, la cui immaginazione egli rigettava al pari, o più radicalmente, di
Francis Bacon e Isaac Newton, quale becero “dualismo”.

La visione dell’”alto grado di ordine” del mondo naturale lo indusse ad affermare:
“Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che Egli giochi a dadi e usi
metodi …è qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo”. Pare
che si riferisse alle teorie di Niels Bohr, il quale replicò "Non dire a Dio come deve
giocare". Successivamente, rispetto a uno dei precursori della gravità quantistica, John
Archibald Wheeler, il teorico dell’equazione che determina alcune proprietà generali della
funzione d'onda dell'universo, Einstein ribadì: "Non riesco ancora a credere che Dio giochi
a dadi… ma forse mi sono guadagnato il diritto di commettere degli errori". Eppure il
convincimento è tenace, e sembra mutuato da una proposizione saliente di Spinoza,
nell’”Etica”: “Nella natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate
dalla necessità della divina natura ad esistere e a operare”

Se non ché, la replica di Bohr non teneva conto di una cruciale ‘presumption’
dell’epistemologia di Einstein, il fatto che mai il padre della relatività avesse
concettualizzato l’universo quale ordine assoluto, trasparente e perfetto, dunque
perfettamente intellegibile. Basti considerare la tonalità generale e il linguaggio delle sue
lettere, sopra citate. Dio-ordine è l’”imperscrutabile”, persino “oscuro” per l’impresa
scientifica e la storia della scienza un cammino affascinante ma impervio, non mai lineare
e progressivo. “We see the universe marvelously arranged and obeying certain laws but
only dimly understand these laws “, accediamo alla meraviglia dell’universo in modo
labile e incerto, anche se, scrive Einstein, “I am not an Atheist”, non sono ateo. Non sono,
intende, “sordo alla musica delle sfere”, cieco davanti allo splendore del cosmo. Emozioni
profonde, che l’uomo nutre e manifesta da sempre, precisamente quelle di cui è parola
lirica nell’“Inno ai Patriarchi” (1822) di Giacomo Leopardi. Che cosa accadde quando
l’uomo vide la prima alba? Semplicemente inizia, secondo il poeta, la “maledizione della
conoscenza”, come la chiamerà in modo lapidario Thomas Mann. Il mondo esisteva anche
prima, evidentemente.

E tuttavia, questa speciale capacità di meraviglia, già esaltata da Aristotele come il
principio stesso dei più alti saperi dell’uomo, per Einstein è propria della scienza e
dell'arte. In proposito, Ernest Gordon, decano della Cappella Universitaria di Princeton,
non esitò ad affermare: “Credo che dipenda dal senso di Einstein di grande rispetto
(reverence)”. Non si potrebbe dire meglio. ‘Religiosità’ cosmica e ratio scientifica in
Einstein coincidono, nei quadri epistemici del pensiero proteso verso “the Old One”, il
Grande- vecchio-universo. E la “fede” altro non è se non fiducia e fedeltà, doverosa
corrispondenza all’ordine e leale impegno intellettuale e morale: “fides” latina e “pistis”
greca , deverbale da “peitho”, persuado. "Eines gelebten Glaubens”, sì è opportunamente
detto, fede vissuta. Con una precisa avvertenza, a scanso di equivoci tutt’altro che
infrequenti. E’ la fede di chi si sente “completamente vocato alla libertà e alla
comprensione”, e ‘crede’ nella possibilità “che le regole valide per il mondo dell'esistenza
siano razionali, cioè comprensibili per la ragione”, come afferma nel discorso al seminario
teologico di Princeton. Convinzione forte e radicata che accompagnerà sempre la
riflessione di Einstein. Il rischio, sempre incombente, è, allora, quello di fare rientrare dalla
finestra ciò che è uscito dalla porta, facendo precipitare il “principio di contraddizione” in
“principio di esplosione”, e connessa autodistruzione di basilari criteri di rilevanza e
comprensione razionale. L’esegesi interpretativa, invero, non può spingersi oltre il limite
consentito dal rispetto della rigorosa concatenazione argomentativa del discorso teorico di
Einstein. Come accade, ad esempio, a Thomas Torrance, il noto teologo recentemente
scomparso, quando afferma, tra l’altro e con aria di trionfo: “Albert Einstein coglieva la
rivelazione di Dio nell'armonia e nella bellezza razionale dell'universo”. Rivelazione,
abbiamo visto, è una parola imbarazzante e potenzialmente inquinante, perciò da
maneggiare con (molta) cura, ogniqualvolta in cui si ponga il presente tema di riflessione.
Einstein però si guarderà bene dal compiere questo “salto mortale per il pensiero”, come
lo definisce lo Hegel critico dell’idea di “sapere immediato” di Jacobi a Jena, nel 1802, in
“Glauben und        Wissen”, “Fede e sapere”, apparso sul “Kritisches Journal der
Philosophie”, il Giornale critico di filosofia.

In un certo senso, acquisire conoscenza è come “intercettare i pensieri di Dio”, sebbene
non sia poi possibile sapere “se il buon Dio non rida di esse”, affermò una volta nell’atto di
derivazione delle implicazioni della teoria della relatività. “Penso a questo in connessione
con il fatto che le equazioni della teoria della relatività prevedono i propri limiti, e così ci
conducono indietro verso un punto zero dell'espansione dell'universo, conosciuto
comunemente con il termine di "singolarità gravitazionale", “black hole”, il buco nero che
Henry Margenau riteneva implicasse il principio della “creatio ex nihilo”. Lo scienziato,
tuttavia, osservava che “non si può concludere che  dell'universo
debba corrispondere a una singolarità in senso matematico, poiché le equazioni non
possono essere estese a queste regioni, se anche
Power>, una Ragione superiore, come si rivela in un universo incomprensibile, questo
forma la mia idea di Dio. In linguaggio corrente si può chiamarla ”.

Come non pensare, giunti a questo snodo, all’intelligenza scientifica profonda e
problematica di Charles Darwin? In una lettera a James Grant, l’11 marzo 1878, scrive:
“L’argomento più forte per l’esistenza di Dio (for the existence of God), a quanto mi
sembra, è rappresentato dall’istinto o l’intuito che tutti (suppongo) avvertono che ci sia
dovuto essere un iniziatore intelligente dell’Universo (an intelligent beginner of the
Universe); ma sorge poi il dubbio e la difficoltà se o meno tali intuizioni siano degne di
fede”. In una precedente lettera a Down Beckenham, il 2 aprile 1873, aveva già ammesso:
“L’impossibilità di concepire che quest’universo grandioso e meraviglioso, con i nostri sé
coscienti, sia scaturito per caso a me pare l’argomento principe a favore dell’esistenza di
Dio; ma se questo sia un argomento di reale valore, non sono mai stato capace di
deciderlo. Sono consapevole che, se pur ammettiamo una causa prima, la mente arde
comunque dal desiderio di sapere da dove sia venuta e come sia scaturita”. E tuttavia, “ la
conclusione più sicura sembra essere che l’intero tema vada al di là dell’orizzonte
dell’intelletto umano” (“the whole subject is beyond the scope of man's intellect”). A Mrs.
M.E. Boole, il 14 dicembre 1866, confidava: “Mi è sempre sembrato più soddisfacente
considerare l’immensa quantità di dolore e sofferenza a questo mondo come l’esito
inevitabile della sequenza naturale degli eventi, ossia leggi generali, piuttosto che
dell’intervento diretto di Dio (as the inevitable result of the natural sequence of events, i.e.
general laws, rather than from the direct intervention of God), per quanto sia consapevole
come ciò non sia logico se rapportato a un Dio onnisciente”. E pone a tema la questione
cruciale del “Libero Arbitrio e della Necessità che la maggioranza della persone ha
ritenuto insolubile”. Il male come naturale sequenza degli eventi secondo leggi generali. E
ancora, ad Asa Gray, il 22 Maggio 1860: “Non riesco comunque ad accontentarmi (I cannot
anyhow be contented) di guardare questo meraviglioso universo e specialmente la natura
dell’uomo (this wonderful universe & especially the nature of man) e di concludere che
tutto sia l’esito della forza bruta. Sono incline a guardare tutto come risultante da leggi
mirate, con i dettagli, vuoi buoni vuoi cattivi, lasciati all’elaborazione di quello che noi
potremmo chiamare caso (resulting from designed laws, with the details, whether good or
bad, left to the working out of what we may call chance). Non che questa concezione mi
soddisfi affatto. Nel più intimo di me stesso, sento che l’intera materia è troppo profonda
per l’intelletto umano. Ma più penso più mi sento sconcertato È come se un cane tentasse
di speculare sulla mente di Newton, ognuno speri e creda come può”.

Infine, ancora in una lettera a Down Beckenham, il 7 maggio 1879, esprime il
convincimento che “un uomo può essere al tempo stesso teista e evoluzionista”. Stephen
Gould, il discusso ideatore, con Niles Eldredge, della “theory of punctuated equilibrium”,
la “teoria degli equilibri punteggiati”, ha osservato che teismo ed evoluzionismo
afferiscono a due ordini di conoscenza diversi, due “non overlapping magisteria”: due
magisteri non sovrapponibili. E si rivela, sul punto, un fedele interprete di Darwin. Il
quale, difatti, può affermare in modo inequivoco di non essersi mai ritenuto un ateo che
nega l'esistenza di Dio, ma piuttosto un agnostico: “Nelle mie fluttuazioni più estreme,
non sono mai stato un ateo nel senso di negare l’esistenza di un Dio (I have never been an
atheist in the sense of denying the existence of a God). Ritengo generalmente (e sempre di
più invecchiando), ma non sempre, che agnostico corrisponderebbe alla definizione più
corretta della mia condizione intellettuale”. Com’è stato acutamente osservato, nel
pensiero di Darwin, Dio, più che assente, non è necessario. La realtà ‘creata’ non deve
essere vista nell’ottica della teologia naturale, dei teologi fortemente avversati da Darwin,
né, a dispetto di Newton, come un orologio predefinito, funzionante, ‘semper idem’. La
sollecitazione culturale più forte dell’evoluzionismo concerne, infatti, proprio il carattere
‘storico’ della vita e delle sue complesse vicende ambientali e connesse, continue variazioni
sulla terra e negli esseri viventi, che ne fanno una realtà dinamica.

Il punto è oltremodo rimarchevole, in virtù della palese somiglianza di vedute
problematiche e critiche presente in Einstein. Nelle edizioni dell’”Origine delle specie”
successive alla prima del 1859, nella penultima frase Darwin aggiunse un inciso: “Nella
vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in
una forma sola, vi è qualcosa di grandioso; e mentre il nostro Pianeta ha continuato a
ruotare secondo l'immutabile legge di gravità, da un semplice inizio innumerevoli forme,
bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi”. Se non ché, a seguito
di immediati malintesi sull’occorrenza (e l’opportunità) del termine “creatore”, ritenne di
precisare: “Mi sono a lungo pentito di aver ceduto all'opinione pubblica, e di aver usato il
termine pentateucale di creazione, con il quale intendevo in realtà dire “apparso” per
qualche processo interamente ignoto”. Naturale vaghezza del linguaggio: Albert Einstein
si situa sulla medesima linea di pensiero.

E però, in riferimento a siffatti passaggi argomentativi, e a prescindere da Darwin,
l’attenzione degli studiosi, fermandosi unicamente sull’esplicita connessione di Einstein
con il pensiero di Spinoza, si lascia poi sfuggire l’implicito e forte richiamo al criticismo
kantiano. V’è un mondo che noi non possiamo davvero sapere (“zu wissen”) quale sia, e
che possiamo soltanto “pensare”, non “conoscere”, “denken”, non “erkennen”,
nell’espressione di Kant: un mondo che non può mai costituire oggetto di “Wissenschaft”,
di scienza. Epperò, d’altra parte, v’è un uomo il quale, applicandosi alla realtà, è in grado
di conoscerne alcuni aspetti, che sono consoni alla sua propria costituzione. Gli “esili
dettagli” di Einstein, i “dettagli, vuoi buoni, vuoi cattivi” (“the details, whether good or
bad”) di Darwin. Il che significa che, sebbene non avesse mai studiato a fondo il pensiero
di Kant, Einstein tuttavia ne recepiva l’istanza materialistica soggiacente, quale, ad
esempio, emerge sia nella nota kantiana all’”Anfibolia dei concetti della riflessione”, in
appendice all’”Analitica trascendentale”, sia e soprattutto, nella “Widerlegung des
Idealismus”, la celebre “Confutazione dell’idealismo” aggiunta nella seconda edizione
della prima “Critica”, che tanti problemi creò a Hegel, e non solo a lui, e che ha esaltato i
massimi studi kantiani contemporanei, da Cassirer a de Vleeschauwer al nostro Luigi
Scaravelli.

A partire da ’questo‘ Kant, peraltro, Ernest Cassirer evidenzia la centralità dei kantiani
"Primi principi metafisici della scienza della natura": “Lo spazio assoluto non è in sé nulla
e nessun oggetto, significa soltanto uno spazio relativo a tutti gli altri che posso sempre
pensare oltre quello dato”. Lo spazio relazionale di Einstein. Del resto, in un breve trattato
del 1763, "Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative", Kant
stigmatizza la consuetudine dei metafisici – l’obiettivo critico erano i contemporanei -
d'ignorare la peculiare funzionalità dell’impresa scientifica, che “si occupa di conoscenze
comprensibili ed evidenti”, mostrando di preferire un preteso sapere basato su “astrazioni
oscure e difficilmente controllabili”.

Si noti che – la ‘coincidenza’ è significativa - nello stesso anno 1763, Kant dava alla stampa
il decisivo “Beweisgrund”, in cui argomenta che predicati o determinazioni sono posizioni
relative a un ‘quid’, cioè caratteri di una cosa, mentre l’esistenza non è una “nota di
concetto”, è la posizione assoluta della cosa in sé stessa. Da non sovrapporre al “Ding an
sich”, la “cosa in sé”, la “Realität”, la realtà rappresentata e rappresentabile unicamente
come “fenomeno”, all'interno delle condizioni a priori della sensibilità e dell'intelletto,
dove si genera la sintesi conoscitiva. L'apparire della cosa, nelle sue proprie modalità, non
“die Sache selbst”, la cosa stessa. E’ solo con esso che il pensiero entra in relazione, in
quanto, appunto, esso è altro dal “noumeno”, sebbene la confusione sul punto continui a
dilagare. Ad opera di quanti non prestano la necessaria attenzione neppure ad altre pagine
decisive della prima “Critica”, quali, ad esempio, quelle dedicate alla “Elementarlehre des
Verstandes”, la “teoria elementare della mente” e, in particolare, alla “dottrina
trascendentale degli elementi”, che ne rappresenta il fulcro. In tema, una volta di più, la
reciproca implicazione e coniugazione delle “due fonti” della conoscenza: sensibilità e
intelletto. Ebbene, è quest’idea della ragione “naturalmente” prodotta dalla mente nel suo
incessante sforzo di rappresentarsi il “mondo” ed eccedente la sua effettiva capacità
conoscitiva, che Kant chiama “to noumenon”, il “pensato/pensabile”, dai corrispondenti
lemmi greci “noeo” e “nous”, “pensare/pensiero nella mente/intelletto”, integranti
un’ampia famiglia lessicale e scientifica interlinguistica. Una libera ”eccedenza” del
pensiero, connaturata alla finitudine della “condition humaine”, sulla soglia ontologica del
“limite”.
Puoi anche leggere