Se questo è un credente. Albert Einstein a Princeton
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Se questo è un credente. Albert Einstein a Princeton di Giuseppe Panissidi Il processo di digitalizzazione dei Collected Papers of Albert Einstein è impresa di grande importanza, che ci permette di riconsiderare la annosa questione del rapporto fra Einstein e la religione. In questa prima parte del suo saggio, Giuseppe Panissidi ci spiega perché Einstein vada anzitutto considerato alla luce della sua critica radicale all'idea di un Dio personale Finalmente. Il sito web della Princeton University ha cominciato a pubblicare la corrispondenza e innumerevoli altri scritti di Albert Einstein, migliaia di testi e documenti originali. Dalle lettere ai giornali, al diario personale, fino ai messaggi disseminati dallo scienziato in luoghi improbabili, come, solo per fare un esempio, dentro le scatole da scarpe. Una parte considerevole degli ‘storici’ “Collected Papers of Albert Einstein” è già stata trasferita nel nuovo archivio, risultato finale di un lungo processo di digitalizzazione di una quantità sterminata di documenti, mentre in precedenza si era fermi a circa 900. Il nuovo archivio digitale è da pochi giorni disponibile per la consultazione online, nell’originale tedesco e in parziale traduzione inglese. Il mese prossimo, si prevede la pubblicazione di un altro migliaio di documenti, ma, complessivamente, i documenti originali su cui si lavora alacremente sono circa 80mila. I documenti già disponibili, che si riferiscono al periodo che corre dall’adolescenza al 1923, quando Einstein aveva 44 anni, coprono un arco di tempo che, a giudizio del direttore del progetto, rappresenta “uno dei periodi più emozionanti della scienza moderna”. L’’iniziativa prevede la realizzazione e la successiva diffusione online di un totale di 30 volumi, dopo questi primi 13. “Einstein espresse chiaramente il desiderio che non ci sarebbero dovuti essere monumenti fisici o memoriali per lui”, scrive l’editore nella prefazione al primo volume. Crediamo che i suoi scritti siano il suo monumento e il suo memoriale”. L’archivio racchiude di tutto un po’: dai manoscritti scientifici sulla teoria della relatività generale, al materiale pop, dalle lettere d’amore dei tempi del liceo, alle sue frasi più celebri, fino ai documenti sul suo divorzio. E si estende, appunto, fino al 1923, quando Einstein aveva appena ricevuto, nel 1921, il Premio Nobel per la fisica, “per i contributi alla fisica teorica, in particolare per la scoperta dell’effetto fotoelettrico”.
Sebbene i manoscritti pubblicati non siano tutti inediti, poiché, come s’è detto, una parte esigua, era già disponibile dal 2003 sul sito “Einstein Archives Online” grazie al lavoro coordinato dell’università ebraica di Gerusalemme, del Caltech, l’istituto californiano di tecnologia, e dell’università di Princeton, tuttavia il grande vantaggio odierno risiede in un’ottimale organizzazione dell’archivio secondo un ordine cronologico, oltre alla possibilità di accedere ai singoli documenti attraverso un semplice link: htpp://einsteinpapers.press.princeton.edu/ Va da sé che, ai fini di un buon orientamento, risulta imprescindibile la conoscenza dei rivolgimenti salienti della vita e del pensiero di Einstein, dal momento che i semplici titoli non sono sufficienti e, anzi, potrebbero ingannare. Com’è noto, dopo l’avvento del regime nazionalsocialista, nell'ottobre del 1933 il teorico della relatività si trasferì in questa città del New Jersey, sotto l’imperversare delle persecuzioni antisemite. Squadracce di funzionari, di ogni ordine e grado, fu coinvolta nella campagna persecutoria contro gli Ebrei, allo scopo di elaborare, scrivere e applicare la legislazione anti-ebraica. Tutta la Germania fu brutalmente passata a setaccio. Il primo provvedimento contro i diritti civili dei cittadini ebrei fu la “Legge per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale”, varata il 7 aprile 1933. Esso prevedeva che funzionari e impiegati pubblici ebrei, oltre quelli giudicati “politicamente inaffidabili”, fossero esclusi dalle cariche e dalle funzioni pubbliche. Il nuovo “Codice della Pubblica Amministrazione” anticipava il cosiddetto “Paragrafo Ariano”, un regolamento appositamente concepito per escludere sia gli Ebrei, sia, spesso, altri gruppi “non ariani”. Questo documento aprì la via alle “Leggi Razziali di Norimberga” del 1935, le quali – ecco il punto – ‘classificavano gli Ebrei non in base al credo religioso, ma bensì secondo la loro ascendenza, formalizzando la separazione della popolazione ebraica dalla restante. Dopo il pogrom della “Kristallnacht”, la “Notte dei Cristalli”, tra il 9 e il 10 novembre 1938, le leggi naziste proibirono agli Ebrei l’accesso non solo alle scuole pubbliche e alle università, ma anche ai teatri, ai cinema e persino agli impianti sportivi. Nella maggior parte delle città, agli Ebrei era precluso l’accesso a determinate zone classificate “ariane”. Il tutto, mentre le gerarchie naziste imprimevano l’accelerazione finale ai preparativi per la folle guerra finalizzata al dominio del mondo, cominciando dall’Europa. De facto, è palese che la precedente legislazione antisemita costituiva soltanto l’abbrivio per una ben più radicale e totale persecuzione degli Ebrei. Difficile dimenticare che addirittura due premi Nobel, Philipp von Lenard e Johannes Stark, distintisi altresì per una reprimenda contro Max Planck, scatenarono una campagna ad personam, etichettando, la “Teoria della relatività” e altre ricerche di Einstein come
"fisica ebraica", in contrasto con la "fisica tedesca" o "ariana". Oppure che, nel 1944, a Rignano sull'Arno, la moglie e le figlie di suo cugino Robert furono uccise in una indiretta rappresaglia contro di lui da un reparto delle SS, e questa strage, unita , l’anno dopo, al suicidio del cugino, turbò profondamente Einstein, il quale nel 1940 assumeva la cittadinanza statunitense. Non rientrerà mai più in Europa e, fino alla morte, rimarrà in USA, dove proseguì le sue ricerche all'”Institute for Advanced Study”, appunto, a Princeton, intorno ad alcuni problemi cosmologici e alle probabilità delle transizioni atomiche. Negli ultimi anni di vita concentrò i suoi sforzi nel tentativo di unificare le due forze fondamentali allora conosciute, la gravità e l'elettromagnetismo, sebbene Enrico Fermi, negli anni ’30, avesse già sviluppato una teoria di base della forza debole. A causa di un’improvvisa emorragia, provocata dalla rottura di un aneurisma, morì all’ospedale di Princeton, nella notte del 18 aprile del 1955. Ebbene, ormai quasi da un secolo, uno dei temi più tenaci e affascinanti del dibattito intorno al padre della relatività concerne il significato della sua “religiosità”, della sua “fede”, nonché la sua interpretazione del “fatto religioso”. Il campo della discussione appare, tuttora, equamente diviso tra i sostenitori dell’”ateismo” dello scienziato e gli assertori, in prevalenza di parte cattolica, della sua prossimità al Dio della fede cristiana. L’archivio comincia a fornire utili indicazioni, conferme e smentite rispetto a quanto era ampiamente già noto, soprattutto agli addetti ai lavori. Proviamo, tuttavia, a compiere un passo indietro. Einstein aborriva tutto ciò che viene presentato e svilito in termini superficiali e schematici, tutto ciò che non viene interrogato in profondità. Che è, poi, a ben guardare, una delle ragioni che lo spinsero verso la scoperta della “relatività speciale”, nel 1905, verso ossia la soluzione dello ‘storico’ conflitto tra la teoria meccanica classica e la teoria elettromagnetica della luce, distintivi della fisica dell'Ottocento dopo Newton. Una conquista guadagnata in virtù e per l’effetto di una revisione radicale dei concetti di spazio e di tempo assoluti. Il grande fisico tedesco mostrava una spiccata propensione a considerare i molteplici aspetti della vita, individuale e collettiva, in una prospettiva latamente “culturale”, nella luce e nello spirito della ricerca, a cominciare dalla sua stessa appartenenza all’ebraismo. L’archivio digitale appena pubblicato esibisce un notevole numero di documenti dai quali si desume che “Dio” rappresenti per Einstein un essenziale riferimento lessicale, una ‘costante’, in certo modo anch’essa ‘cosmologica’, del suo stile comunicativo, persino della sua riflessione monologica.
In una lettera da Zurigo del mese di giugno del 1897, arriva ad affermare: “God is sending to me by one of those angels…”, Dio manda a me uno di quegli angeli. Per chiarire, subito dopo, che “this angel is a lady who is already grandmother”, questo angelo è ormai nonna… Pochi anni dopo, nel 1905, da un’altra, in cui ipotizza che “il dio onnipotente” potrebbe averlo “preso per il naso”. Nel febbraio del 1919, in riferimento a una questione controversa, scrive al ricercatore medico di Zurigo Heinrich Zangger, un ottimo amico: “Dio sa quale sarà la fine di tutto ciò”. Zangger lo considerava “un docente di prima classe, le cui lezioni costringono gli ascoltatori a pensare insieme con lui” e si era inutilmente prodigato per lui presso il Politecnico. Ma Einstein lo aveva invitato a “lasciare il Politecnico alle mosse imperscrutabili di Dio”. Ancora. Da Berlino, nel mese di gennaio del 1920, scrive di essere “convinto del fatto che l’atteggiamento aggressivo del Monismo verso le organizzazioni religiose non è giustificato in linea di principio. Il contenuto sovra-personale veicolato dalla religione, per quanto primitivo nelle forma, primitive in form though it is, ha un valore più prezioso, more valuable”. E aggiunge: “L’eliminazione della tradizione religiosa, pious, comporterà un impoverimento, impoverishment, spirituale e morale”. Si giunge, così, al mese di dicembre del 1922, un anno decisivo ai fini di un primo bilancio dell’atteggiamento in cui Einstein si pone riguardo alla “questione religiosa” e alle sue implicazioni. L’occasione si presentò sotto forma di un questionario che gli fu sottoposto, e che verteva intorno alle seguenti domande. Il rapporto tra “verità scientifica e verità religiosa” e, in particolare, se esse possano “promuoversi reciprocamente”. Ovvero: “se la scoperta scientifica valga a valorizzare e confermare [to improve] la fede religiosa e rimuovere la superstizione, dal momento che il senso religioso può favorire l’impetus alla scoperta scientifica”. “Quale concetto di Dio” Einstein coltivasse. “Quale opinione avesse sul Salvatore”. Ed ecco, di seguito, le risposte del grande teorico della relatività, ovvero, come taluno preferisce, delle relatività. Chiarisce, in premessa, di ritenere “non facile” annettere un “significato chiaro” all’espressione “verità scientifica”, poiché esso “muta in ragione del suo ambito di riferimento: un fatto d’esperienza; un teorema matematico; una teoria scientifica”. E aggiunge che quella locuzione non gli suggeriva e non lo induceva a concepire “nulla [at all] di univoco e chiaro”. Quanto alla “superstizione”, poi, si dice convinto che la ricerca scientifica possa contribuire a “ridurne” l’impatto, incoraggiando il “pensiero causale”, ossia l’esame razionale. “E’, infatti, certo, soggiunge, che un appassionato convincimento (an appassionate conviction), relativo al senso religioso, circa la razionalità e intellegibilità
del mondo, si fonda [lies at the basis] su ogni più raffinata opera scientifica”. In risposta alla terza domanda, Einstein sottolinea, ancora, come la “profonda convinzione di una superiore razionalità, che si manifesta nelle forme del mondo sensibile, costituisce il mio concetto di Dio. Si potrebbe esprimerlo, conclude, con il nome di “panteismo”. Infine, in merito al “Salvatore”, dichiara di “riuscire a guardare le tradizioni confessionali soltanto in chiave storica e psicologica”, e di non considerare “altra possibilità di rapporto con esse”. Come si può facilmente constatare, si tratta di posizioni di pensiero giovanile, e però di straordinaria rilevanza. Che Einstein sostanzialmente, talora persino nell’espressione, non modificherà mai più. Basti considerare, tra l’altro, il fatto che, più di trent’anni dopo, nel 1954, l’anno precedente la scomparsa, vergherà parole letteralmente consonanti e inequivoche, fortemente critiche rispetto a ogni forma di “antropomorfismo”: “Io non credo in un Dio personale [leggi: Dio-persona] e l’ho sempre dichiarato esplicitamente. In me di religioso c’è solo una sconfinata ammirazione per la struttura del mondo”. E’ qui in parola quel “sentimento religioso cosmico” evocato nell’ultima fase della sua vita. L’anno successivo, nel 1955, in un’altra lettera, recentemente pubblicata, dichiara di considerarsi “appagato dal mistero dell’eternità e della vita” e, ancora, “dalla meravigliosa struttura del mondo esistente”, che sollecita la Ragione, manifesta nella Natura, a “comprenderne una parte, sia pure minuscola”. E “Dio”, scriveva al filosofo ebreo tedesco Eric Gutkind, “non è nulla di più che una parola che esprime l’umana debolezza”. Una parola. “Nessuna interpretazione, per quanto sottile, può modificare il mio pensiero sul punto”. E’ palese che un siffatto movimento di pensiero lo avvicinava notevolmente a Spinoza, come lui stesso aveva anticipato, inducendo molti studiosi a parlare tout court di “panteismo” di Einstein. In realtà, nel prosieguo, è divenuto sempre più evidente che il solo “Dio” spinoziano che lo interessasse era lo spettacolo dell’”ordinaria armonia di ciò che esiste”. Non il Dio-persona-volontà del cattolicesimo, “preoccupato dell’umano”, peraltro estraneo al pensiero di Spinoza. Per questi ovvi motivi, rifiutò sempre sia l’etichetta di ateo, sia quella, uguale e contraria, di panteista, sebbene, come dichiara, accettasse quest’ultima come indicazione astratta, utile al discorso: “si potrebbe dire”. Mentre non cessava di contemplare, commosso, “l’ordine incredibile dell’universo”, ragionevolmente certo che “i nostri limitati pensieri non possono afferrare la forza misteriosa che muove le costellazioni”. Descrive così “la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente, di fronte a Dio: la convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea su Dio".
Un superiore potere razionale e la (antispinoziana) incomprensibilità dell’universo. In un’importante occasione, alla domanda: "Professore, sento dire che lei è profondamente religioso", Einstein rispose: "Vero. Cerchi e penetri con i limiti della nostra mente i segreti della natura e scoprirà che, dietro tutte le discernibili concatenazioni, rimane sempre qualcosa di sottile, di intangibile e inesplicabile. La venerazione per questa forza, al di là di ogni altra cosa che noi possiamo comprendere, è la mia religione. A questo titolo io sono religioso". Chiamava, infatti, questo Dio "ausserpersönlichen", sovra o extra-personale, un Dio "fisico", insomma, non l’entità morale e spirituale della concezione ebraico-cristiana, fonte spuria di “superstizione primitiva” e credenze irrazionali. Einstein attribuisce alla nozione di “superstizione” la medesima valenza del concetto di “superstitio”, traduzione del greco “deisidaimonia”, elaborato dalla cultura classica, da Teofrasto a Polibio e Plutarco, dal “De natura deorum” di Cicerone, al “De Rerum Natura” di Lucrezio. Una rozza congerie di idee e pratiche miste, condannate, per ragioni ovviamente diverse, dalla stessa Chiesa cattolica, sul presupposto di una “religione” superiore a fronte di altre “inferiori”. In ogni caso, pur implicitamente aderendo a una raffinata interpretazione del lemma, secondo la quale “superstitio” indica l’atteggiamento di chi, appunto, “stat”, “si ferma”, attonito, al cospetto dei segni celesti, Einstein rigetta tale forma di “credenza” per sostituirla con l’esercizio dello sguardo libero sul cosmo, uno sguardo sempre nuovamente ammirato, ma razionale, investigativo e conoscitivo. Lo sguardo dell’episteme. Fuori, perciò, tanto dai paradigmi della teologia razionale, quanto da quelli della teologia naturale. Un Dio, quindi, esistente e presente in modo misterioso nella natura, pur senza identificarsi con essa, diversamente dall’entità panica del “maledetto Spinoza”, come si legge nel testo di “cherem”, il violento atto di scomunica del 1656. Perché il Dio di Spinoza, per quanto impersonale, è l’uno-tutto, origine di sé e di tutto l’esistente, e viene a coincidere in toto con l'universo: “Deus sive Natura”, per l’appunto, Dio, ovvero la Natura. Nessuna differenza tra lui e tutte le cose, cosicché non esiste alcuna cosa al di fuori di Dio, nessun un limite ‘esterno’. Il triangolo, somma degli angoli interni eguale a 180°, è Dio. Dunque la natura è perfetta? Ecco il punctum dolens. Spinoza cerca di fronteggiarlo con la teoria della “doppia causalità”, che esula dalla presente riflessione. Ciò che, invece, rileva, è il fatto incontrovertibile che Einstein, da qui in avanti, percorrerà un cammino differente e laterale rispetto alla linea di pensiero di Spinoza. Come vedremo. E tuttavia, quando l’intransigente vescovo di Boston, William Henry O’Connell, gli rivolse l’accusa di “ateismo autentico, mascherato da panteismo cosmico”, il padre della relatività rimase profondamente turbato, convinto com’era della sua estraneità a quell’addebito, poiché riteneva che a un ateismo irragionevole o del tutto irrazionale resti irreparabilmente precluso lo splendore del cosmo, la possibilità di “sentire la musica delle
sfere”. In breve. Il “miracolo” del mondo, il suo “mistero”, pur intellegibile, è che esso rivela “un alto grado d’ordine”, che rende possibile il parziale successo degli “assiomi della teoria posti dall’uomo”. Come attesta “la teoria della gravitazione di Newton”: il successo dell’impresa scientifica, quale creazione umana, è sempre parziale e revocabile, non necessariamente nell’accezione popperiana dell’aggettivo. Un alto grado d’ordine, infatti, non suppone per un ordine totale e assoluto. Questi i tratti salienti della “fede” religiosa di Einstein, la “fede” in un universo, certo, ordinato e funzionante, seppure privo di garanzie quanto alla sua intellegibilità mediante le procedure, i protocolli e la ‘legislazione’ della scienza. Lungo questa via, si può ora più agevolmente raggiungere il punto più alto della presente riflessione. Si può, vale a dire, cercare di comprendere il senso dell’equazione kantiana di Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Per intendere, nel contempo, il valore e la portata di un interrogativo cruciale: “Posto che la fisica non cancella Dio, in quanto che deve domandarsi non solo il , ma altresì il dei fenomeni, Dio avrebbe potuto creare un ordine diverso?”. Siamo al nocciolo della questione. Alla stregua delle considerazioni precedenti, Albert Einstein, che aveva più volte espresso una sentita ammirazione per la figura ‘storica’ del Nazareno, quale valore e significato vuole annettere al suo linguaggio religioso, spinto fino alla continua invocazione di Dio e finanche all’evocazione, ancorché metaforica, degli “angeli”? Quale ai lemmi “Dio” e “creare”, ove si tenga presente che la “creazione dal nulla” – il nulla dell’esistente, s’intende - rappresenta il principale tratto distintivo della “potentia absoluta Dei”, la potenza assoluta di Dio, celebrata nelle Scritture e nella tradizione religiosa e teologica che egli rifiuta? In riferimento all’intelligenza cosmica dell’universo spazio-temporale, che cosa intende con una terminologia come “incarnazione” e “trascendenza”? In particolare, quale precisa relazione lega uno dei massimi fisici della storia della scienza alla tradizione culturale occidentale? Einstein, insomma, può essere considerato a pieno titolo uno dei paradigmi vitali di questa tradizione, e non solo uno dei più importanti e geniali pensatori del ‘900? E può costituire un efficace antidoto contro-nichilistico, nell’odierno crescendo di pittoresche - e rassegnate - forme di ‘sbullonamento’ intellettuale e morale? Dopo cent’anni di fraintendimenti, non sempre involontari e incolpevoli, però sempre inopportuni e talora capziosi, bisognerà pur trovare o, almeno, saggiare ipotesi di risposta tendenzialmente più coerenti e plausibili. Il “Dio” di Einstein, si diceva. Un’entità “sovra-personale”, che manifesta la sua radicale alterità rispetto non solo e non tanto all’entità soprannaturale delle Scritture e della
rivelazione cristiana. E però, emblematicamente, anche a quella del fondatore della scienza moderna, Galileo Galilei. Ad apertura del “Sidereus Nuncius” – che preferiamo interpretare come “L’informatore cosmico”, in luogo della traduzione convenzionale “L’avviso o il Messaggero celeste” - nel 1610, Galileo propone “all’osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura grandi cose, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai udita nei secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate al nostro senso”. Proprio l’anno precedente, aveva puntato per la prima volta verso il cielo uno strumento da lui “escogitato”, previa illuminazione, come precisa, della “grazia divina”. Il telescopio. “Grande cosa è certamente aggiungere all'immensa moltitudine delle stelle fisse, che con la naturale facoltà visiva si sono potute scorgere fino ad oggi, altre innumerevoli stelle, non mai vedute prima d'ora e che superano più di dieci volte il numero delle stelle antiche già note”. Il riferimento alla “grazia divina” appare inequivoco, ed è tanto più significativo in quanto, a quel tempo, al termine del periodo padovano, Galilei ignorava che il suo pur giustificato entusiasmo stava suscitare le prime reazioni di diffidenza in ambito ecclesiastico. Di lì a poco, il cardinale Roberto Bellarmino avrebbe chiesto ai matematici vaticani una relazione sulle nuove scoperte di “un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale”. Mentre la Congregazione del Santo Uffizio, in via cautelare, avrebbe chiesto all'Inquisizione padovana se ivi pendessero procedimenti a carico di Galilei. Invero, le alte gerarchie vaticane già subodoravano gli effetti che “avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della scienza sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi della teologia tradizionale”. Malgrado ciò, rapidamente maturava la percezione forte di essere giunti a uno snodo cruciale della storia dell'umanità. La conoscenza e la scienza si avviavano lungo la via ‘inaudita’ dell’osservazione diretta dei fenomeni, tendenzialmente affrancate dal paradigma “deduttivo” classico, e dal quadro di principi auto-evidenti e universali di matrice aristotelica. La nuova metodologia induttiva apriva la strada alla sperimentazione, nel contempo modificando in radice, dopo venti secoli, la concezione del mondo e dell'uomo. Le vie sconosciute dell'universo spalancavano la porta agli osservatori dell’immensità dello spazio e consentivano di “risalire” persino il tempo, sulla spinta di interrogativi riguardanti l'origine stessa del cosmo e la sua storia. Una storia, tuttavia – ecco il punto – iniziata con la “creazione”, dunque sussunta nella sfera della fede cristiana, anima dell’istituzione religiosa cattolica. Naturalmente, a condizione di annettere al termine “religione” il suo proprio – l’”idion” aristotelico – valore latamente culturale, a prescindere dal significato etimologico, ancora controverso e
controvertibile. Vincolo, se positivo o negativo sotto tale profilo non rileva, al divino, anche come “sacro”, in proiezione “totalmente altra”. Perché Galilei, è noto, è un uomo di fede. Dio, sostiene con forza e coerenza, “ci parla” grazie a due “libri”: la Scrittura e il libro della creazione, squadernato sotto i nostri occhi. Nella lettera del 1615 a Madama Cristina di Lorena, sviluppo della precedente, del 1613, a Benedetto Castelli, scrive: “Che quell’istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi agli occhi e all’intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo”. Cosicché, la verità della Scrittura e quella della scienza non possono contraddirsi. “Nelle quistioni naturali – ancora a Madama Cristina - e che non sian de fide prima si deva considerar se elle sieno indubitabilmente dimostrate. ..o vero se una tal cognizione e dimostrazione aver si possa: la qual ottenendosi ed essendo ella ancora dono di Dio, si deva applicare all’investigazione dei veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi che in apparenza mostrano di sonar diversamente”. Richiamandosi ad Agostino, ricorda la lettera a Foscarini del cardinale Bellarmino. Per giungere alla conclusione, secondo cui, in consonanza con la frase, famosa e pressoché certa, del cardinale Cesare Baronio: “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia in cielo e non come vadia il cielo… La teologia non discende alle più basse e umili speculazioni delle inferiori scienze; anzi quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine”. Come si vada in cielo, è lo Spirito a insegnarci. Come vada il cielo, è la scienza. Senza conflitto, è palese. La testimonianza scritturale, insomma, dovrebbe, secondo Galileo, “esser riserbata nell’ultimo luogo”, ossia posposta a quanto emerge dalle risultanze dell’indagine scientifica. Benché, infatti, la Sacra Scrittura e la natura siano ambedue un prodotto della potenza creatrice di Dio, scaturendo entrambe dal ‘Verbo divino’, la prima deve adattarsi al limitato intendimento delle persone comuni, mentre la seconda si attiene strettamente ai termini delle ‘leggi imposteli’, ed è “inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini”. La Natura, pertanto, dotata di una intrinseca necessità – si pensi alla cogenza “legale” aristotelica – è sottratta a qualunque possibilità di mediazione ermeneutica e governata da leggi immutabili, dunque insensibili ai desideri e alle aspettative degli uomini, nel senso precipuo declinato in un nostro recente articolo sul tema della relazione che stringe l’”onnipotenza divina” e la realtà del “male”, apparso in questo spazio. Una connotazione del divino, l’”inesorabilità”, che esibisce la specifica accezione etimologica del lemma
latino “in-exorabilis”: ‘non passibile di preghiere e invocazioni’, da cui non si lascia vincere. Ne discende, nella prospettiva di Galilei, che, mentre la conoscenza dei fenomeni naturali si dimostra intrinsecamente refrattaria all’approfondimento ermeneutico e, perciò, immodificabile nella sua necessità, il testo scritturale appare suscettibile di molteplici letture, in armonia con la ricerca di significati coerenti con le acquisizioni progressive dell’impresa scientifica. Di conseguenza, argomenta lo scienziato pisano, in ragione di una siffatta relazione ‘asimmetrica’ tra la cogenza naturalistica e l’indeterminatezza ermeneutica, “quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono”, non deve in nessun modo “esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura”. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Dio è la sorgente prima e assoluta dell’esistente, e la sua “grazia”, dono gratuito, per l’appunto, inerisce ed illumina, vera e propria guida ontologica e corroborante, le dinamiche procedurali e gli esiti della ricerca scientifica. Fin qui Galilei. Possiamo, ora, riprendere la riflessione sul ‘nostro’ Einstein. Nel teorico della relatività, il rifiuto preliminare della tradizione religiosa ebraico-cristiana è netto, costante e intransigente. Essa non viene mai interpretata e riconosciuta come la “sede” istituzionale naturale del Dio della rivelazione e della creazione. Ché, anzi, quest’ultima rimane ancora tutta da decodificare nel suo significato autentico, mentre la prima trova ampie dilucidazioni nel testo di Einstein. La sola “rivelazione” pensabile e plausibile è il “superiore potere razionale” di cui la metafora filosofico-scientifica contempla l’“incarnazione” nel cosmo, come il grande fisico ribadisce a ogni piè sospinto. Entro tale manifestazione vivente di un ”ordine meraviglioso”, come ospiti, non signori, noi ci troviamo immersi e l’impresa scientifica mette a dura prova l’umano intelletto. Quanto alle Scritture, non può che stupire la loro incredibile ‘ricchezza’ di leggende primitive e infantili, intorno alle quali c’è ben poco da “interpretare”. “La principale fonte dei conflitti odierni tra le sfere della religione e della scienza sta tutta in questa idea di un Dio personale… fonte della paura e della speranza, che nel passato ha garantito ai preti un potere così ampio”, è l’inevitabile conclusione. Il cosmo è l’ordine, la potenza dell’universo, scenario e sfondo delle nostre vite e del nostro ‘naturale’ bisogno di sapere e di saperi. “La ragione umana – scrive Kant - viene afflitta da
domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”. E Nietzsche, di rincalzo: “Si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l' uomo possa elevarsi”. Fino a che punto, ossia, ed entro quali limiti, possano curare la trattazione di questioni intrattabili, pur rinunciando all’illusione di potere “tentar l’essenza”, come suggeriscono Galilei, prima di Hume e Kant, e lo stesso Einstein. E però il cosmo non appare come un ordinamento qualsiasi, ma, bensì e classicamente, come una configurazione, se finita o infinita ora non importa, dotata della massima ‘autorevolezza’ e di “splendore”, a mente del radicale “kens” che costituisce e genera, tra l’altro, il lemma latino “censeo”, “penso autorevolmente”. Come ciò, insomma, che gloriosamente trionfa sul “chaos”, l’infinita apertura primordiale dell’universo, lo spalancamento dell’immensa “voragine” originaria dell’essere. Un trionfo che non esclude parziali commistioni e ‘simbiosi’ tra “chaos” e “kosmos”. Questo il conclamato “Dio” di Einstein. Le cui espressioni al riguardo restano sempre sufficientemente distanti da qualsiasi attestazione di “fede” istituzionale e chiesastica – la chiesa è un’istituzione civile, che talora, a parer suo, non ha demeritato - anche quando lo scienziato, spontaneamente od occasionalmente sollecitato, non nega la sua “religiosità”. La sua, ossia, profonda adesione al “mistero” e alla “gloria” dell’universo, concepito come incessante “challenge”: la “sfida” più grande per la ragione umana. Dio è il ‘nome’ dell’essere nella luce. “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft (hinterlisting) ist Er nicht”, “Sottile è il Signore, ma non malizioso”. Queste parole, ora incise sopra un caminetto nella sala di ritrovo del Dipartimento di Matematica di Princeton, significano che la mente di Dio è sottile, non già che egli è furbo o astuto, che è profondo ma non falso e ingannatore. Che “Dio non mette in piazza le sue cose” significa soltanto che “i segreti della natura” non sono penetrabili e dominabili in modo estrinseco e superficiale. La realtà ultima dell’universo, di Dio-ordine, è profonda, non falsa, e, per quanto complessa e sottile, nel contempo semplice e affidabile. Le trame dell’ordine, insomma, in quanto innervano le interconnessioni dell'universo, in tanto sono degne di fiducia ed esibiscono la loro intellegibilità, anche quando ciò non appaia, quando ossia non disponiamo di una comprensione razionale immediatistica. Ecco il ‘razionalismo’ di Einstein, esplicitamente ribadito in una conversazione con Aldo Sorani, apparsa sul “Messaggero” di Roma, il 26 ottobre del 1921, e ora disponibile sul website di Princeton. “Si dice che la mia teoria è anti-razionalista; mentre io credo di essere un perfetto razionalista. Io proseguo Newton, non lo annullo. Non sono un poeta”.
E’ di assoluta evidenza che uno statuto siffatto ha a che fare con il tema della luce, cui abbiamo fatto riferimento, nel suo significato fisico, poiché lo spazio e il tempo si definiscono in riferimento alla luce. Che è la costante generale, rispetto alla quale tutti gli enti definiscono la loro conoscibilità. E, nonostante l’instabilità di alcuni principi della fisica e dell’astrofisica, la “costanza” della luce fornisce la ragionevole certezza che il ‘divino’ ordine cosmico immanente non solo non ci inganna, ma bensì suggerisce e rende possibile l’investigazione della ragione. Altrimenti, la nostra (kantiana e marxiana) condizione di “enti naturali finiti”, situati entro le coordinate spazio-temporali, non ci permetterebbe l’esercizio delle funzioni razionali. Senza la luce, insomma, non si darebbe neanche l’impresa scientifica, lungo la medesima linea di pensiero inaugurata ad Atene alcuni secoli prima della era cristiana. “Dio” come “ordine” rappresenta una tale essenziale garanzia. Tale la risposta di Einstein agli agguerriti assertori della teoria quantistica, e al loro convincimento concernente i valori di causalità e discontinuità nel dominio sub-atomico. La risposta, nel consueto spirito di umiltà, di chi riteneva di essersi guadagnato il “diritto di commettere degli errori” eventuali. In perfetta armonia con una complessa e ricca famiglia lessicale indoeuropea – “deiwos”, “div”, “dev”, etc. - Dio è ‘per l’appunto, ciò che risplende, lo “splendore” del giorno e del cielo, dies-giorno in latino, la luce dell’essere disponibile al nostro sguardo, alla nostra sconfinata ammirazione, nonché, non da ultimo, all’intelletto che interroga. Dio è, dunque, il nome di una condizione ontologica, l’eccelsa “dignità” dell’intero ‘olofrasticamente’ condensata in un nome: olo-frase, anzi, più che parola-frase, parola-pensiero, puro segno linguistico denotativo dell’“oggetto” in termini referenziali. Ben più che nelle lingue di origine germanica, infatti, dall’antico germanico “Got” al moderno “Gott”, l’”invocato”, e invocato con frequenza anche da parte di Einstein, “Dio” s’identifica nella sfera semantica del “Deus” della tradizione culturale greco-latina – dal genitivo di Zeus “diòs” e, tra gli altri, secondo Emile Benveniste, dalla voce “ho theòs”. Ma poiché “Dio non mette in piazza le sue cose”, non ci è possibile vedere la luce stessa, ma solo ciò che è illuminato dalla luce, “la realtà nella sua profondità, mediante l’intercettazione dei pensieri del Grande Vecchio”, l’Universo, come Einstein talora amava esprimersi. Perché ciò che si manifesta nella luce è la regolarità dell’ordine, senza necessità alcuna di escogitare cause occulte e separate, la cui immaginazione egli rigettava al pari, o più radicalmente, di Francis Bacon e Isaac Newton, quale becero “dualismo”. La visione dell’”alto grado di ordine” del mondo naturale lo indusse ad affermare: “Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che Egli giochi a dadi e usi metodi …è qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo”. Pare
che si riferisse alle teorie di Niels Bohr, il quale replicò "Non dire a Dio come deve giocare". Successivamente, rispetto a uno dei precursori della gravità quantistica, John Archibald Wheeler, il teorico dell’equazione che determina alcune proprietà generali della funzione d'onda dell'universo, Einstein ribadì: "Non riesco ancora a credere che Dio giochi a dadi… ma forse mi sono guadagnato il diritto di commettere degli errori". Eppure il convincimento è tenace, e sembra mutuato da una proposizione saliente di Spinoza, nell’”Etica”: “Nella natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura ad esistere e a operare” Se non ché, la replica di Bohr non teneva conto di una cruciale ‘presumption’ dell’epistemologia di Einstein, il fatto che mai il padre della relatività avesse concettualizzato l’universo quale ordine assoluto, trasparente e perfetto, dunque perfettamente intellegibile. Basti considerare la tonalità generale e il linguaggio delle sue lettere, sopra citate. Dio-ordine è l’”imperscrutabile”, persino “oscuro” per l’impresa scientifica e la storia della scienza un cammino affascinante ma impervio, non mai lineare e progressivo. “We see the universe marvelously arranged and obeying certain laws but only dimly understand these laws “, accediamo alla meraviglia dell’universo in modo labile e incerto, anche se, scrive Einstein, “I am not an Atheist”, non sono ateo. Non sono, intende, “sordo alla musica delle sfere”, cieco davanti allo splendore del cosmo. Emozioni profonde, che l’uomo nutre e manifesta da sempre, precisamente quelle di cui è parola lirica nell’“Inno ai Patriarchi” (1822) di Giacomo Leopardi. Che cosa accadde quando l’uomo vide la prima alba? Semplicemente inizia, secondo il poeta, la “maledizione della conoscenza”, come la chiamerà in modo lapidario Thomas Mann. Il mondo esisteva anche prima, evidentemente. E tuttavia, questa speciale capacità di meraviglia, già esaltata da Aristotele come il principio stesso dei più alti saperi dell’uomo, per Einstein è propria della scienza e dell'arte. In proposito, Ernest Gordon, decano della Cappella Universitaria di Princeton, non esitò ad affermare: “Credo che dipenda dal senso di Einstein di grande rispetto (reverence)”. Non si potrebbe dire meglio. ‘Religiosità’ cosmica e ratio scientifica in Einstein coincidono, nei quadri epistemici del pensiero proteso verso “the Old One”, il Grande- vecchio-universo. E la “fede” altro non è se non fiducia e fedeltà, doverosa corrispondenza all’ordine e leale impegno intellettuale e morale: “fides” latina e “pistis” greca , deverbale da “peitho”, persuado. "Eines gelebten Glaubens”, sì è opportunamente detto, fede vissuta. Con una precisa avvertenza, a scanso di equivoci tutt’altro che infrequenti. E’ la fede di chi si sente “completamente vocato alla libertà e alla comprensione”, e ‘crede’ nella possibilità “che le regole valide per il mondo dell'esistenza siano razionali, cioè comprensibili per la ragione”, come afferma nel discorso al seminario teologico di Princeton. Convinzione forte e radicata che accompagnerà sempre la
riflessione di Einstein. Il rischio, sempre incombente, è, allora, quello di fare rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, facendo precipitare il “principio di contraddizione” in “principio di esplosione”, e connessa autodistruzione di basilari criteri di rilevanza e comprensione razionale. L’esegesi interpretativa, invero, non può spingersi oltre il limite consentito dal rispetto della rigorosa concatenazione argomentativa del discorso teorico di Einstein. Come accade, ad esempio, a Thomas Torrance, il noto teologo recentemente scomparso, quando afferma, tra l’altro e con aria di trionfo: “Albert Einstein coglieva la rivelazione di Dio nell'armonia e nella bellezza razionale dell'universo”. Rivelazione, abbiamo visto, è una parola imbarazzante e potenzialmente inquinante, perciò da maneggiare con (molta) cura, ogniqualvolta in cui si ponga il presente tema di riflessione. Einstein però si guarderà bene dal compiere questo “salto mortale per il pensiero”, come lo definisce lo Hegel critico dell’idea di “sapere immediato” di Jacobi a Jena, nel 1802, in “Glauben und Wissen”, “Fede e sapere”, apparso sul “Kritisches Journal der Philosophie”, il Giornale critico di filosofia. In un certo senso, acquisire conoscenza è come “intercettare i pensieri di Dio”, sebbene non sia poi possibile sapere “se il buon Dio non rida di esse”, affermò una volta nell’atto di derivazione delle implicazioni della teoria della relatività. “Penso a questo in connessione con il fatto che le equazioni della teoria della relatività prevedono i propri limiti, e così ci conducono indietro verso un punto zero dell'espansione dell'universo, conosciuto comunemente con il termine di "singolarità gravitazionale", “black hole”, il buco nero che Henry Margenau riteneva implicasse il principio della “creatio ex nihilo”. Lo scienziato, tuttavia, osservava che “non si può concludere che dell'universo debba corrispondere a una singolarità in senso matematico, poiché le equazioni non possono essere estese a queste regioni, se anche
Power>, una Ragione superiore, come si rivela in un universo incomprensibile, questo forma la mia idea di Dio. In linguaggio corrente si può chiamarla ”. Come non pensare, giunti a questo snodo, all’intelligenza scientifica profonda e problematica di Charles Darwin? In una lettera a James Grant, l’11 marzo 1878, scrive: “L’argomento più forte per l’esistenza di Dio (for the existence of God), a quanto mi sembra, è rappresentato dall’istinto o l’intuito che tutti (suppongo) avvertono che ci sia dovuto essere un iniziatore intelligente dell’Universo (an intelligent beginner of the Universe); ma sorge poi il dubbio e la difficoltà se o meno tali intuizioni siano degne di fede”. In una precedente lettera a Down Beckenham, il 2 aprile 1873, aveva già ammesso: “L’impossibilità di concepire che quest’universo grandioso e meraviglioso, con i nostri sé coscienti, sia scaturito per caso a me pare l’argomento principe a favore dell’esistenza di Dio; ma se questo sia un argomento di reale valore, non sono mai stato capace di deciderlo. Sono consapevole che, se pur ammettiamo una causa prima, la mente arde comunque dal desiderio di sapere da dove sia venuta e come sia scaturita”. E tuttavia, “ la conclusione più sicura sembra essere che l’intero tema vada al di là dell’orizzonte dell’intelletto umano” (“the whole subject is beyond the scope of man's intellect”). A Mrs. M.E. Boole, il 14 dicembre 1866, confidava: “Mi è sempre sembrato più soddisfacente considerare l’immensa quantità di dolore e sofferenza a questo mondo come l’esito inevitabile della sequenza naturale degli eventi, ossia leggi generali, piuttosto che dell’intervento diretto di Dio (as the inevitable result of the natural sequence of events, i.e. general laws, rather than from the direct intervention of God), per quanto sia consapevole come ciò non sia logico se rapportato a un Dio onnisciente”. E pone a tema la questione cruciale del “Libero Arbitrio e della Necessità che la maggioranza della persone ha ritenuto insolubile”. Il male come naturale sequenza degli eventi secondo leggi generali. E ancora, ad Asa Gray, il 22 Maggio 1860: “Non riesco comunque ad accontentarmi (I cannot anyhow be contented) di guardare questo meraviglioso universo e specialmente la natura dell’uomo (this wonderful universe & especially the nature of man) e di concludere che tutto sia l’esito della forza bruta. Sono incline a guardare tutto come risultante da leggi mirate, con i dettagli, vuoi buoni vuoi cattivi, lasciati all’elaborazione di quello che noi potremmo chiamare caso (resulting from designed laws, with the details, whether good or bad, left to the working out of what we may call chance). Non che questa concezione mi soddisfi affatto. Nel più intimo di me stesso, sento che l’intera materia è troppo profonda per l’intelletto umano. Ma più penso più mi sento sconcertato È come se un cane tentasse di speculare sulla mente di Newton, ognuno speri e creda come può”. Infine, ancora in una lettera a Down Beckenham, il 7 maggio 1879, esprime il convincimento che “un uomo può essere al tempo stesso teista e evoluzionista”. Stephen Gould, il discusso ideatore, con Niles Eldredge, della “theory of punctuated equilibrium”,
la “teoria degli equilibri punteggiati”, ha osservato che teismo ed evoluzionismo afferiscono a due ordini di conoscenza diversi, due “non overlapping magisteria”: due magisteri non sovrapponibili. E si rivela, sul punto, un fedele interprete di Darwin. Il quale, difatti, può affermare in modo inequivoco di non essersi mai ritenuto un ateo che nega l'esistenza di Dio, ma piuttosto un agnostico: “Nelle mie fluttuazioni più estreme, non sono mai stato un ateo nel senso di negare l’esistenza di un Dio (I have never been an atheist in the sense of denying the existence of a God). Ritengo generalmente (e sempre di più invecchiando), ma non sempre, che agnostico corrisponderebbe alla definizione più corretta della mia condizione intellettuale”. Com’è stato acutamente osservato, nel pensiero di Darwin, Dio, più che assente, non è necessario. La realtà ‘creata’ non deve essere vista nell’ottica della teologia naturale, dei teologi fortemente avversati da Darwin, né, a dispetto di Newton, come un orologio predefinito, funzionante, ‘semper idem’. La sollecitazione culturale più forte dell’evoluzionismo concerne, infatti, proprio il carattere ‘storico’ della vita e delle sue complesse vicende ambientali e connesse, continue variazioni sulla terra e negli esseri viventi, che ne fanno una realtà dinamica. Il punto è oltremodo rimarchevole, in virtù della palese somiglianza di vedute problematiche e critiche presente in Einstein. Nelle edizioni dell’”Origine delle specie” successive alla prima del 1859, nella penultima frase Darwin aggiunse un inciso: “Nella vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola, vi è qualcosa di grandioso; e mentre il nostro Pianeta ha continuato a ruotare secondo l'immutabile legge di gravità, da un semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi”. Se non ché, a seguito di immediati malintesi sull’occorrenza (e l’opportunità) del termine “creatore”, ritenne di precisare: “Mi sono a lungo pentito di aver ceduto all'opinione pubblica, e di aver usato il termine pentateucale di creazione, con il quale intendevo in realtà dire “apparso” per qualche processo interamente ignoto”. Naturale vaghezza del linguaggio: Albert Einstein si situa sulla medesima linea di pensiero. E però, in riferimento a siffatti passaggi argomentativi, e a prescindere da Darwin, l’attenzione degli studiosi, fermandosi unicamente sull’esplicita connessione di Einstein con il pensiero di Spinoza, si lascia poi sfuggire l’implicito e forte richiamo al criticismo kantiano. V’è un mondo che noi non possiamo davvero sapere (“zu wissen”) quale sia, e che possiamo soltanto “pensare”, non “conoscere”, “denken”, non “erkennen”, nell’espressione di Kant: un mondo che non può mai costituire oggetto di “Wissenschaft”, di scienza. Epperò, d’altra parte, v’è un uomo il quale, applicandosi alla realtà, è in grado di conoscerne alcuni aspetti, che sono consoni alla sua propria costituzione. Gli “esili dettagli” di Einstein, i “dettagli, vuoi buoni, vuoi cattivi” (“the details, whether good or bad”) di Darwin. Il che significa che, sebbene non avesse mai studiato a fondo il pensiero
di Kant, Einstein tuttavia ne recepiva l’istanza materialistica soggiacente, quale, ad esempio, emerge sia nella nota kantiana all’”Anfibolia dei concetti della riflessione”, in appendice all’”Analitica trascendentale”, sia e soprattutto, nella “Widerlegung des Idealismus”, la celebre “Confutazione dell’idealismo” aggiunta nella seconda edizione della prima “Critica”, che tanti problemi creò a Hegel, e non solo a lui, e che ha esaltato i massimi studi kantiani contemporanei, da Cassirer a de Vleeschauwer al nostro Luigi Scaravelli. A partire da ’questo‘ Kant, peraltro, Ernest Cassirer evidenzia la centralità dei kantiani "Primi principi metafisici della scienza della natura": “Lo spazio assoluto non è in sé nulla e nessun oggetto, significa soltanto uno spazio relativo a tutti gli altri che posso sempre pensare oltre quello dato”. Lo spazio relazionale di Einstein. Del resto, in un breve trattato del 1763, "Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative", Kant stigmatizza la consuetudine dei metafisici – l’obiettivo critico erano i contemporanei - d'ignorare la peculiare funzionalità dell’impresa scientifica, che “si occupa di conoscenze comprensibili ed evidenti”, mostrando di preferire un preteso sapere basato su “astrazioni oscure e difficilmente controllabili”. Si noti che – la ‘coincidenza’ è significativa - nello stesso anno 1763, Kant dava alla stampa il decisivo “Beweisgrund”, in cui argomenta che predicati o determinazioni sono posizioni relative a un ‘quid’, cioè caratteri di una cosa, mentre l’esistenza non è una “nota di concetto”, è la posizione assoluta della cosa in sé stessa. Da non sovrapporre al “Ding an sich”, la “cosa in sé”, la “Realität”, la realtà rappresentata e rappresentabile unicamente come “fenomeno”, all'interno delle condizioni a priori della sensibilità e dell'intelletto, dove si genera la sintesi conoscitiva. L'apparire della cosa, nelle sue proprie modalità, non “die Sache selbst”, la cosa stessa. E’ solo con esso che il pensiero entra in relazione, in quanto, appunto, esso è altro dal “noumeno”, sebbene la confusione sul punto continui a dilagare. Ad opera di quanti non prestano la necessaria attenzione neppure ad altre pagine decisive della prima “Critica”, quali, ad esempio, quelle dedicate alla “Elementarlehre des Verstandes”, la “teoria elementare della mente” e, in particolare, alla “dottrina trascendentale degli elementi”, che ne rappresenta il fulcro. In tema, una volta di più, la reciproca implicazione e coniugazione delle “due fonti” della conoscenza: sensibilità e intelletto. Ebbene, è quest’idea della ragione “naturalmente” prodotta dalla mente nel suo incessante sforzo di rappresentarsi il “mondo” ed eccedente la sua effettiva capacità conoscitiva, che Kant chiama “to noumenon”, il “pensato/pensabile”, dai corrispondenti lemmi greci “noeo” e “nous”, “pensare/pensiero nella mente/intelletto”, integranti un’ampia famiglia lessicale e scientifica interlinguistica. Una libera ”eccedenza” del pensiero, connaturata alla finitudine della “condition humaine”, sulla soglia ontologica del “limite”.
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