Riflessioni sull'Etruria tra oralità e scrittura - Note d'Arte
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Riflessioni sull’Etruria tra oralità e scrittura Francesco Roncalli Nel 1985, nel corso della mostra Scrivere etrusco con la quale Perugia ha partecipato alle manifestazioni dell’Anno degli Etruschi, erano frequenti, come spesso avviene, le visite guidate da giovani allievi di Etruscologia alle scolaresche di ogni ordine e grado. Come anche capita spesso, le domande o risposte più stimolanti – e divertenti – venivano dai ragazzini delle elementari. Ricordo, in particolare, la domanda (che risponde al tema qui trattato da Camporeale): “Sapete, bambini, quando gli Etruschi hanno imparato a scrivere?” e la risposta, fulminea: “In IIIa elementare”. Risposta che possiamo adottare come paradigmatica di una nozione di apprendimento secondo la quale lo scrivere è pratica, o arte o mestiere, che qualcuno può acquisire e altri no, qualcuno prima e altri più tardi, ma che comunque la cultura di appartenenza degli uni come degli altri ha già acquisito e assimilato: è in grado di avvalersene e, anzi, affida ad essa ruoli precisi – dalla certificazione di un titolo di proprietà alla memorizzazione di una transazione, alla codificazione di norme funzionali alla convivenza civile o alla prassi religiosa della comunità, fino a farne strumento fondamentale del processo stesso di elaborazione del pensiero, ecc. Apprendimento “scolastico”, dunque, di un bene già posseduto dalla collettività. Quando però è un’intera comunità, o addirittura una civiltà ad accedere a questo strumento, domande e risposte si complicano: o, almeno, dovrebbero. Interrogarsi, come fecero perlopiù gli storici antichi, su chi sia stato il primo inventore e donatore della scrittura, a chi, dove, come e quando il dono è stato trasmesso o, come fanno, in modo più articolato, storici, archeologi ed epigrafisti moderni, per quali contatti è passato di mano, in quali tempi e circostanze è stato deposto in una determinata civiltà il “seme” della scrittura, può non bastare. Perché? Perché sarebbe come contentarsi di una risposta scolastica, appunto, a una domanda che soltanto scolastica non può essere: ignorando, ad esempio, il retroterra (sia sincronico che diacronico) che ha fatto di quella acquisizione un passaggio obbligato o, quantomeno, atteso dello sviluppo culturale di quella comunità. Un esempio. Se io vivo in un luogo, e partecipo di una cultura in cui per misurare il tempo, il giorno o le stagioni, ci si contenta del sole e dei suoi movimenti (!) in rapporto alla terra, se di punto in bianco arriva, per terra o per mare, un mercante che mi offre una sveglia, è probabile che io me la appenda al collo; all’opposto, se la mia cultura ha autonomamente sviluppato l’esigenza di una più precisa scansione del tempo, uno strumento adatto allo scopo – acqua o sabbia che scorrano, meccanismi che ritmicamente si muovano – presto o tardi me lo invento da me. E se poi il portatore della sveglia mi coglie in questo grado di autonoma maturazione del problema, l’invenzione potrà trovare buon terreno in cui attecchire. E’ dunque fondamentale studiare il contesto culturale nel quale l’uso della scrittura appare per capire se, e in quale misura, la sua adozione partecipi dei connotati della reinvenzione. E’ chiaro anche, da questa premessa, che se determinate civiltà raggiungono lo stadio evolutivo che le rende mature per il ricorso alla scrittura, possono inventarsela indipendentemente l’una dall’altra. E’ proprio ciò che è avvenuto all’inizio di quella grande storia nella quale s’inserirà anche l’acquisizione della scrittura da parte degli Etruschi. Infatti, a una distanza stimata in meno di due secoli, tra il 3300 e il 3150 a.C. – pochi minuti, fatti pari a 24 ore i più di 30.000 anni trascorsi da quando la comparsa della prima pittura parietale in Europa dimostra l’homo sapiens capace di associare concetti a immagini, e di comunicare per mezzo di queste - in Mesopotamia appaiono i primi documenti di quella che sarà la scrittura cuneiforme (a Uruk, sul basso corso dell’Eufrate) e in Egitto quelli della scrittura geroglifica. Creazioni indipendenti e diversissime, venute alla luce a non più di 1.300 km. di distanza in linea d’aria. Dovranno passare ancora circa mille e trecento anni prima che si affaccino i primi conati di una scrittura alfabetica, derivata dalla
geroglifica, non a caso rivelata da aree – dalla penisola del Sinai al distretto siro-palestinese – ove confluivano genti di varia estrazione, specie di stirpe e lingua semitica (mentre, del tutto indipendente, compare nella Creta minoica la scrittura “sillabica” “lineare B” applicata al greco). Ormai siamo alle fasi finali: nell’arco della seconda metà del millennio prenderà forma – documentata attorno al 1100 a.C. – quella scrittura alfabetica lineare fenicia sulla quale i Greci elaboreranno l’alfabeto (integrato dei segni per le vocali) che trasmetteranno agli Etruschi, e questi agli altri popoli dell’Italia peninsulare (Umbri inclusi), padana, subalpina e transalpina (se è vero che fu sulla base dell’alfabeto venetico che si è formato, a partire dal II sec. d. C., quello runico). Ho indugiato su questi passaggi perché ne emergono alcuni aspetti ricorrenti e illuminanti anche nel caso che qui ci interessa: quello dell’Etruria. 1. E’ il passaggio da gruppi sociali semplici e paritetici, famigliari, di clan o di villaggio, a società più complesse e articolate, centralizzate e gerarchizzate, che scatta l’esigenza di fissare in forma perenne un patrimonio di “saperi” vasto e vario, in precedenza affidato alla memoria e alla tradizione orale di quegli stessi gruppi, clan, villaggi: fu così per le grandi città-stato d’Oriente (Ur, Susa, Ebla…) come per l’Egitto delle prime dinastie come, più tardi, per la Creta dei Palazzi e, più tardi ancora, per la Grecia e per l’Etruria. Anche qui, sono i grandi agglomerati proto-urbani di facies villanoviana evoluta (Tarquinia, Veio, Cerveteri ecc.) il terreno di coltura su cui potrà innestarsi e attecchire, sul finire dell’VIII sec. a.C., il nuovo bene, certo frutto degli intensi contatti con genti, culture e prodotti orientali veicolati dal commercio fenicio e greco e dalla presenza greca nelle colonie dell’Italia Meridionale e della Sicilia. 2. Un secondo aspetto è strettamente legato al primo e sta nel carattere stesso delle prime opere scritte complesse (là dove ne sappiamo qualcosa, per traccia diretta o memoria) prodotte – e molto precocemente, si direbbe – dalle diverse culture “letterate”. Che si tratti di codici normativi o religiosi, di elaborati con intenzioni “storiografiche” o mitografiche, di testi poetici o mitopoietici, il tratto comune è l’impegno a collazionare, organizzare nuclei leggendari o sapienziali omogenei per tema ma variegati nelle versioni: segnale trasparente del comporsi di un patrimonio precedentemente policentrico che si vuol codificare in corpora unificanti: e quanto “moderna” sia questa operazione, più o meno lontana – talora lontanissima - dai tempi di formazione di quegli stessi contenuti, lo mostrano, nel caso dei miti, i non pochi fraintendimenti “razionalizzanti” che la loro versione scritta ne ha fissato e tramandato. Così è dei grandi codici dei regni mesopotamici come delle opere che presso quelle stesse civiltà fissarono memorie leggendarie della creazione e del diluvio; così è, in sintomatica concomitanza con l’esodo dall’Egitto e con la conquista di un luogo e di una identità da parte del popolo d’Israele, l’opera “mosaica” di sistemazione e trascrizione della leggenda e delle memorie custodite dalle tribù che in esso confluirono: sulla creazione, sul diluvio, sui Patriarchi. Così, ancora, sarà in Grecia, dove già entro l’VIII sec. a.C. (e cioè lo stesso secolo della prima comparsa di documenti scritti!) le opere di Omero ed Esiodo – dall’Iliade del primo alla Teogonia del secondo - raccolgono e riordinano in forma poetica scritta storie di dèi e di uomini circolanti da secoli. E in Etruria? Anche per l’Etruria ci è stato tramandato, purtroppo non da documenti diretti ma da racconti più tardi di autori latini, un racconto che corrisponde significativamente a questo modello. E’ il famoso mito di Tagete. Racconta di un contadino che stava arando il suo campo in quel di Tarquinia, quando improvvisamente gli spunta dalla terra, davanti all’aratro, uno strano essere dal corpo d’infante e dal volto di vecchio (altre fonti, trasferendo il significato al livello del significante, razionalizzano dicendo: saggezza di vecchio). Un ex-voto bronzeo rinvenuto a Tarquinia ne riprende forse il modello iconografico (fig. 1)). Spaventato, il contadino corre a chiamar gente in città, e in breve si raccolgono attorno a quel genietto tutti i principes Etruriae, ai quali egli detta (“canta”) i fondamenti della etrusca disciplina: la summa della scienza religiosa etrusca e, in particolare, dell’aruspicina. Dopodiché scompare.
Questo mito è a buona ragione considerato come l’atto fondativo di quel sapere che già in antico era considerato caratteristico degli Etruschi (anche se non di una “specializzazione tematica” sappiamo trattarsi, bensì di un peculiare modo di leggere e intendere il reale nella sua totalità: dunque della loro scienza tout court). Minore attenzione ha invece meritato il fatto che esso ci rappresenta al tempo stesso, con la efficacia e sobrietà simbolica propria dei miti, un patrimonio di conoscenze preesistente e ricchissimo (già maturo, anzi “vecchio”) nell’atto in cui, oralmente memorizzato, viene trasmesso (cantato) a una società stanziale in via di strutturazione (il contadino, la città, il Capo), fatta capace di metterlo per iscritto. Tagete stesso è, a ben vedere, creatura dai connotati pre-olimpici. Mischwesen a modo suo, “essere misto”, creatura composita in cui – come nei Centauri, nelle Arpie ecc. – qualità distinte (qui età neonatale e saggezza di anziano) si traducono in connotati fisici saldati insieme, l’essere generato direttamente dalla Terra ne affianca la natura a quella dei Giganti, il cui nome greco – equivalente all’etrusco Cels clan, “figlio di Cel” (la Terra appunto) – si ritiene rifletta appunto la qualità di “primogeniti” della Terra e del Cielo, e che gli dèi olimpici sconfiggeranno con l’aiuto di Eracle. Del resto, se il sacerdote etrusco esperto di quell’arte antichissima – l’aruspicina – andava ancora in piena età ellenistica vestito da pastore, ciò è conferma lampante della diffusa consapevolezza del fatto che il sapere di cui era depositario era nato ben prima di quel contadino, di quella città e di quell’Olimpo. E se Tarquinia ha catturato a sé quella leggenda, certo condivisa con altre comunità etrusche, è probabilmente perché – come ci dimostra la sua rigogliosa fioritura villanoviana e come le ricerche archeologiche recenti confermano – è stata precoce sia nello sviluppo proto-urbano che nella ritualizzazione del mito stesso. 3. Il grammatico latino Festo, nel II sec. d.C., ci dice che Tagete, figlio di Genius, è nipote di Giove: ciò che sembra frutto di una successiva rielaborazione del mito, volta a rappattumare le due opposte consorterie con un a noi ignoto matrimonio di convenienza. In Tarconte, leggendario eroe fondatore (non solo) di Tarquinia, al rango di capo politico della città nascente si unisce il prestigio religioso che ne fa il primo consegnatario, per alcuni anche elaboratore a sua volta, di quel codice religioso nazionale. Abbiamo in questo traccia di un terzo aspetto che integra spesso i connotati originari della scrittura: il suo cercar radici ed efficacia nella sfera legittimante del sacro, del divino. La sua inventio è percepita non come una “fase B”, ma come una nuova “fase A”, un nuovo inizio, come tale opera degli dèi. Scrive Béatrice André-Leicknam a proposito dei testi sacri mesopotamici: “Le mot est synonime de création ou d’existence”. Dall’egiziano Toth al greco Hermes si scende nel tempo fino a Odino, mitico donatore della scrittura ai Germani, e giù giù fino al IX sec. d.C., quando anche l’invenzione di un alfabeto adatto alla evangelizzazione degli slavi sarà associata all’opera divina per il tramite di Costantino il filosofo – il monaco greco Cirillo – cui Dio “parlò mentre pregava, e subito… prese a tradurre il Vangelo”. La ricorrente connessione tra divinità e dono della scrittura fonda a sua volta l’equivalenza (implicita) tra scrivere e (ri)creare, e dunque fra testo scritto e parola viva, autonomamente partecipe della realtà e della vita che esprime. Questo, dunque, il quadro socio-economico e culturale entro il quale il passaggio dalla oralità alla scrittura si realizza, anche in Etruria. Quadro necessario. Ma sufficiente? Certamente no. Soprattutto negli stadi finali del processo, è stato dimostrato determinante lo scambio commerciale, l’incontro plurilingue ecc. Ma è su un altro aspetto che vorrei qui concentrare la mia curiosità. La rivoluzione che ha dato la parola scritta a Omero come a Tarconte è sufficiente a spiegare ex nihilo l’uso (capillare e relativamente diffuso) che della scrittura vediamo fatto, con relativa prontezza, sia in Grecia che in Etruria? Colpisce, negli studi su questo tema, a fronte delle attente riflessioni dedicate agli antefatti dei sistemi scrittori là dove questi saranno poi inventati, la minore curiosità rivolta agli antefatti là dove invece questi non hanno portato all’invenzione autonoma di un sistema di scrittura, ma “soltanto” al suo accoglimento dall’esterno e alla sua successiva elaborazione –
come in Grecia e in Etruria, appunto. Rispetto a un approccio archeologico, epigrafico e storico-culturale attento, pure esteso talora anche ad alcuni aspetti “extra-linguistici”, è la dimensione antropologica dell’evento a reclamare maggiore curiosità. Insomma, prima della scrittura, in Etruria, qual’era la situazione? Era un mondo del tutto prigioniero di una oralità ignara o incapace di qualsiasi altra forma di espressione e fissazione del concetto nel segno, e di comunicazione del concetto mediante il segno? E se così non era, qual’era lo statuto di tale rapporto? Consideriamo, in particolare, il caso delle cosiddette “iscrizioni parlanti”: quelle (che si affacciano subito) in cui l’oggetto reca scritto un enunciato espresso in prima persona “io sono di …” o “me ha dedicato…”. “Iscrizione parlante” è dizione ormai usuale ma, in realtà, dal nostro punto di vista, imprecisa: perché una scritta, comunque formulata, è sempre e in ogni caso parlante, mentre qui è l’oggetto stesso ad essere reso tale. Ebbene, quegli oggetti che subito, nell’VIII sec. a.C. in Grecia, tra VIII e VII in Etruria, prendono a dichiararsi proprietà di …, dedicati o donati a …, eseguiti o dipinti o inscritti da …, hanno acquistato d’un sol colpo, insieme alla scritta che recano su di sé e, anzi, per opera di questa, anche l’attitudine a parlare, così simultaneamente animandosi e dotandosi idealmente di voce e parola, oppure la nuova téchne è sopraggiunta a formulare messaggi nuovi, o a riformularne di antichi, di cui l’oggetto era già capace? Qualche confronto familiare. Capita di leggere, sul lunotto posteriore di un’automobile bisognosa di lavaggio, la scritta “Lavami!”: l’oggetto, di per sé inanimato, è scherzosamente reso parlante dalla scritta. Ho letto una volta per le vie di Napoli “Lavare l’auto non è reato”: dove l’oggetto-automobile è invece fatto supporto di un enunciato, tanto più scherzoso nella sua solennità “giurisprudente”, che lo riguarda direttamente, ma pronunciato da una voce fuori campo, e che dunque lo lascia inanimato (anche se non è del tutto da escludere che un principio di animazione inespresso vi sia in quel fare l’auto stessa latrice di un messaggio la cui efficacia si risolverebbe in suo favore). Ma presso le culture di cui stiamo discorrendo ogni scherzo è escluso, e non si può che procedere con cautela alla ricerca (disordinata, temo, e certo affrettata) di possibili segnali che animino il quadro. Vediamo subito uno dei casi, fra i tanti, cui accennavo poc’anzi: l’anforetta ceretana, datata al 2° quarto del VII sec. a.C., che si dichiara, grazie alla scritta che corre a metà del collo su una delle due facce, proprietà di Thifarie Secisie: “mithihvariesecisie” (fig. 2). Potremmo porre il nostro interrogativo nei seguenti termini: se cancelliamo idealmente la scritta (molti vasi dello stesso tipo ne sono corredati, e moltissimi, associati come questo a corredi tombali, ne sono privi) il vasetto è ridotto al silenzio? Lo stesso ricorrere costante, nelle anfore di questa classe, dell’apparato “decorativo” portante, costituito dal caratteristico motivo a doppia spirale, perlopiù integrato dai fasci di linee angolari tra questo e le anse, e occasionalmente arricchito da pesci o volatili, fa sospettare il contrario: che l’oggetto sia cioè già latore di messaggi, atto a “parlare”, e che l’iscrizione ne integri e innovi forse il contenuto, certo il modo d’espressione. Altri indizi sembrano confermarlo. Un tipo particolare di enunciato “parlante” è rappresentato dai casi in cui l’oggetto corrobora la dichiarazione della propria appartenenza diffidando l’eventuale malintenzionato dall’appropriarsene: come ad es. nell’iscrizione graffita sul coperchio di un vaso d’impasto vulcente databile al 650-625 a.C. (fig. 3): “ eimipikapi…” “non mi prendere…” (e osserviamo che lungo l’orlo, come sul pomello di presa, corre una incerta linea a zig-zag e, all’interno di questa, una serie di segni “strani” - alfabetiformi? -: su questo tornerò subito). E’ stato giustamente osservato (Agostiniani) come una simile formulazione basti a gettar luce sul senso del messaggio anche là dove (come nel caso citato sopra) essa manca: non si tratta certo di una notarile dichiarazione di proprietà, bensì di un avvertimento nel quale è implicita una identica diffida. Ebbene, proprio l’accertamento di questo valore ci induce a chiederci se, in assenza dell’una come
dell’altra espressione scritta e “prima” di queste, l’oggetto consegnato alla tomba vi giacesse, per così dire, inerte, muto e indifeso, o non piuttosto già animato da una qualità “parlante” potenziale che il sopraggiungere dell’alfabeto ha esplicitato, non creato. In altri casi i segni appaiono svincolati sia dalla sequenza alfabetica - modello sia da quella in cui, in nesso con altri, compongono parole compiute: o dove, ancora, l’intenzione scrittoria si espande scopertamente oltre i limiti della capacità (o volontà?) di esprimere parole e sintagmi sensati, così facendo della facoltà di parola in sé il messaggio che più conta: che, infatti, in entrambi i casi si abbia una pura e semplice esibizione di “possesso” del nuovo bene di lusso (al modo della “sveglia al collo” di cui si è detto!) pare interpretazione decisamente insufficiente e banalizzante. Osserviamo, ad esempio, due ollette d’impasto probabilmente deposte insieme in una tomba tarquiniese, databili attorno alla metà del VII secolo a.C., conservate al Museo Nazionale di Tarquinia. Sulla loro rilevanza per il tema che qui ci interessa è stata già richiamata l’attenzione (Bagnasco Gianni). Vediamo dunque sul coperchio di una di esse una serie di segni alfabetici (e pseudo-alfabetici) sparsa in cerchio attorno alla base del pomello di presa, mentre sul bordo dello stesso e sulla spalla del vasetto, tra le anse, corre un ornato a zig-zag. Anche sulla seconda una sequenza di segni alfabetici, tutti riconoscibili – alcuni capovolti – ma senza senso, occupano sul lato privilegiato, tra le anse, quella stessa fascia, ma qui continuandosi e quasi dissolvendosi in quel medesimo motivo a zig-zag che poi si estende al lato opposto del vasetto (fig. 4). Un motivo, questo, che in Etruria affonda le radici nel repertorio geometrico di eredità villanoviana e che qui si raccomanda certo per la sua evidente affinità formale con l’angolosità del segno alfabetico: ma forse proprio in forza di questa affinità sembra fin d’ora promosso a una qualche contiguità funzionale anche sul piano semantico, quale integrazione dell’enunciato inespresso che la striscia scritta (e cioè parlata) vuole evocare. La nota anfora di bucchero da Monte Acuto (Formello, nei pressi di Veio), datata all’ultimo quarto del VII sec. a.C. (fig. 5), ci presenta, insieme, una formula di dedica (espressa in prima persona), la firma del vasaio e due serie complete di lettere in sequenza alfabetica corretta, l’una sul collo e l’altra sul corpo del vaso: ma mentre la prima è isolata e compiuta, sia la prima serie alfabetica che la dichiarazione dell’artefice si espandono in una serie di lettere (o sillabe) senza senso, mentre la seconda ne è addirittura preceduta e seguita – quasi assimilata e nascosta all’interno della striscia graffita. Corona il tutto un’altra breve ed enigmatica sequenza di lettere (urur) . Non altrimenti spiegabili, per queste oscure serie si è fatto ricorso alla sfera del magico: intuizione corretta, che tuttavia non può artificiosamente scindere l’espresso dall’inespresso con cui manifestamente si fonde. Se magia c’è, va colta forse proprio in quel saldarsi di enunciati intellegibili ad altri inintellegibili, nel dilatarsi dell’espressione compiuta in segni (e strumenti) di una facoltà di parola assoluta. E la irregolare e ondulante linea a zig-zag che traversa il collo sotto la prima serie alfabetica, sollevandosi e ingrossandosi verso il centro, sembra anche qui piuttosto disporsi ai margini di tale apparato funzionale, nella già accreditata sua funzione integrativa, che “ornare” la linea d’innesto del collo nella spalla del vaso (peraltro del tutto disadorno), dalla quale è visibilmente staccata e indipendente. E’ una funzione, questa, nella quale la ritroviamo anche presso altre culture dell’Italia antica, nel momento in cui vengono a loro volta alfabetizzate dall’Etruria. In una tomba del 2° quarto del VI sec. a.C. rinvenuta a Castelletto Ticino, in area di cultura golasecchiana, era stato deposto un bicchiere provvisto, sul collo, di una breve iscrizione recante il nome del defunto (fig. 6): e anche qui la breve sequenza di segni significanti è preceduta, introdotta si direbbe, da pochi tratti a zig-zag: un “ornato” che ritorna, solo, anche in altri vasi simili dello stesso ambiente, “pseudo-scrittura” la si è giustamente definita, ma autentica vi è l’attitudine a comunicare che essa testimonia e che anticipa il compiuto dominio del nuovo strumento ed espande indefinitamente i limiti del messaggio espresso.
Anche in ambiente venetico quest’uso è condiviso. Nella stele funeraria patavina di Camin (fig. 7), del VI sec. a.C., l’epigrafe che corona il campo figurato si prolunga allo stesso modo nella banda che incornicia tre lati della lastra (secondo un costume cui già la stele vetuloniese di Au(fe)le Feluske, di circa cent’anni più antica, non rinunciava, a integrazione della pur ridondante formula onomastica con cui l’illustre personaggio si presentava). Vorrei concludere gettando uno sguardo a ciò che avviene nell’epicentro dell’etruscità padana: a Bologna, l’etrusca Felsina. Qui la dimestichezza con l’alfabeto si rivela precocemente, come mostrano le lettere segnate su bronzi frammentati raccolti nel ripostiglio di S. Francesco (chiuso attorno agli inizi del VII sec. a.C.). Ma la più lunga iscrizione felsinea è quella incisa sull’ anforetta Melenzani, datata ai decenni tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. (fig. 8): la forma del vasetto è diffusa e tipica dell’orientalizzante locale, come pure lo è la decorazione a minute stampiglie che l’avvolge in due file sovrapposte, sotto le quali qui si aggiunge la lunga e articolata iscrizione. Altri vasi del medesimo ambiente e periodo sono caratterizzati per l’appunto dall’avere corpo e coperchio cosparsi di questa fitta serie di ornati impressi a punzone. La domanda da cui siamo partiti si ripropone (direi esaltata dal presentarsi improvviso, in questo contesto, di una scritta di tale ricchezza e complessità): solo il vasetto iscritto è capace di messaggi? Oggetti come, ad esempio, l’urna Arnoaldi (fig. 9) sono da intendersi soltanto coperti da ornati, o non piuttosto sovraccarichi di segni significanti? Penso, insomma, che l’avvento della scrittura abbia incontrato in Etruria un terreno già maturo per dotarsene e, stante la situazione storica, accoglierla e farne buon uso: una già da tempo radicata predisposizione (che si svilupperà coerente con la rinomata attitudine religiosa di quel popolo) a considerare “leggibile” tutto il reale e – conseguentemente – a farne latori di messaggi anche determinati oggetti, specie se destinati a contesti religiosi, quali sono appunto i corredi tombali. Fig. 1. Il “Putto Carrara”. IV sec. a.C. Fig. 2. Anfora d’impasto da Cerveteri. Fig. 3. Coperchio d’impasto da Vulci (?). Città del Vaticano, Museo Gregoriano VII sec. a.C. Roma, coll. privata. VII sec. a.C. Roma, coll. privata. Etrusco. Fig. 4. Olla d’impasto da Tarquinia: l’iscrizione. VII sec. a.C.. Tarquinia, Museo Nazionale.
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