RADICI E SVILUPPO DEL MENTORING - Vocazione Mentore - Mentorlab
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Vocazione Mentore RADICI E SVILUPPO DEL MENTORING “Mentore” è una parola di forte impatto emotivo, capace di suscitare in noi ricordi indelebili e sensazioni profonde. Quando la sentiamo ci viene subito in mente il viso di un amico, un collega, un capo, un vicino di casa, un nonno che, nel nostro passato, ci ha aiutato a diventare quello che siamo oggi. Eppure non tutti sanno che la parola “mentore” nasce agli albori della cultura occidentale come “Men- tore”, nome proprio di un personaggio dell’Odissea molto meno popolare dei tanti eroi e personaggi mitici cantati da Omero. Prima di partire per la guerra di Troia, Ulisse, re di Itaca, affida le cure della famiglia e del regno al saggio ed esperto consigliere Mentore, figlio del caro amico e compagno d’armi Alcino. Volendo spingersi a rintracciare l’etimologia del nome nel greco antico, e da questa trarre in- teressanti analogie con le caratteristiche del personaggio, potremmo pensare alla combinazione della radice man (“pensare”, “conoscere”, come in manas, “intelletto”, o manyè, “penso”) con il suffisso tor (nomen agentis maschile utilizzato per indicare il soggetto di una determinata azione, come in rhetor, “retore”): Mentore significherebbe insomma “colui che sa” o “colui che pensa”. A questo amico particolarmente acuto e riflessivo, Ulisse, uomo dalla proverbiale astuzia, chiede in particolare di preparare il figlio Telemaco, che quando l’eroe è costretto a partire è appena un bambi- nello, a succedergli al trono. Mentore esegue il compito assegnatogli come meglio può, ma nelle circo- stanze più delicate la dea Atena, grande protettri- ce di Ulisse e della sua progenie, prende le sue fat- tezze per essere maggiormente d’aiuto a Telemaco senza fargli sentire il peso dell’intervento divino. In diversi episodi, Mentore/Atena dispensa al giovane saggi consigli che lo incoraggiano ed aiu- tano ad affrontare le situazioni più difficili. In un passo del Libro II, la dea stimola esplicitamente il giovane ad emulare le opere ed il valore del padre, che già ella vede rivivere in lui, pur nella consape- volezza di quanto ingrato sia tale compito per la maggior parte dei figli: “ Atena gli giunse presso, che assunta aveva la voce ed il volto di Mentore; e, favellando, a lui parlò con queste parole: «Mai tu non fosti, né mai sarai stolto, Telemaco, o inetto, se di tuo 2
Vocazione Mentore padre in te stillato è il buono ardimento. Che uomo era quello, per compiere imprese o discorsi! Non ti sarà dunque vano, né senza effetto il viaggio. Pochi dei figli, invero, riescono simile ai padri. Ma tu no, nel futuro non mai sarai stolto ed inetto, ché l’accortezza d’Ulisse non mai t’è fallita dentro. Come evidenziato da M. Kramien e F. Berger1, la dea incoraggia e stimola il giovane a prendere le sue decisioni con indipendenza e pensando con la propria testa: “ Sbarcò Telemaco, e Atena i suoi passi guidava, Dea dagli occhi verdi, che parlò e gli disse: “La timidezza non fa più per te, Telemaco, ché traversato il mare, hai tu, per sapere del padre tuo, qual terra lo copre, qual sorte l’ha colto. “ Da Nestore, su via, vai diritto: vediamo che sentimento egli abbia nascosto in seno”. A lei con queste parole rispose Telemaco: “Mentore, come andrò? Come dunque lo devo pregare? Non sono esperto nel parlare e la vergogna è normale per un giovane, quando rivolge domande al più vecchio”. E a lui rispose Atena: “Pur qualche idea nella mente, tu stesso. Telemaco, avrai: altre nel cuore le metterà Nume, poiché sei nato e cresciuto col favore degli Dei”. Con i suoi versi Omero celebra solennemente il valore sacrale dell’educazione della persona che deve tendere allo sviluppo della sua capacità di pensare congiungendo in sé, in maniera unica, originale ed irripetibile, la materialità del contingente con la spiritualità del trascendente. L’intuizione del poeta sarà sviluppata dai grandi filosofi della Grecia classica. Già Socrate alla maieutiké o “arte della levatrice” della madre Fenarete paragona l’arte della dialettica praticata dal maestro come mezzo per “far parto- rire” all’allievo pensieri assolutamente personali, in opposizione ai contemporanei sofisti accusati di voler persuadere i loro interlocutori con l’arte della retorica. Nei suoi dialoghi, che conosciamo grazie alle opere dell’allievo Platone, Socrate pone se stes- so al livello del discepolo intavolando incalzanti scambi di domande e risposte con l’interlocutore. Procedendo per confutazione, ossia per elimina- zione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate, il dialogo porta gradualmente alla luce l’infondatezza delle convinzioni che si è abituati a considerare come scontate e che invece ad un attento esame rivelano la loro natura di “opinio- ni”. Grazie all’uso sapiente di battute taglienti ed ironiche, il filosofo-ostetrico stimola il discepolo a “partorire” le proprie piccole verità e districarle dalla “matassa” dell’ignoranza che le avviluppa. Il metodo socratico non ambisce quindi ad insegna- re, poiché la verità non è insegnabile ma un sapere dell’anima, ma si propone di aiutare ed accompa- gnare il discepolo nel processo di emersione della › In alto | Socrate (Atene, 470-399 a.C.) A fianco | Telemaco e Mentore, Odissea verità. In questo senso, il maestro è, prima e più che docente, mentore. 1. Kramien M. e Berger F., The coaching paradox, International Journal of Hospitality 1997 3
Vocazione Mentore Platone riprende ed approfondisce l’insegnamento del maestro Socrate nel suo sistema pedagogico della paideia o “allevamento e cura dei fanciulli”. Secondo il grande filosofo, i sensi servono a risveglia- re in noi il ricordo delle idee, ossia di quelle forme universali con cui il mondo è stato forgiato e che ci permettono di conoscerlo. Conoscere significa dunque ricordare: la conoscenza è un processo di reminiscenza di un sapere che giace già all’interno della nostra anima, ed è perciò “innato”. Compito del maestro è, quindi, aiutare il discepolo a ricordare, ritrovando dentro di sé la conoscenza, con l’arte della dialettica, ovvero del piantare nell’anima del giovane discorsi che, come semi, si nutrono della co- noscenza nascosta per produrre, in un ciclo vitale eterno e collettivo, i frutti della felicità2: “L’impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell’arte dialettica, prende un’anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell’in- dole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo”. Lo speciale rapporto tra il maestro e l’allievo, fonte di sviluppo della persona, non è certamen- te un’esclusiva della cultura occidentale, ma si ri- trova in tutte le maggiori culture sviluppatesi in tutto il mondo. Le figure del guru nell’induismo e del rabbì nell’ebraismo risultano essere fonte di ispirazione evidente per i moderni mentori. Quella del guru, termine sanscrito costituito dalle radici gu (“oscurità”) e ru (“svanire”), ovvero “co- lui che disperde l’oscurità”, e quindi sinonimo di “maestro” o “precettore spirituale” che accompa- gna il discepolo nel percorso di formazione, è una figura molto importante comune a tutte le scuole filosofiche e devozionali dell’Induismo, avente diritto al massimo rispetto ed alla più sincera de- vozione. La Taittiriya Upanisad, uno dei testi sa- cri di questa religione, è molto chiara a riguardo3: › In alto, Guru e discepolo “ Per te sia divinità la madre, divinità il padre, divinità il maestro. Il rapporto che si crea tra guru e discepolo è molto profondo. Il guru diviene responsabile della cre- scita spirituale dell’aspirante, istruendolo e fornendogli le istruzioni più adatte per l’esecuzione delle pratiche spirituali. Nel Mahabharata e in altre Itihasa, viene spiegato che alla figlia di un brahmano non è consentito di sposare i discepoli dello stesso: il rapporto tra questi ultimi e il maestro è talmente simile a quello tra figli e padre che tale unione è equiparabile all’incesto con la sorella. La figura del guru ricorre in quasi tutte le opere religiose induiste. Ad esempio, nella Bhagavad Gita, l’eroe Arjuna si sottomette interamente al consiglio di Krishna, il quale, impartendogli una serie di insegnamenti spirituali, diviene a tutti gli effetti il suo guru. In modo simile, il Vivekacudamani – trattato metafisico che può considerarsi una sorta di manifesto della scuola dell’Advaita Vedanta – è narrato nella forma di dialogo tra un guru e il suo discepolo. 2. Fedro, in www.ousia.it 3. Filippani-Ronconi P., Upanisad antiche e medie, Universale Bollati Boringhieri 2007 4
Vocazione Mentore La parola rabbì, italianizzato in “rabbino”, termine che a partire dalla diaspora ebraica designa lo stu- dioso autorevole della Torah e della legge mosaica che funge da guida spirituale della propria comunità, deriva dalla radice semitica R-B-B, che in aramaico biblico significa “grande” o “riverito”. Nell’ebrai- smo biblico il termine viene utilizzato in riferimento al padrone di uno schiavo o al maestro di un discepolo. In numerosi passi dei Vangeli sinottici diversi personaggi di varia origine ed appartenenza si rivolgono allo stesso Gesù con il titolo di Rabbì. Come mette in evidenza Argentino Quintavalle4, oltre che come espressione di rispetto, l’uso di tale appellativo conferma che l’immagine più largamen- te diffusa di Gesù presso di suoi contemporanei è quella di un tipico saggio o maestro del suo tempo. Come molti altri, egli viaggia da posto in posto, dipende dall’ospitalità della gente, insegna all’aperto, nelle case, nei villaggi, nelle sinagoghe e nel Tempio, ha discepoli che lo seguono nei suoi spostamenti. Come molti antichi saggi giudei, dei quali si conservano più di 4.000 parabole e storie, Gesù rende comprensibile anche ai più umili il proprio messaggio, nei suoi aspetti più legati alla tradizione ma anche e soprattutto nelle sue implicazioni più rivoluzionarie. Maria Gloria Riva e Gabriele Mangiarot- ti5 spiegano che il termine “parabola”, dal greco parabolé che significa letteralmente “comparazione e similitudine”, traduce il vocabolo ebraico mashal con il quale si designa un racconto, spesso enigmatico che, attingendo a scene di vita quotidiana, vuole costruire un paragone volto ad illuminare una realtà misteriosa e altrimenti inconoscibile. In particolare nel Vangelo di Marco Gesù appare come il Maestro che parla in parabole6: “ Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli salì su una barca e là restò seduto, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose in parabole. Lo speciale rapporto tra maestri, guru e rabbì ed allievi, pupilli e seguaci contiene molti dei tratti del mentoring come lo conosciamo oggi. Ci rife- riamo in particolare alla centralità attribuita allo sviluppo ed alla crescita dell’individuo, al valore intrinseco attribuito all’esempio ed al racconto fi- gurato dell’esperienza, all’incondizionato rispet- to dovuto dal discente nei confronti del sapiente, alla necessità di una profonda fiducia reciproca a suggello di un rapporto di piena condivisione ed apertura. In mentore, però, non trasmette solo le proprie conoscenze e competenze al mentee, ma gli dona anche un po’ del proprio modo di essere, dei propri valori, del proprio ruolo. Anche questo aspetto della relazione di mentoring ha origini antichissime, che alcuni autori fanno addirittura risalire nelle pratiche di successione al trono per scelta del proprio successore piuttosto che per diritto di sangue che si ritrovano dapprima nella › Departure Herald (Anonymous), 1425-1435 a.C. Cina del III millennio a.C. e, poi, nella Roma del II secolo d.C. 4. Quintavalle A., Gesù era un rabbino?, in www.messiev.altervista.org 5. Riva M. G. e Mangiarotti G., Gesù il Maestro che parla in parabole: Il Seminatore, in www.culturacattolica.it 6. Vangelo secondo Marco, testo CEI 2008 5
Vocazione Mentore A. Huang e J. Linch7 riportano il caso degli imperatori cinesi Yao, Shun e Yu, tre dei “Cin- que Imperatori” modello di regnante della cultura confuciana, sul trono tra il 2333 e il 2177 a.C.. Nel sistema oligarchico di elezione dell’Imperatore da parte dei maggiori feudatari in vigore in questa fase classica della storia cinese, ognuno di questi leggendari sovrani sceglie come proprio successorie uno Shan Jang, ovvero “futura persona meritevole”, in grado di assumersi responsabilità di così elevata rilevanza a prescindere dalle proprie umili origini. Secondo la tradizione, Yao, non vedendo in alcuno dei suoi nove figli le capacità e doti indispensa- bili alle funzioni imperiali, sceglie Shun, orfano di umilissime origini, divenuto molto popolare nelle sue peregrinazioni in varie regioni del regno grazie ad una insolita combinazione tra una pro- fonda saggezza, un carattere mite e spontaneamente compassionevole ed una innata autorevolezza. Alla morte di Yao, Shun accetta con riluttanza il titolo imperiale per rispetto nei confronti dei fi- gli del defunto sovrano. A sua volta, con un perfetto approccio da mentore, Shun chiama alle più alte responsabilità di governo il giovane Yu che gli succederà dando inizio alla brillante dinastia Xia. Lo Shan Jang viene innalzato dalla cultura confuciana a modello di incomparabile saggezza e lungimi- ranza dei sovrani che genera prosperità per tutto il regno. Leggiamo in un testo attributo a Tsu- szu8, nipote di Confucio: “Tendere alla sincerità significa non possedere la verità, la realtà, l’assenza di falsità, ma desiderarle: è il dovere delle azioni umane. L’intelligenza, a cui si perviene dalla sincerità, è da scriversi alla na - tura, cioè al dono divino; la sincerità, a cui si perviene dall’intelligenza, è da ascriversi all’istruzione. La sincerità porta all’intelligenza, l’intelligenza alla sincerità. Solo colui che ha la massima sincerità sotto il cielo è capace di sviluppare pienamente la sua natura. Essendo capace di sviluppare pienamente la sua natura, è capace di sviluppare pienamente la natura degli altri uomini; essendo capace di sviluppare pie- namente la natura degli altri uomini, è capace di sviluppare pienamente la natura degli esseri; essendo ca- pace di sviluppare pienamente la natura degli esseri, può assecondare le forze trasformatrici e sostentatrici del Cielo e della Terra. Solo colui che ha la massima sincerità sotto il cielo è capace di trasformare gli altri. Chi ha la sincerità non si limita a completare sé stesso, ma di essa si serve per completare gli esseri. Completare sé stesso è carità, completare gli esseri è sapienza”. Con i dovuti distinguo temporali e culturali, non molto dissimile dall’esempio dei tre Imperatori ci- nesi ci appare l’esperienza nell’Impero romano di quelli che vengono ricordati come gli “Imperatori adottivi”, dal 96 al 180 d.C.: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. In quella che è unanimemente considerata una delle età più splendenti della storia romana, gli Imperatori governano in modo equilibrato e saggio in accordo con il Senato. Consapevoli dell’eccezionale precarietà della propria posizione e preoccupati di mantenere saldo il controllo delle legioni, pur avendo spesso figli naturali, alla successione dinastica preferiscono quella adottiva. La scelta del proprio successore tra i propri migliori collaboratori dà all’Imperatore la possibilità di agire da mentore nei suoi confronti, preparandolo al difficile ruolo spesso affiancandolo a sé per verificarne in pratica le capacità ed attitu- dini. Ancora una volta, una relazione di mentoring in nuce nel quadro di una strategia politica volta al perpetuarsi di un sistema di potere complesso ed instabile. Nel generale degrado delle relazioni sociali che si registra in gran parte del Vecchio Continente nell’Al- to Medioevo sin dalla caduta dell’Impero romano, la tradizione del mentoring sopravvive soprattutto nel rapporto tra l’abate ed i confratelli nei monasteri dei maggiori ordini cristiani, quelli dei benedet- tini e dei cistercensi. Secondo Massimo Folador9, nel piccolo universo dell’abbazia l’abate svolge un ruolo importantissimo come guida spirituale e materiale dei monaci, con particolare riferimento ai 7. Huang A. e Linch J., Mentoring, the Tao of living and receiving wisdom, HaperCommins 1995 8. Chung Yung o Invariabile Mezzo, in Testi confuciani, traduzione di Fausto Comassini, Unione Tipografico-Editrice Torinese 1974 9. Folador M., L’organizzazione perfetta, La regola di San Benedetto. Una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna, Guerini e Associati 2006 6
Vocazione Mentore novizi. L’abate benedettino, in particolare, applica in tale attività i valori su cui San Benedetto si sof- ferma nella sua Regola: l’obbedienza e l’umiltà. Obbedire, che deriva dal preverbo latino ob e dal verbo audire, significa “dare ascolto”, “prestare prima attenzione”. Obbedire è quindi la capacità di porsi in ascolto con attenzione e di poter così comprendere le cose nel profondo, una delle capacità fondamen- tali del mentore. Umiltà deriva dal latino humus, “terra”. Il significato della parola ci riporta quindi al concetto delle radici, della profondità. Essere umili significa predisporsi a cercare le radici di ciò che ci circonda e il suo significato più profondo10: “ L’obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: “Chi ascolta voi, ascolta me”. Coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: “Angusta è la via che conduce alla vita. Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Abbandonare prese di posizione e preconcetti che possono allontanarci dalla verità e da ciò che in quel momento sembra opportuno fare: ancora una volta una delle virtù fondamentali del mentore è presa a modello da una società che si prepara al risveglio culturale ed alla progressiva secolarizzazione dei pro- cessi produttivi dopo secoli di regressione. Nel mondo dell’artigianato basso- medievale in profonda crescita e trasformazione il mentore veste il grembiule del maestro artigiano che opera nella bottega, la più tipica unità produttiva, al tempo stesso luogo di produzione e di formazione, coadiuvato dagli apprendisti e dai garzoni. La trasmissione delle conoscenze e delle abilità tecniche necessarie all’eserci- zio dell’arte avviene nel corso di un percorso di formazione che dura anche molti anni, durante i quali il giovane apprendista partecipa non solo all’attività lavorativa ma spesso anche a quella familiare del mastro artigiano. La bottega diventa tempio di una sempre più definita e codificata relazione di men- toring che continuerà ad evolversi e perfezionarsi nel corso del tempo. Attraverso un corpo di norme assai precise, ogni corporazione di mestieri monopolizza l’esercizio del mestiere a vantaggio dei suoi membri: regolamenta la qualità e il prezzo dei manufatti, vigila sulla concorrenza sleale o esterna, con- trolla l’accesso all’autonomo esercizio del mestiere, stabilisce le modalità dell’apprendistato, definendo nel dettaglio i compiti e le aspettative del maestro e dell’apprendista. Va quindi costituendosi un nuovo tipo di legame fra maestro/mentore ed apprendista/pupillo, non più basato meramente su vincoli fa- miliari o di dipendenza personale, ma su un rapporto contrattuale stipulato tra persone giuridicamente libere. La Rivoluzione Industriale, che genera la necessità di continue assunzioni di manodopera, spersona- lizza quasi completamente i processi di apprendistato degradandoli a mera formazione tecnica. In fab- brica, gli “anziani” più volenterosi insegnano compiti e mansioni ai neoassunti, con la finalità di farsi sostituire nei processi produttivi più semplici e faticosi. Paradossalmente, in questo ambiente inospi- tale per relazioni umane profonde e proficue, necessariamente si codifica e professionalizza una volta per tutte il rapporto tra supervisore e apprendista o principiante. Nel corso degli anni, si costituiscono i primi rudimentali sistemi di formazione professionale interni alla realtà della fabbrica. I capi migliori e più lungimiranti coltivano, poi, un certo culto per il talento dei più giovani e mantengono la buona 10. La Santa Regola di San Benedetto, in http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap71 7
Vocazione Mentore abitudine di “tener un occhio” sui dipendenti più promettenti, dando loro consigli confidenziali ed incoraggiamenti personali, curandosi del loro svi- luppo personale, agendo, forse inconsapevolmen- te ma non meno efficacemente, da mentori. In un mondo in così rapido cambiamento il ter- mine “mentore”, a lungo dimenticato ma le cui peculiarità, come abbiamo visto, sono sempre sopravvissute nel corso dei secoli, entra pro- gressivamente nel vocabolario comune. Il nome dell’antichissimo personaggio omerico comincia ad indicare, per antonomasia, il maestro e guida saggia del giovane inesperto, soprattutto grazie alla diffusione del romanzetto “Les Aventures de Télémaque” di Fénelon, pseudonimo di François de Salignac de La Mothe-Fénelon (Château de Fénelon, 6 agosto 1651 – Cambrai, 7 gennaio 1715), arcivescovo, teologo e pedagogo francese, precettore del giovanissimo duca di Borgogna, erede al trono del Re Sole. In tale opera, il gio- vane figlio di Ulisse, accompagnato da Mentore, visita diversi paesi dell’antichità che Fénelon de- scrive come afflitti da numerosi problemi a cau- sa dei cattivi consiglieri dei regnanti, alludendo probabilmente in modo satirico alla Francia dei suoi anni, tanto da finire in disgrazia ed essere al- › Les Aventures de Télémaque (Fénelon), 1692 lontanato dalla corte. Nell’opera, il ruolo di Men- tore come guida del futuro monarca è molto più sviluppato che nell’Odissea. L’amico di Ulisse accompagna il giovane Telemaco in una serie di viaggi alla ricerca del padre scom- parso, affrontando sfide avvincenti tra pericoli naturali e trabocchetti “divini” di ogni sorta. Come ben evidenziato da B. Garvey, P. Stokes e D. Megginson11, Fenelon ci mostra che le molteplici esperienze della vita, più o meno positive, possono essere un’importante fonte di apprendimento se riusciamo ad interpretarne il significato. Il ruolo di un mentore che ha più esperienza di noi può essere, allora, quel- lo di aiutarci a rielaborare ciò che ci succede per trarne indicazioni ed insegnamenti. L’antichissimo Mentore omerico, “colui che pensa”, diviene per Fenelon “colui che fa riflettere” ponendo domande profonde alle quali il mentee deve trovare risposte in se stesso interpretando in maniera originale e personale l’esempio che dall’esperienza e dalla saggezza della guida gli può derivare. Leggiamo in un passo del Libro I nella traduzione italiana dell’opera.12 Infastidito di vivere sempre incerto e dubbioso, determinai d’andare nella Sicilia, dove io aveva sentito dire, che era stato forse gettato da’ venti. ll saggio Mentore, che vedete qui presente, per distornarmi da questo temerario disegno, mi rappresentava da una parte i Ciclopi, giganti mostruosi, che divorano gli uomini, dall’altra l’armata d’ Enea, e de’ Trojani, 11. Garvey B., Stokes P. e Megginson D., Coaching and Mentoring, Theory and practice, Sage publications seconda edizione 2014 12. Le avventure di Telemaco, Bossange, Masson e Besson 1807 8
Vocazione Mentore che costeggiavano quelle spiagge. l Trojani, diceva egli, sono adirati contra tutti i Greci; ma con maggior piacere spargerebbero il sangue del figliuolo d’Ulisse. Tornate in Itaca seguiva a dirmi; forse subito che vi sarete tornato, vi giungerà altresì il vostro genitore, che è tanto caro agli dei. Ma, se il cielo ha determinato ch’ egli perisca, o che non abbia mai più a rivedere la sua patria, dovete almeno andare a vendicarlo, a liberare vostra madre, a mostrarvi ai popoli, ed a far vedere in voi a tutta la Grecia un re tanto degno di regnare, quanto mai degno ne sia stato lo stesso Ulisse. Troppo giudiziose erano queste parole; ma io non ebbi il giudizio d’ascoltarli; perché altro non ascoltava che la mia sola passione: e il saggio Mentore mi amò tanto, che volle anche seguirmi in un viaggio sì temerario, da me contro i suoi consigli intrapreso; e gli dei permisero che facessi un fallo, il quale servir mi dovea per correggermi della mia presunzione. […] Ci fu per lungo tratto favorevole il vento per la Sicilia; ma poi una tenebrosa tempesta ci tolse la vista del cielo, e ci lasciò in una notte profonda. Al lume de’ lampi scorgemmo avvolti nel medesimo pericolo alcuni altri vascelli, i quali si conobbe essere appunto quelli d’Enea, non meno per noi perniciosi, che tutti gli scogli del mare. Vidi allora, ma troppo tardi, tutto ciò che l’empito dell’imprudente età m’aveva impedito di considerare con attenzione. Mentore mostrossi in questo pericolo non solamente saldo ed intrepido, ma più giocondo del solito. Desso era quegli, che mi facea coraggio, e che m’ispirava una forza straordinaria; e, mentre il piloto era turbato, egli dava tutti gli ordini tranquillamente. Mio caro Mentore, io gli dicea, perché mai ho ricusato di seguire i vostri saggi consigli? O me stolto! che ho voluto prestar fede a me stesso in una età, nella quale non si ha né previdenza dell’avenire, né sperienza del passato, né moderazione per ben servirsi del presente! Ah! se mai scampiamo da questa tempesta, diffiderò sempre di me stesso, come del mio più pericoloso nemico! A niun altro, o Mentore, presterò fede per l’avvenire, fuorché a voi solo. Io non voglio, mi rispose Mentore sorridendo, rimproverarvi il fallo che avete commesso; basta che ve ne accorgiate da per voi stesso, e che questo vi serva ad essere un’altra volta né vostri desideri più moderato. Ma, quando sarà passato il pericolo, ritornerà forse la presunzione. Or basta: bisogna farsi coraggio. Prima d’incorrere nel pericolo fa d’uopo prevederlo, ed averne timore; ma quando l’uomo v’è dentro, più non gli resta che disprezzarlo. Siate dunque degno figliuolo d’Ulisse: mostrate un cuore più grande di tutti i mali, che vi sovrastano”. 9
Vocazione Mentore Alla fortuna dell’opera, un vero bestseller dell’e- poca, molti attribuiscono l’inizio della diffusione dei basilari fondamenti del mentoring presso le élites del nascente illuminismo francese ed inglese. Come riportato da B. Garvey, P. Stokes e D. Meg- ginson13, all’Emile di J. J. Rousseau14 viene donata una copia delle Avventure di Telemaco come guida per il suo percorso di sviluppo. Il personaggio omerico diviene quindi un modello di mentee che, con un processo di “apprendimento esperienziale” guidato dal un compagno più saggio e maturo, può crescere sul piano culturale e sociale. Nel solco tracciato da Fénelon, poi, fiorisce un piccolo filone di operette ispirate alla figura di Mentore, utilizzata a scopi didattici e propagandisti- ci. Louis Antonine de Caraccioli (1723–1803) pubblica nel 1759 “Le Veritable Mentor ou l’education de la noblesse”, tradotto in inglese l’anno seguente come “The true mentor, or, an essay on the education of young people in fashion”. Contributo interessante di Caraccioli è l’aver identificato, tra i ruoli più importanti del mentore, “la formazione del › Philip Stanhope IV Conte di Chesterfield (Londra, 22 cuore allo stesso tempo dell’arricchimento della settembre 1694 – Londra, 24 marzo 1773 mente”15. Caraccioli evidenzia l’effetto terapeutico della conversazione tra mentore e mentee, scrivendo: “ La malinconia, un male così comune tra i più voluttuosi, non ha alcun effetto su chi riflette16. Tra il 1793 ed il 1796, tale Honoria pubblica tre volumi dal titolo “The Female Mentor or Selected conversations”17, nei quali, nella forma di dialoghi tra l’autrice ed altre donne, racconta l’esperienza di Amanda, madre di Honoria, che costituisce quello che potremmo definire un gruppo di mentoring, che si autodefinisce “la società”, finalizzato a facilitare l’ingresso delle donne nella vita pubblica. L’au- trice identifica le caratteristiche della “donna mentore” attraverso una serie di esempi, come quello di Anna Bolena. Nel frattempo, l’ingresso del termine “mentor” nella lingua inglese comune era stato ufficialmente sancito negli anni ’50 del 1700 dall’Oxford English Dictionary, con la definizione di “wise and trusted adviser and helper of an inexperienced person” e l’annotazione che si trattava di un termine comunemente utilizzato sin dalla sua introduzione da parte di Philip Stanhope IV Conte di “ Chesterfield nella sua lettera n.197 al figlio del 26 febbraio del 175418: Ambisco solo ad essere il consigliere e ministro della tua crescente ambizione. Fa’ che io veda la mia giovinezza rinascere in te; fa’ che io sia il tuo mentore, e, con i tuoi mezzi e le tue conoscenze, te lo prometto, andrai lontano. Dovrai metterci, da parte tua, energia ed attenzione; ed io ti indicherò gli obiettivi giusti verso cui indirizzarle. 13. v. nota 11 14. Rousseau J.J., Émile ou De l’Éducation, Jean Néaulme Libraire 1762 15. de Caraccioli L. A., Le Véritable Mentor ou L’Éducation de la Noblesse, Bassompierre 1759 16. ibidem, traduzione dell’Autore 17. Honoria, The Female Mentor or Selected conversations, T. Cadell 1793 18. Stanhope P., Letters to His Son, on the Fine Art of becoming a Man of the World and a Gentleman, David Widger 2004, traduzione dell’Autore 10
Vocazione Mentore Ancora, nella lettera n. 107, il Conte raccomanda con toni sanguigni al figlio di approfittare al massimo del suo mentore mentre ne ha la possibilità19: “ Ecco le decisioni che devi compiere ed eseguire direttamente da solo, una volta che avrai perso le amichevoli cure ed il sostegno del tuo mentore. Prima che ciò avvenga, utilizzalo avidamente; assorbine, se puoi, tutta la conoscenza; e prendigli il mantello del profeta, prima che vada via. Agli inizi del 1800 il termine entra a pieno titolo nell’alta letteratura con i poeti romantici imbevuti di cultura classica come Lord Byron, che lo utilizza nei poemi “The Curse of Minerva” del 1821, “Childe Harold’s Pilgrimage” del 1829 e “The Island” del 1843. Da allora non si è più cessato di utilizzare la parola, ed i suoi derivati inglesi mentoring, mentorship e mentee e francesi mentorat e mentoré, con diffuso interesse o curiosità. Il mentoring diviene argomento di ricerca accademica con opere quella di Daniel J. Levinson20. Egli per primo definisce il mentore come “una persona appartenente ad una mezza generazione precedente, in grado di accelerare lo sviluppo di un’altra nel suo processo di evoluzione da uno stadio dell’esistenza ad un altro”. Levinson arriva ad affermare che il mentoring possa ridurre la durata di queste transizioni da sette a tre anni, innescando negli USA un rapido aumento dell’interesse intorno al mentoring come strumento di accelerazione delle carriere. La scuola americana analizza in particolare gli effetti della sponsorizzazione dei talenti da parte del management all’interno delle grandi imprese. Ad esempio, Ann D. Carden nota che il sostegno del mentor al suo protegé può aiutarlo ad ampliare la sua conoscenza, migliorare la sua stabilità emotiva, approfondire la sua capacità di risolvere problemi e prendere decisioni, stimolare la sua creatività, creargli nuove opportunità ed apportare un generale miglioramento nel morale e nella produttività dell’organizzazione. A David Clutterbuck deve senz’altro essere dato il merito di aver importato nella dottrina inglese ed europea il concetto di mentoring con una notevole serie di studi inaugurata nel 1983 con il più volte ristampato “Everyone needs a Mentor”21. In antitesi all’approccio americano, Clutterbuck identifica la prospettiva europea del developmental mentoring, in cui la relazione tra mentore e mentee assume i connotati di una fonte di reciproco supporto ed opportunità di apprendimento. Il ruolo del mentore si concretizza nel far acquisire al mentee una progressiva autonomia ed indipendenza, con conseguenze positive sugli individui e l’organizzazione non inferiori a quelli del mentoring come sponsorizzazione, ma probabilmente senza gli inconvenienti in termini di gerarchizzazione e frammentazione insiti nel modello americano. Superando un iniziale diffuso scetticismo, a partire dal secondo dopoguerra anche il mondo imprendi- toriale comincia a scoprire ed apprezzare i benefici dei programmi di mentoring sulla motivazione e lo sviluppo del personale. In numerose realtà aziendali si registra l’impatto positivo sulla produttività di una cultura fondata sul rispetto e la condivisione della conoscenza e dell’esperienza. Al tempo stesso, le applicazioni pratiche del mentoring crescono di giorno in giorno in ogni ambito della società, dal mondo della scuola e della formazione professionale a quello dell’associazionismo e del non- profit, con un impegno forte nei contesti più diversi, dalla oscura realtà dell’emarginazione sociale alla osannata ribalta delle imprese sportive. Gli esempi di grandi mentori ed eccellenti mentee si moltiplicano ed entrano con forza nella coscienza collettiva. Per citarne solo uno dei più celebri, è risaputo che il grande stilista francese Christian Dior, fondatore dell’omonima casa di moda, fece da mentore a Yves St. Laurent, assunto nella maison nel 1954 e, dopo solo tre anni, divenutone direttore artistico alla morte del fondatore. St. Laurent così ricorda il rapporto con il grande mentore22: 19. Ibidem 20. Levinson D. J. ed altri, Seasons od Man's Life, Random House 1978 21. Clutterbuck D., Everyone Needs a Mentor, Chartered Institute of Personnel and Development, V ediz., 2014 11
Vocazione Mentore “ Dior mi affascinava. Non riuscivo a parlare quando ero di fronte a lui. Mi ha dato le basi della mia arte. Qualunque cosa mi succederà, non dimenticherò mai gli anni passati al suo fianco. Forse meno noto è il fatto che Steve Jobs, amministratore delegato della Apple, fa da mentore al giovane Mark Zuckerberg durante lo sviluppo di Facebook, destinato a rivoluzionare il modo con cui utilizziamo e viviamo la rete internet oggi. Quando Jobs muore alla fine del 2011, Zuckerberg pubblica un post toccante nella sua pagina di Facebook23: “ Steve, grazie di essere stato un mentore ed un amico. Grazie di avermi mostrato che quello che costruisci può cambiare il mondo. Mi mancherai... Esperienze diverse, ma accomunate da una cosa assolutamente speciale: il rapporto che si instaura tra chi trasmette un po’ di quello che nella vita ha avuto la sorte di imparare e sperimentare a qualcun altro che, nel far proprio questo piccolo tesoro, lo rende ancor più prezioso anche per chi glielo ha affidato. E forse un giorno, ripensando a quell’amico, quel collega, quel capo, quel vicino di casa, o quel parente che, nel passato, ci ha aiutato almeno un po’ a diventare quello che siamo oggi, anche a noi verranno parole come quelle che, si racconta, disse Alessandro Magno pensando ad Aristotele, nel quale rico- nosceva un grande mentore più che un semplice precettore, e che di Platone era stato allievo o, come diremmo oggi, “mentee”22: “ A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena di essere vissuta. Riflessioni Ripercorrendo il tuo percorso di vita dall’infanzia ad oggi, a quali persone che ti hanno accompagnato nel tuo sviluppo potresti attribuire un ruolo di mentore? A quali delle figure storiche descritte in questo modulo potresti paragonarle? In quali aspetti i tuoi mentori sono stati, invece, diversi? Da quale/i dei tuoi mentori puoi ispirarti nel tuo nuovo ruolo di mentore? Per quali aspetti del loro modo di essere mentori? 22. In https://www.evidencebasedmentoring.org/top-25-mentoring-relationships-in-history/ 23. Ibidem 24. Professor Aristotele, Maria Leonarda Leone in Focus Storia n.96, ottobre 2014 12
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