David di Donatello 2019: i verdetti
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David di Donatello 2019: i verdetti Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti. Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel, montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale, continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.» Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations, conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano Cucchi: Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens. Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi. L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata. Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie davvero, non me lo aspettavo.» Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio «alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di Gabriele Muccino.
D e b a c l e t o t a l e p e r L a z zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9 e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio. Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo, accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar. Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David, dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica: «Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì, ma troppo tardi». Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film, Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
I film italiani in sala a febbraio 2019 Nel mese di febbraio le uscite italiane nelle sale cinematografiche nazionali supereranno quelle americane, e questa è la novità più rilevante degli ultimi anni, sintomo di una rinnovata freschezza e di una rinnovata fiducia nei nostri prodotti. Quota 18 a fronte di 10 prodotti hollywoodiani, un incremento rispetto al gennaio scorso di ben 8 film, il che vuol dire anche che le case di distribuzione hanno deciso di puntare maggiormente sull’ultimo dei mesi invernali, quello che si affaccia alla primavera senza però esserlo. Ovviamente i film di maggiore visibilità sono quelli legati a case di distribuzioni importanti e con registi e attori popolari, brillanti e di grande verve. Nominiamo per primo allora 10 giorni senza mamma, distribuito dalla Medusa in ben 410 cinema, commedia brillante, sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in sala con Ti presento Sofia, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata. Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli, anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma”(Valentina Lodovini, bellissima) decide di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente, per lavoro e per pigrizia: guai a catena. E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che non comprende a pieno il ruolo di una madre full time. Si nota la forte volontà di portare sul grande schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore (finalmente) contemporaneo. Sullo stile fantasy-eroico, altro film destinato al successo è Copperman, ancora una volta distribuito massicciamente in giro per lo stivale (quasi 200 sale) e ancora una volta dipendente, quasi in maniera integrale, dal suo popolare protagonista, ovvero Luca Argentero. Copperman ovvero Anselmo è un uomo che viaggia nel mondo con l’innocenza di un bambino e il cuore di un leone. Anselmo è un bambino molto particolare. Dotato di grandissima fantasia e sensibilità, affronta la quotidianità da solo con la madre in maniera tutta sua: ha sviluppato un’ossessione per i colori, per le forme circolari e soprattutto per i supereroi. Desidera tanto possedere anche lui dei superpoteri per poter salvare il mondo come il padre, che in realtà lo ha abbandonato subito dopo la sua nascita. Questo desiderio cresce dopo aver conosciuto Titti, una bambina molto stravagante, che però viene costretta ad allontanarsi presto da lui. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema
Anselmo cresce ma non smette di guardare il mondo in maniera infantile tanto che, grazie all’aiuto di un caro amico di famiglia, si trasforma in Copperman, l’uomo di rame, che di notte aiuta a ripulire il proprio paese dalle ingiustizie. Le responsabilità di Copperman diventeranno più grandi quando finalmente Titti tornerà a casa. Un cinema d’altri tempi, non solo per le atmosfere vintage date da una (curatissima) scenografia che riporta direttamente indietro ad altri anni, ma soprattutto per l’approccio genuino e fresco con cui si avvicina a certe tematiche. L’espediente supereroistico qui non ha infatti nulla di ultraterreno, ma diventa una semplice fantasia infantile per affrontare dei traumi, delle problematiche intrinseche nei personaggi. Senza pietismo ed al tempo stesso senza superficialità, si mettono in campo le classiche dicotomie tra buoni e cattivi filtrate dagli occhi di un bambino che non è mai cresciuto. Vengono alla mente alcune opere di Jean-Pierre Jeunet in cui non ci si interfaccia solo con il racconto di un personaggio, ma il suo mondo diventa visivamente anche quello dello spettatore. Ed è quello che prova a fare Puglielli con il proprio film e quello che riescono a ricreare anche i bambini (non) cresciuti interpretati perfettamente da Luca Argentero e Antonia Truppo. E in questo mese ritorna in sala Fausto Brizzi, ormai riabilitato pienamente dalle accuse di “molestie sessuali”, con una commedia comica delle sue, trascinante e dilagante, dal titolo Modalità aereo, e lo fa servendosi di Paolo Ruffini, di Violante Placido, di Dino Abbrescia, ma soprattutto di Pasquale Petrolo in arte Lillo, qui privo di Greg, ma che ha verve, simpatia e magnetismo attrattivo, alla stregua dei più grandi comici del cinema italiano. Il classico cliché della commedia degli equivoci è utilizzato sapientemente, da chi (Brizzi) sa come si creano commedie di successo. Sociologicamente il film è una commedia all’italiana a tutti gli effetti, con spunti di situazioni che rimandano ai nostri maestri più celebrati e si basa su una semplice domanda: cosa succederebbe se un uomo importante (imprenditore, influencer, uomo d’affari) in viaggio di lavoro in Australia, dimenticasse il proprio telefonino nei bagni dell’aeroporto e questo finisse in mano a due poveracci desiderosi di godersi la vita? Pensateci: contocorrente, post-pay, social network…il punto della questione del film è questo, tutta la nostra vita è nei nostri cellulari. Se, anni fa Perfetti sconosciuti aveva sdoganato l’importanza dei nostri smartphone dal punto di vista sentimentale, con annesse possibili relazioni extraconiugali, ora Brizzi lo fa guardando un punto di vista meno intimista, più pubblico e più lavorativo, in ossequio all’apparenza che sembra, ahimè, il vero motore per fare soldi nella società di oggi, dove la stessa apparenza vale più della realtà: specchio di tutto watshapp, facebook, instagram e prodotti similari. Tra gli altri film in sala a febbraio, posto d’onore merita senz’altro Domani è un altro giorno, con la supercoppia d’autore composta da Marco Giallini e Valerio Mastandrea remake dell’argentino Truman – Un vero amico è per sempre. La storia è quella di due grandi amici che si ritrovano per quattro giorni: uno dei due è malato, l’altro lo raggiunge dal Canada, dove vive e lavora. Sono tante le cose da dirsi e da sistemare, tra cui un cane, che nell’originale si chiamava appunto Truman, in questo Pato, e avrà uno spazio importante all’interno della storia. Una bella storia di amicizia al maschile in cui vengono fuori tante cose, tra cui il fatto che se si è amici nella vita lo si è per sempre e ci si ama soprattutto perché si è diversi. I personaggi sono volutamente agli antipodi: da una parte un carattere molto estroverso, dall’altro
uno più chiuso e riflessivo. Se uno vive in Canada, al freddo, l’altro ha una sua vita a Roma. La conoscenza tra i due diventa una sorta di partita a tennis, in quello che si configura come un dramma privato: “Continuiamo ad evitare di pensare alla morte ma è bello che il cinema lo racconti: dopo l’ondata delle commedie, anche un po’ scadute, degli ultimi tempi sentivo il bisogno di far realizzare un film drammatico. Sarà una riflessione sui rapporti e sull’esistenza, che farà anche sorridere lo spettatore”. Non a caso il titolo è diverso dall’originale: “Rinvia all’idea dell’accettazione della morte, per cui poi le cose vanno avanti: chi fa cinema deve sempre pensare che domani è un altro giorno, lo dico anche in riferimento alla scomparsa del mio caro amico Carlo Vanzina”. (Maurizio Tedesco, produttore del film in un’intervista rilasciata per l’Ortigia Film Festival). Lo stesso giorno del precedente film, il 28 febbraio, esce nella sale anche Croce e delizia, una commedia familiare di stampo romantico interpretata da Alessandro Gassman e Jasmine Trinca; mentre chicca del mese è la presenza in sala di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista del maestro Vittorio De Sica, restaurato e riportato allo splendore delle origini. Per il resto scarse distribuzioni, per scarsa visibilità: purtroppo i grandi nomi sono i veri trascinatori di una pellicola, da sempre è così, ad Hollywood quanto a Cinecittà. Non c’è che da prenderne atto e sperare che un giorno il cinema indipendente in Italia, possa avere un regolamentazione capace di farlo emergere e dare piena dignità a tutto quel sottobosco cinematografico che lavora in silenzio e spesso crea dal nulla, capolavori che poi rimangono nel cassetto. I film italiani in sala a gennaio 2019 La programmazione per quanto riguarda i film italiani nelle sale cinematografiche nazionali per il primo mese del nuovo anno, è parecchio variegata, seppur limitata quantitativamente. Il numero dei film in sala, infatti, non supera le 10 unità, con almeno 3 di essi che non superano le 5 sale in programmazione (DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE, MIA MARTINI-IO SONO MIA). Nel complesso il mese sarà dominato dalle classiche commedie commerciali, supportate dai più importanti nomi del panorama comico-brillante nazionale, non sempre però adeguatamente accompagnate da trame accattivanti. Fuori da questa critica negativa, si eleva NON CI RESTA CHE IL CRIMINE, uscito in quasi 400 sale (la potenza del produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), con un trio di protagonisti davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, affiancati da un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della famigerata Banda della Magliana. NON CI RESTA CHE IL CRIMINE è un mix volutamente dichiarato tra NON CI RESTA CHE PIANGERE e SMETTO QUANDO VOGLIO. Il titolo è un omaggio all’ironia del primo leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di uno sfaccendato trio di amici che mostra ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati,
tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare. Risaputo e abusato fin troppo come tema, nello stesso periodo sarà in sala anche COMPROMESSI SPOSI, una sorta di remake sessant’anni dopo de I PREPOTENTI, con Nino Taranto e Aldo Fabrizi, o ancora di TOTO’, FABRIZI E I GIOVANI D’OGGI. La classica storia di due ragazzi innamorati, lei del sud, lui del nord, divisi dall’insostenibile campanilismo dei propri padri che si odiano e che faranno di tutto per dividerli. Ma ovviamente l’happy-end finale trionferà. Per carità, Vincenzo Salemme e Diego Abatantuono sono bravissimi ed espertissimi, e nel film si ride pure, ma il confronto con i mostri sacri sopra citati non regge assolutamente. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Non va meglio con ATTENTI AL GORILLA, farsaccia surreale con Frank Matano, uomo di spettacolo, ma non di cinema, in cui si salva soltanto Lillo Petrolo, per una volta senza il fido Greg, nei panni dell’amico mammone Jimmy, che vive con il protagonista, lasciato da moglie e figli, e con un curioso gorilla che ha la voce di Claudio Bisio. Terrificante!!! Più centrato, sia pur nell’ambito di un film di puro godimento esilarante, L’AGENZIA DEI BUGIARDI, una commedia surreale che vede come protagonisti Giampaolo Morelli, Luigi Luciano e Paolo Ruffini, titolari di una strana, diabolica e geniale agenzia che fornisce alibi ai propri clienti e il cui motto è ” Meglio una bella bugia che una brutta verità”. La storia si complica quando Fred alias Morelli, si innamora della figlia di un suo cliente avvezzo alle scappatelle extra- matrimoniali. Ci sarà da ridere, soprattutto grazie a Morelli, che con gli anni diventa sempre più bravo e sempre più primo-attore, tra un ispettore Coliandro e una commedia brillante, è l’attore italiano più utilizzato degli ultimi due anni da produzioni televisive e cinematografiche. Ma a gennaio è uscito anche un bel film d’autore, SUSPIRIA un horror per la precisione, in cui Luca Guadagnino omaggia il maestro del genere, Dario Argento con un film personale, riflessivo, originale nello stile visivo e coraggioso nella messa in scena. Ovviamente, come di solito, nella carriera del fortunato autore italIano, il film è una produzione maggioritaria statunitense. Questo perché il suo è un cinema coraggioso, fuori dagli schemi e soprattutto dalle richieste del nostro sistema nazionale cinematografico. Per cui la ricerca di fondi, di trame complesse, strutturate, mal si adeguano a ciò che i produttori nazionali intendono commercializzare e far fruttare in Italia. Il dio denaro comanda anche il cinema, da sempre, e allora meglio lavorare in uno Stato, dove la cultura cinematografica del pubblico, è molto più avanti e radicata che da noi. Ricordate CHIAMAMI COL TUO NOME, tratto dal romanzo omonimo di Andrè Aciman, passato pressocchè inosservato da noi, ma vincitore nel 2017 del Premio Oscar per la miglior sceneggiatura. E nell’ottica di una visibilità negata, perché la popolarità dell’attore rimane sempre il motore vero e reale di un film, passeranno inosservati o quasi, film dalla scarsissima distribuzione come SEX
COWBOYS, MIA MARTINI-IO SONO MIA, DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE e IL PRIMO RE, dove almeno c’è Alessandro Borghi, reduce dal film biografico sulla morte “sospetta” di Stefano Cucchi. E a proposito sapete che questo film, SULLA MIA PELLE, osannato dalla critica, è stato un flop colossale nelle sale italiane, fermandosi a neanche 500.000 euro di incassi? L’elenco dei film italiani in sala a gennaio 2019 è questo: 4 commedie, 3 film drammatici, 2 documentari e 1 horror. Ce n’è per tutti i gusti, sperando che anche i meno distribuiti, possano guadagnarsi un proprio spazio nei cuori del pubblico, perché il cinema è fatto soprattutto dal sottobosco indipendente che cerca di emergere e che meriterebbe un’attenzione maggiore da parti dei legislatori e soprattutto un’autorevolezza che qui da noi viene negata, e in cui per emergere devi essere legato più a case di produzioni potenti, quindi a legami di “conoscenza”, che al puro talento. In Francia funziona diversamente, già, proprio in Francia dove sanno cosa vuol dire la parola “rivoluzione”. In tutti i sensi. Bohemian Rhapsody – Il Film Come si racconta un mito? Come approcciare la storia di una rock band leggendaria? Quale sceneggiatore scegliere? Quale regista? Quale produttore? Quali gli attori?
Quando la rock band si chiama Queen e il frontman Freddie Mercury, da dove bisogna cominciare? Allora, vediamo di snocciolare un po’ di numeri e di date che ci aiutino ad inquadrare questo film:
8 anni di sviluppo da quando Brian May annunciava che era in progetto un film sui Queen e su Freddie Mercury. La sceneggiatura era affidata a Peter Morgan. Nei panni di Freddie Mercury ci sarebbe stato Sacha Baron Cohen, mentre la casa di produzione sarebbe stata la TriBeCa Productions, e le riprese sarebbero cominciate nel 2011. Nel dicembre 2013 viene annunciato che l’attore britannico Ben Whishaw avrebbe preso il posto di Sacha Baron Cohen, che intanto aveva abbandonato il progetto nel luglio dello stesso anno, e che la regia sarebbe stata affidata a Dexter Fletcher. Entrambi, Whishaw e Fletcher, lasceranno definitivamente il progetto nel 2014. Alla fine del 2015 la casa di produzione GK Films assume lo sceneggiatore neozelandese Anthony McCarten per scrivere una nuova sceneggiatura, col titolo “Bohemian Rhapsody”. Nel novembre 2016 viene annunciato che la New Regency Pictures e la GK Films sarebbero state nella produzione della pellicola e che le riprese sarebbero iniziate nei primi mesi del 2017. Lo stesso anno viene annunciato che Rami Malek vestirà i panni di Freddie Mercury e che il nuovo regista sarà Bryan Singer. Allora ricapitoliamo: ■ 8 anni di sviluppo; ■ 2 sceneggiature; ■ 2 diversi sceneggiatori; ■ 2 registi; ■ 3 attori per il ruolo di Freddie Mercury; ■ 4 diverse case di produzione coinvolte (considerando anche la Queen Films Ltd). Sembra quasi che Hollywood stessa avesse un timore reverenziale a cimentarsi in questo impegnativo biopic. Il film non analizza tutta la vita della storica band ma, si focalizza sui primi 15 anni, dalla fondazione del nucleo originario fino al concerto del Live Aid al Wembley Stadium di Londra, il 13 luglio del
1985. Ma veniamo alla recensione vera e propria, che film è stato Bohemian Rhapsody? Spettacolare è l’unica risposta che mi viene in mente! Sono nato nel 1973 e sono cresciuto con le musiche dei Queen proprio dalla metà degli anni ’80 fino alla metà degli anni ’90, periodo che è coinciso con la mia adolescenza e quindi con le prime cotte, con le prime uscite in discoteca e con la spensieratezza degli anni giovanili, dunque non può che essere questo il mio giudizio. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Ma, nostalgia a parte, il film è davvero spettacolare, per almeno 4 ottimi motivi. 1. La fotografia, incredibilmente spettacolare, veloce e roboante nelle scene dei concerti e estremamente curata, pacata e ovattata, nelle scene d’interno ed in tutti i dialoghi. Il direttore della fotografia, Newton Thomas Sigel, ha optato per una scelta cromatica slavata e tenue per tutte le scene d’interno della prima parte del film, coincidente con gli anni ’70 e le atmosfere ed i colori tipici di quegli anni. Ma la tavolozza cromatica, pian piano, diventa più scintillante e smagliante, con l’arrivo degli anni ’80, come a voler rimarcare il cambio di decennio anche dal punto di vista cromatico. Nel film sono presenti diversi spezzoni originali dei videoclip dei Queen ed è estremamente interessante l’uso che ne fa Newton Thomas Sigel, miscelando filmati d’archivio e riprese dal vivo con grande maestria. Il direttore della fotografia è uno dei collaboratori fissi del regista Bryan Singer e la notevole esperienza ed intesa raggiunta su set di film d’azione e di supereroi, quali X-Men, Superman Returns, Operazione Valchiria, X-Men – Giorni di un futuro passato e X-Men – Apocalisse, ha sicuramente giovato alle riprese ed alle inquadrature del film;
1. Il cast di attori, tutti bravissimi e talmente calati nei personaggi, da ricreare un effetto mimetico, una recitazione totale. Su tutti svetta Rami Malek (Mr Robot, Papillon, Una notte al museo), che interpreta un Freddie Mercury perfetto. L’aderenza al personaggio è pressoché totale: l’attore ha studiato a fondo le immagini dei concerti dei Queen, in particolare quella del Live Aid ed infatti questa scena, la più impegnativa da girare di tutto il film, vede una performance di Rami Malek talmente perfetta da essere indistinguibile da quella fatta dallo stesso Freddie Mercury. Ma anche le altre interpretazioni dei membri della band sono notevolissime, tre giovanissimi attori (il più grande ha 35 anni), con il quasi sconosciuto, ma bravissimo, Gwilym Lee (The Tourist, L’ispettore Barnaby, Jamestown), che sembra il fratello gemello di Brian May, passando per il talentuoso Ben Hardy (X-Men – Apocalisse, Fire Squad – Incubo di fuoco, Mary Shelley – Un amore immortale), che presta il volto a Roger Taylor, per finire con Joseph Mazzello (Jurassic Park, Il Mondo perduto, Viaggio in Inghilterra), che presta corpo e maschera a John Deacon, il bassista dei Queen; 2. Costumi, trucco e parrucco, curati rispettivamente da Julian Day e Charlie Hounslow sono incredibili, la ricerca e lo studio per ricreare i look e quindi le atmosfere degli anni ’70 ed ’80 sono stati maniacali. Con una maggior approssimazione, sono sicuro che il film non avrebbe avuto lo stesso effetto. Tutto: gli accessori, i vestiti, le acconciature e il trucco sono meritevoli della candidatura ai premi Oscar, vedremo;
3. Le musiche, il montaggio del suono, il montaggio vero e proprio, anche questi da Oscar. Dietro a tutti e tre c’è sempre la stessa persona: il compositore, montatore e regista statunitense John Ottman, assiduo collaboratore di Bryan Singer. Il lavoro più arduo è stato quello della sincronizzazione delle canzoni originali dei Queen, con il labiale degli attori, un lavoro lungo ed estenuante, che concorre in maniera importante al budget complessivo del film, che è stato di 52 milioni di dollari. Ma, oltre a queste 4 ragioni, potremmo aggiungerne una quinta: la storia raccontata nella trama del film, benché molti detrattori e puristi abbiano riscontrato delle incongruenze: l’entrata nel gruppo del bassista John Deacon, sfalsata di un anno; il fatto che i Queen, diversamente da quanto raccontato nel film, non si siano mai sciolti; il non rispetto dei tempi cronologici dell’uscita di alcune canzoni; la scoperta della seriopositività di Freddie Mercury, avvenuta fra il 1986 ed il 1987, e non prima del Live Aid, come raccontato nel film. La storia della band inglese, invece, è raccontata come
una sorta di “educazione sentimentale” alla vita da artisti. Tutto sembra uscito da un romanzo di Kipling: il nome esotico Farrokh Bulsara, la nascita a Zanzibar, l’infanzia a Bombay, il trasloco a Londra, la vita in periferia. Tutto concorre, come nella vita di un supereroe (di cui il regista è esperto), alla nascita del mito e della leggenda. I superpoteri del nostro eroe sono un’estensione vocale di quattro ottave, mani magiche che padroneggiano istintivamente sia la chitarra che il pianoforte, un carisma ed un fascino magnetici che ne faranno uno dei performer più grandi di tutti i tempi. Ultima curiosità, fra i produttori della pellicola, figurano due dei tre membri dei Queen: Brian May e Roger Taylor, che hanno supervisionato tutti i passaggi del progetto, con il preciso intento di consegnarci un’immagine del gruppo e del loro leader, in parte edulcorata, per non smagliare la memoria di Freddie Mercury, che è meglio ricordare per la sua bravura ed il suo talento, che per la
sua vita di eccessi, tipica delle rock star.
Sia come sia, il film è diventato ad 8 settimane dall’uscita (2 novembre 2018 USA, 29 novembre 2018 Italia) il biopic musicale di maggior successo di sempre, con 743.706.115 di dollari di incassi nel Mondo e con 23.351.240 euro in Italia, che ne fanno il miglior incasso per il 2018 per il nostro paese. Mentre scrivo questo articolo (7 gennaio 2019), il film è ancora presente in molte sale italiane, forse lo sarà per un’altra settimana, ma almeno fino a mercoledì 9 gennaio, quindi il mio suggerimento, se non lo avete ancora fatto, è di andare a vederlo, non ve ne pentirete. Ma, se proprio non doveste riuscire a vederlo al cinema, aspettate l’uscita del dvd o del bluray, saranno soldi spesi bene e magari al cinema andateci per un altro biopic musicale, in uscita fra maggio e giugno: “Rocketman”, sulla vita e la musica di un altro grandissimo artista, Elton John. Sono sicuro che anche questo film ci emozionerà e farà fare un tuffo nei ricordi ad almeno due generazioni. Bifest 2018: i verdetti L’edizione del Bifest, appena terminata, ha registrato un’affluenza senza precedenti, e verrà ricordata per essere l’edizione delle Donne e delle tematiche di guerra. Interessante infatti, il premio per il miglior regista, andato al tedesco Robert Schwentke per “Der Hauptmann”, una drammatica storia realmente accaduta verso la fine della seconda guerra mondiale quando Willi Herold, un disertore, per sopravvivere arrivò a fingersi capitano e, grazie a questa falsa identità, commise diversi efferati crimini di guerra. Un racconto molto duro e cruento sulla disumanità dei conflitti, girato in uno splendido bianco e nero, che ha davvero impressionato il pubblico barese, oltre alla giuria, che ha voluto anche premiare Max Hubacher per il suo ambiguo ruolo di Herold.
Il pr em io pe r la mi gli or e int er pr et eè inv ece andato alla splendida Maria Mozhdah, che ha ritirato di persona il riconoscimento, per essersi perfettamente calata nel personaggio della 16enne Nisha, una pachistana cresciuta in Norvegia e poco propensa ad adattarsi ai rigidi costumi tradizionali della sua famiglia, in “Hva Vil Folk Si” di Iram Haq. I d u e e x m a g i s t r a ti e scrittori pugliesi Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo hanno guidato due giurie del festival. Tutta all’insegna delle donne, le categorie competitive dedicate al cinema italiano. La giuria di “ItaliaFilmFest – Opere prime e seconde”, guidata dal magistrato, scrittore e sceneggiatore Giancarlo De Cataldo, ha dovuto valutare 12 opere molto diverse tra loro in un’annata particolarmente felice per il nostro giovane #Cinema che ha ricevuto molti apprezzamenti in tutti i principali festival.
I l r e g i s t a B e r n a r d o Bertolucci. Alla fine a spuntarla è stato “Tito e gli alieni” di Paola Randi, che si è portato a casa il “premio Ettore Scola per il miglior regista” e il “premio Gabriele Ferzetti per il miglior attore protagonista”, ritirato da Valerio Mastandrea. Questa originale commedia che – fatto davvero inusuale in Italia – si ispira ai capolavori di Steven Spielberg, sarà in sala il prossimo giugno. Quest’anno il “premio Mariangela Melato per il Cinema per la miglior attrice protagonista” registra un’inevitabile ex aequo per le interpreti di “Figlia mia” di Laura Bispuri, Valeria Golino e Alba Rohrwacher, per la prima volta insieme in due ruoli di madre, opposti e complementari. Quella del Bifest 2018 è stata un’annata particolarmente curata degna di nota, con l’importante incontro con Bernardo Bertolucci e la proiezione in “prima assoluta” della versione restaurata di “Ultimo tango a Parigi”; senza scordarsi la retrospettiva dedicata completamente al talento del compianto cineasta Marco Ferreri. Lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio, presidente della giuria, ha comunicato sul palco dello splendido Teatro Petruzzelli di Bari i nomi dei vincitori.
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