Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher

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Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher
Corrado Bologna

Letteratura e antropologia
  fra Sette e Novecento

     Webinar, 18 marzo 2020
Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher
Cristoforo Colombo (1451-1506)
Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher
L’immaginario ottocentesco della scoperta dell’America
                       (1492)
Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher
Cesare Pascarella, 1858-1940
(La scoperta dell’America, 1894)
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– E quelli? – Quelli? Je successe questa:
Che mentre, lì, framezzo ar villutello
Cusì arto, p’entrà ne la foresta
Rompeveno li rami cor cortello,

Veddero un fregno buffo, co’ la testa
Dipinta come fosse un giocarello,
Vestito mezzo ignudo, co’ ’na cresta
Tutta formata de penne d’ucello.

Se fermorno. Se fecero coraggio…
– A quell’omo! je fecero, chi séte?
– E, fece, chi ho da esse? Sò un servvaggio.

E voi antri quaggiù chi ve ce manna?
– Ah, je fecero, voi lo saperete
Quando vedremo er re che ve commanna.
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Capi indiani
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Capi indiani (a d. Aquila Grigia, Sioux, con un crocifisso al collo)
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Toro Seduto, capo Sioux (1831-1890),
  a sinistra con un crocifisso al collo
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Geronimo (Gozaalé, Goyathlé), capo Apache (1829-1909),
      ormai ridotto alla posa fotografica in studio
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Lettera inviata al Presidente degli Stati Uniti Quando il Gran Capo di Washington manda a dire che
Franklin Pierce nel 1854 dal Gran Capo Seattle desidera acquistare la nostra terra, egli chiede molto da
(ossia Lame Deer, Sealth, Seathl, See-aht, n. Blake noi. Il Gran Capo manda a dire che ci riserverà un’area in
Island, 1780 ca.; m. Port Madison, 7.VI.1866) modo che noi possiamo vivere comodamente. Egli sarà il
                                                    nostro padre e noi saremo suoi figli. Così noi
                                                    considereremo la Vostra offerta di comprare la nostra
                                                    terra. Ma non sarà facile.
                                                    Perché questa terra è sacra per noi. Questa acqua
                                                   scintillante che scende nei ruscelli e nei fiumi non è solo
                                                   acqua ma il sangue dei nostri antenati. Se vi vendiamo la
                                                   terra dovrete ricordare che è sacra, e dovrete insegnare ai
                                                   vostri figli che è sacra, e che ogni immagine spirituale
                                                   riflessa nella chiara acqua dei laghi parla di avvenimenti
                                                   e ricordi nella vita del mio popolo.
                                                     Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I
                                                   fiumi sono nostri fratelli, spengono la nostra sete. I fiumi
                                                   trasportano le nostre canoe e alimentano i nostri figli. Se vi
                                                   vendiamo la nostra terra dovrete ricordarvi e insegnare ai
                                                   vostri bambini che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri, e
                                                   che dovrete d’ora innanzi riservare ai fiumi tutte le
                                                   gentilezze che riservereste a ogni fratello.             ./.
./. Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il             ./. L’aria è preziosa per l’uomo rosso perché tutte
nostro modo di pensare. Un pezzo di terra è per lui         le cose dividono lo stesso respiro, la bestia,
uguale a quello vicino perché egli è lo straniero che       l’albero, l’uomo, tutti dividono lo stesso respiro.
viene di notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha     L’uomo bianco non sembra notare l’aria che
bisogno. La sua avidità divorerà la terra e lascerà         respira. Come un uomo in agonia da molti giorni
dietro a sé solo il deserto. Io non lo so. I nostri modi    egli è insensibile alla puzza
di pensare sono diversi dai vostri.                           Ma se vi vendiamo la nostra terra dovrete ricordare
 La vista delle vostre città fa male agli occhi dell’uomo   che l’aria per noi è preziosa, che l’aria divide il suo
rosso, forse perché l’uomo rosso è un selvaggio e non       spirito con tutta la vita che sostiene. Il vento che
capisce. Non c’è luogo tranquillo nelle città dell’uomo     diede al nostro avo il suo primo respiro riceve anche
bianco. Nessun luogo per ascoltare l’aprirsi delle foglie   il suo ultimo sospiro. E se vi venderemo la nostra
in primavera o il fruscio delle ali di un insetto. Ma può   terra dovete tenerlo separato e considerarlo come un
darsi che questo sia perché io sono un selvaggio e non      posto dove persino l’uomo bianco possa andare a
capisco. Già il solo fracasso sembra un insulto alle        sentire il vento addolcito dai fiori di prateria.
orecchie. E come si può chiamare vita se non si riescono
                                                             Così considereremo la Vostra offerta di acquistare la
ad ascoltare il grido solitario del capriolo e le
                                                            nostra terra. Se decideremo di accettare, io porrò una
discussioni delle rane di notte attorno ad uno stagno? Io
                                                            condizione: l’uomo bianco dovrà trattare le bestie di
sono un uomo rosso e non capisco.
                                                            questa terra come sue sorelle.
L’indiano preferisce il sommesso suono del vento che          Io sono un selvaggio e non capisco altro modo.
increspa la superficie dello stagno e l’odore del vento     ./.
stesso, purificato da una pioggia di mezzogiorno o
profumato dai pini.                                 ./.
Cosa è un uomo senza le bestie? Se tutte le          ./. Questo noi sappiamo: la terra non
bestie se ne fossero andate, l’uomo morirebbe di      appartiene all’uomo ma l’uomo appartiene
grande solitudine di spirito perché qualunque         alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose
cosa succeda alle bestie, presto succede              sono collegate come il sangue che unisce una
all’uomo. Tutte le cose sono collegate. Dovrete       famiglia.
insegnare ai Vostri bambini che la terra sotto i       Tutte le cose sono collegate. Qualunque cosa
loro piedi è la cenere dei nostri avi. Affinché       succeda alla terra succede ai figli della terra.
essi rispettino la terra dite ai Vostri bambini che
la terra è ricca delle vite della nostra razza.        L’uomo non ha tessuto la trama della vita:
                                                      egli è un filo.
 Insegnate ai vostri bambini ciò che noi abbiamo
insegnato ai nostri bambini: che la terra è nostra     Qualunque cosa egli faccia alla trama egli lo
madre. Qualunque cosa succeda alla terra,             fa a sé stesso.
succede ai figli della terra. Se gli uomini
sputano sulla terra sputano su se stessi.   ./.
John Ford, Ombre rosse (1939)
John Ford, Ombre rosse (1939)
Hernán Cortés sbarca
in Messico e incontra
Montezuma, sovrano
degli Aztechi (1519)

(stampa ottocentesca)
Sacrificio umano in un tempio azteco - Piramide messicana
Benjamin West (1738-1820), il “buon indiano” assiste alla
          morte del generale Wolfe (1770)
Stampe ottocentesche: l’incontro con il “buon selvaggio”
Daniel Defoe (1660-1731), Robinson Crusoe (1719)
Robinson Crusoe nella sua capanna, e l’incontro con Venerdì
Non posso descrivere io medesimo la confusione de’ miei pensieri allorché mi trovai
immerso nell’acqua; perché se bene io sia abilissimo notatore, non potei liberarmi dalle onde
tanto da prender fiato, finché l’onda che mi avea condotto, o piuttosto trascinato per lungo
tratto verso la spiaggia, non fu tornata addietro, lasciandomi quasi a secco sopra la costa, ma
mezzo morto per l’acqua che aveva bevuta. […] Questa volta, poiché le acque non erano
tanto alte come in principio, essendo la terra ognor più vicina, mi ressi meglio fino all’istante
dello sbassarsi dell’acqua, per lo che l’ultima ondata, ancorché mi giungesse addosso, non
mi sommerse entro di sè, nè mi trasportò seco; quindi appena rimasto in libertà di prendere
una corsa, toccai la terra ferma, ove, inerpicatomi agli scogli della costa, a mio gran
conforto mi trovai seduto su l’erba, fuor di pericolo e libero affatto dal timore che quivi
l’acqua tornasse a sorprendermi.                                                              ./.

(Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Mi venne in mente che avrei perduto il computo del tempo per mancanza di libri, penne
ed inchiostro, e che avrei persino dimenticati i giorni festivi confondendoli con quelli di
lavoro. Perché ciò non avvenisse, alzai uno stipite in forma di croce su la spiaggia ove presi
terra la prima volta, e con un coltello scolpii su di esso in lettere maiuscole: Io arrivai su
questa spiaggia il dì 30 settembre 1659. Sui lati dello stesso stipite feci ogni giorno col
coltello stesso una tacca che nel settimo giorno era lunga il doppio, e questa tacca doveva
pure esser lunga il doppio della precedente al primo giorno di ciascun mese; così io tenni il
mio calendario o sia registro settimanale, mensile ed annuale del tempo.

(Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Ma accadde che fra le molte cose procacciatemi dal vascello nelle parecchie gite a bordo di
esso già menzionate, molte ne avessi ritratte di minor valore, benché non del tutto inutili per
me, le quali io trovai solamente qualche tempo dopo frugando entro le casse e particolarmente
penne, inchiostro e carta, oltre ad altre serbate nei ripostigli del capitano, del suo
aiutante, del cannoniere e del carpentiere; tra queste tre o quattro compassi, alcuni
strumenti matematici, quadranti, cannocchiali, carte e libri di nautica, cose tutte che unii
insieme, ne avessi o no bisogno. Trovai ancora tre bellissime Bibbie che facevano parte del
mio carico quando abbandonai l’Inghilterra e che aveva unite al fardello dei miei arnesi;
parimente alcuni libri portoghesi, e tra essi due o tre libretti di preghiere cattoliche, e molti
altri che conservai con gran cura. Né tralascerò che avevamo nei nostro vascello un cane e
due gatti, sull’eminente storia delle quali bestie mi accade qui il fare alcun cenno.

(Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Nella sua isola
deserta
Robinson
Crusoe
ricomincia a
cacciare e a
coltivare,
ripercorrendo
così, come un
nuovo Adamo,
tutta la storia
dell’Uomo
Robinson Crusoe mette a confronto i dati negativi e quelli positivi della sua situazione
                         Mali                                                           Beni
• Io sono abbandonato sopra un’isola orribile e            • Ma io vivo; io non mi son annegato, come è avvenuto di
  deserta, senza alcuna speranza di liberazione.             tutti i miei compagni.

• Io solo forse tra tutti gli uomini sono stato scelto a   • Ma così solo io sono stato scelto tra tutti quelli del naviglio
                                                             a scampare dalla morte; e colui che dalla morte mi ha
  menare una vita di una miseria senza pari.
                                                             salvato in modo di miracolo mi può liberare dallo stato in
• Io sono separato da tutta l’umana generazione, io          cui sono.
  sono un solitario bandito dal consorzio de’ miei         • Ma io non muoio di fame sopra una terra sterile che non
  simili.                                                    mi porge alcun mezzo di vita.
• Io non ho vesti per coprirmi.                            • Ma sono in un clima caldo, e se anche avessi vesti, non
                                                             potrei portarle.
• Io sono senza difesa, e senza mezzi di contrastare
  alla violenza degli uomini o delle bestie.               • Ma sono in un’isola dove non ho veduto alcuna bestia
                                                             selvatica che mi possa nuocere, come ne vidi sulla costa
• Io non ho nessuno con cui possa ragionare e                d’Africa. Che sarebbe stato di me, se avessi naufragato su
  consolarmi.                                                quella costa?
                                                           • . Ma Dio, per miracolo, ha spinto il naviglio assai vicino
                                                             alla riva, affinché potessi prendere tante cose necessarie ai
                                                             miei presenti bisogni, e che insieme mi hanno posto nel
                                                             caso di assicurarmi il vitto per tutto il resto della mia vita.
Un giorno, dopo 12
anni di solitudine
totale, Robinson
scopre l’impronta di
un piede umano.
D’improvviso si
rende conto che
sull’isola c’è un
altro essere umano.
Infine Robinson trova Venerdì (così lo
battezza perché lo incontra in quel giorno
della settimana): un “buon selvaggio” che
egli salva dalla morte a cui lo avevano
condannato altri “selvaggi”, cannibali
approdati sull’isola per compiere un
sacrificio umano. Li troveranno, dopo più
di un quarto di secolo di isolamento, dei
marinai inglesi: e anche Venerdì potrà
conoscere la “civiltà”.
Michel de Montaigne (1533-1592),
autore degli Essais (1580, 1582, 1588)

                            I Saggi di Montaigne contengono
                           la prima importante riflessione
                           del pensiero europeo intorno alla
                           scoperta di un nuovo mondo
                           abitato, del tutto sconosciuto fino
                           a poco meno di un secolo prima.
                           Il XXXI saggio del I libro è
                           intitolato I cannibali.
Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non
abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle
opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto
governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. […]
 Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha
prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro
artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare
selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che
invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro
gusto corrotto
 Quei popoli […] sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano
sempre le leggi naturali, non ancora imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che
talvolta mi dispiace che non se ne sia avuto nozione prima, quando c’erano uomini che
avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne
abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza
in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età
dell’oro … ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia.
(Michel de Montaigne, Saggi, I, 31, I cannibali)
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)

Quest’idea di Montaigne, di un “buon
selvaggio” che continua a vivere
“altrove”, nel mondo, restando «vicino
alla semplicità originaria», viene ripresa,
messa a fuoco da un punto di vista
filosofico e sviluppata dal pensatore
svizzero Jean-Jacques Rousseau.
Sullo sfondo del pensiero di Rousseau si riconosce l’idea del «buon selvaggio»:
«Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa
degenera nelle mani dell'uomo». Così, nel 1762, egli apre l’Emilio, o dell’educazione,
il romanzo-saggio dedicato alla formazione dei giovani e alla necessità che essi vengano
educati in stretto contatto con la natura, lontano dall’influenza della società.
  Secondo Rousseau in origine l’uomo è «buono»: non necessariamente anche
«felice». La storia del pensiero è attraversata dal contrasto fra quest’idea di fondo: di
frequente l’infelicità umana viene attribuita alle condizioni storiche, al progresso,
all’avanzare della civiltà. Già nel 1754, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della
diseguaglîanza tra gli uomini, in aperto contrasto con la visione del mondo
dell’Illuminismo che riconosceva al progresso scientifico e culturale un ruolo positivo,
Rousseau tenta di ricostruire una “genealogia” della storia dell'umanità dalla sua
origine naturale alla formazione delle società, all'istituzione del linguaggio e della
proprietà. Nati uguali e felici, gli uomini diventano “diseguali” lungo la storia,
entrando in conflitto fra di loro per conquistare il potere e i beni materiali: e così
perdono il bene supremo della felicità.
Non molti anni dopo l’Emilio di Rousseau proprio in Francia si scopre un caso di fanciullo
vissuto allo stato naturale, lontano dalla società. Nel 1798, in una foresta dell’Aveyron, tre
cacciatori catturano in una foresta un bambino, nudo, sporco, incapace di parlare: un vero
“selvaggio”. Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron viene portato in un paesello, dove però
nessuno riesce a “domarlo”: graffia e morde chi gli si avvicina, ringhiando e ruggendo come un
animale. Riesce a fuggire, ma viene riacciuffato nel gennaio 1800. Il caso accende e subito
delude la curiosità di medici e intellettuali parigini, che rinchiudono il ragazzo nell’Istituto per
Sordomuti, affidandolo a psichiatri e psicologi.
  Solo il medico Jean Itard, che appartiene alla Société des Observateurs de l’Homme,
rifiuta la tesi che il bambino sia un ritardato mentale irrecuperabile, e seguendo i principi dei
philosophes illuministi applica una “filosofia dell’osservazione” per “risvegliare” i sensi
del ragazzo, provando a educarlo. Applica così i principi del “sensismo” avanzati dal filosofo
Condillac nel Trattato delle sensazioni (1754, lo stesso anno in cui era apparso il Discorso
sull’origine della diseguaglîanza di Rousseau). Lo chiama Victor, e lo porta a casa sua, nella
speranza di riuscire a reinserire il “selvaggio” nella vita sociale. Vuole “plasmarlo” come
una statua, secondo l’antico mito di Pigmalione. L’esperimento “sociale” fallisce.
François Truffaut (1932-1984): Il ragazzo selvaggio (1970)
Il ragazzo selvaggio (1970)
Nella Memoria sui primi progressi di Victor, il selvaggio dell’Aveyron, scritta nel
1801, Jean Itard trae alcune conclusioni dei carattere antropologico e culturale (le ha
studiate Sergio Moravia, La scienza dell’uomo nel settecento, Laterza 1970):

 «Al livello dello stato naturale l’uomo è senza intelligenza e senza affetti, con
una vita limitata alle sole funzioni animali. La sua superiorità morale non è che il
risultato della civiltà, lo innalza al di sopra degli altri animali mediante uno
stimolo grande e possente. Questo stimolo è la sensibilità propria della sua
specie; proprietà essenziale da cui derivano le facoltà imitative, e quella tendenza
continua che lo spinge a cercare in nuovi bisogni nuove sensazioni».

  Il dibattito aperto dalle ricerche di Itard si estese per molti anni nella riflessione
intorno alle categorie di “selvaggio”, “naturale”, “sociale” nella loro applicabilità
all’uomo. Intrecciandosi con la filosofia e con la sociologia nasceva così,
lentamente, l’antropologia culturale moderna.
D’altra parte la letteratura e l’immaginario cinematografico
pullulano di figure di “giovani selvaggi”. Basterà ricordare il
grande scrittore inglese Rudyard Kipling, nato a Bombay, in
India, nel 1865 e morto a Londra nel 1936, vincitore del Premio
Nobel nel 1907. Prima con fortunatissime raccolte di racconti (Il
libro della giungla, 1894; Il secondo libro della giungla, 1895),
poi con romanzi quali Kim, 1901), Kipling creò un universo
naturalistico straordinario, imperniato sulla vita della giungla
indiana e popolato da animali come la tigre Shere Khan, l’orso
Baloo, la mangusta Rikki-tikki-tavi, ma imperniato su Mowgli,
un “ragazzo selvaggio” allevato dai lupi e definito sempre
“cucciolo d'uomo”.
   Nelle storie di Kipling la giungla è un universo parallelo a quello della “civiltà”:
gli animali insegnano il rispetto per la «legge della giungla», fondata sull’obbedienza
all’autorità rafforzata dalla saggezza. Le regole della “società-giungla” sono ferree, e
Mowgli le impara alla perfezione, godendo così della libertà di muoversi tra mondi
diversi, fino ad entrare in contatto anche con un villaggio umano.
Il Libro della giungla tra i fumetti e gli album di figurine
Tarzan, personaggio inventato dallo scrittore americano
Edgar Rice Burroughs nel 1912, con Tarzan delle scimmie,
e protagonista di un immenso ciclo letterario (24 volumi
complessivi), riprende in parte la figura di Mowgli.
Rappresenta l’incarnazione novecentesca dell’antico
modello pedagogico sognato da Rousseau.
 Tarzan è il “bambino selvaggio” allevato nella giungla
dalle scimmie, come Mowgli di Kipling era stato cresciuto
dai lupi (forse secondo l’archetipo mitologico di Romolo e
Remo). Però Tarzan conosce bene la civiltà umana, per poi
rifiutarla, scegliendo di tornare a vivere nella natura.
Tarzan nei fumetti e al cinema (Alexander Skarsgård, 2016)
La stessa sorte tocca al Sandokan, la «Tigre della Malesia», che lo
                       scrittore veronese Emilio Salgari inventa, con straordinaria fantasia
                       esotica, nella Torino grigia e fumosa della prima industrializzazione.
                       Passeggiando nel parco del Valentino e sfogliando libri di
                       antropologia ed enciclopedie popolari inventa una giungla piena di
                       misteri e di avventure che entusiasmano i lettori per molti decenni.

Cento anni più tardi Sandokan diventa un
eroe del cinema e della televisione (a destra
l’attore Kabir Bedi, celebre in Italia fra gli
anni Settanta e Novanta del Novecento)
L’esperienza di Jean Itard con il “giovane selvaggio dell’Aveyron”, ai primi dell’Ottocento,
dimostrò il fallimento dell’utopia “naturalistica”. Tuttavia negli scritti politici di Rousseau la
descrizione dello “stato naturale” dell’uomo è limpida, che rinviano a Vico e in qualche misura
aprono alla prospettiva del pensiero romantico: «Errando nella foresta, senza mestiere,
senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza nessun bisogno dei suoi
simili, come pure senza nessun bisogno di danneggiarli, forse addirittura senza
conoscerne individualmente nessuno, il selvaggio, soggetto a poche passioni, bastando a
sé stesso, non doveva avere che i sentimenti e i lumi del suo stato, non doveva sentire che
gli autentici bisogni, guardando solo a ciò che riteneva di avere interesse a vedere, mentre
la sua intelligenza faceva scarsi progressi, ma la sua vanità non ne faceva di più».
  Due secoli più tardi ripensa con lucidità a Rousseau il più grande antropologo ed etnologo
del Novecento, il francese Claude Lévi-Strauss, maestro del movimento che verso gli anni
Cinquanta si incomincia a chiamare strutturalismo, teoria complessa che cambia il modo di
studiare la storia, la società, la filosofia, la letteratura, l’arte, muovendo dall’individuazione di
strutture fondamentali del pensiero umano. Fra le sue opere principali: Tristi tropici (1955),
Antropologia strutturale (1958), Il pensiero selvaggio (1962), Il crudo e il cotto (1964), e altri
libri dedicati alla mitologia delle popolazioni indigene dell’Amazzonia.
Claude Lévi-Strauss (1908-2009)
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955)

 Il Brasile e l’America del Sud non significavano gran
cosa per me. Tuttavia, rivedo ancora, con la più grande
chiarezza, le immagini che questa proposta improvvisa
mi fece subito sorgere. I paesi esotici mi apparivano
come gli opposti dei nostri; il termine «antipodi»
trovava nel mio pensiero un senso più ricco e più
ingenuo del suo contenuto letterale…
 Il Brasile si configurava nella mia immaginazione
sotto forma di fasci di palmizi contorti, dissimulanti
bizzarre architetture, il tutto intriso di un aroma di
bruciaprofumi, particolare olfattivo, questo, che, più
d’ogni altra esperienza successiva, spiega come ancora
oggi io pensi al Brasile come a un profumo bruciato.
Non c’è prospettiva più esaltante per l’etnologo che quella di essere il primo bianco a penetrare in una
comunità indigena. […] Avrei rivissuto dunque l’esperienza degli antichi esploratori, e, attraverso di essa,
quel momento cruciale del pensiero moderno in cui, grazie alle grandi scoperte, una umanità che si
credeva completa e perfezionata riceve all’improvviso, come una contro-rivelazione, l’annunzio che non
era l’unica, che era soltanto una parte di un più vasto sistema e che, per conoscersi, doveva prima
contemplare la sua irriconoscibile immagine in quello specchio una particella del quale, dimenticata per
secoli, stava per dare a me solo il suo primo ed ultimo riflesso.
  Questo entusiasmo è ancora possibile nel XX secolo? Per poco conosciuti che fossero gli Indiani del Pimenta
Bueno, non potevo aspettarmi da essi l’impressione provata dai grandi autori: Léry, Staden, Thevet che, 400
anni or sono, posero il piede sul territorio brasiliano. Ciò che essi videro allora, i nostri occhi non lo vedranno
mai più. Le civiltà che studiarono per primi si erano sviluppate in direzioni diverse dalle nostre e non
avevano raggiunto la pienezza né la perfezione compatibili con la loro natura, mentre le società che noi
possiamo studiare oggi – nelle condizioni che sarebbe illusorio confrontare con quelle di quattro secoli fa –
non sono più che corpi indeboliti e forme mutilate. Malgrado le enormi distanze e ogni genere di intermediari
(di una bizzarria spesso sconcertante quando si arriva a ricostruirne la catena) esse sono state annientate da
quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione
dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale; questa non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo le ha
dato un secondo volto, non meno vero e indelebile dell’altro.

(C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Questi indiani, che si autodesignano col nome di Mundé, non erano mai stati menzionati in tutta la
letteratura etnografica. […] Ho passato presso di loro una piacevole settimana, e raramente ospiti si sono
dimostrati più semplici, più pazienti e più cordiali. Mi facevano ammirare i loro giardini dove crescevano il mais,
la manioca, la patata dolce, l’arachide, il tabacco, la zucca e diverse specie di fave e di fagioli. Dissodando la
terra, essi hanno cura di rispettare il ceppo delle palme dove prolificano grosse larve bianche di cui sono ghiotti:
strana confusione fra l’agricoltura e l’allevamento. Nell’interno delle capanne rotonde filtrava attraverso gli
interstizi la luce diffusa, pagliettata dal sole. […]
  Eppure, questa avventura cominciata nell’entusiasmo mi lasciava una impressione di vuoto. Avevo voluto
andare fino all’estremo limite della vita selvaggia: non ero dunque soddisfatto, ormai giunto fra questi
benevoli indigeni che nessuno aveva mai visto prima di me e che nessuno, forse, vedrà dopo? Alla fine di
un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma, ahimé, essi lo erano troppo. Solo all’ultimo momento
mi si era rivelata la loro esistenza e mi era quindi mancato il tempo per conoscerli. Le limitate risorse di cui
disponevo, il deperimento fisico in cui ci trovavamo i miei compagni ed io - e che le febbri conseguenti alle
piogge avrebbero ancora aggravato - non mi permettevano che una osservazione superficiale quando sarebbero
stati necessari mesi di studio. Essi erano là, pronti ad insegnarmi i loro costumi e le loro credenze e io non
conoscevo la loro lingua. Vicini a me come un’immagine in uno specchio, potevo toccarli ma non potevo
comprenderli. Ricevevo nello stesso tempo la mia ricompensa e il mio castigo. Poiché non era forse colpa
mia e della mia professione ritenere che gli uomini differiscano tra loro? Che alcuni meritino più interesse
e più attenzione perché il colore della loro pelle e i loro costumi ci stupiscono?

(C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Indigeno brasiliano (Nambikwara), 1920-30
L’antropologia culturale mette in luce come l’Altro, l’estraneo rispetto alla propria identità
d’appartenenza, non debba essere guardato né come un nemico da combattere, né come un
“diverso” da riconoscere solo simile a noi. L’Altro dev’essere inserito in una visione collettiva
dell’esistenza globale, basata sulla coesistenza delle diversità.
 C’è una frase, nella pagina di Tristi tropici appena letta, in cui Lévi-Strauss tocca il cuore del
problema, e nel contempo ammette implicitamente la derivazione del suo pensiero dalla
nostalgia del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau: la stessa etnologia è per lui «nello
stesso tempo la ricompensa e il castigo», proprio per il fatto che il pensiero occidentale ritiene
che «gli uomini differiscano tra loro», e che «alcuni meritano più interesse e più attenzione
perché il colore della loro pelle e i loro costumi ci stupiscono».
 L’antropologo risale i fiumi del Mato Grosso alla ricerca dell’ultima tribù in un mondo ancora
inesplorato, ma rimane deluso nel trovarla meno “diversa” di quanto si aspettasse, non così
radicalmente “altra” rispetto al mondo civilizzato. Di fatto siamo Noi europei, Noi occidentali, i
“diversi” nei confronti degli Altri, proprio perché negli ultimi secoli, almeno a partire
Settecento, abbiamo dato vita a una scienza delle diversità, che chiamiamo scienza
dell’uomo, antropologia. La complessa, dapprima nostalgica e poi più consapevole riflessione
intorno al rapporto fra “Noi e gli Altri” è una delle basi della civiltà moderna in Occidente.
Italo Calvino, negli anni trascorsi in Francia, lesse
                                                  Lévi-Strauss, e senza citarlo direttamente si riferì in
                                                  particolare a Tristi tropici, quando dichiarò in
                                                  un’intervista, chiamando in causa la letteratura
                                                  insieme all’antropologia culturale:

«Io credo che il mondo esista indipendentemente dall'uomo; il mondo esisteva
prima dell'uomo ed esisterà dopo, e il mondo è solo un'occasione che l'uomo ha per
organizzare alcune informazioni su se stesso. Quindi la letteratura è per me una
serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il
tutto molto instabile e relativo, ma in qualche modo non inutile».

(I. Calvino, Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie)
Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la
vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla
quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenere il suo ruolo. […] Da
quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari,
passando per la scoperta del fuoco […] l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di
strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione. Senza dubbio ha costruito città e
coltivato campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre inerzia a un ritmo
e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle
creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel
disordine quando egli sarà scomparso. Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come
un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al
nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse quella di fabbricare ciò che i fisici chiamano
entropia, cioè inerzia. […]
  Eppure, io esisto. Non certo come individuo […]. L’IO non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un
“noi” e un “nulla”. E se finalmente scelgo questo “noi”, benché sia ridotto a un’apparenza, è perché, a
meno di non distruggermi […] non ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla.

(C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Un grande slancio umanistico, che possiamo ancora una volta, per ammissione dello stesso Lévi-Strauss,
scaturisce dalle meditazioni che Jean-Jacques Rousseau incominciò a svolgere sull’antropologia alla fine del
Settecento, si riverbera nell’intensa e leggera, ironica pagina conclusiva di Tristi tropici, pubblicato nel 1955:

  Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo
nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro
furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà:
e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere,
procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino che lo costringe a chiudere una
dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che
chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro
regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro
libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste -addio selvaggi! Addio viaggi!- durante i
brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta di interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare
l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella
contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri,
respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono
reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.

(C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Un nuovo umanesimo si cela nella scelta del Noi invece dell’Io, e poi nell’ironica, tenera e
sorniona «strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che
un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto», su cui nel 1955 si chiude
Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss.
  Lo scrittore italiano Italo Calvino (1923-1985), che vive a Parigi fra 1967 e 1980, in stretto
rapporto con numerosi intellettuali francesi (probabilmente anche Lévi-Strauss), nelle ultime
parole delle Lezioni americane (pubblicate postume nel 1988, ma composte negli ultimi
mesi di vita, nel 1985), sembra muoversi in una prospettiva non lontana da questo nuovo
umanesimo senza antropocentrismo, che lo strutturalismo ha avviato, e compie un passo
verso una parola restituita alla Natura. Così apre l’ultima pagina dell’ultima lezione che
riuscì a scrivere, Molteplicità: «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del
self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale,
non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola,
l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero i nprimavera e l’albero in autunno, la
pietra, il cemento, la plastica… Non era forse questo il punto d’arrivo a ci tendeva
Ovidio nel raccontare la conti uità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio
nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?».
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