Letteratura e antropologia fra Sette e Novecento - Corrado Bologna Webinar, 18 marzo 2020 - Formazione Loescher
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– E quelli? – Quelli? Je successe questa: Che mentre, lì, framezzo ar villutello Cusì arto, p’entrà ne la foresta Rompeveno li rami cor cortello, Veddero un fregno buffo, co’ la testa Dipinta come fosse un giocarello, Vestito mezzo ignudo, co’ ’na cresta Tutta formata de penne d’ucello. Se fermorno. Se fecero coraggio… – A quell’omo! je fecero, chi séte? – E, fece, chi ho da esse? Sò un servvaggio. E voi antri quaggiù chi ve ce manna? – Ah, je fecero, voi lo saperete Quando vedremo er re che ve commanna.
Geronimo (Gozaalé, Goyathlé), capo Apache (1829-1909), ormai ridotto alla posa fotografica in studio
Lettera inviata al Presidente degli Stati Uniti Quando il Gran Capo di Washington manda a dire che Franklin Pierce nel 1854 dal Gran Capo Seattle desidera acquistare la nostra terra, egli chiede molto da (ossia Lame Deer, Sealth, Seathl, See-aht, n. Blake noi. Il Gran Capo manda a dire che ci riserverà un’area in Island, 1780 ca.; m. Port Madison, 7.VI.1866) modo che noi possiamo vivere comodamente. Egli sarà il nostro padre e noi saremo suoi figli. Così noi considereremo la Vostra offerta di comprare la nostra terra. Ma non sarà facile. Perché questa terra è sacra per noi. Questa acqua scintillante che scende nei ruscelli e nei fiumi non è solo acqua ma il sangue dei nostri antenati. Se vi vendiamo la terra dovrete ricordare che è sacra, e dovrete insegnare ai vostri figli che è sacra, e che ogni immagine spirituale riflessa nella chiara acqua dei laghi parla di avvenimenti e ricordi nella vita del mio popolo. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, spengono la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe e alimentano i nostri figli. Se vi vendiamo la nostra terra dovrete ricordarvi e insegnare ai vostri bambini che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri, e che dovrete d’ora innanzi riservare ai fiumi tutte le gentilezze che riservereste a ogni fratello. ./.
./. Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il ./. L’aria è preziosa per l’uomo rosso perché tutte nostro modo di pensare. Un pezzo di terra è per lui le cose dividono lo stesso respiro, la bestia, uguale a quello vicino perché egli è lo straniero che l’albero, l’uomo, tutti dividono lo stesso respiro. viene di notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha L’uomo bianco non sembra notare l’aria che bisogno. La sua avidità divorerà la terra e lascerà respira. Come un uomo in agonia da molti giorni dietro a sé solo il deserto. Io non lo so. I nostri modi egli è insensibile alla puzza di pensare sono diversi dai vostri. Ma se vi vendiamo la nostra terra dovrete ricordare La vista delle vostre città fa male agli occhi dell’uomo che l’aria per noi è preziosa, che l’aria divide il suo rosso, forse perché l’uomo rosso è un selvaggio e non spirito con tutta la vita che sostiene. Il vento che capisce. Non c’è luogo tranquillo nelle città dell’uomo diede al nostro avo il suo primo respiro riceve anche bianco. Nessun luogo per ascoltare l’aprirsi delle foglie il suo ultimo sospiro. E se vi venderemo la nostra in primavera o il fruscio delle ali di un insetto. Ma può terra dovete tenerlo separato e considerarlo come un darsi che questo sia perché io sono un selvaggio e non posto dove persino l’uomo bianco possa andare a capisco. Già il solo fracasso sembra un insulto alle sentire il vento addolcito dai fiori di prateria. orecchie. E come si può chiamare vita se non si riescono Così considereremo la Vostra offerta di acquistare la ad ascoltare il grido solitario del capriolo e le nostra terra. Se decideremo di accettare, io porrò una discussioni delle rane di notte attorno ad uno stagno? Io condizione: l’uomo bianco dovrà trattare le bestie di sono un uomo rosso e non capisco. questa terra come sue sorelle. L’indiano preferisce il sommesso suono del vento che Io sono un selvaggio e non capisco altro modo. increspa la superficie dello stagno e l’odore del vento ./. stesso, purificato da una pioggia di mezzogiorno o profumato dai pini. ./.
Cosa è un uomo senza le bestie? Se tutte le ./. Questo noi sappiamo: la terra non bestie se ne fossero andate, l’uomo morirebbe di appartiene all’uomo ma l’uomo appartiene grande solitudine di spirito perché qualunque alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose cosa succeda alle bestie, presto succede sono collegate come il sangue che unisce una all’uomo. Tutte le cose sono collegate. Dovrete famiglia. insegnare ai Vostri bambini che la terra sotto i Tutte le cose sono collegate. Qualunque cosa loro piedi è la cenere dei nostri avi. Affinché succeda alla terra succede ai figli della terra. essi rispettino la terra dite ai Vostri bambini che la terra è ricca delle vite della nostra razza. L’uomo non ha tessuto la trama della vita: egli è un filo. Insegnate ai vostri bambini ciò che noi abbiamo insegnato ai nostri bambini: che la terra è nostra Qualunque cosa egli faccia alla trama egli lo madre. Qualunque cosa succeda alla terra, fa a sé stesso. succede ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra sputano su se stessi. ./.
John Ford, Ombre rosse (1939)
John Ford, Ombre rosse (1939)
Hernán Cortés sbarca in Messico e incontra Montezuma, sovrano degli Aztechi (1519) (stampa ottocentesca)
Sacrificio umano in un tempio azteco - Piramide messicana
Benjamin West (1738-1820), il “buon indiano” assiste alla morte del generale Wolfe (1770)
Stampe ottocentesche: l’incontro con il “buon selvaggio”
Daniel Defoe (1660-1731), Robinson Crusoe (1719)
Robinson Crusoe nella sua capanna, e l’incontro con Venerdì
Non posso descrivere io medesimo la confusione de’ miei pensieri allorché mi trovai immerso nell’acqua; perché se bene io sia abilissimo notatore, non potei liberarmi dalle onde tanto da prender fiato, finché l’onda che mi avea condotto, o piuttosto trascinato per lungo tratto verso la spiaggia, non fu tornata addietro, lasciandomi quasi a secco sopra la costa, ma mezzo morto per l’acqua che aveva bevuta. […] Questa volta, poiché le acque non erano tanto alte come in principio, essendo la terra ognor più vicina, mi ressi meglio fino all’istante dello sbassarsi dell’acqua, per lo che l’ultima ondata, ancorché mi giungesse addosso, non mi sommerse entro di sè, nè mi trasportò seco; quindi appena rimasto in libertà di prendere una corsa, toccai la terra ferma, ove, inerpicatomi agli scogli della costa, a mio gran conforto mi trovai seduto su l’erba, fuor di pericolo e libero affatto dal timore che quivi l’acqua tornasse a sorprendermi. ./. (Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Mi venne in mente che avrei perduto il computo del tempo per mancanza di libri, penne ed inchiostro, e che avrei persino dimenticati i giorni festivi confondendoli con quelli di lavoro. Perché ciò non avvenisse, alzai uno stipite in forma di croce su la spiaggia ove presi terra la prima volta, e con un coltello scolpii su di esso in lettere maiuscole: Io arrivai su questa spiaggia il dì 30 settembre 1659. Sui lati dello stesso stipite feci ogni giorno col coltello stesso una tacca che nel settimo giorno era lunga il doppio, e questa tacca doveva pure esser lunga il doppio della precedente al primo giorno di ciascun mese; così io tenni il mio calendario o sia registro settimanale, mensile ed annuale del tempo. (Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Ma accadde che fra le molte cose procacciatemi dal vascello nelle parecchie gite a bordo di esso già menzionate, molte ne avessi ritratte di minor valore, benché non del tutto inutili per me, le quali io trovai solamente qualche tempo dopo frugando entro le casse e particolarmente penne, inchiostro e carta, oltre ad altre serbate nei ripostigli del capitano, del suo aiutante, del cannoniere e del carpentiere; tra queste tre o quattro compassi, alcuni strumenti matematici, quadranti, cannocchiali, carte e libri di nautica, cose tutte che unii insieme, ne avessi o no bisogno. Trovai ancora tre bellissime Bibbie che facevano parte del mio carico quando abbandonai l’Inghilterra e che aveva unite al fardello dei miei arnesi; parimente alcuni libri portoghesi, e tra essi due o tre libretti di preghiere cattoliche, e molti altri che conservai con gran cura. Né tralascerò che avevamo nei nostro vascello un cane e due gatti, sull’eminente storia delle quali bestie mi accade qui il fare alcun cenno. (Daniel Defoe, Avventure di Robinson Crusoe, 1719, tr. it. G. Barbieri, 1842)
Nella sua isola deserta Robinson Crusoe ricomincia a cacciare e a coltivare, ripercorrendo così, come un nuovo Adamo, tutta la storia dell’Uomo
Robinson Crusoe mette a confronto i dati negativi e quelli positivi della sua situazione Mali Beni • Io sono abbandonato sopra un’isola orribile e • Ma io vivo; io non mi son annegato, come è avvenuto di deserta, senza alcuna speranza di liberazione. tutti i miei compagni. • Io solo forse tra tutti gli uomini sono stato scelto a • Ma così solo io sono stato scelto tra tutti quelli del naviglio a scampare dalla morte; e colui che dalla morte mi ha menare una vita di una miseria senza pari. salvato in modo di miracolo mi può liberare dallo stato in • Io sono separato da tutta l’umana generazione, io cui sono. sono un solitario bandito dal consorzio de’ miei • Ma io non muoio di fame sopra una terra sterile che non simili. mi porge alcun mezzo di vita. • Io non ho vesti per coprirmi. • Ma sono in un clima caldo, e se anche avessi vesti, non potrei portarle. • Io sono senza difesa, e senza mezzi di contrastare alla violenza degli uomini o delle bestie. • Ma sono in un’isola dove non ho veduto alcuna bestia selvatica che mi possa nuocere, come ne vidi sulla costa • Io non ho nessuno con cui possa ragionare e d’Africa. Che sarebbe stato di me, se avessi naufragato su consolarmi. quella costa? • . Ma Dio, per miracolo, ha spinto il naviglio assai vicino alla riva, affinché potessi prendere tante cose necessarie ai miei presenti bisogni, e che insieme mi hanno posto nel caso di assicurarmi il vitto per tutto il resto della mia vita.
Un giorno, dopo 12 anni di solitudine totale, Robinson scopre l’impronta di un piede umano. D’improvviso si rende conto che sull’isola c’è un altro essere umano.
Infine Robinson trova Venerdì (così lo battezza perché lo incontra in quel giorno della settimana): un “buon selvaggio” che egli salva dalla morte a cui lo avevano condannato altri “selvaggi”, cannibali approdati sull’isola per compiere un sacrificio umano. Li troveranno, dopo più di un quarto di secolo di isolamento, dei marinai inglesi: e anche Venerdì potrà conoscere la “civiltà”.
Michel de Montaigne (1533-1592), autore degli Essais (1580, 1582, 1588) I Saggi di Montaigne contengono la prima importante riflessione del pensiero europeo intorno alla scoperta di un nuovo mondo abitato, del tutto sconosciuto fino a poco meno di un secolo prima. Il XXXI saggio del I libro è intitolato I cannibali.
Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. […] Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto Quei popoli […] sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuto nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro … ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. (Michel de Montaigne, Saggi, I, 31, I cannibali)
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) Quest’idea di Montaigne, di un “buon selvaggio” che continua a vivere “altrove”, nel mondo, restando «vicino alla semplicità originaria», viene ripresa, messa a fuoco da un punto di vista filosofico e sviluppata dal pensatore svizzero Jean-Jacques Rousseau.
Sullo sfondo del pensiero di Rousseau si riconosce l’idea del «buon selvaggio»: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo». Così, nel 1762, egli apre l’Emilio, o dell’educazione, il romanzo-saggio dedicato alla formazione dei giovani e alla necessità che essi vengano educati in stretto contatto con la natura, lontano dall’influenza della società. Secondo Rousseau in origine l’uomo è «buono»: non necessariamente anche «felice». La storia del pensiero è attraversata dal contrasto fra quest’idea di fondo: di frequente l’infelicità umana viene attribuita alle condizioni storiche, al progresso, all’avanzare della civiltà. Già nel 1754, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglîanza tra gli uomini, in aperto contrasto con la visione del mondo dell’Illuminismo che riconosceva al progresso scientifico e culturale un ruolo positivo, Rousseau tenta di ricostruire una “genealogia” della storia dell'umanità dalla sua origine naturale alla formazione delle società, all'istituzione del linguaggio e della proprietà. Nati uguali e felici, gli uomini diventano “diseguali” lungo la storia, entrando in conflitto fra di loro per conquistare il potere e i beni materiali: e così perdono il bene supremo della felicità.
Non molti anni dopo l’Emilio di Rousseau proprio in Francia si scopre un caso di fanciullo vissuto allo stato naturale, lontano dalla società. Nel 1798, in una foresta dell’Aveyron, tre cacciatori catturano in una foresta un bambino, nudo, sporco, incapace di parlare: un vero “selvaggio”. Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron viene portato in un paesello, dove però nessuno riesce a “domarlo”: graffia e morde chi gli si avvicina, ringhiando e ruggendo come un animale. Riesce a fuggire, ma viene riacciuffato nel gennaio 1800. Il caso accende e subito delude la curiosità di medici e intellettuali parigini, che rinchiudono il ragazzo nell’Istituto per Sordomuti, affidandolo a psichiatri e psicologi. Solo il medico Jean Itard, che appartiene alla Société des Observateurs de l’Homme, rifiuta la tesi che il bambino sia un ritardato mentale irrecuperabile, e seguendo i principi dei philosophes illuministi applica una “filosofia dell’osservazione” per “risvegliare” i sensi del ragazzo, provando a educarlo. Applica così i principi del “sensismo” avanzati dal filosofo Condillac nel Trattato delle sensazioni (1754, lo stesso anno in cui era apparso il Discorso sull’origine della diseguaglîanza di Rousseau). Lo chiama Victor, e lo porta a casa sua, nella speranza di riuscire a reinserire il “selvaggio” nella vita sociale. Vuole “plasmarlo” come una statua, secondo l’antico mito di Pigmalione. L’esperimento “sociale” fallisce.
François Truffaut (1932-1984): Il ragazzo selvaggio (1970)
Il ragazzo selvaggio (1970)
Nella Memoria sui primi progressi di Victor, il selvaggio dell’Aveyron, scritta nel 1801, Jean Itard trae alcune conclusioni dei carattere antropologico e culturale (le ha studiate Sergio Moravia, La scienza dell’uomo nel settecento, Laterza 1970): «Al livello dello stato naturale l’uomo è senza intelligenza e senza affetti, con una vita limitata alle sole funzioni animali. La sua superiorità morale non è che il risultato della civiltà, lo innalza al di sopra degli altri animali mediante uno stimolo grande e possente. Questo stimolo è la sensibilità propria della sua specie; proprietà essenziale da cui derivano le facoltà imitative, e quella tendenza continua che lo spinge a cercare in nuovi bisogni nuove sensazioni». Il dibattito aperto dalle ricerche di Itard si estese per molti anni nella riflessione intorno alle categorie di “selvaggio”, “naturale”, “sociale” nella loro applicabilità all’uomo. Intrecciandosi con la filosofia e con la sociologia nasceva così, lentamente, l’antropologia culturale moderna.
D’altra parte la letteratura e l’immaginario cinematografico pullulano di figure di “giovani selvaggi”. Basterà ricordare il grande scrittore inglese Rudyard Kipling, nato a Bombay, in India, nel 1865 e morto a Londra nel 1936, vincitore del Premio Nobel nel 1907. Prima con fortunatissime raccolte di racconti (Il libro della giungla, 1894; Il secondo libro della giungla, 1895), poi con romanzi quali Kim, 1901), Kipling creò un universo naturalistico straordinario, imperniato sulla vita della giungla indiana e popolato da animali come la tigre Shere Khan, l’orso Baloo, la mangusta Rikki-tikki-tavi, ma imperniato su Mowgli, un “ragazzo selvaggio” allevato dai lupi e definito sempre “cucciolo d'uomo”. Nelle storie di Kipling la giungla è un universo parallelo a quello della “civiltà”: gli animali insegnano il rispetto per la «legge della giungla», fondata sull’obbedienza all’autorità rafforzata dalla saggezza. Le regole della “società-giungla” sono ferree, e Mowgli le impara alla perfezione, godendo così della libertà di muoversi tra mondi diversi, fino ad entrare in contatto anche con un villaggio umano.
Il Libro della giungla tra i fumetti e gli album di figurine
Tarzan, personaggio inventato dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs nel 1912, con Tarzan delle scimmie, e protagonista di un immenso ciclo letterario (24 volumi complessivi), riprende in parte la figura di Mowgli. Rappresenta l’incarnazione novecentesca dell’antico modello pedagogico sognato da Rousseau. Tarzan è il “bambino selvaggio” allevato nella giungla dalle scimmie, come Mowgli di Kipling era stato cresciuto dai lupi (forse secondo l’archetipo mitologico di Romolo e Remo). Però Tarzan conosce bene la civiltà umana, per poi rifiutarla, scegliendo di tornare a vivere nella natura.
Tarzan nei fumetti e al cinema (Alexander Skarsgård, 2016)
La stessa sorte tocca al Sandokan, la «Tigre della Malesia», che lo scrittore veronese Emilio Salgari inventa, con straordinaria fantasia esotica, nella Torino grigia e fumosa della prima industrializzazione. Passeggiando nel parco del Valentino e sfogliando libri di antropologia ed enciclopedie popolari inventa una giungla piena di misteri e di avventure che entusiasmano i lettori per molti decenni. Cento anni più tardi Sandokan diventa un eroe del cinema e della televisione (a destra l’attore Kabir Bedi, celebre in Italia fra gli anni Settanta e Novanta del Novecento)
L’esperienza di Jean Itard con il “giovane selvaggio dell’Aveyron”, ai primi dell’Ottocento, dimostrò il fallimento dell’utopia “naturalistica”. Tuttavia negli scritti politici di Rousseau la descrizione dello “stato naturale” dell’uomo è limpida, che rinviano a Vico e in qualche misura aprono alla prospettiva del pensiero romantico: «Errando nella foresta, senza mestiere, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza nessun bisogno dei suoi simili, come pure senza nessun bisogno di danneggiarli, forse addirittura senza conoscerne individualmente nessuno, il selvaggio, soggetto a poche passioni, bastando a sé stesso, non doveva avere che i sentimenti e i lumi del suo stato, non doveva sentire che gli autentici bisogni, guardando solo a ciò che riteneva di avere interesse a vedere, mentre la sua intelligenza faceva scarsi progressi, ma la sua vanità non ne faceva di più». Due secoli più tardi ripensa con lucidità a Rousseau il più grande antropologo ed etnologo del Novecento, il francese Claude Lévi-Strauss, maestro del movimento che verso gli anni Cinquanta si incomincia a chiamare strutturalismo, teoria complessa che cambia il modo di studiare la storia, la società, la filosofia, la letteratura, l’arte, muovendo dall’individuazione di strutture fondamentali del pensiero umano. Fra le sue opere principali: Tristi tropici (1955), Antropologia strutturale (1958), Il pensiero selvaggio (1962), Il crudo e il cotto (1964), e altri libri dedicati alla mitologia delle popolazioni indigene dell’Amazzonia.
Claude Lévi-Strauss (1908-2009)
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955) Il Brasile e l’America del Sud non significavano gran cosa per me. Tuttavia, rivedo ancora, con la più grande chiarezza, le immagini che questa proposta improvvisa mi fece subito sorgere. I paesi esotici mi apparivano come gli opposti dei nostri; il termine «antipodi» trovava nel mio pensiero un senso più ricco e più ingenuo del suo contenuto letterale… Il Brasile si configurava nella mia immaginazione sotto forma di fasci di palmizi contorti, dissimulanti bizzarre architetture, il tutto intriso di un aroma di bruciaprofumi, particolare olfattivo, questo, che, più d’ogni altra esperienza successiva, spiega come ancora oggi io pensi al Brasile come a un profumo bruciato.
Non c’è prospettiva più esaltante per l’etnologo che quella di essere il primo bianco a penetrare in una comunità indigena. […] Avrei rivissuto dunque l’esperienza degli antichi esploratori, e, attraverso di essa, quel momento cruciale del pensiero moderno in cui, grazie alle grandi scoperte, una umanità che si credeva completa e perfezionata riceve all’improvviso, come una contro-rivelazione, l’annunzio che non era l’unica, che era soltanto una parte di un più vasto sistema e che, per conoscersi, doveva prima contemplare la sua irriconoscibile immagine in quello specchio una particella del quale, dimenticata per secoli, stava per dare a me solo il suo primo ed ultimo riflesso. Questo entusiasmo è ancora possibile nel XX secolo? Per poco conosciuti che fossero gli Indiani del Pimenta Bueno, non potevo aspettarmi da essi l’impressione provata dai grandi autori: Léry, Staden, Thevet che, 400 anni or sono, posero il piede sul territorio brasiliano. Ciò che essi videro allora, i nostri occhi non lo vedranno mai più. Le civiltà che studiarono per primi si erano sviluppate in direzioni diverse dalle nostre e non avevano raggiunto la pienezza né la perfezione compatibili con la loro natura, mentre le società che noi possiamo studiare oggi – nelle condizioni che sarebbe illusorio confrontare con quelle di quattro secoli fa – non sono più che corpi indeboliti e forme mutilate. Malgrado le enormi distanze e ogni genere di intermediari (di una bizzarria spesso sconcertante quando si arriva a ricostruirne la catena) esse sono state annientate da quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale; questa non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo le ha dato un secondo volto, non meno vero e indelebile dell’altro. (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Questi indiani, che si autodesignano col nome di Mundé, non erano mai stati menzionati in tutta la letteratura etnografica. […] Ho passato presso di loro una piacevole settimana, e raramente ospiti si sono dimostrati più semplici, più pazienti e più cordiali. Mi facevano ammirare i loro giardini dove crescevano il mais, la manioca, la patata dolce, l’arachide, il tabacco, la zucca e diverse specie di fave e di fagioli. Dissodando la terra, essi hanno cura di rispettare il ceppo delle palme dove prolificano grosse larve bianche di cui sono ghiotti: strana confusione fra l’agricoltura e l’allevamento. Nell’interno delle capanne rotonde filtrava attraverso gli interstizi la luce diffusa, pagliettata dal sole. […] Eppure, questa avventura cominciata nell’entusiasmo mi lasciava una impressione di vuoto. Avevo voluto andare fino all’estremo limite della vita selvaggia: non ero dunque soddisfatto, ormai giunto fra questi benevoli indigeni che nessuno aveva mai visto prima di me e che nessuno, forse, vedrà dopo? Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma, ahimé, essi lo erano troppo. Solo all’ultimo momento mi si era rivelata la loro esistenza e mi era quindi mancato il tempo per conoscerli. Le limitate risorse di cui disponevo, il deperimento fisico in cui ci trovavamo i miei compagni ed io - e che le febbri conseguenti alle piogge avrebbero ancora aggravato - non mi permettevano che una osservazione superficiale quando sarebbero stati necessari mesi di studio. Essi erano là, pronti ad insegnarmi i loro costumi e le loro credenze e io non conoscevo la loro lingua. Vicini a me come un’immagine in uno specchio, potevo toccarli ma non potevo comprenderli. Ricevevo nello stesso tempo la mia ricompensa e il mio castigo. Poiché non era forse colpa mia e della mia professione ritenere che gli uomini differiscano tra loro? Che alcuni meritino più interesse e più attenzione perché il colore della loro pelle e i loro costumi ci stupiscono? (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Indigeno brasiliano (Nambikwara), 1920-30
L’antropologia culturale mette in luce come l’Altro, l’estraneo rispetto alla propria identità d’appartenenza, non debba essere guardato né come un nemico da combattere, né come un “diverso” da riconoscere solo simile a noi. L’Altro dev’essere inserito in una visione collettiva dell’esistenza globale, basata sulla coesistenza delle diversità. C’è una frase, nella pagina di Tristi tropici appena letta, in cui Lévi-Strauss tocca il cuore del problema, e nel contempo ammette implicitamente la derivazione del suo pensiero dalla nostalgia del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau: la stessa etnologia è per lui «nello stesso tempo la ricompensa e il castigo», proprio per il fatto che il pensiero occidentale ritiene che «gli uomini differiscano tra loro», e che «alcuni meritano più interesse e più attenzione perché il colore della loro pelle e i loro costumi ci stupiscono». L’antropologo risale i fiumi del Mato Grosso alla ricerca dell’ultima tribù in un mondo ancora inesplorato, ma rimane deluso nel trovarla meno “diversa” di quanto si aspettasse, non così radicalmente “altra” rispetto al mondo civilizzato. Di fatto siamo Noi europei, Noi occidentali, i “diversi” nei confronti degli Altri, proprio perché negli ultimi secoli, almeno a partire Settecento, abbiamo dato vita a una scienza delle diversità, che chiamiamo scienza dell’uomo, antropologia. La complessa, dapprima nostalgica e poi più consapevole riflessione intorno al rapporto fra “Noi e gli Altri” è una delle basi della civiltà moderna in Occidente.
Italo Calvino, negli anni trascorsi in Francia, lesse Lévi-Strauss, e senza citarlo direttamente si riferì in particolare a Tristi tropici, quando dichiarò in un’intervista, chiamando in causa la letteratura insieme all’antropologia culturale: «Io credo che il mondo esista indipendentemente dall'uomo; il mondo esisteva prima dell'uomo ed esisterà dopo, e il mondo è solo un'occasione che l'uomo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso. Quindi la letteratura è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo, ma in qualche modo non inutile». (I. Calvino, Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie)
Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenere il suo ruolo. […] Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco […] l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione. Senza dubbio ha costruito città e coltivato campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse quella di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia. […] Eppure, io esisto. Non certo come individuo […]. L’IO non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un “noi” e un “nulla”. E se finalmente scelgo questo “noi”, benché sia ridotto a un’apparenza, è perché, a meno di non distruggermi […] non ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla. (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Un grande slancio umanistico, che possiamo ancora una volta, per ammissione dello stesso Lévi-Strauss, scaturisce dalle meditazioni che Jean-Jacques Rousseau incominciò a svolgere sull’antropologia alla fine del Settecento, si riverbera nell’intensa e leggera, ironica pagina conclusiva di Tristi tropici, pubblicato nel 1955: Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste -addio selvaggi! Addio viaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta di interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto. (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955)
Un nuovo umanesimo si cela nella scelta del Noi invece dell’Io, e poi nell’ironica, tenera e sorniona «strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto», su cui nel 1955 si chiude Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss. Lo scrittore italiano Italo Calvino (1923-1985), che vive a Parigi fra 1967 e 1980, in stretto rapporto con numerosi intellettuali francesi (probabilmente anche Lévi-Strauss), nelle ultime parole delle Lezioni americane (pubblicate postume nel 1988, ma composte negli ultimi mesi di vita, nel 1985), sembra muoversi in una prospettiva non lontana da questo nuovo umanesimo senza antropocentrismo, che lo strutturalismo ha avviato, e compie un passo verso una parola restituita alla Natura. Così apre l’ultima pagina dell’ultima lezione che riuscì a scrivere, Molteplicità: «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero i nprimavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica… Non era forse questo il punto d’arrivo a ci tendeva Ovidio nel raccontare la conti uità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?».
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