LA SCISSIONE DI VOX ITALIA di - Sandokan - sollevazione
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LA SCISSIONE DI VOX ITALIA di Sandokan A poco più di un anno e mezzo dalla sua comparsa, VOX ITALIA ha subito una spaccatura in due gruppi. Il primo, che mantiene lo stesso nome, capeggiato da Giuseppe Sottile e Marco Mori. Il secondo, capeggiato da Diego Fusaro e Francesco Toscano, ha deciso di chiamarsi ANCORA ITALIA. Perché è accaduta questa scissione? Non sono in grado, né di smentire né di confermare le diverse illazioni, che spesso sfociano nel pettegolezzo. Voglio credere a quanto affermano i protagonisti nelle loro dichiarazioni. Il primo gruppo (Sottile-Mori), imputa al secondo gruppo (Fusaro-Toscano) di non agire per l’unità, di essere chiuso in una bolla autoreferenziale, di lavorare sui tempi lunghi, avere una visione culturalista e paralizzante del partito. Cosa dunque propone questo primo gruppo? Sottolineata l’urgenza dell’unità dei diversi raggruppamenti “sovranisti” , posto che l’asse della battaglia è l’uscita dalla Ue,
considerato di vita o di morte l’appuntamento delle elezioni parlamentari del 2023, sostiene che occorre unirsi a “ITALEXIT CON PARAGONE”, visto che il gruppo di Paragone è il solo che, data la sua visibilità mediatica, ha chance di successo. Il secondo gruppo respinge l’accusa di settarismo visto che anch’esso avanza l’esigenza di unire la forze ma… Dopo un anno di terrorismo pandemico e di stato d’emergenza e dopo la defenestrazione di Trump, siamo entrati in un nuovo periodo politico per cui non basta limitarsi a invocare l’Italexit, ma occorre mettere al centro sia la battaglia contro il “regime sanitario” sia quella per l’uscita dalla NATO. Dato che Paragone glissa sulla battaglia contro lo stato d’emergenza e la narrazione terroristica e, peggio ancora, considera l’atlantismo il campo geopolitico in cui si dovrebbe restare, questo secondo gruppo respinge ogni unificazione con “ITALEXIT CON PARAGONE”. Posto che la mia chiave di lettura sia giusta, mi pare evidente che il gruppo di Fusaro-Toscano abbia ragione nella sostanza, mentre quello di Sottile-Mori abbia torto e, se mi è concesso, torto marcio. Condivido la tesi che giunti al punto in cui siamo, fondare l’unità o addirittura un partito solo sull’italexit non solo è insufficiente, è sbagliato e conduce ad una sconfitta certa. Quando i poteri forti ci dicono che dopo il Covid “nulla sarà più come prima”, quando essi evocano il “grande reset”; essi non scherzano. Per come la vedo io se ne debbono tirare due conseguenze. Prima conseguenza: occorre sì un partito politico, ma data la nuova drammatica situazione non può più essere di “scopo” (ovvero tutti dentro basta essere d’accordo con l’Italexit) ma deve fondarsi su una visione strategica e su un progetto di alternativa di società. Seconda conseguenza: occorre sì un fronte unico ma, anche qui, non può essere solo basato sull’obbiettivo dell’uscita; la piattaforma dell’eventuale fronte unico deve accogliere le istanze delle categorie sociali gettate sul lastrico (i nuovi “eslcusi”) e
quelle dei pezzi di società civile che in questo anno di Covid si sono battuti per difendere i diritti costituzionali di libertà (bollati dal regime come “negazionisti”). La metto giù così: il gruppo Sottile-Mori va con Paragone perché è affetto da quella sindrome che una volta si chiamava “cretinismo parlamentare” o elettoralismo. Si mettono da parte visioni e divergenze pur di avere un successo elettorale. Di qui l’idea che tutto dipenda dalla “comunicazione”, dalla visibilità mediatica — la comunicazione pirotecnica prima della identità politica e di una seria visione strategica. C’è poi qualcuno che ha già fatto l’esperienza di un avvicinamento a Paragone, parlo di Liberiamo l’Italia. Coloro che oggi vanno a spiaggiarsi farebbero bene a leggere come andò a finire quel tentativo di unificazione. A sentire Sottile-Mori, Paragone avrebbe capito la lezione, avrebbe rinunciato al suo delirio di onnipotenza e avrebbe capito che da solo non va da nessuna parte e quindi adesso sarebbe disposto a unificare le forze. Fosse vero, sarebbe una bella notizia. Per ora tuttavia è solo l’auspicio con cui essi giustificano la loro manovra. Staremo a vedere. In questo quadro mi pare importante cosa dica e anzitutto faccia Liberiamo l’Italia. Segnalo il comunicato del 24 febbraio QUESTO E’ IL MOMENTO, in cui, date le numerose consonanze in quanto ad analisi e proposte, si annuncia l’avvio di un confronto serrato con il gruppo di Fusaro e Toscano, confronto che possa fare da apripista ad un più ampio e inclusivo processo costituente per dare vita ad un partito unitario del patriottismo costituzionale. Il gruppo di Fusaro e Toscano, dopo il convegno del 27 febbraio scorso, celebrerà un primo congresso d’organizzazione il 2 e il 3 aprile. Vedremo che verrà fuori. Qualcuno ora mi chiederà: e in tutto questo dove sta il Fronte Sovranista Italiano di Stefano D’Andrea? Guarda caso anche questo gruppo celebra il suo congresso domani e dopodomani (27
e 28 marzo). Sempre stando a quel che ci dice Liberiamo l’Italia il FSI ha respinto la proposta di far parte di un processo d’unificazione. La cosa non mi stupisce. Mi dicono tuttavia che proprio in vista del congresso si sono manifestate voci interne di dissenso rispetto alla tradizionale linea isolazionista. Vada come vada, di una cosa si può stare certi: un anno di Covid e di stato d’emergenza non hanno solo sconvolto il quadro sociale e il perimetro politico sistemico (vedi il governo Draghi), stanno terremotando il campo occupato dai “sovranisti”. E’ in atto un assestamento. Fra qualche mese vedremo cosa verrà fuori. 12 OTTOBRE: I GUFI MASTICANO AMARO [ martedì 15 ottobre 2019 ] Stefano D’Andrea, presidente del FSI non si smentisce mai. In Italia si svolge la prima manifestazione di piazza per l’Italexit, e lui cosa fa? Ovviamente l’attacca. Fin qui nulla di male, l’uomo e lo stile sono quelli. Però a tutto c’è, o ci dovrebbe essere, un limite.
Evidentemente il D’Andrea mastica amaro. Prima ha provato (in compagnia di quattro rancorosi che si sono spinti fino all’infamia) a sabotare la manifestazione dicendo che sarebbe fallita; poi, di fronte all’evidente successo, si inventa che noi saremmo i sovranisti dell’«io», mentre lui rappresenterebbe il «noi». E qui siamo alle comiche. Alla manifestazione hanno aderito 33 (trentatre) associazioni (incluse quelle da lui citate), ma mancando per sua scelta il suo Fsi noi saremmo quelli dell’«io»… D’Andrea conosce bene i promotori della manifestazione. E sa benissimo che essi sono tutti per il «noi», cioè per l’organizzazione cosciente dei patrioti costituzionali. Ma, a differenza della sua cronica autoreferenzialità, i promotori del 12 ottobre hanno voluto allargare il campo della partecipazione, raccogliere molteplici spinte. In una parola, hanno teso ad unire anziché dividere. E, piccolo particolare, ci sono riusciti. Riflettere su questo dato forse non sarebbe male. Sta di fatto che la prima manifestazione di piazza per l’Italexit si è tenuta e ad essa il D’Andrea non c’era. * * * Ecco cosa scrive il D’Andrea nel suo delirio… «Noi abbiamo impiegato 7 anni a mettere assieme quasi 1000 persone con due o tremila simpatizzanti. E l’entusiasmo degli iscritti cresce continuamente e da tre anni non va via nessuno che si sia impegnato. La disciplina è massima, la fede alta, la contentezza di stare in questo partito generale. Ebbene a un certo punto gente che non ha costruito nulla che ha fallito quasi dieci volte, che le ha tentate tutte eppure non è riuscita a muoversi dal punto di partenza, organizza una manifestazione nella quale non devono esserci i simboli di partito. Ma stiamo scherzando? Vuoi far fuori gli unici che hanno dimostrato di saper fare qualche cosa? Che crescono di numero non subiscono scissioni si candidano in comuni e
regioni e almeno dimostrano di raccogliere le firme e diffondono in 300 un editoriale tutti i giorni su facebook? Perché li vuoi fare fuori? Perché del movimento non ti interessa niente. Cerchi quel ruolo che la storia ha dimostrato non devi avere. Dico vuoi non per riferirmi a te ma a chi ha organizzato la manifestazione. Non c’è processo aggregativo che non sia anche non processo di selezione. Far fuori e toglierci dalle balle quelli che hanno fallito più volte è vitale. Adesso speriamo che Vox si consolidi (non sono certo che riuscirà ma mi auguro di si). Poi noi e vox organizzeremo una manifestazione nella quale tutti dovranno avere un simbolo di partito o associativo. Gli individui individualisti, gente che non sta con noi non sta con vox non sta con altra direzione non sta con senso comune perché chi sa chi credono di essere, anche se non ne hanno mai azzeccata una, hanno rotto le balle. Il problema sono loro ma ancora per poco, uno o due anni al massimo. Stefano D’Andrea» … e la risposta di un nostro compagno Stefano D’Andrea ci sono nel tuo post tante inesattezze quante sono le righe. Per cominciare parli come se la tua organizzazione fosse una azienda che deve conquistare quote di mercato, con un proprio marketing e un logo da estendere. Con te stesso come amministratore delegato, presidente, ragioniere e contabile. Noi contro loro, noi contro tutti. Voi i migliori, gli illuminati, i più disciplinati, gioiosa armata alla conquista del mondo, loro i falliti, quelli che non riescono a muoversi dal punto di partenza. Una filosofia politica che puzza di competizionismo e neoliberalismo da ogni poro. Poi però scopriamo che “i falliti” portano 3.000 persone in
piazza sotto una unica bandiera quella della indipendenza e sovranità popolare. Allora tanto falliti non sono. In un soprassalto di narcisismo passi ad identificarti con la Storia, il supremo giudice che caccerà i reprobi (gli organizzatori del 12 ottobre che non devono avere nessun posto nella storia) e metterà al loro posto i valorosi dell’FSI, i quali a passo di lumaca si faranno spazio tra le folle conquistando il mondo! Alla fine dal narcisismo, con scatto felino e volo pindarico, passi addirittura alle minacce, alla caccia all’untore, rivolgendo un accorato appello urbi et orbi “a far fuori quelli che hanno fallito” (che sono sempre quelli del 12 ottobre senza bandiere di partito). Stefano D’Andrea qui forse ci vuole un bravo terapista, perché stiamo andando oltre i confini del politico, in una terra dove primeggiano quelle che Spinoza chiamava passioni tristi, l’odio, il senso di rivalsa, la competizione, etc, che non a caso sono il concime, ma sarebbe meglio dire il letame del neoliberismo. Dulcis in fundo concludi con una delle tue solite perle : “Far fuori e toglierci dalle balle quelli che hanno fallito più volte è vitale”. Gli individui individualisti, gente che non sta con Fsi perché chi sa chi credono di essere, anche se non ne hanno mai azzeccata una, hanno rotto le balle. Il problema sono loro ma ancora per poco, uno o due anni al massimo”. Qui l’aria diventa quasi irrespirabile e si sente tanfo di squadrismo ideologico. Se non fai parte di qualche setta sovranista, che non siano quelle gradite al “Guru” non sei nessuno. E se sei fuori da queste, hai un tempo di vita brevissimo! Tocchiamoci gli zibidei mi verrebbe da dire. Faccio un accorato appello personale a tutti i militanti del Fronte Sovranista: costruiamo insieme un fronte unitario per la liberazione nazionale e date un po’ di calmanti al vostro “leader maximo”. Se questi non bastano trovate un bravo terapista!
Mauro Pasquinelli FRONTE SOVRANISTA ITALIANO di Moreno Pasquinelli [ lunedì 30 settembre 2019 ] L’area che a vario titolo si definisce “sovranista” è purtroppo divisa e litigiosa. Noi, che di tentativi unitari ne abbiamo fatti diversi, ne sappiamo qualcosa. Ora è il momento della polemica tra Francesco Amodeo e Diego Fusaro da una parte, e Stefano D’Andrea del Fronte Sovranista Italiano (FSI) dall’altra. Fusaro e Amodeo criticano il FSI di avere una visione settaria ed eliocentrica dell’area “sovranista”. Stefano D’Andrea, nella sua farraginosa risposta ai due, conferma questa pretesa, suggellata dal recente rifiuto di aderire alla manifestazione del 12 ottobre LIBERIAMO L’ITALIA, motivo apparente che non si potranno esporre bandiere di partito. Sbaglia chi pensa che sia la polemica teorico-politica la causa della divisione. Il confronto ed anche lo scontro, quando si hanno idee e concezioni diverse, è inevitabile e, ove esso sia condotto con onestà intellettuale, utile a
mettere a fuoco per eventualmente superare le stesse divisioni. Ciò che pregiudica l’auspicabile unità contro il comune nemico sono semmai le critiche pretestuose e prive di sostanza. E’ con questo spirito che torniamo a dare un giudizio sul FSI. Decideranno i lettori se si tratta di critiche legittime o infondate. Ontogenesi del FSI Stefano D’Andrea (d’ora in avanti SD’A) iniziò la sua carriera politica nell’autunno 2011, grazie all’oramai storica assemblea “Fuori dal debito! Fuori dall’euro“, svoltasi a Chianciano Terme il 22 e 23 ottobre 2011. La stessa assemblea in cui Alberto Bagnai si affacciò nel piccolo (allora) mondo no-euro. Conoscemmo D’Andrea nell’agosto di quell’anno quando era già noto il testo che convocava l’assemblea. Accettammo volentieri di farlo salire a bordo. Il momento di alta tensione che si viveva in quelle settimane (nel novembre 2011 avvenne il golpe bianco da cui nascerà il governo Monti), nonché il successo dell’assemblea ci spinse a lanciare nel novembre successivo SALVIAMO L’ITALIA – appello al popolo lavoratore, manifesto da cui nacque il Movimento Popolare di Liberazione. SD’A era tra i promotori. Le strade con SD’A, solo dopo un paio di mesi di cooperazione (novembre 2011), si divisero. Sarà utile segnalare quali furono punti di dissenso tra noi e lui, poiché proprio in quella diatriba Sd’A precisò il suo pensiero e getto le premesse di quello che poi sarà il FSI. Tutto si può dire infatti di Sd’A meno che egli non sia un tipo pervicace, di una coerenza che tracima in ostinazione. Sia chiaro, in tempi come questi, con voltagabbana da ogni lato, meglio essere testardi che quaquaraqua. L’ostinazione tuttavia, se non è temperata da spirito autocritico e senso di misura, può tracimare in un’arroganza autocefala.
Lanciato assieme l’Appello (seconda settimana di novembre) si decise di elaborare un vero e proprio Manifesto per il Movimento Popolare di Liberazione. Con nostra grande sorpresa Sd’A si mise di traverso rimettendo in discussione punti che sembravano assodati: (1) Sd’A si oppose, già nel titolo dell’appello ad usare la locuzione “popolo lavoratore”. Per Sd’A la locuzione era “divisiva”. Secondo lui, occorreva un “Fronte patriottico antiglobalista”, per rivolgersi indistintamente a ricchi e poveri, oppressi e oppressori, inclusi ed esclusi, bastava che fossero italiani. Del tutto inutile fu dirgli che stavamo fondando un nuovo movimento politico, non un fronte unito, che quindi bisognava distinguersi non solo da certa sinistra ma pure dalle destre populiste; che per noi rivolgersi al popolo lavoratore significava parlare alla maggioranza che davvero subiva il regime d’oppressione euro-liberista; che quel suo rifiuto implicava infine una rimozione del concetto di lotta di classe. (2) Sd’A respinse l’utilizzazione sia dell’idea di “rivoluzione democratica” che di quella di “sollevazione popolare”. Per la precisione: «Io, oggi, non ho alcuna intenzione di sprecare un briciolo del mio tempo per promuovere una sollevazione popolare». Per lo Sd’A ogni appello alla mobilitazione diretta del popolo era un pericoloso sovversivismo. Per lui si doveva uscire dalla gabbia euro-oligarchica seguendo una strategia gradualista e parlamentare.
(3) Sd’A si oppose infine con estrema durezza — ricordiamo che stiamo parlando del Manifesto fondativo di un nuovo soggetto politico — anche solo di evocare la parola “socialismo”. Ogni prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo era aborrita: ci si doveva limitare a riconquistare la sovranità nazionale, punto e basta. Il nostro condiva infine il suo discorso con una stucchevole e mitologica nostalgia della “prima Repubblica”. Inutile fu rammentargli quanto Gramsci scriveva sulla necessità che le classi subalterne dovessero diventare dirigenti della nazione, o che la sua “prima Repubblica”, fino a quando le masse popolari non irruppero sulla scena negli anni ’60, essa fu per loro un inferno di ingiustizia. Chi conosce il FSI può facilmente capire come buona parte del suo attuale patrimonio genetico era scritto in quanto Sd’A sostenne allora. La pretesa “dottrina” sovranista Ebbene, nella sua replica a Fusaro e Amodeo lo Sd’A la fa lunga ma il succo è che rivendica con orgoglio il suo modus essendi e operandi settario, precisando altresì che FSI è deciso ad andare avanti da solo e che non gli interessa né conquistare l’egemonia nel campo patriottico, né tantomeno fare alleanze con altri gruppi sovranisti, al massimo solo “collaborazioni” in vista di scadenze elettorali — torneremo su questa storia delle elezioni visto che per il nostro sono una vera e propria ossessione paranoica. Come se non bastasse lo Sd’A sale in cattedra dispensando con sicumera voti a destra e a manca (non senza, ancora una volta, tirando in ballo anche noi) su chi è più bravo e ovviamente per confermare che FSI ce l’avrebbe più lungo. Beninteso il nostro dice anche cose condivisibili, quali la sua insistenza sulla necessità di un partito ben strutturato, di militanti preparati e disciplinati, di uomini e donne che sfuggano alle patologie narcisistiche e individualistiche
della post-modernità. La domanda però è: di che partito lo Sd’A sta parlando? Quale la sua natura? Quale la sua visione del mondo? Quale la sua teoria politica? Quale il suo programma? In otto lunghe pagine egli si guarda bene dal dircelo. Vittima della tipica deformazione professionale del giurista per il nostro le regole sono tutto, di qui il suo puntiglioso formalismo. Di che partito sia il FSI il nostro ce lo dice da un’altra parte, alfa e omega sarebbe il “sovranismo”: «Il sovranismo è una dottrina che, recuperando il meglio delle istanze provenienti da quei sei fattori culturali, intende eliminare il principio di concorrenza e ri-costituire un equilibrio, se non armonico, almeno stabile e giusto, tra la libera iniziativa privata e gli altri valori che furono difesi dai sei fenomeni culturali segnalati». Quali siano questi sei fattori culturali Sd’A, tenetevi forte, lo spiegava poco più avanti: «liberalismo, religione, socialismo, nazionalismo, riformismo socialdemocratico e keynesismo». Come possa venir fuori una “dottrina” da questo minestrone sconclusionato solo Dio lo sa. Sta di fatto che Sd’A ha plasmato un bizzarro animale a sei teste, che solo lui può immaginare guardino nella stessa direzione. Ma è chiara l’illusione: un partito “sovranista” piglia-tutto. Il nostro propone di “Recuperare il meglio” guardandosi bene dal dirci in cosa questo “meglio consista”. Detto che il “comunismo” — en passant, il movimento politico di massa più grande della storia umana — non è nella lista: di quale
liberalismo si parla? Di quale socialismo? Di quale keynesismo? Di quale religione? E di quale nazionalismo — anche quello fascista e/o imperialista? Il succo di questo guazzabuglio tra diavoli e acque sante sarebbe “l’eliminazione del principio di concorrenza e l’equilibrio tra la libera iniziativa privata e i valori che furono difesi dai sui fenomeni culturali segnalati”. Un po’ poco, con tutta evidenza, per parlare di “dottrina”, tant’è che la “cosa” che potrebbe mettere d’accordo stalinisti, socialdemocratici, fanfaniani e financo i fascisti. Sintomatico come i militanti del FSI la facciamo semplice e interpretino questa “dottrina” a geometria variabile. Sentiamone uno. “Sovranismo” sarebbe: «… il primato dello stato sul privato, la proprietà pubblica dei servizi strategici, la pianificazione economica orientata all’utilità sociale, i diritti del lavoro, lo stato sociale». Quindi un altro: «Il sovranismo è l’istanza di riconquista della sovranità da parte del popolo e dello stato ricollocando la Costituzione del ’48 al vertice dell’ordinamento giuridico». La diamo per buona ma… Forse che solo il FSI difende questi principi? Ovvio che no. Essi sono anzi oggi difesi dalle diverse correnti ideologiche del “sovranismo”. Ciò per dire che questi principi sono abbastanza affinché queste correnti
facciano fronte e si alleino contro il nemico comune, del tutto insufficienti per fondarci sopra un partito. E prendiamo pure per buono come il FSI si autodefinisce di recente dopo anni di ambiguità: un partito socialdemocratico. La montagna ha partorito il topolino. Plutonismo versus Nettunismo E qui veniamo ad una delle stramberie del FSI: come spiega Sd’A nella sua risposta a Fusaro e Amodeo: “collaborazione sì, alleanza no”. Il nostro tenta di spiegare dove sia la differenza, e la risposta rassomiglia come una goccia d’acqua il patetico mantra grillino (“accordi sì alleanze no”), per non dire che l’insopportabile spocchia di considerarsi i “veri sovranisti” riporta alla mente quella del Marchese del Grillo: “Io so io, e voi non siete un cazzo”. Questa chiusura del Fronte Sovranista Italiano al fronte dei sovranisti italiani risiede in un argomento ben preciso, che Sd’A scolpisce con nettezza nella sua risposta: «la prospettiva della liberazione e dell’indipendenza dell’Italia” è un obiettivo lontano; ci troveremmo ad agire come i patrioti nel 1816 e nel 1821 o nel 1831 o nel 1849, non nel 1860″. L’analogia, com’è evidente, è tra la lotta d’indipendenza e quella odierna per uscire dalla Ue. Sorvoliamo sulla grottesca lotteria delle date — fa differenza e come! essere 45, 30 o 12 anni dalla meta. Per Sd’A i tempi dell’uscita sono lunghi, anzi lunghissimi. E siccome non c’è urgenza (vallo a dire al popolo lavoratore che pena e soffoca sotto la cappa dell’ordoliberismo!), si proceda con la propaganda apostolare a scopi di proseltismo. Su quali basi egli fondi questa sua granitica convinzione a noi non è mai stato chiaro. Forse l’avrà spiegato ai suoi
in camera caritatis. Sbaglieremo ma a noi pare che Sd’A, invece di attrezzare l’organizzazione ai tempi ed alle dinamiche storico-sociali reali compia l’operazione inversa, quella di coartare i processi sociali e politici oggettivi ai tempi necessari al FSI per diventare il partito egemone della nazione. Dietro ad un’apparente saggezza siamo all’apoteosi del soggettivismo. Per chi scrive, ed è in buona compagnia, questa Unione europea ha invece fondamenta fragili, è un condensato di irresolubili contraddizioni, e non sopravviverà ad un’altro scossone come quello del 2010-11. Anche ammesso che la Ue fosse in grado di resistere ad una nuova grande recessione (con inevitabile esplosione finanziaria), non ne uscirà a 28 ma perderà diversi pezzi, e tra questi pezzi c’è il nostro Paese. Dei “sovranisti” con i piedi per terra dovrebbero quindi attrezzarsi alla rottura prossima dell’Unione — di qui la necessità di un fronte patriottico comune o nuovo CLN — onde evitare che l’uscita sia pilotata dalle destre liberiste. La questione ci riporta all’idiosincrasia di cui sopra dello Sd’A all’idea della “sollevazione popolare”. Dietro c’è, a ben vedere, una concezione della storia. Il nostro è agli antipodi della visione marxiana per cui le rivoluzioni sono il motore della storia, ed è prigioniero di una visione darwiniana dell’evoluzione storica, per cui essa procede per passaggi lenti, graduali e progressivi. Tesi, corre l’obbligo di notare, contestata dai sostenitori della “evoluzione punteggiata”, per cui le modificazioni avvengono di colpo, in seguito a catastrofi e radicali modificazioni ambientali. Stessa musica tra i geologi, divisi tra plutonisti che parlano di cambiamenti graduali del pianeta e nettunisti, che sostengono, al contrario, che la Terra sia cambiata anzitutto a causa di eventi singoli cataclismatici. Sia come sia non ci sarà alcuna uscita indolore dall’Unione europea: essa sarà il frutto o di un suo multilaterale e doloroso collasso geopolitico o di una rottura unilaterale non meno devastante. Nella sua risposta Sd’A ripete almeno venti volte (come del resto aveva sempre ribadito) che l’asse della strategia del
FSI è quello elettorale. La capacità egemonica di un partito si misura per il nostro dai voti che prende. Dai voti che ottiene si misurano la sua forza, il suo valore, la credibilità. Ed in effetti, quando Sd’A si vanta delle “mille azioni” compiute dal FSI intende non azioni di lotta popolare basate sul protagonismo dei cittadini, bensì esclusivamente banchetti, rinfreschi, raccolte di firme per presentare le sue liste, ovviamente comizi dove queste liste è riusciti a presentarle. L’essere riusciti a presentarsi in qualche elezione alimenta la sua iattanza. Siccome ci si dice che le elezioni sarebbero il parametro fondamentale della strategia di un partito “sovranista, si è obbligati ad andare a vedere come sta messo davvero il FSI. Con la lista “Riconquistare l’Italia”, il FSI si presenta per la prima volta in elezioni importanti alle regionali del Lazio del 4 marzo 2018. Benché presente in tutte le provincie il risultato è disastroso. Risultato: il candidato presidente (Stefano Rosati) ottiene lo 0,16% arrivando 9° su nove candidati, mentre la lista, con lo 0,10% arriva 19° su 19. Il 22 ottobre 2018 è la volta della provincia di Trento, nell’ambito delle elezioni regionali del Trentino. In questa provincia il risultato è simile a quello del Lazio. Sia la lista che il candidato presidente (Federico Monegaglia) ottengono lo 0,10%. Risultato: il candidato è 11° su 11, la lista 22° su 22. Il 10 febbraio 2019 si tengono le tante volte annunciate annunciate come la prova del nove dallo Sd’A, elezioni regionali in Abruzzo. Le truppe del FSI risultano disperse
nella Marsica, nessuna lista. Il 26 maggio si vota per le regionali a Pescara, città dove l’FSI ha forse il gruppo più numeroso e agguerrito. Ebbene qui c’è il “boom” di Riconquistare l’Italia: i candidato sindaco, Gianluca Baldini, arriva 7° su 8 (0,77%). La lista è 16° su 17 (0,67%). Ora è la volta delle regionali in Umbria, dove, a meno dell’intervento della Divina Provvidenza, la musica non sarà diversa. Come potrebbe del resto andare diversamente quando in quella regione si getta avventuristicamente nella mischia un numero talmente esiguo di militanti che al massimo potrebbero presentare una lista in un comune diecimila abitanti? Di questo passo, ad andar bene, ammettendo una progressione aritmetica, il FSI ci metterà dagli ottanta ai cento anni per diventare egemone, salire al potere e “far uscire l’Italia dalla Ue per recesso”. Sd’A dovrebbe quindi rifare i conti, poiché non saremmo “nel 1816 e nel 1821 o nel 1831 o nel 1849″, ma a prima della Rivoluzione francese. Non ce ne vorranno gli amici del FSI ma la cosa ci fa venire in mente il noto aforisma di Keynes: “Sul lungo periodo saremo tutti morti”, FSI compreso. Per chi ne voglia sapere di più qui gli articoli in cui, negli anni, abbiamo parlato dell’ARS e del FSI: SOVRANISMI (DI SINISTRA, DI DESTRA… E DI CENTRO) di Moreno Pasquinelli A QUELLI CHE I DIRITTI CIVILI… NO di Moreno Pasquinelli ASSOCIAZIONE RICONQUISTARE LA SOVRANITÀ di Moreno Pasquinelli SOVRANISMO SÌ, MA NON IN SALSA FASCISTA di Fiorenzo Fraioli DIRITTI CIVILI: LA SITUAZIONE È TRAGICA MA NON È SERIA di Moreno Pasquinelli COME NON-ALLEARE I “SOVRANISTI” di Moreno Pasquinelli
COME NON-ALLEARE I “SOVRANISTI” di Moreno Pasquinelli [ 15 luglio 2017 ] Il 29 giugno scorso SOLLEVAZIONE pubblicava un intervento di Stefano D’Andrea dal titolo Quale alleanza dei sovranisti? Il giorno dopo gli rispondeva Ernesto Pertini: Perché allearsi ora. Diamo adesso la parola a Moreno Pasquinelli. Se Stefano D’Andrea si è sentito in obbligo di precisare il suo pensiero sul tema dell’alleanza dei cosiddetti “sovranisti” dev’essere perché anche lui avverte che in giro, tra le migliaia e migliaia di cittadini che in questi anni si sono “risvegliati” —che hanno preso coscienza sulle cause della tragedia storica che incombe sul nostro Paese—, una delle ragioni che impediscono a questi “risvegliati” (prendo in prestito questo concetto dall’amico Sandro Arcais) di scegliere l’impegno politico, è appunto la divisione gruppuscolare che esiste tra i “sovranisti”. Questo sparpagliamento, se per alcuni è in effetti un alibi per stare alla finestra e trastullarsi nell’universo virtuale internettaro (il quale per sua stessa struttura favorisce l’atomizzazione individualistica), per molti è invece un fattore di quiescenza. Sì, noi non abbiamo alcun dubbio: se solo le formazioni “sovraniste” fossero in grado di fare fronte, di costruire una casa comune, migliaia di cittadini uscirebbero dai rifugi in cui si sentono protetti ma nei quali invece il sistema li
vuole reclusi. E’ questa convinzione, tra gli altri fattori, che ci ha spinto a dare vita alla Confederazione per la Liberazione nazionale. Una Confederazione che non vuole essere uno sgangherato ed estemporaneo coordinamento. Noi riteniamo che in questa fase politica, e questo ci distingue dal D’Andrea, il soggetto politico che può essere realisticamente costruito non sarà un Partito con la P maiuscola, con la forma assunta nel secolo scorso. In un secolo attraversato dalla guerra civile mondiale, in un mondo segnato dalla opposizione tra i due campi contrapposti del capitalismo e del socialismo, quindi tra classi sociali antagoniste, i Partiti erano quindi obbligati a considerarsi strumenti di una delle due classi sociali fondamentali, e data l’irruzione del marxismo ad avere una visione del mondo. Sara facile convenire che dato l’esaurimento della spinta eversiva del proletariato occidentale, crollato il “campo socialista”, dispiegata la vittoria campale del capitalismo nella sua variante neoliberista, data la proliferazione nel campo antagonista di movimenti, soggettività, correnti culturali le più disparate, siamo entrati in una fase storica nuova. Dal che noi desumiamo che va ripensata la stessa forma- partito. In concreto questo che significa? Significa che ogni tentativo di rifondare partiti alla vecchia maniera è destinato a fallimento certo; che occorre immaginare partiti nei quali, fermi gli elementi di forte coesione interna, saranno segnati da un necessario pluralismo di idee. Saranno partiti e/o movimenti instabili? Sì, lo saranno. La loro stabilità non sarà mai un dato acquisito per sempre, sarà, per parafrasare il concetto con cui Joseph Ernest Renan descriveva la nazione: “un plebiscito di tutti i giorni”. Chi vorrà intestardirsi a rifondare i partiti nella forma classica, giocoforza, non solo non darà mai vita a partiti di massa, bensì a sette, che per tirare a campare, dovranno blindarsi dotandosi di regimi interni autoritari fondati sull’obbedienza cieca a questo o a quel capo —ciò che Gramsci chiamava “caporalismo”. Che è appunto il destino che a me pare, spero di sbagliarmi, si è scelto il Fonte Sovranista
Italiano di Stefano D’Andrea. D’Andrea si è infatti, da anni ormai, intestardito. Contesta strenuamente ogni appello all’alleanza dei “sovranisti”, non solo come scopo illusorio ma come massimamente nocivo alla causa —maligni dicono: alla causa sua propria. Non solo non raccoglie la spinta all’unità qui e ora che viene da ogni parte, la respinge come speciosa. Poi apre una fessura, concede un’eccezione. Seguiamo il suo ragionamento: «L’alleanza si fa in vista delle elezioni. Le alleanze tra partiti sono sempre alleanze elettorali o meglio pre- elettorali e poi eventualmente (ma non è il nostro caso) di governo (le alleanze delle opposizioni durano lo spazio di un mattino). Non sono mai esistite alleanze a prescindere dalle elezioni. Un’alleanza al di fuori di una scadenza elettorale è un non senso: allearsi a che fine, se non per partecipare ad elezioni?» Le alleanze sono sempre alleanze elettorali”? Ma che minchiata è mai questa? E che nella lotta sociale e politica ci sono solo le scadenze elettorali? Che forse le diverse forze partigiane si unirono nel CLN in vista delle elezioni? certo che no! Anzi essi si sciolsero proprio alle porte delle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente. Ma è solo un esempio, tra i più eclatanti. Potremmo farne qualche dozzina, per dire che sono esistite alleanze dei più svariati tipi, che di solito coalizzano forze diverse contro un nemico comune, o per sventare una mossa determinata del comune nemico. Dato che D’Andrea ha tanta nostalgia nel ‘900 sarà bene ricordargli che il terreno elettorale era allora l’esatto opposto di quel che sostiene: alle elezioni, quasi sempre, ogni partito andava col suo simbolo e non confondeva le sue insegne con quelle di altri partiti, pur se affini per ideali. E se c’era tra questo o quel partito un’alleanza sul terreno sociale, questa veniva sospesa alle porte delle elezioni. L’Italia è un caso da manuale. Non so a voi, ma al sottoscritto, la minchiata di D’Andrea rivela quello che noi, nel ‘900, avremmo denunciato come “cretinismo elettorale”. Ma seguiamo il discorso del D’Andrea. Ad un certo punto
leggiamo: «L’alleanza tra le forze sovraniste si presenterà alle elezioni nazionali del 2023. Per non restare buggerati da elezioni anticipate, conviene ipotizzare che si voti un anno prima, nel febbraio 2022. Ciò significa che tutto (simbolo e nome dell’alleanza, candidati, progetto di azione, organizzazione e comitato direttivo dell’alleanza) dovrà essere pronto (almeno) un anno prima, quindi nel febbraio del 2021: un nuovo soggetto politico ha bisogno di almeno un anno di “campagna elettorale” e non può presentarsi alle elezioni nazionali senza prima essersi fatto conoscere a sufficienza. Se le elezioni non saranno anticipate, l’alleanza sovranista potrà svolgere due anni di “campagna elettorale”. Pertanto, nel febbraio del 2020 bisognerà cominciare a costruire l’alleanza (un anno di lavoro appare necessario)». Arci-minchia! Qui il Nostro ci da i numeri per giocarceli al lotto. Con una sicumera degna di uno che si crede Napoleone, indica con precisione chirurgica non solo il momento in cui i “sovranisti” si uniranno (le elezioni del 2023), ma pure che l’alleanza (elettorale s’intende) dovrà essere pronta un anno prima. Anzi, no, nel 2020, perché potrebbero esserci elezioni anticipate nel 2022. Confesso che ho trasecolato. Al netto del cretinismo elettorale: ma come cazzo fa il D’Andrea a dare per certo che la legislatura che inizierà la primavera prossima durerà cinque anni? Come fa quindi a pronosticare che se ci saranno elezioni anticipate sarà nel 2022 e non nel 2021 o nel 2019? Nel ‘900 avremmo detto: ma D’Andrea che si fuma? Il Nostro misura tutto, com’è evidente leggendo tutto il pistolotto, attorno a se stesso. Infatti, tenetevi forte, tutto sembra dipendere, intendiamo l’alleanza “sovranista”, dal banco di prova delle elezioni regionali abruzzesi del 2019. E perché mai, vi chiederete, non dalle europee dello stesso anno, o da altre elezioni regionali (tipo quelle in Sicilia del prossimo 5 novembre)? Semplice, perché il FSI ha deciso che in abruzzo scenderà in campo. Ergo: tutto dipende
dalle mosse del FSI, ovvero dalla candidatura a presiedente dell’Abruzzo di D’Andrea. Un simile modo di ragionare non ha per niente la forma della profezia, ma quella più modesta del ragioniere affetto da egocentrismo. Il Nostro, com’è noto, è un giurista, e come ogni giurista è abituato a pensare che nel diritto la forma è sostanza, pensa che in politica funzioni alla stessa maniera. Errore! E vorrei dare a questo errore un nome: “formalismo giuridico”, che consiste nelle pensare che sia il diritto, col suo normativismo, a determinare i processi sociali e a dotarli di senso. Nel ‘900 avremmo detto di questo atteggiamento “voler mettere le braghe alla storia”. E’ vero esattamente il contrario. Sono i processi sociali il motore del mutamento, e le regole o norme giuridiche, come la nottola filosofica hegeliana che si alzava solo al crepuscolo, vengono sempre ex post, a babbo morto. Intanto vorrei sommessamente ricordare che qui in Italia si vota nella prossima primavera. Che facciamo? Nulla, è ovvio, poiché la campagna di proselitismo del D’Andrea non ha ancora dato i suoi frutti. QUALE ALLEANZA DEI SOVRANISTI? di Stefano
D’Andrea [ 29 giugno 2017 ] Su Appello al popolo è comparso ieri un intervento di Stefano D’Andrea [nella foto], presidente del Fronte Sovranista Italiano dal titolo “Le questioni del partito, dell’alleanza, del coordinamento e del dialogo tra associazioni sovraniste”. Pubblichiamo volentieri quanto scrive l’amico D’Andrea perché, al netto delle differenze di merito e di metodo, suggerisce una riflessione su un tema che ci sta molto a cuore: è possibile l’agognata alleanza tra le forze politiche patriottiche e sovraniste? E se sì su che basi? per che cosa? Con che forme? E quali i tempi? E siccome siamo in tema ci corre l’obbligo di segnalare che un primo tentativo di alleanza è costituito dalla Confederazione per la Liberazione Nazionale. Ci auguriamo che con questo intervento si apra finalmente un dibattito onesto, che coinvolga almeno gli esponenti più autorevoli della costellazione delle forze patriottiche, democratiche e socialiste. “Le questioni del partito, dell’alleanza, del coordinamento e del dialogo tra associazioni sovraniste” 1. La fine dell’eurozona non è “imminente”, come molti commentatori sovranisti, anche autorevoli, tra i quali Bagnai e Barra Caracciolo, hanno erroneamente a lungo creduto: ci attende una lunga lotta di liberazione. Quindi c’è il tempo per costituire l’alleanza sovranista. 2. Ho scritto alleanza sovranista e non il partito sovranista, perché è da presuntuosi credere che una associazione, politica o divulgativa, o un blog o un indistinto gruppo di persone possano fare tutto da soli. 3. In questa fase, quindi, bisogna impegnarsi per promuovere, far crescere e rendere solide le frazioni della futura alleanza. 4. Ne esistono parecchie, a carattere politico o divulgativo: il FSI, Riscossa, ALI, Interesse nazionale, Senso Comune, A/simmetrie, Me-mmt, altre associazioni nate dalla divulgazione della MMT, Confederazione per la Librazione
nazionale.
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