Qualità del lavoro e dignità dei lavoratori costituiscono la reale declinazione sociale delle organizzazioni; tra Dottrina Sociale della Chiesa e ...

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Qualità del lavoro e dignità dei lavoratori costituiscono la reale declinazione sociale delle organizzazioni; tra Dottrina Sociale della Chiesa e ...
Qualità del lavoro e dignità dei lavoratori costituiscono la
reale declinazione sociale delle organizzazioni;
tra Dottrina Sociale della Chiesa e Corporate Social
Responsibility
Sergio Bini*

                                                               «(…) il salario dei lavoratori
                                                      che hanno mietuto sulle vostre terre,
                                                          e che voi non avete pagato, grida,
                                                     e le proteste dei mietitori sono giunte
                                                    agli orecchi del Signore onnipotente »
                                                 dalla Lettera di san Giacomo (Gc 5, 4)

Abstract

    In the technical literature, Corporate Social Responsibility aims to achieve
in a balanced way the satisfaction of all the interested parties: the stakeholders.
    In the current day-to-day reality (as a result of the negative and dehuma-
nizing effects of globalization) the weight of the “markets” and the finan-
cialization of companies has led to a sharp imbalance between the different
stakeholders for the benefit only of shareholders.
    The quality of work and the dignity of workers are affected by a process
of sublimation, also “thanks” to the regulatory framework and the new ma-
nagement paradigms that hide behind ambiguous titles: “gig economy”,
“sharing economy”, “agile work”, “economy 4.0”, etc. etc. Models that tri-
vialize the contribution of workers considered as a “disposable goods” to
which are required increasingly quantitative performances at low levels of
professionalism; while Quality agonizes slowly and irreversibly.

Keywords: Qualità del lavoro, dignità dei lavoratori, qualità dell’esistenza
e della vita, Dottrina Sociale della Chiesa, Responsabilità Sociale d’Impresa.

*    Insegna «Gestione delle risorse umane e del benessere organizzativo» presso il Corso di Lau-
    rea magistrale in Programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali dell’Univer-
    sità LUMSA di Roma e presso le sedi di Palermo-Santa Silvia e Taranto-Santa Rita [www.
    lumsa.it/sergio-bini/]. E’ ingegnere; è stato per decenni dirigente d’azienda. Presidente della
    Venerabile Arciconfraternita dei Santi Benedetto e Scolastica dei Nursini di Roma; presidente
    di «Progetto Qualità 2000 srl» di AICQ-CI di Roma; past president dell’Associazione Italiana
    Cultura per la Qualità Centro-Insulare AICQ-CI. [s.bini@lumsa.it]
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1. Premesse

    Nel lontano 1970 Ennio Flaiano scriveva: «fra 30 anni l’Italia sarà non
come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione»1. Oggi,
questa battuta sembra essersi trasformata proprio in una di quelle profezie
che si autoavverano!
    La “narrazione catechizzante”, che ha accompagnato il cittadino-te-
lespettatore in questi ultimi cinquanta anni, ha lentamente ed inesorabil-
mente creato dei “modelli di riferimento” per le nuove generazioni e delle
“particolari lenti psicologiche” che oltre a condizionare la lettura dei feno-
meni quotidiani, sono riuscite a creare dei veri e propri “errori di paral-
lasse” nell’interpretazione degli avvenimenti; questo sistema complesso di
elementi ha attivato un processo di trasformazione delle informazioni in un
sistema di “rappresentazioni virtuali” del quotidiano.
    Fenomeni, questi, mirabilmente sintetizzati in una delle ultime pubblica-
zioni del sociologo Baudrillard nella quale evidenziava che:

         Il momento in cui una cosa viene nominata, in cui la rappresentazione e il
     concetto se ne impossessano, è il momento in cui essa inizia a perdere la sua
     energia – col rischio di divenire una verità o di imporsi come una ideologia
     (…).
         È quando una cosa comincia a sparire che ne compare il concetto (…).
         La globalizzazione: se ne parla tanto, come di un fatto scontato, di una
     realtà incontestabile, può darsi che non sia più all’apogeo del suo percorso e
     che noi si sia ormai alle prese con qualcos’altro. Così la realtà si dissolve nel
     concetto.
         E, cosa ancor più paradossale, è esattamente il movimento inverso rispet-
     to a quello con cui il concetto, l’idea (…) si dissolvono nella loro stessa rea-
     lizzazione.
         Quando tutto scompare per eccesso di realtà, quando grazie al dispiegarsi
     di una tecnologia senza limiti, tanto mentali quanto materiali, l’uomo è in
     grado di giungere alla fine delle proprie possibilità, e lì stesso scompare, la-
     sciando spazio a un mondo artificiale, che lo espelle (…). (Baudrillard, 2013,
     pp. 10-11)

    Tra i numerosi ambiti della vita quotidiana pericolosamente segnati da
questi fenomeni ci si soffermerà sui seguenti: il mondo del lavoro e la quali-
tà delle esistenze; i condizionamenti dei “mercati” sulla vita democratica; i
modelli di riferimento esemplari e le ricadute sulle future generazioni.

1
     Ennio Flaiano (1910-1972) nell’articolo “Sui colli di Roma” pubblicato sull’Espresso del 28
     giugno 1970 formula questa “profezia”, citando a memoria uno scritto di Giacomo Devoto.

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   Sono tematiche fortemente interconnesse tra di loro che si cercherà di
analizzare – nei limiti del possibile – in ottica sistemica e multidisciplinare.

2. Il lavoro, tra diritti e scenari costituzionali

    Mentre erano in corso le laboriose e complesse operazioni prodromiche
alla costituzione del “nuovo” Governo della Repubblica Italiana – all’indo-
mani delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 – il tedesco Günther Oettin-
ger, Commissario UE per il bilancio e le risorse umane, in una intervista lan-
ciata sul web scandiva lapidariamente che: «The markets will teach the Italians
to vote for the right thing» («i mercati insegneranno agli Italiani a votare nel
modo giusto»)2. È un messaggio che nella criticabile “durezza” evidenzia
uno scenario purtroppo reale: i cosiddetti “mercati” decidono per i cittadini
(molto spesso condizionandone le scelte), a prescindere dalle loro esigenze
e dai loro bisogni reali.
    Qualcosa del genere si era già registrata all’indomani delle precedenti
elezioni politiche del 2013, quando Mario Draghi – il Presidente della Banca
Centrale Europea – scandì che: «L’Italia prosegue sulla strada delle rifor-
me come se fosse inserito “il pilota automatico”, quindi indipendentemente
dall’esito elettorale; “la democrazia, è qualcosa che ci sta a cuore e i mercati
lo sanno” (…)»3.
    Queste “battute” arrivano quotidianamente dai decisori europei nelle
case degli italiani, attraverso i media e con l’intermediazione di interpreti;
questi interventi aiutano a costruire nella mente di ciascuno di noi nuovi
paradigmi della democrazia e della qualità delle esistenze di ciascuno (cit-
tadino e/o lavoratore) e nuovi modelli di futuro atteso. I “mercati” – inspie-
gabilmente enfatizzati da molti cantori – continuano a rimanere un concetto
impalpabile e sfuggente che si presenta in maniera assolutamente imperso-
nale e difficilmente associabile a qualche “volto umano” riconoscibile. Sono
fondamentalmente dei “sistemi di interessi finanziari” che – senza emozio-
ni, ripensamenti e/o sentimenti – con un semplice “clic” possono riuscire
a sconvolgere intere economie nazionali e, quindi, il destino di migliaia di
persone; troppo spesso innescano ripercussioni gravose sulla qualità della
vita dei cittadini, sulla qualità del lavoro e sulla dignità dei lavoratori.
    Il nuovo lessico è farcito di parole d’ordine come: PIL, spread, riforme; effi-
cientamento; produttività; ristrutturazioni aziendali; flessibilità del lavoro e pre-
carietà dei lavoratori; spending review (che si materializza sostanzialmente nella

2
     Testo del post delle ore 12.20 pm del 29 maggio su Twitter di Bernd Thomas Riegert.
3
    G. Donelli, Draghi, BCE: “Risanamento, avanti col pilota automatico”, in http://www.radio24.
    ilsole24ore.com/notizie/2013-03-08/draghi-risanamento-avanti-pilota-085544.php,
    08.03.2013 (ore 09.04).

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riduzione dei servizi dedicati ai cittadini); liberalizzazioni; privatizzazioni; invo-
gliare gli investitori; competitività (basata ormai sui prezzi più bassi, piuttosto
che su migliori livelli qualitativi offerti); e così via. Le conseguenti scelte innesca-
no spirali negative – all’insegna dell’“austerità” – che di fatto assottigliano pro-
gressivamente le risorse da destinare alle politiche sociali, per i servizi pubblici e,
quindi, per la concretizzazione dei diritti previsti dalla Costituzione.
    Meritano di essere puntualmente richiamati gli articoli 1, 3, 4 e 36 della Car-
ta Costituzionale italiana perché indicano – anche se oggi sembrano inapplicati
– quale fosse per i padri costituenti la rappresentazione valoriale del “lavoro”,
della dignità e della qualità della vita dei cittadini-lavoratori4. Sembra doveroso
evidenziare che tra questi articoli dedicati al “lavoro” – con grandissima e sensi-
bile lungimiranza dei costituenti, in una Italia devastata dalla guerra – fa il suo
ingresso il concetto importantissimo e cruciale di “qualità del lavoro”, elegan-
temente ed eticamente illustrato nell’articolo 36, come in una teca inarrivabile.

3. PIL e vita quotidiana: tra storytelling e realtà

    I mass media, quotidianamente, scodellano – spesso in maniera disordina-
ta, confusa e non sempre comprensibile – quantità impressionanti di numeri
e di dati per rappresentare la realtà quotidiana. Solo raramente, però, gli stessi
si soffermano correttamente sulla “Qualità” e sulle sue declinazioni nei vari
aspetti vitali come: Q. del lavoro; Q. delle organizzazioni; Q. della vita; Q.
dell’esistenza; Q. dei servizi pubblici; Q. delle politiche pubbliche; e così via.

4    Dalla Costituzione della Repubblica Italiana (dal sito www.senato.it):
      Articolo 1 -L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
        La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
        Costituzione.
      Articolo 3 - (…) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
        economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
        impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di
        tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
      Articolo 4 -La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove
        le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
        Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
        scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della
        società.
      Articolo 36 -Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
        e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
        un’esistenza libera e dignitosa. (…).
       (il “grassetto” è una scelta grafica dell’Autore per poter evidenziare meglio
       i “concetti-chiave”).
        A parere di chi scrive (e di molti altri) i diritti tutelati dagli articoli della Costituzione
        sono stati fortemente “ridimensionati” dopo la modifica dell’articolo 81 realizzata con
        la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, (“Introduzione del principio del pareggio
        di bilancio nella Carta costituzionale”) per rendere attuabile il cosiddetto Fiscal Compact
        della UE.
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   Eppure sono trascorsi cinquanta anni dallo storico discorso pronuncia-
to dal senatore USA Robert Kennedy – il 18 marzo 1968 nelle aule della
Kansas University – con il quale denunciava l’inadeguatezza del PIL come
indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Per la
sua immutata attualità, merita di essere ricordato il passaggio principale di
questo storico discorso:

       (…) non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
   soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’am-
   massare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale
   sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Pro-
   dotto Interno Lordo.
       Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle siga-
   rette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei
   fine-settimana.
       Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le
   prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi
   che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.
   Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende
   anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si
   accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e
   non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
   popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della quali-
   tà della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.
       Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori
   familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici di-
   pendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equi-
   tà nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro
   coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compas-
   sione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che
   rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America,
   ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

    Invece, da molti anni, la vita di milioni di cittadini del mondo (in par-
ticolare gli abitanti delle nazioni aderenti all’UE) continua ad essere con-
dizionata dal PIL; indicatore che è alla base di una moltitudine di accordi
internazionali (a partire dai due più “gravosi”: il trattato di Maastricht ed
il Fiscal Compact); per rispettare i “parametri economici” vengono imposte
durissime iniziative che si riverberano pesantemente sulla qualità della vita
dei cittadini, sulla competitività delle aziende e delle produzioni nazionali
e, quindi, sulle speranze delle generazioni future.
    Aveva ragione Simon Weil quando sottolineava che «il futuro è fatto della
stessa sostanza del presente» e, quindi, la qualità del futuro è figlia delle qua-
lità delle scelte che sono state fatte nel presente e nel passato, anche recente.

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   Al riguardo piace riportare quanto sottolineava con preoccupazione Ed-
mondo Berselli. A tempo debito, avrebbe dovuto essere valutata con mag-
giore attenzione la risposta ironica data da Mickey Rourke a Kim Basinger
in una scena di “Nove settimane e mezzo” (famoso film degli anni ’80):
«I make money by money». Secondo Berselli, questa affermazione costituiva,
drammaticamente, «l’epitaffio sulla tomba dell’economia reale»; il dilagare
del peso della finanza avrebbe, cioè, ucciso l’attività imprenditoriale ed il
lavoro e, conseguentemente, la dignità di tutti i lavoratori (Berselli, 2010, p.
35)5.
   Persino papa Francesco nella sua Enciclica Laudato Si’ ha ritenuto in-
dispensabile lanciare il suo grido accorato: «la finanza soffoca l’economia
reale» (LS, 109).
   Questo scenario, però, era stato già ampiamente e scientificamente pre-
figurato, tra gli altri, anche da Jeremy Rifkin con congruo anticipo sin dai
primi giorni del nuovo millennio:

         All’inizio del terzo millennio l’impatto delle nuove tecnologie sta cam-
     biando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere.
         (…) in un imminente futuro la proprietà sarà sostituita dall’accesso a
     pagamento a ogni genere di bene o servizio o esperienza culturale, perché
     pagheremo di più e possiederemo sempre di meno, perché il fossato tra chi
     è connesso alla rete e chi non lo è sarà sempre più profondo e perché i più
     grandi provider internazionali, che avranno le chiavi dell’accesso, sono de-
     stinati a controllare la vita di ciascuno di noi. Ma (…) anche la possibilità di
     una maggiore diffusione della conoscenza, della democrazia e del benessere
     e (…) l’affrancamento dalla schiavitù del lavoro (…). (Rifkin, 2002, 4a c.)

     Ed inoltre

        La scuola antropologica (…) considera la comunicazione come generazio-
     ne di significati sociali attraverso la trasmissione di testi. La semiotica (…) si

5
     In realtà meriterebbe di essere riscoperta e rivalutata la narrazione cruda del boom
     economico dell’Italia del dopoguerra e dei cambiamenti imposti nei paradigmi familiari/
     sociali/culturali ben rappresentati dallo scrittore Lucio Mastronardi (1930-1979) nella
     sua trilogia: Il calzolaio di Vigevano (1959), Il maestro di Vigevano (1962) ed Il meridionale di
     Vigevano (1964).
     «
       Perché il boom economico euforizzava la corsa al benessere che con il mito dei “dané fanno
     dané” aveva promesso rapide fortune agli “industrialotti” (…) spesso del tutto incolti, con
     relative arroganze e esibizioni di ville faraoniche, automobili di lusso, gioielli. Il prevalere
     della logica meschina del profitto produceva l’invidia sociale di chi rimaneva indietro, la
     frustrazione della piccola borghesia, aggrappata ai propri valori di onorabilità, il discredito
     caduto sulla formazione scolastica (…)» (dalla presentazione di Maria Antonietta Grignani
     alla riedizione in un volume unico della trilogia di Mastronardi per i tipi della Einaudi
     Editore, Torino, 2016, pp. V-VI).

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   preoccupa di come la comunicazione definisca significati, riproduca valori
   comuni e leghi gli individui in relazioni sociali. Gli strutturalisti sono inte-
   ressati a come il linguaggio, il mito e altri sistemi simbolici vengono utilizzati
   per dare un senso a esperienze sociali condivise. È questa l’interpretazione
   in cui comunicazione e cultura divengono reciprocamente l’una espressione
   dell’altra.
       Non è un caso, dunque, che comunicazione e comunità abbiano la mede-
   sima radice linguistica: le comunità esistono attraverso la condivisione di si-
   gnificati comuni e di forme comuni di comunicazione. Questa relazione, così
   ovvia, viene spesso trascurata nel dibattito sulla comunicazione, nell’implici-
   to assunto che la comunicazione sia un fenomeno a sé e per sé, indipendente
   dal contesto sociale che interpreta e riproduce. Gli antropologi affermano
   che la comunicazione non può essere disgiunta da una comunità e da una
   cultura: l’una non può esistere senza le altre. Se questo è vero, quando tutte
   le forme di comunicazione vengono trasformate in merce, la cultura (materia
   della comunicazione) diventa inevitabilmente una merce. E questo è proprio
   ciò che sta accadendo: la cultura – cioè le esperienze condivise che attribui-
   scono un significato alla vita dell’uomo – viene spinta inesorabilmente verso
   il mercato dei media, dove viene rielaborata secondo parametri commerciali.
   Quando gli esperti di marketing e i guru del ciberspazio suggeriscono di
   utilizzare le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione come stru-
   menti relazionali e predicano un vangelo economico fondato sulla vendita
   di esperienze personali; quando parlano di trasformare in merce il rapporto
   a lungo termine con il cliente, e di istituire comunità di interesse, in realtà,
   coscientemente o meno, stanno dicendo di recintare i territori comuni della
   cultura, per sottoporli al dominio dell’economia. (Rifkin, 2002, pp. 185-186)

   Anche Francesco Avallone nella premessa al suo manuale di Psicologia
del lavoro e delle organizzazioni esprime alcune significative perplessità al
riguardo:

        Il processo di globalizzazione non ha coinvolto solo capitali e prodot-
   ti ma, inevitabilmente, ha riguardato e riguarda anche il lavoro. L’interna-
   zionalizzazione delle attività di produzione e degli scambi commerciali ha
   trasformato numerose imprese industriali e commerciali in organizzazioni
   di carattere finanziario, inducendo i relativi manager a realizzare livelli di
   profitto assimilabili a quelli conseguiti sui mercati finanziari. Molte imprese
   produttive hanno delocalizzato la produzione in siti più convenienti, crean-
   do vistosi problemi nei livelli di occupazione nei paesi di antica civiltà indu-
   striale. Come i profitti e i prodotti anche i salari tendono a livellarsi: quelli dei
   paesi emergenti crescono sia pure lentamente mentre quelli dei paesi opulen-
   ti, in particolare in Europa, tenderanno a scendere per consentire alle imprese
   manifatturiere di rimanere competitive sui mercati globali. I fattori di globa-
   lizzazione e di internazionalizzazione giocano, dunque, un ruolo importante
   ma contraddittorio perché, procurando un forte dinamismo, hanno un effet-
   to squilibrante. Le differenze tra Nord e Sud del mondo si vanno acuendo:
   il benessere è in aumento ma intere aree del pianeta vivono in povertà e in

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     condizioni di isolamento. Il mercato del lavoro è in fermento in nome della
     globalizzazione e della flessibilità ma molti giovani, anche europei, non sono
     nella condizione di poter pianificare il futuro e non riescono a considerare il
     lavoro come occasione di espressione delle proprie potenzialità individuali e
     come contributo allo sviluppo collettivo. I problemi imposti dall’evoluzione
     tecnologica e dalla globalizzazione trascendono (…) le possibilità dei governi
     nazionali, ormai incapaci di garantire singolarmente sviluppo, sicurezza e
     stabilità sociale.
         La stessa Europa, che ha costituito per un lungo tempo un motore di svi-
     luppo economico e culturale, se non sarà in grado di costruire norme comuni
     indirizzate alla soluzione dei problemi e a creare assetti istituzionali e orga-
     nizzativi coerenti, appare ineluttabilmente destinata al declino. La psicologia
     del lavoro e delle organizzazioni non può certo risolvere problemi di questa
     entità ma non può nemmeno ignorarli. (Avallone, 2011, pp.15-16)

4. Anche il Vaticano interviene sulle “Questioni economiche e
finanziarie”

    In aiuto dei cittadini pressati e disorientati, recentemente la Santa Sede
ha presentato un importante ed originale documento dal titolo Oeconomi-
cae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa
alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario6 (OePQ). Il testo è stato
elaborato in data 6 gennaio 2018 dalla Congregazione per la Dottrina della
Fede e dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale; le rela-
tive considerazioni sono state presentate formalmente il 17 maggio, dopo la
preventiva approvazione di papa Francesco.
    Questo importante documento vaticano contiene numerose ponderatis-
sime “considerazioni”, “puntualizzazioni” e “tecniche” che rafforzano gli
sforzi scientifici di solitari e romantici studiosi che da anni sottolineano la
pericolosa e diffusa deriva che ha portato alla progressiva finanziarizzazio-
ne delle aziende, delle organizzazioni e, perfino, degli Stati “sovrani”; que-
sto fenomeno ha favorito la centrifugazione e l’omogeneizzazione sia dei
ruoli sia della presenza delle persone che sempre di più devono trasformar-
si solo in dei numeri anonimi e dei “mattoncini Lego” (in modo da risultare
facilmente sostituibili e intercambiabili con un semplice “clic” o con un ano-
nimo “sms” gestiti automaticamente da qualche app o software, sulla base di
“algoritmi gestionali” già preimpostati).

6
     Il documento – disponibile liberamente nel sito del Vaticano http://www.vatican.va –
     è articolato in quattro parti: 1) Introduzione; 2) Elementari considerazioni di fondo; 3)
     Alcune puntualizzazioni nel contesto odierno; 4) Conclusione.

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   Al riguardo papa Benedetto XIV sottolineava che: «la verità dello svilup-
po consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo
sviluppo non è vero sviluppo. Questo è il messaggio centrale della Populo-
rum progressio, valido oggi e sempre» (Caritas in Veritate, n. 18).
   Ritornando ad esaminare gli aspetti fondamentali dell’OePQ si registra
che il contesto viene mirabilmente descritto sin dall’introduzione del docu-
mento:

       Le tematiche economiche e finanziarie, mai come oggi, attirano la nostra
   attenzione, a motivo del crescente influsso esercitato dai mercati sul benes-
   sere materiale di buona parte dell’umanità. Ciò reclama, da una parte, un’a-
   deguata regolazione delle loro dinamiche, e dall’altra, una chiara fondazione
   etica, che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni
   che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre. Simile
   fondazione etica è oggi richiesta da più parti ed in particolare da coloro che
   operano nel sistema economico-finanziario. Proprio in tale ambito, si palesa
   infatti il necessario connubio fra sapere tecnico e sapienza umana, senza di
   cui ogni umano agire finisce per deteriorarsi, e con cui invece può progredire
   sulla via di un benessere per l’uomo che sia reale ed integrale. (OePQ, 1)

   E, pertanto:

       Benché il benessere economico globale si sia certamente accresciuto nel
   corso della seconda metà del XX secolo, con una misura e una rapidità mai
   sperimentate prima, occorre però constatare che nello stesso tempo sono au-
   mentate le diseguaglianze tra i vari Paesi e al loro interno. Continua inoltre
   ad essere ingente il numero delle persone che vive in condizioni di estrema
   povertà.
       La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per sviluppare una
   nuova economia più attenta ai principi etici e per una nuova regolamentazio-
   ne dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculati-
   vi e valorizzandone il servizio all’economia reale. (…) pare talvolta ritornare
   in auge un egoismo miope e limitato al corto termine che, prescindendo dal
   bene comune, esclude dai suoi orizzonti la preoccupazione non solo di creare
   ma anche di diffondere ricchezza e di eliminare le diseguaglianze, oggi così
   pronunciate.
       È in gioco l’autentico benessere della maggior parte degli uomini e delle
   donne del nostro pianeta, i quali rischiano di essere confinati in modo cre-
   scente sempre più ai margini, se non di essere “esclusi e scartati” dal pro-
   gresso e dal benessere reale, mentre alcune minoranze sfruttano e riservano
   per sé soltanto ingenti risorse e ricchezze, indifferenti alla condizione dei più.
   (OePQ, 5 e 6)

                                                                                        19
Sergio Bini

    Viene sottolineato con energia che «non è più possibile tacere che oggi vi
è la tendenza a reificare ogni scambio di “beni”, riducendolo a mero scam-
bio di “cose”» (OePQ, 9).
    Tra le “considerazioni” emerge con nettezza che ci sarebbe bisogno di
una
         (…) antropologia relazionale [che] aiut[i] l’uomo anche a riconoscere la
     validità di strategie economiche che mirino anzitutto alla qualità globale
     della vita raggiunta, prima ancora che all’accrescimento indiscriminato dei
     profitti, ad un benessere che se vuol essere tale è sempre integrale, di tutto
     l’uomo e di tutti gli uomini. Nessun profitto è infatti legittimo quando vengo-
     no meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della
     destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri.
     (OePQ, 10)

     Pertanto:

         (…) ogni progresso del sistema economico non può considerarsi tale se
     misurato solo su parametri di quantità e di efficacia nel produrre profitto,
     ma va commisurato anche sulla base della qualità della vita che produce e
     dell’estensione sociale del benessere che diffonde, un benessere che non si
     può limitare solo ai suoi aspetti materiali. Ogni sistema economico legittima
     la sua esistenza non solo mediante la mera crescita quantitativa degli scambi,
     bensì documentando soprattutto la sua capacità di produrre sviluppo per
     tutto l’uomo e per ciascun uomo. Benessere e sviluppo si esigono e sostengo-
     no a vicenda, richiedendo politiche e prospettive sostenibili ben oltre il breve
     periodo. (OePQ, 10)

     Ed allora:

          Il benessere va perciò valutato con criteri ben più ampi della produzione
     interna lorda di un Paese (PIL), tenendo invece conto anche di altri parame-
     tri, quali ad esempio la sicurezza, la salute, la crescita del “capitale umano”,
     la qualità della vita sociale e del lavoro. E il profitto va sempre perseguito
     ma mai “ad ogni costo”, né come referente totalizzante dell’azione economi-
     ca. (OePQ, 11)

     Mentre:

          (…) la rendita da capitale insidia ormai da vicino, e rischia di soppiantare,
     il reddito da lavoro, spesso confinato ai margini dei principali interessi del
     sistema economico. Ne consegue il fatto che il lavoro stesso, con la sua digni-
     tà, non solo divenga una realtà sempre più a rischio, ma perda altresì la sua

20
tra Dottrina Sociale della Chiesa e Corporate Social Responsibility        ISSN 2612-145X

   qualifica di “bene” per l’uomo, trasformandosi in un mero mezzo di scambio
   all’interno di relazioni sociali rese asimmetriche. Proprio in questa inversione
   di ordine fra mezzi e fini, per cui il lavoro da bene diviene “strumento” e il
   denaro da mezzo diviene “fine”, trova un fertile terreno quella spregiudicata
   ed amorale “cultura dello scarto” che ha emarginato grandi masse di popo-
   lazione, privandole di un lavoro degno e rendendole così “senza prospettive
   e senza vie d’uscita”: “Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello
   sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione
   resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive,
   dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza
   potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”.
   (OePQ, 15)

   Il documento della Santa Sede contiene ben sedici “puntualizzazioni”
(esposte nel testo contenuto tra il 18° ed il 33° paragrafo); di alcune di queste
meritano di essere richiamati i passaggi più significativi:

        Ogni impresa costituisce un’importante rete di relazioni e, a suo modo,
   rappresenta un vero corpo sociale intermedio, con una sua propria cultura
   e prassi. Tali cultura e prassi, mentre determinano l’organizzazione interna
   all’impresa, influiscono altresì sul tessuto sociale nel quale essa agisce. Proprio
   a questo livello, la Chiesa richiama l’importanza di una responsabilità sociale
   dell’impresa, la quale si esplica sia ad extra che ad intra della medesima.
        In tal senso, laddove il mero profitto viene collocato al vertice della cul-
   tura di un’impresa finanziaria, ignorando le contemporanee esigenze del
   bene comune – la qual cosa oggi è segnalata come fatto assai diffuso anche in
   prestigiose business schools – ogni istanza etica viene di fatto percepita come
   estrinseca e giustapposta all’azione imprenditoriale. (…) In questi casi, lo
   scopo del mero lucro genera facilmente una logica perversa e selettiva che
   spesso favorisce l’avanzamento ai vertici aziendali di soggetti capaci ma avi-
   di e spregiudicati, la cui azione sociale è spinta prevalentemente da un egoi-
   stico tornaconto personale.
        Inoltre, tali logiche hanno sovente spinto il management a realizzare poli-
   tiche economiche volte non ad incrementare la sanità aziendale delle aziende
   che servivano ma i meri profitti degli azionisti (shareholders), danneggiando
   così i legittimi interessi di cui sono portatori tutti coloro che con il loro lavoro
   e servizio operano a vantaggio della medesima impresa, nonché i consuma-
   tori e le varie comunità locali (stakeholders). (…).
        Tutto ciò facilmente genera e diffonde una cultura profondamente amo-
   rale (…) mettendone a repentaglio la funzionalità e nuocendo alla fattiva re-
   alizzazione di quel bene comune su cui si fonda necessariamente ogni forma
   di socialità.
        Risulta perciò urgente una sincera autocritica al riguardo ed una inversio-
   ne di tendenza, favorendo invece una cultura aziendale e finanziaria che ten-
   ga conto di tutti quei fattori che costituiscono il bene comune. Ciò significa,
   ad esempio, mettere chiaramente la persona e la qualità delle relazioni fra

                                                                                          21
Sergio Bini

     le persone al centro della cultura aziendale, così che ogni impresa pratichi
     una forma di responsabilità sociale che non sia meramente occasionale o
     marginale, bensì innervi ed animi dal di dentro ogni sua azione, orientan-
     dola socialmente. (…) anche il mercato, per funzionare bene, ha bisogno di
     presupposti antropologici ed etici che da solo non è in grado di darsi né di
     produrre. (OePQ, 23)
   Dal paragrafo 24 al paragrafo 32 il documento della Santa Sede snocciola,
con un linguaggio puntuale e molto tecnico, tutte le libertà “consentite” agli
operatori finanziari e l’eccessivo ossequio – quasi feticistico e dogmatico – nei
confronti dei “mercati”; quasi fossero due “elementi della natura” impreve-
dibili e quasi intoccabili. Nel documento si prova a proporre ai lettori una
“ribellione” silenziosa ed etica a questa oppressione finanziaria dei “mercati”:

          Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora non è soltanto opera di entità che
     agiscono fuori dal nostro controllo ma ricade anche nella sfera delle nostre
     responsabilità. Questo significa che abbiamo a nostra disposizione strumenti
     importanti per poter contribuire alla soluzione di tanti problemi. Ad esem-
     pio, i mercati vivono grazie alla domanda ed all’offerta di beni: a questo pro-
     posito, ciascuno di noi può influire in modo decisivo almeno nel dar forma a
     quella domanda. Risulta pertanto quanto mai importante un esercizio critico
     e responsabile del consumo e dei risparmi. Fare la spesa, impegno quotidiano
     con cui ci dotiamo anzitutto del necessario per vivere, è altresì una forma di
     scelta che operiamo fra i vari prodotti che il mercato offre. È una scelta con
     cui optiamo sovente in modo non consapevole per beni la cui produzione av-
     viene magari attraverso filiere in cui è normale la violazione dei più elemen-
     tari diritti umani o grazie all’opera di aziende la cui etica di fatto non conosce
     altri interessi al di fuori di quelli del profitto ad ogni costo dei loro azionisti.
          Occorre orientarci alla scelta di quei beni alle cui spalle sta un percorso
     degno dal punto di vista etico, poiché anche attraverso il gesto, apparente-
     mente banale, del consumo noi esprimiamo nei fatti un’etica e siamo chiama-
     ti a prendere posizione di fronte a ciò che giova o nuoce all’uomo concreto.
     (OePQ, 33)

     E, quindi, la decisa “conclusione”:

         Davanti all’imponenza e pervasività degli odierni sistemi economico-fi-
     nanziari, potremmo essere tentati di rassegnarci al cinismo ed a pensare che
     con le nostre povere forze possiamo fare ben poco. In realtà, ciascuno di noi
     può fare molto, specialmente se non rimane solo. (…) Oggi più che mai, sia-
     mo tutti chiamati a vigilare come sentinelle della vita buona ed a renderci
     interpreti di un nuovo protagonismo sociale, improntando la nostra azione
     alla ricerca del bene comune e fondandola sui saldi principi della solidarietà
     e della sussidiarietà.
         Ogni gesto della nostra libertà (…) diviene parte di una positività che su-
     pera le nostre povere forze, unendo indissolubilmente tutti gli atti di buona
     volontà in una rete che collega cielo e terra (…). È questo ciò di cui abbiamo

22
tra Dottrina Sociale della Chiesa e Corporate Social Responsibility      ISSN 2612-145X

   bisogno per vivere bene e per nutrire una speranza che sia all’altezza della
   nostra dignità di persone umane. (OePQ, 34)

    La Chiesa con la “Dottrina Sociale” – a partire dalla fondamentale Enci-
clica Rerum Novarum (1891) lasciataci da Leone XIII – ha continuato a porre
al centro della sua attenzione e del Magistero i “lavoratori” molto di più del
“lavoro”.
    Nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa viene ribadito che «Il
lavoro è espressione della piena umanità dell’uomo, nella sua condizione
storica e nella sua orientazione escatologica: la sua azione libera e responsa-
bile ne svela l’intima relazione con il Creatore ed il suo potenziale creativo»
(CDSC, 263).
    Giovanni Paolo II con l’Enciclica Laborem Exercens (1981) ribadisce che
«mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle pro-
prie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo
senso, “diventa più uomo”» (LE, 9) (Occhetta, 2017, pp. 122-123).
    Nell’introduzione all’Enciclica papa Wojtyla utilizza delle parole che, ri-
flettendo oggi, sono a dir poco profetiche:

        Celebriamo il novantesimo anniversario dell’enciclica Rerum Novarum
   alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e po-
   litiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della
   produzione non meno di quanto fece la Rivoluzione industriale del secolo
   scorso.
        Molteplici sono i fattori di portata generale: l’introduzione generalizza-
   ta dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo
   dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della li-
   mitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento;
   l’emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, ri-
   chiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali.
   Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un
   ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna, nonché della di-
   stribuzione del lavoro.
        Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di la-
   voratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di
   un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione
   o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati.

   Per motivi di economia del testo, non ci si può soffermare adeguata-
mente sull’ineguagliabile Enciclica Caritas in Veritate (2009); ci si limita a
riportate le parole utilizzate da Benedetto XVI per ricordare all’uomo mo-
derno che:
       •    (…) Una società del benessere, materialmente sviluppata, ma oppri-
            mente per l’anima, non è di per sé orientata all’autentico sviluppo.

                                                                                       23
Sergio Bini

              (…) Non ci sono sviluppo plenario e bene comune universale senza
              il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza
              di anima e corpo7. (CV, 76);
         •    L’assolutismo della tecnica tende a produrre un’incapacità di per-
              cepire ciò che non si spiega con la semplice materia. (…) Anche lo
              sviluppo dell’uomo e dei popoli si colloca a una simile altezza, se
              consideriamo la dimensione spirituale che deve connotare necessa-
              riamente tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso richiede
              occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione mate-
              rialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un
              “oltre” che la tecnica non può dare. (CV, 77)

5. La comunicazione quotidiana tra framing e disinformatia

    In questi ultimi cinquanta anni della vita nazionale piuttosto che risol-
vere i problemi dei lavoratori e dei cittadini (più in generale) le classi diri-
genti sono intervenute con riforme sostanzialmente “lessicali” e attraverso
una comunicazione “narrativa” che ha cercato di far immaginare un futuro
di gran lunga differente dalla realtà. Questo tipo di azione – che ha subito
delle forti accelerazioni narrative nell’ultimo decennio – è intervenuto sui
singoli creando sia un incremento delle “aspettative”, rispetto alle soluzioni
promesse, sia un processo di isteresi delle delusioni prodotte dal mancato
rispetto delle promesse. Il risultato ottenuto si è concretizzato in una diffusa
sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle Istituzioni e in una diffusa
indifferenza per le cose comuni (cfr. Bini, 2014a).
    Nella comunicazione politica, viene utilizzato il termine framing per fare
riferimento a quel processo di influenza selettiva sulla percezione dei signi-
ficati che i soggetti (i cittadini, elettori o meno) attribuiscono ai messaggi
mediali. Il framing, cioè, garantisce l’accesso ad alcuni significati, allonta-
nandone altri comunque plausibili8. Nei secoli si sono affinate notevolmente
le metodiche comunicazionali per distrarre efficacemente le persone e per
poterle confondere mentre nelle stanze dei decisori si promuovevano le
“storie” e gli “eventi” che le riguardavano direttamente.
    Parlando di framing, viene alla mente il grande lavorìo fatto dal mondo
del cinema e della televisione negli anni; il lettore può ricordare i casi rite-

7
     È molto interessante ricordare che nel lungo e fondamentale capitolo VII della Regola
     Benedettina – “De humilitate” – ruolo importantissimo lo svolgono la coppia “corpo e
     anima”: «(…) i lati della scala sono il corpo e l’anima, tra i quali la chiamata divina ha
     disposto diversi gradini da salire, fatti d’umiltà e di disciplina» (Papa Gregorio Magno,
     Vita di San Benedetto e la Regola, Città Nuova, Roma, 2009, p. 135).
8
     M. Sorice, La comunicazione politica, Carocci, Roma, 2011, p. 58.

24
tra Dottrina Sociale della Chiesa e Corporate Social Responsibility             ISSN 2612-145X

nuti più significativi. In questa sede se ne vuole ricordare uno in particolare,
anche se datato.
    Nel 1958 le matite di William Hanna e Joseph Barbera dettero vita all’or-
so Yoghi ed all’orsacchiotto Bubu (protagonisti di una innumerevole serie di
cartoni animati) che hanno allietato generazioni di bambini che, però, si sono
costruiti una immagine falsata degli orsi: estremamente bonaria e diametral-
mente opposta alla realtà. Come conseguenza, si registrarono negli USA non
pochi casi di giovanissimi che negli zoo si avventuravano troppo nelle vi-
cinanze dei recinti degli orsi (immaginandoli simili a quelli visti in TV) per
familiarizzare con loro; la realtà si dimostrò drammaticamente diversa.
    Oggi le scelte politiche si riverberano negativamente sui processi di so-
cializzazione sia primaria (attraverso le famiglie e la scuola/università) che
secondaria (a causa del tardato accesso stabile e qualificante nel mondo del
lavoro, oppure della marginalizzazione dei giovani nell’area “NEET” o “né-
né”, termine equivalente coniato da papa Francesco)9 (Bini, 2016).
    Su questa situazione tristissima – che ridimensiona ogni forma di spe-
ranza, al di là delle rasserenanti rappresentazioni da parte dei “decisori” – si
sono esercitati nei secoli poeti, scrittori e le persone più sensibili. Prima di
ogni altra, merita di essere ricordata la secca rappresentazione di Antoine
de Saint-Exupéry quando sintetizza che: «per i re [governanti] il mondo è
molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi»10. A questa affermazione fa
eco Italo Calvino quando – nelle sue “città invisibili” – sottolinea che: «l’im-
peratore è colui che è straniero a ciascuno dei suoi sudditi e solo attraverso occhi e
orecchi stranieri l’impero poteva manifestar[gli] la sua esistenza (…)»11.
    Da sempre, il pendolo della storia nazionale oscilla nel quadrante della
vita quotidiana tra partecipazione ed esclusione e tra diritti e doveri.
    In questo perenne andamento sinusoidale, il popolo italiano solo per
periodi limitati ha potuto dire di essersi sentito pienamente detentore dei
diritti di cittadinanza; mentre per la quasi totalità della sua storia è stato
trattato come un soggetto con diritti limitati. Praticamente un suddito!
Nell’immenso numero di pagine che risiedono nel web merita di essere ri-
preso un passaggio interessante per le riflessioni che si vogliono sviluppare.
Alla domanda posta su quale possa essere la differenza tra un cittadino ed
un suddito viene proposta un’interessante risposta:

        Il suddito è una persona che facilmente si adira e facilmente si placa o si compra.
     È quello delle rivolte di un giorno, che mette a soqquadro la città, distrugge quel che

9
      La situazione sembra essere stata sinteticamente ed esaustivamente fotografata – con
     congruo anticipo – dai bellissimi versi del grande poeta italiano Quasimodo: «Ognuno sta
     solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».
10
      A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 1997, p. 48.
11
      I. Calvino, Le città invisibili, Oscar Mondadori, Milano, 2002, p. 21.

                                                                                               25
Sergio Bini

     gli passa per le mani e torna serenamente a casa contento di un regalino fornitogli dal
     potere o di una sua promessa. È la persona che pensa al suo piccolo, alla sua momen-
     tanea soddisfazione anche a scapito di una collettività.
          Il cittadino è quello che, invece, porta avanti non una, ma tante lotte con costanza
     e coerenza. È quello che non si accontenta delle promesse, ma attende e propone la
     soluzione ad un problema, è quello che pesa ogni parola, che identifica nel bene della
     collettività il suo proprio bene. Il cittadino è quello di cui il potere ha paura, davanti
     al quale trema, perché sa che al cittadino non basterà il piatto di lenticchie e che non
     si arrenderà davanti agli ostacoli che il potere stesso gli parerà innanzi, perché sa che
     il cittadino è capace di collegare i problemi tra loro e non si fa prendere in giro dalle
     mille suddivisioni che il potere fa. Separare i problemi è, infatti, una grande capacità
     che ha il potere. Tenere distinti tutti quegli aspetti che altro non sono che facce dello
     stesso poliedro consente di tenere separati i campi d’azione della “opinione pubblica”,
     ovvero dei cittadini (…)12.

    Ma il discorso che si applica ai “cittadini” per similitudine si applica, ov-
viamente, anche ai “lavoratori”, coerentemente con le logiche dei “frattali”.
    Nando Pagnoncelli (nella ricerca IPSOS – Italia 2015: raccontare una storia)
rileva uno scarto tra percezione e realtà e un “deficit di narrazione” e solleci-
ta «un riassestamento che dovrà passare attraverso un nuovo racconto del-
la nazione e un processo di ristrutturazione delle rappresentanze sociali»:
scommessa difficile, in un Paese lacerato, diviso e sempre più pessimista.
    La situazione diviene sempre più complessa e paludosa con l’abile intervento
degli “influencer” e la sottile e martellante azione di “nudging” (indirizzamento).

6. Quando tutto diventa “merce”, il marketing prevale sulla Qualità!

    Ormai sono decenni che i “decisori” utilizzano gli strumenti e le metodi-
che del marketing per assicurarsi il consenso delle persone che ancora credono
nell’utilità di esprimere le proprie preferenze e di partecipare alla vita sociale.
    La politica diviene, quindi, una merce da collocare sul mercato; la classe
politica si muove, dunque, attraverso una propaganda commerciale che si
sviluppa comunicando con degli spot, delle immagini e/o delle sensazio-
ni utili per generare modelli di aspettative e che forniscono sensazioni di
virtuali risposte ai bisogni creati. Gli stessi lavoratori diventano oggetti e
vengono etichettati come “risorse umane” o “capitale umano”! Al riguardo
Mario Caligiuri13 ricorda che

         (…) in assenza di chiare distinzioni ideologiche, i partiti possono distin-

12
     S. Bisagna, Sudditi o cittadini?, pubblicato il 16 aprile 2012 in “Legalità, Politica, Scuola” sul
     sito http://silviabisagna.wordpress.com/2012/04/16/sudditi-o-cittadini/.
13
     M. Caligiuri, Stato e marketing, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 10.

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tra Dottrina Sociale della Chiesa e Corporate Social Responsibility     ISSN 2612-145X

   guersi in modo più efficace in termini di strategia di marketing e di spesa.
   (…) Oggi la politica è costosa, assomiglia alle imprese e richiede molti capi-
   tali, ma soprattutto, in una misura che non ha precedenti nel passato, si basa
   su una comunicazione di massa attraverso i media e la pubblicità. Negli Stati
   Uniti una schiera di consulenti politici fa da battistrada cercando di impegna-
   re gli elettori con espedienti nuovi e più audaci, come pubblicità televisive
   penetranti o campagne di stampa dirette. In un ambiente politico sempre più
   globale in cui i politici sono sempre meno in grado di esprimere strategie e
   contenuti autentici, essi dipendono sempre di più dal denaro per catturare
   l’attenzione del loro pubblico (…).

    Luigi Tivelli in un libro del 1994 – sottotitolato “manuale per il cittadino
della seconda repubblica” – evidenziava che «sono state le classi politiche e
burocratiche, eredi della migliore cultura feudale, a favorire o imporre piut-
tosto il senso del vassallaggio che una cittadinanza responsabile. È così che
si è innescato nel sistema quel modello burocratico-assistenzial-clientelare
poi esaltato dalla partiburosindocrazia» (Tivelli, 1994, p. 54).
    Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso – durante la “stagione
della Carta dei Servizi” – si teorizzava con passione sulla esigenza di ri-
portare il cittadino al centro dell’attenzione del funzionamento dell’intera
macchina dello Stato; al riguardo si enfatizzava l’esigenza di “fare i cittadi-
ni” consapevoli, informati sui propri diritti e sui propri doveri e conoscitori
degli strumenti per esercitarli. Veniva ricordato con passione che uno dei
primi slogan di Solidarność recitava: «quando ci siamo resi conto di essere
schiavi, abbiamo capito di essere diventati cittadini». Ma la persona diventa
consapevole del proprio stato di schiavitù se, come accaduto all’epoca in
Polonia, ritrova i punti fermi di riferimento delle proprie origini, della pro-
pria storia, della propria cultura e dei propri valori “nazionali”.

   Ma Romano Guardini ricorda che:

       (…) l’uomo è persona; la persona è auto appartenenza. Persona significa
   che non può essere presa in possesso, non può essere usata come mezzo, non
   può essere subordinata ad uno scopo. La persona esiste con un suo proprio
   valore e per suo volere – la quale esistenza, per suo stesso volere, trova il suo
   adeguato compimento nell’esistenza in Dio; ciò va ancora una volta sotto-
   lineato, affinché il concetto non venga automaticamente confuso. L’uomo è
   sempre ed essenzialmente persona. Una società e una storia di uomini de-
   vono essere una società e una storia di persone. (Guardini, 2006, pp. 46-48)
       (…) Solo quando cerco di vivere, sempre e dappertutto, come persona,
   avverto i problemi i quali nascono dal fatto che questa specificità, completa-
   mente diversa dal resto, si fa valere nella sfera del biologico e dello psicolo-
   gico.
       Solo il mettere in gioco l’elemento personale fa emergere i problemi e
   porta poi le loro soluzioni. (Guardini, 2006, p. 71)

                                                                                       27
Sergio Bini

   Ma quanti decision makers internazionali tengono conto di questi principi
basilari di un vivere civile? Al riguardo non si può non ricordare una frase attri-
buita a Gandhi: «per l’uomo con lo stomaco vuoto, il cibo diventa Dio; e quando l’uo-
mo è in una tale condizione, diventa facilmente schiavo di chi gli promette quel cibo».

7. Se le nostre organizzazioni diventano come “la fattoria degli
animali”

     L’attualità del modello della “fattoria degli animali”!

    George Orwell sin dal lontano 1945 ha avuto la capacità di disegnare nel-
la sua Fattoria degli animali” – con cinica, cruda e profetica ironia – una realtà
molto simile a quella vissuta oggi nella società e nelle organizzazioni e che
è egregiamente sintetizzata dal comandamento: «tutti gli animali sono uguali,
ma alcuni sono più uguali degli altri» (Orwell, 1996, p. 142).
    Lo strumento della disinformazione ben orchestrata che sistematicamente
inculcava nella mente degli appartenenti alla Fattoria «che, dopo tutto, erano
veramente padroni di se stessi e che il lavoro che facevano era a proprio beneficio»,
era ben supportata dalle «dimostrazioni spontanee» alle quali le “pecore” era-
no «le partecipanti più entusiaste» (Orwell, 1996, p. 124).
    La lettura del testo di questa favola di un efficace Esopo del XX secolo fa
rivivere storie realmente vissute, con qualche brivido e non poca tristezza.
È data la giusta enfasi sul come lo stato di servitù si consolidi soprattutto
grazie alla progressiva acquisizione di una «abitudine sviluppata durante lun-
ghi anni di non lamentarsi mai, di non criticare mai» come effetto diretto di una
stringente pressione del “terrore” esercitato subdolamente da chi detiene il
potere (Orwell, 1996, p. 141).
    Cambia la scala dei meriti e la scala dei riconoscimenti: «il valore non basta
(…) la lealtà e l’obbedienza sono assai più importanti» (Orwell, 1996, p. 64).
    Orwell aveva già previsto che (come accade anche oggi, grazie alle cosid-
dette “riforme” che si sono succedute) gli ultimi avrebbero dovuto lavorare
sino all’ultimo respiro, infatti pur avendo «passato i limiti d’età, (…) in realtà
nessun[o] (…) era stato messo a riposo» (Orwell, 1996, p. 135).
    Anche per gli animali della Fattoria di Orwell «vi erano giorni nei quali
avrebbero desiderato meno cifre e più cibo» (Orwell, 1996, p. 100). Ma, «La vera
felicità (…) sta nel lavorare molto e nel vivere frugalmente» (Orwell, 1996, p. 137);
«le privazioni che si dovevano sopportare erano in parte compensate dal fatto che la
vita aveva ora un’assai maggiore dignità di prima. Vi erano più canti, più discorsi,
più parate» (Orwell, 1996, p. 123).
    Oggi, certamente, Orwell avrebbe aggiunto al suo scritto anche l’uso di
pubblicità subliminali e di “informazioni tecniche di servizio” strumenta-

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