POLITICA GLOBALE - Numero 6/2019 - Cgil

Pagina creata da Salvatore Aiello
 
CONTINUA A LEGGERE
POLITICA GLOBALE - Numero 6/2019 - Cgil
Numero 6/2019

Il dibattito economico oltre i confini
a cura dell'Osservatorio Economico e Finanziario
Area Politiche di Sviluppo

Redazione:
Nicoletta Rocchi
Angela Potetti
Paolo Picariello

Breve rassegna di quanto pubblicato negli ultimi mesi sulla politica
economica, finanziaria e monetaria e sull’innovazione tecnologica.

                         POLITICA GLOBALE
SOMMARIO:

In questo numero pubblichiamo innanzi tutto una serie di articoli di
commento a carattere generale sulla fase che sta attraversando il
modello economico e l’organizzazione sociale che ne è scaturita e che
ne sta mettendo in chiara luce i limiti e le contraddizioni. Come potrete
vedere molti sono gli interrogativi, alcuni dei quali esistenziali, ma,
complessivamente, sembra crescere la consapevolezza della necessità
di cambiamento.

Cominciamo col Financial Times del 18.9: La Big Read sulla Economia
Globale curata da Martin Wolf offre una radicale e documentata requisitoria
sulle falle del moderno capitalismo: Abbiamo bisogno di una dinamica
economia capitalistica che dia a tutti la giustificata consapevolezza di poterne
condividere i frutti. “Quella che invece appare sempre più la realtà è un
instabile rentier capitalism, con una competizione indebolite, un’alta
disuguaglianza e una democrazia sempre più degradata. Correggere tutto ciò
è una sfida per tutti noi ma soprattutto per chi guida le più importanti attività
economiche del mondo. Il modo in cui funzionano i nostri sistemi politico ed
economico deve cambiare o moriranno”
Segue un intervento un po' visionario di Paul Mason (editorialista del
Guardian) attento osservatore dei processi in corso e preconizzatore delle
tendenze del capitalismo e dell’organizzazione delle società contemporanee,
comparso su Social Europe del 23.11 in cui l’autore, prendendo a
riferimento la sua città natale, ne inventa il futuro in un’epoca post-capitalista
e lancia la sfida su come arrivarci: La rivoluzione di Manchester.
Su Project Syndicate dell’1.10 anche Simon Johnson (ex capo economista
al FMI e attualmente professore al MIT Sloan) si interroga su Come
ripensare il capitalismo. La tesi è che la crisi finanziaria del 2008, insieme
al fallimento dei tentativi di combattere i cambiamenti climatici e la crescente
disuguaglianza ha logorato il consenso neoliberista che è prevalso negli US e
in genere in tutto il mondo occidentale nelle ultime due generazioni. L’Autore
sostiene che occorra riconsiderare tre aspetti chiave: se gli incentivi di
mercato siano sempre e in tutti i contesti effettivamente positivi; come trovare
un equilibrio tra sforzi pubblici e privati; l’attenzione alle esternalità positive e
negative che l’iniziativa privata non prende in considerazione se non con
riferimento al singolo attore. Dunque torna in campo il governo dell’economia
che per trenta anni è stato considerato blasfemo dall’ideologia dominante.
Su Social Europe del 2.10, Dani Rodrik (professore di economia politica
internazionale alla Kennedy School dell’Università di Harvard) si
interroga – Dovremmo preoccuparci delle differenze di reddito all’interno
e tra i paesi? Egli sostiene che l’ascesa del populismo e del nazionalismo in
tutto l’Occidente è stata alimentata da uno scontro tra obiettivi di equità nei
paesi ricchi e la ricerca di livelli di vita migliori nei paesi poveri. L’aumento
degli scambi commerciali tra i due ha contribuito alla disuguaglianza salariale
nei paesi ricchi. Le politiche economiche che aumentano i redditi nella parte
inferiore del mercato del lavoro e riducono l’insicurezza economica vanno
bene sia per l’equità interna che per il mantenimento di un’economia
mondiale sana che offra alle economie povere la possibilità di svilupparsi
Su Project Syndicate del 2.10 Jim O’Neill (ex presidente Goldman Sachs
Asset Management, presidente di Chatam House) scrive: Il problema dietro
i nostri problemi, sostenendo che oggi molti commentatori fanno
affidamento su una narrazione in cui una crescita debole della produttività, il
populismo e una Cina in crescita stanno minacciando la sopravvivenza
stessa della democrazia occidentale. Tuttavia, è la sua conclusione, la
maggior parte delle cause comunemente identificate del malcontento
occidentale sono in realtà sintomi di una crisi intellettuale più profonda.
Sul Financial Times del 5.9 Tony Barber sostiene che La democrazia deve
riattrezzarsi per prosperare. “Le democrazie possono morire…ma possono
anche essere modernizzate e riportate a buon funzionamento…nelle
condizioni attuali aiuta distinguere tra la necessità di migliorare la
rappresentanza democratica da un lato e di migliorare la coesione e la
prosperità sociale dall’altro”.
Sempre sul Financial Times del 5.9 Rana Foroohar sostiene a sua volta il
ritorno dell’Età della distribuzione della ricchezza. Dall’osservatorio
americano, guardando ai dibattiti per le primarie presidenziali democratiche e
anche alle posizioni di influenti parlamentari repubblicani, sembra declinare la
stella dello shareholder capitalism a favore di una più seria politica
economica e industriale. In sostanza si riscopre il valore del governo
dell’economia e della redistribuzione fiscale. “Si sono sempre attraversati
periodi di accumulazione e di redistribuzione della ricchezza, ma questo non
significa che stiano cambiando le regole per gli investitori. I prezzi di alcuni
asset possono ridursi, ma è possibile che la crescita dei redditi sarà più alta e
ciò sarà positivo sia in termini economici che politici”.
L’editoriale de The Economist del 26.10: Un piano per il capitalismo
americano illustra il piano di Elisabeth Warren, front runner nelle primarie
democratiche per la nomination alla presidenza degli US, le cui elezioni si
terranno il prossimo anno, per ricostruire su basi nuove e diverse il
capitalismo americano. Le proposte della Warren sono coraggiose e radicali.
Dal nostro punto di vista, del tutto condivisibili. La rivista economica
britannica tende a prenderne le distanze.
Su Project Syndicate del 9.10 Dani Rodrik (professore di economia politica
internazionale alla John Kennedy University dell’Università di Harvard) scrive
un articolo – Democrazia a coltello – commentando alcune recenti
pubblicazioni sull’argomento, descrive i limiti e la difficoltà delle democrazia
liberale a proteggere i diritti delle minoranze. “La sorpresa non è che in giro
siano poche le democrazie liberali ma che non ce ne siano affatto: una
conclusione non ceto confortante in un momento in cui la democrazia liberale
sembra minacciata anche laddove sembrerebbe consolidata”.
Sul Financial Times del 24.9 Gedeon Rachman commenta un romanzo
dello scrittore russo Vasily Grossman, “Vita e Destino”: Vita, destino e
assalto al liberalismo. Il romanzo affronta il tema del rapporto tra individui e
organizzazioni e del groviglio di nodi che legano queste ultime quando
trattano le persone come rappresentanti di gruppi anziché come individui.

Seguono una serie di articoli che hanno preso le mosse dalla
dichiarazione della Tavola Rotonda degli affari degli US, un organismo
che raccoglie i capi delle più grandi e importanti aziende americane e
che ha sostenuto la necessità da parte degli operatori economici di
tornare a favorire gli stakeholders anziché il capitalismo degli
shareholders. Sembrerebbe un cambiamento di linea rispetto alla
religione del valore per l’azionista che ha prosperato da almeno due
generazioni di economisti e di manager a questa parte, determinando la
finanziarizzazione estrema dell’economia globale e la concentrazione
sul brevissimo termine. Come si vedrà non mancano i dubbi sulla reale
portata di tale dichiarazione

Cominciamo con un articolo su Social Europe dell’1.10 di Justine Nolan
(prof. associato facoltà di Legge all’Università del Nuovo Galles del Sud-
Australia) e di Martin Boersma (facoltà di Business dell'università della
tecnologia di Sydney): La lunga tortuosa strada per il rispetto dei diritti
dei lavoratori nelle filiere produttive. La dichiarazione della Tavola Rotonda
degli affari degli US a favore degli stakeholders ha aperto la questione della
responsabilità delle imprese – soprattutto deve estendersi alle catene di
approvvigionamento globali. Per la soluzione dei problemi di queste ultime
non esiste una soluzione unica. Occorre tuttavia un approccio olistico che
affronti le cause alla radice.
Sul Financial Times del 14.10 un editoriale affronta lo stesso tema: Come
costruire un capitalismo più responsabile, sostenendo che le aziende
devono adottare scopi più ampi e prospettive di più lungo termine. Come?
Allineando più strettamente gli obiettivi degli asset manager e dei proprietari
con quelli delle aziende purpose-led nelle quali investono; accelerando i
miglioramenti nelle misure non finanziarie che valutano l’impatto delle
aziende sulla società e sull’ambiente; individuando soluzioni strutturali e
normative nuove per assetti societari e governance e cooperando a livello
globale perché le multinazionali paghino la loro giusta quota di tasse.
Su quest’ultimo tema – la fiscalità di impresa - su Project Syndicate del 7.10
interviene specificatamente Joseph Stiglitz: Niente più mezze misure sulle
imposte delle società. A fronte dei cambiamenti climatici, della crescente
disuguaglianza e della possibilità di altre crisi globali, i governi stanno
perdendo centinaia di miliardi di dollari di entrate fiscali a causa
dell’arbitraggio fiscale delle società. Tuttavia, nonostante le evidenti carenze
del regime fiscale globale, i responsabili politici continuano a proporre solo
correzioni frammentarie. Le attuali proposte di riforma della tassazione
globale sono largamente insufficienti. Invece è fondamentale che le
multinazionali siano costrette a fare la loro parte.
Sul Financial Times del 23.9 Rana Foroohar scrive: Il lavoro organizzato
è ritornato. La tersi della giornalista è che negli US si è prossimi a uno
spostamento dell’economia orientata finanziariamente a un’economia guidata
di più dalla crescita dei redditi: un cambiamento che renderebbe l’economia
più robusta e meno volatile.
Su Project Syndicate del 24.10 Laura Tyson (professoressa alla Haas
School della Berkeley University-California) illustra Un nuovo approccio per
proteggere i Gig Workers. Una recente legge della California impedisce alle
società piattaforma come Uber, Lyft e DoorDash di classificare erroneamente
come contraccusa indipendenti anziché come dipendenti i loro oltre 400.000
conducenti. E’ un primo passo importante verso la protezione dei lavoratori in
un mercato del lavoro che sta accrescendo la loro insicurezza economica.
Sulla stessa lunghezza d’onda sul Financial Times del 2.10, Leo Strine
(giudice capo della Suprema Corte del Delaware) scrive un articolo – I
lavoratori devono essere al cuore delle priorità delle aziende – in cui
sostiene che il sistema della corporate governance degli US ha perso di vista
i suoi fini. Le aziende sono diventate troppo reattive ai desideri immediati del
mercato azionario ma non riescono a muoversi verso pratiche di business
sostenibili, a investire adeguatamente nel capitale umano, a dividere
equamente coi lavoratori la ricchezza prodotta. Per questo è necessario
equiparare gli interessi degli investitori istituzionali e delle aziende a quelli dei
lavoratori di cui controllano il capitale.
Sul Financial Times del 24.9 il Big Read: La company del futuro, Andrew
Hill (presidente di Blueprint for better business, a charity) sostiene che sta
cominciando a sgretolarsi il consenso generale intorno al fatto che le aziende
dovrebbero concentrarsi solo sul fare denaro. Tuttavia la definizione e il
perseguimento di uno scopo più ampio è gravido di rischi e di possibili
manipolazioni da parte degli executives.

Infine una serie di articoli che ritornano sugli aspetti principali della
condizione dell’economia globale. Tra stagnazione secolare, incapacità
di cogliere gli obiettivi inflattivi da parte delle banche centrali e
l’esaurirsi degli strumenti di intervento disponibili a queste ultime in
caso di nuova crisi economica, continua il dibattito su cause e possibili
strade per affrontarle. Le posizioni in campo sono diversificate.

Iniziamo con un articolo di Martin Wolf sul Financial Times del 16.10:
Stiamo giocando col fuoco in una casa di legno. Il problema che allarma
molti osservatori economici è il rallentamento globale sincronizzato e i
problemi che esso crea non solo in termini di accresciuta incertezza ma
anche di capacità di intervento dei policymakers. Occorre un rinnovato
impegno alla cooperazione internazionale e accantonare “stupid stuff” come
ad esempio la fissazione di eliminare i deficit di bilancio.
Segue un articolo comparso su Project Syndicate del 14.10 a firma
congiunta di Eswar Prasad (prof. Di politica commerciale alla Dyson School
of applied economics and management della Cornell University) e di Ethan
Wu (studente della Cornell University): La stagnazione sincronizzata può
essere fermata? La tesi sostenuta è che, dato il rischio crescente di
stagnazione economica, i governi potrebbero presto avere bisogno di fornire
ulteriori stimoli insieme a più ampie riforme strutturali. Ma molti governi sono
apparentemente privi della volontà politica di adottare un approccio simile e
sarà probabilmente la politica monetaria a continuare a caricarsi dell’onere
pesante e sempre più insostenibile della crescita.
Sul Financial Times del 23.10 un editoriale: Politica monetaria: US e
Europa temono la “giapponesizzazione”. In molti sollevano la domanda se
quello che sta avvenendo in US e in Europa sia lo stesso che è accaduto in
Giappone negli anni ’90 a causa del forte legame che molti analisti vedono tra
i risultati economici e l’invecchiamento demografico. Nei prossimi decenni ci
sarà un drammatico invecchiamento dei paesi sviluppati e, se molti
economisti ritengono che sia possibile combattere la giapponesizzazione con
politiche fiscali e monetarie aggressive, se il problema di fondo è
l’invecchiamento demografico, la giapponesizzazione è appena iniziata.
Financial Times 18.9 Big Read
Global Economy (Martin Wolf)

Una dinamica economia capitalistica offre a tutti la fiducia di poterne condividere i
benefici. Invece, competizione debole, flebile crescita della produttività e degrado
della democrazia sono bocciati dai cittadini

"Mentre ognuna delle nostre singole aziende serve i propri obiettivi corporate, noi tutti
condividiamo un impegno fondamentale nei confronti di tutti i nostri stakeholders".
Con questa frase il Business Roundtable US, che rappresenta gli amministratori delegati
di 181 delle più grandi aziende del mondo, ha abbandonata la sua antica visione per la
quale "le aziende esistono principalmente per servire i loro shareholders".
Questo è certamente un momento - ma cosa significa - e dovrebbe - questo momento? La
risposta deve partire con il riconoscimento del fatto che qualcosa è andato molto male.
Negli ultimi 40 anni, e soprattutto negli US, il paese più importante di tutti, abbiamo
osservato una trinità scellerata di rallentamento della crescita della produttività, di forte
aumento della disuguaglianza e di enormi shock finanziari.
Come hanno notato su un paper dello scorso anno Jason Furman dell'università di
Harvard e Peter Orszag di Lazard Fresare: " Dal 1948 al 1973, negli US il reddito reale
della famiglia mediana cresceva a un tasso del 3% l'anno. A quella percentuale...c'era il
96% di possibilità che un figlio avrebbe avuto un reddito superiore a quello dei suoi
genitori. Dal 1973, la famiglia mediana ha visto una crescita del reddito reale solo dello
0.4% annuo. .. ne è conseguito che il 28% dei figli ha un reddito inferiore a quello dei
propri genitori".
Allora, perché l'economia è inadempiente? La risposta, in gran parte, sta nella crescita del
"rentier capitalism" (capitalismo che vive di rendita). In questo caso "rent" (rendita)
significa ricompense sopra e oltre quelle richieste a indurre la desiderata offerta di beni e
servizi, terra e lavoro. "Rentier capitalism" significa un'economia in cui il mercato e il
potere politico permette a individui e business privilegiati di estrarre molta di tale rendita da
tutti gli altri.
Questo non spiega ogni insuccesso. Come sostiene Robert Gordon, professore di scienze
sociali alla Northwets Univerasity, l'innovazione di base è rallentata dopo la metà del
20esimo secolo. La tecnologia inoltre ha creato maggiore dipendenza dai laureati ed ha
aumentato le loro retribuzioni relative, spiegando in parte la crescita della disuguaglianza.
ma la quota di reddito prima delle tasse del top 1% dei percettori di reddito US è balzata
dall'11% negli anni '80 al 20% nel 2014. Questo non è dipeso principalmente da tale
cambiamento tecnologico basato sulla professionalità.
Se si ascoltano i dibattiti politici in molti paesi, soprattutto nell'UK e negli US,si potrebbe
concludere che l'insuccesso è in modo particolare colpa dell'import dalla Cina o degli
immigranti low-wage o di entrambe le cose. Gli stranieri sono i capri espiatori ideali. Ma
l'idea che la crescente disuguaglianza e la lenta crescita della produttività siano dovute
agli stranieri è del tutto sbagliata.
Oggi tutti i paesi occidentali ad alto reddito commerciano con i paesi emergenti e in via di
sviluppo più di quanto facessero 40 anni fa. Tuttavia la crescita della disuguaglianza è
variata significativamente. Il risultato dipende da come hanno funzionato le istituzioni
dell'economia di mercato e dalle scelte di politica interna.
L'economista di Harvard, Elhanan Helpman finisce la sua panoramica su un'enorme
letteratura accademica sul tema concludendo che "la globalizzazione, nella forma del
commercio straniero e dell'offshore non ha dato un grande contributo alla crescita della
disuguaglianza. Una molteplicità di studi di diversi eventi in giro per il mondo arrivano a
questa conclusione".
Lo spostamento della localizzazione di buona parte del manifatturiero, principalmente in
Cina, può avere abbassato un po' l'investimento nelle economie ad alto reddito. Ma questo
effetto non può avere avuto potenza tale da ridurre significativamente la crescita della
produttività. Al contrario,il cambiamento nella divisione internazionale del lavoro ha indotto
le economie ad alto reddito a specializzarsi in settori skill-intensive, dove c'era maggiore
potenziale per una rapida crescita della produttività.
Donald Trump, un mercantilista naive, insiste invece sugli squilibri commerciali bilaterali
come causa di perdita di lavoro. Questi deficit riflettono cattivi accordi commerciali, insiste
il presidente americano. È vero che gli US hanno complessivamente deficit commerciali
mentre l'EU ha surplus. Ma le loro politiche sono abbastanza simili. Le politiche
commerciali non spiegano i saldi bilaterali, i quali, a loro volta, non spiegano i saldi
complessivi. Questi ultimi sono un fenomeno macroeconomico Sia la teoria che la pratica
concordano su questo.
Anche l'impatto economico dell'immigrazione è stato piccolo per quanto grande possa
essere lo "shock politico e culturale degli stranieri". La ricerca afferma con forza che
l'effetto dell'immigrazione sui guadagni reali della popolazione nativa e sulla posizione
fiscale dei paesi ospitanti è stata piccola e frequentemente positiva.

La finanza improduttiva

Molto più produttivo di questo focus, politicamente appagante ma sbagliato, sul danno
fatto dal commercio e dalla migrazione è l'esame del capitalismo contemporaneo stesso, il
"rentier capitalism".
La finanza gioca un ruolo chiave a diverse dimensioni. La liberalizzazione della finanza
tende a metastatizzarsi, come un cancro. Pertanto, la capacità del settore finanziario di
creare credito e denaro finanzia le sue stesse attività, redditi e profitti (spesso illusori).
Nel 2015, uno studio di Stephen Cecchetti e Enisse Kharroubi per la Banca dei
Regolamenti Internazionali ha detto che "il livello dello sviluppo finanziario va bene fino a
un certo punto, dopo il quale comincia a frenare la crescita e la rapida crescita del settore
finanziario è a detrimento della crescita aggregata della produttività". Quando il settore
finanziario cresce rapidamente, assume persone di talento. Questi poi fanno credito
garantito dalla proprietà, perché genera collaterali. Questa è una diversione delle risorse
umane talentuose in direzioni inutili e improduttive.
Di nuovo, l'eccessiva crescita del credito quasi sempre porta a crisi, come hanno
dimostrato Carmen Reinhard e Kenneeth Rogoff in This Time is different. Questo perché il
governo moderno osa permettere a un settore finanziario, che si suppone guidato dal
mercato,a operare senza guida e senza aiuto. Ma questo, a sua volta, crea enormi
opportunità di guadagnare dall'irresponsabilità:i capi, loro vincono; le code, il resto di noi,
perdono. E sono garantite altre crisi.
La finanza crea anche l'aumento della disuguaglianza. Thomas Phillon, della Stern School
of Business e Ariell Reshef della Paris School of Economics hanno dimostrato che i
guadagni relativi dei professionisti della finanza sono esplosi negli anni '80 con la
deregolamentazione della finanza. Essi stimano che le rendite "rents" - i guadagni sopra e
oltre quelli necessari ad attrarre le persone nell'industria - rappresentano dal 30 al 50% dei
differenziali retributivi tra i professional della finanza e il resto del settore privato.
L'esplosione dell'attività finanziaria dagli anni '80 non ha aumentato la crescita della
produttività. Anzi, la ha abbassata, specie dalla crisi. Lo stesso vale per l'esplosione delle
retribuzioni del management corporate, un'altra forma ancora di estrazione di rendita.
Come nota Deborah Hargreaves, fondatrice dell'High Pay Centre, nell'UK, in media il
rapporto tra retribuzioni dei chief executive e quelle dei lavoratori medi è aumentata da 48
a 1 nel 1998 a 129 a 1 nel 2016. negli US, lo stesso rapporto è aumentato da 42 nel 1980
a 347 nel 2017.
Il saggista US HL Mencken ha scritto: "Per tutti i problemi complessi c'è una risposta che è
chiara, semplice e sbagliata". Le retribuzioni legate al prezzo delle azioni ha dato al
management un enorme incentivo ad aumentare quel prezzo, manipolando i guadagni o
prendendo a prestito il denaro per comprare le azioni. E questo non aggiunge valore alla
azienda. ma possono aggiungere molta ricchezza al management. Un problema collegato
con la governance sono i conflitti di interesse, in particolare l'indipendenza dei controllori.
In sintesi, le considerazioni finanziarie personali permeano il decision-making corporate.
Come economista indipendente, Andrew Smithers sostiene in "Produttività e Cultura dei
bonus" che questo avviene a spese dell'investimento corporate e quindi della crescita di
lungo termine della produttività. Una questione forse anche più fondamentale è il declini
della concorrenza. Furman e Orszag dicono che c'è la prova della accresciuta
concentrazione di mercato negli US, un tasso più basso di ingresso di nuove aziende e
una quota più bassa di aziende giovani nell'economia rispetto a 30 o 40 anni fa. Un lavoro
dell'OCSE e della Oxford Martin School nota anche l'allargarsi della differenza nella
produttività e nel rialzo dei profitti tra le aziende leader e il resto. Questo suggerisce un
indebolimento della concorrenza e la crescita della rendita monopolistica. Per di più, una
gran parte della crescita della disuguaglianza nasce da ritorni radicalmente diversi per i
lavoratori con professionalità simili in aziende diverse: anche questa è una forma di
estrazione di rendita.
Parte della spiegazione dell'indebolimento della concorrenza è "winner takes almost all"
markets (il vincitore prende quasi tutto il mercato): individui superstar e le loro aziende
guadagnano rendite monopolistiche, perché ora possono servire così a buon mercato i
mercati globali. Le esternalità del network - i benefici di usare i network che stanno usando
altri - e i zero marginal cost dei platform monoply (Facebook, Google, Amazon, Alibaba e
Tencent) sono esempi dominanti.
Un'altra di tali forze naturali sono le network externalities delle agglomerazioni, sottolineate
da Paul Collier in The Future of Capitalism. Le aree metropolitane di successo - Londra,
New York, l'area della baia in California - generano potenti cicli di retroazione, attraendo e
premiando le persone di talento. Questo svantaggia le attività economiche e le persone
intrappolate nelle città rimaste indietro. Anche le agglomerazioni creano rendita, non solo i
prezzi degli immobili ma anche i guadagni.

Il monopolio conta

Tuttavia la rendita non è solo il prodotto di tali naturali - sebbene preoccupanti - forze
economiche. È anche il risultato della policy. Negli US, il professore di diritto della Yale
University,Robert Bork ha sostenuto negli anni '70 che "il benessere del consumatore"
dovrebbe essere l'unico obiettivo di una politica antitrust.
Analogamente alla massimizzazione del valore per gli azionisti, questo iper-semplifica temi
altamente complessi. In questo caso, porta alla compiacenza verso il potere del
monopolio, a condizione che i prezzi restino bassi. Ma gli alberi alti privano i virgulti della
luce di cui hanno bisogno per crescere. Così anche le giant companies.
Qualcuno potrebbe sostenere, con compiacenza, che la "monopoly rent" che vediamo ora
nella economie leader è largamente il segno della "distruzione creativa" esaltata
dall'economista austriaco Joseph Schumpeter. Nei fatti non siamo assistendo a sufficiente
creazione o crescita della produttività per sostenere con convinzione questa ipotesi.
Un malfamato aspetto della rent seeking è la radicale elusione fiscale. Le corporation (e
quindi gli shareholder) beneficiano dei beni pubblici - sicurezza, sistemi giuridici,
infrastrutture, forza lavoro istruita e stabilità sociopolitica - offerte dalla più potenti liberal-
democrazie. E tuttavia sono anche in una posizione perfetta per sfruttare le scappatoie,
specie quelle aziende di cui è difficile determinare la locazione delle produzioni e
dell'innovazione.
Le sfide più grandi all'interna del sistema fiscale corporate sono la concorrenza fiscale e
l'erosione della base e lo spostamento dei profitti. La prima la si può vedere nel calo delle
aliquote fiscali. La seconda nella collocazione della proprietà intellettuale nei paradisi
fiscali, nel caricare il debito deducibile dalle imposte sugli utili che maturano nelle
giurisdizioni a tassazione più alta e nel manipolare i prezzi di trasferimento all'interno delle
aziende.
Uno studio del 2015 del FMI ha calcolato che l'erosione della base imponibile e lo
spostamento dei profitti ha ridotto gli introiti annui di lungo termine nei paesi dell'OCSE di
circa 450 miliardi di dollari (1% del PIL) e nei paesi non-OCSE di poco più di 200 miliardi di
dollari (1.3% del PIL). Sono cifre significative nel contesto di una tassa che, nel 2016, ha
raccolto in media solo il 2.9% del PIL nei paesi OCSE e solo il 2% negli US.
Brad Setser del Council on Foreign Relations mostra che le corporations US denunciano
sette volte più profitto nei piccoli paradisi fiscali (Bermuda, Caraibi britannici, Irlanda,
Lussemburgo, Olanda, Singapore, Svizzera) che in sei grandi economie (Cina, Francia,
Germania, India, Italia e Giappone). È ridicolo. La riforma fiscale di Trump non ha
cambiato praticamente niente. Inutile dire, non sono solo le aziende US a beneficiare di
tali scappatoie.
In questo caso, le rendite non solo sono sfruttate. Esse vengono create attraverso il
lobbying per scappatoie distorcenti e ingiuste e contro la necessaria regolamentazione
delle fusioni, delle pratiche anti-concorrenziali, del cattivo comportamento finanziario, dei
mercati dell'ambiente e del lavoro.. Il Lobbying corporate travolge gli interessi dei cittadini
normali. Infatti, alcuni studi suggeriscono che i desideri delle persone normali contino
quasi zero nel policymaking.
Non da ultimo, da momento che alcune delle economie occidentali che sono diventate più
latino-americane nella loro distribuzione del reddito, esse lo sono diventate anche nella
loro politica. Alcuni dei nuovi populisti stanno considerando cambiamenti radicali ma
necessari nelle politiche della concorrenza, fiscali e regolamentari. Ma altri puntano su
fischietti xenofobi mentre continuano a promuovere un capitalismo truccato per favorire
una piccola elite. Tali attività potrebbero portare alla fine della stessa democrazia liberale.

Chiudere le scappatoie

I membri della Business Roundtable e i loro pari hanno dure domande da farsi. Hanno
ragione: la ricerca della massimizzazione del valore si è dimostrata una dubbia guida alla
gestione delle corporations. Ma tale consapevolezza è solo l'inizio. Non la fine. Devono
chiedersi cosa questa nuova comprensione significhi per come costruire le loro retribuzioni
e per come sfruttano - e creano attivamente - scappatoie legislative e fiscali.
Devono considerare le loro attività nella pubblica arena. Cosa stanno facendo per
assicurare leggi migliori per governare la struttura della corporation, per un sistema giusto
ed efficace, una rete di sicurezza per chi viene colpito dalle forze economiche che vanno
al di là del loro controllo, per un ambiente locale e globale salubre e una democrazia che
risponda ai desideri di una vasta maggioranza?
Abbiamo bisogno di una dinamica economia capitalistica che dia a tutti la giustificata
consapevolezza che possono condividerne i frutti. Quelle che invece sembra che abbiamo
sempre di più è un instabile rentier capitalism, una competizione indebolita, un'alta
disuguaglianza e una democrazia sempre più degradata. Correggere tutto ciò è una sfida
per tutti noi, ma soprattutto per chi guida le più importanti attività economiche del mondo. Il
modo in cui funzionano i nostri sistemi politico ed economico deve cambiare o moriranno.
Social Europe 23.10
La rivoluzione di Manchester (Paul Mason (editorialista The Guardian)

Paul Mason reinventa la sua nascita in un'epoca post-capitalista e lancia la sfida su
come arrivarci.

Immagina questo: un bambino nasce in una città in cui il 40% della forza lavoro produce
cose con macchine e lavoro manuale. La relazione sociale dominante è la relazione
salariale. Il contratto sociale è forte e mediato dalla tassazione. La maggior parte dei
servizi è fornita dallo stato.
Sessanta anni dopo nasce un bambino nella stessa città. Ora solo il 10% della
popolazione è coinvolto nella produzione e, di questa, la metà è impegnata in attività che
assomigliano più alla scienza o all'informatica. Le forme di sfruttamento da parte del
capitale sono ora principalmente finanziarie, con la relazione salariale che ha assunto un
ruolo secondario rispetto all'estrazione del valore - attraverso interessi, prezzi di
monopolio, lavoro sottopagato e sfruttamento di dati comportamentali. La maggior parte
dei servizi viene fornita tramite il mercato.
Nel ciclo dei 250 anni di vita del capitalismo industriale, quella parte degli ultimi 60 anni ha
chiaramente visto una grande mutazione. È stata guidata dalla tecnologia, dalla
globalizzazione e dallo sviluppo umano. E il suo impatto sociale è chiaro.
Negli anni '60, le strade della città erano tranquille durante il giorno e come una tomba la
domenica. C'era una chiara linea di demarcazione tra lavoro e tempo libero. Oggi le strade
di quella città pullulano di caffè all'aperto; i marciapiedi sono pieni di persone che
conversano o consultano dispositivi intelligenti mentre camminano.
Negli anni '60, un importante scienziato della città fu perseguitato per essere privatamente
gay. Oggi il suo viso è sulla banconota da £50 e la città ha un intero quartiere dedicato alla
cultura gay.
La città è Manchester, alla cui periferia sono nato nel 1960. Ben nota come base zero
della rivoluzione industriale, le sue attuali dinamiche della forza lavoro sono sorprendenti.
Su una popolazione in età lavorativa di 1.760.000 persone, il 24% lavora in servizi
finanziari e professionali; il 20% lavora in sanità, istruzione e assistenza sociale; solo il
10% lavora nella produzione.

Oltre il carbonio e il capitalismo

La domanda è: che aspetto avrà Manchester tra altri 60 anni? Voglio concludere questa
serie di saggi cercando di immaginare il risultato migliore possibile di una transizione oltre
il carbonio e il capitalismo nel luogo di nascita della produzione industriale.
Entro 60 anni dovrebbe essere del tutto possibile automatizzare completamente la
produzione, riducendo la forza lavoro nella maggior parte degli impianti a una piccola
funzione di supervisione. A quel punto dovremmo essere ben oltre la semplice
automatizzazione dei processi umani: i processi stessi saranno essenzialmente non
umani. Potremmo "far crescere" un oggetto metallico o stamparlo, proprio come oggi le
pale di turbofan sono formate da un singolo cristallo metallico in condizioni simili a quelle
di un laboratorio.
Quindi forse più del 95 percento della forza lavoro sarà concentrata nei servizi, molti dei
quali da uomo a uomo. Poiché avremo eliminato la speculazione finanziaria e
automatizzato molti processi finanziari - come banche commerciali, diritto commerciale,
contabilità e mercati a termine - anche la forza lavoro finanziaria sarà piccola. Ma la forza
lavoro nel campo della salute, della cultura, dello sport e dell'istruzione sarà grande,
eclissando il settore dei servizi alle imprese, così come ora essi stanno eclissando la
produzione.
La maggior parte delle persone "lavorerà solo due o tre giorni alla settimana e il lavoro
sarà, come oggi, una miscela di lavoro e svago. Il famoso rimprovero di Karl Marx a
Charles Fourier - che il lavoro "non può diventare un gioco" ma si riduce solo nel tempo -
sarà stato smentito. Ma avevano entrambi ragione: l'automazione ha ridotto le ore di
lavoro e sfocato i confini.
Non ci saranno monopoli tecnologici: solo una miscela di piccole e medie imprese (PMI)
innovative, che realizzano profitti tradizionali e servizi pubblici di informazione, che fanno
pagare solo i costi di produzione e manutenzione.
L'assistenza sanitaria olistica (comprese la salute mentale, la fisioterapia e l'odontoiatria),
l'istruzione a livello di laurea e il trasporto urbano saranno gratuiti. L'affitto medio sarà pari
a circa il 5% del salario medio (come nella Vienna rossa negli anni '20), e il tasso di
interesse sui mutui sarà limitato allo stesso livello.
Entro il 2080 la città avrà raggiunto da tempo un obiettivo carbon zero e il suo governo
progressista sarà impegnato in processi innovativi per rimuovere il carbonio dall'atmosfera
e fare riparazioni di carbonio nel resto del mondo.

Lotta culturale e politica

La prossima domanda è: come siamo arrivati fin qui?
In primo luogo, abbiamo trasformato il decennio 2020-30 in una lotta culturale e politica di
massa per un nuovo tipo di capitalismo. Sono stati formati governi che reprimevano la
finanza speculativa; si è costruito un milione di nuove case sociali verdi ed è iniziato l'
inverdimento di tutte le rimanenti abitazioni; è stata sovvenzionata la creazione di nuovi
sistemi di trasporto urbano e la rimozione dalla strada di tutte le auto e i camion
benzina/diesel; sono stati spacchettati o nazionalizzati i monopoli tecnologici, rendendo di
proprietà comune la registrazione dei dati; si è favorita consapevolmente la creazione di
un grande settore granulare senza fini di lucro, tra cui banche, punti vendita, fornitori di
servizi sanitari e sociali e centri di produzione culturale; e si è rimossa ogni coercizione dal
sistema di welfare, fondendo pensioni e benefici statali in un unico, modesto reddito di
base, sancito come un diritto nella costituzione.
Il risultato, arrivati al 2030, era ancora il capitalismo. Ma il governo aveva imparato a
misurarlo in modo diverso, non solo calcolando il valore aggiunto lordo ma misurando i
risultati fisici, le ore lavorate e la produttività. Se nel 2020 "l'utilità economica totale" era
divisa in: 40 per cento stato, 59 per cento mercato e 1 per cento senza scopo di lucro, nel
2030 circa il 10 per cento dell'economia funzionava "a costo". Il prodotto interno lordo
nominale si era stabilizzato e aveva iniziato a ridursi.
Di conseguenza, i mercati finanziari avevano iniziato a valutare la soppressione della
speculazione e l'eventuale fine del processo di accumulazione del capitale. In una parola,
hanno sofferto di panico - sulla prospettiva di un mondo post-carbonio e post-capitalista - e
lo stato e la banca centrale sono stati costretti a intervenire per salvare, stabilizzare e
possedere l'infrastruttura finanziaria, permettendo al capitale speculativo di fallire. L'intero
salvataggio è stato finanziato creando denaro presso la banca centrale e monetizzando il
debito nazionale.
Gli anni 2020 sono stati combattuti come una battaglia tra un'economia centrata sul
profitto e un'economia centrata sul popolo e sul pianeta. Il governo socialdemocratico
radicale, riconoscendo i pericoli di un intervento statale troppo rapido e drammatico, ha
favorito consapevolmente la ricrescita di un settore privato su scala di PMI, usando
interventi e finanziamenti pubblici per fare crescere di numero gli imprenditori dalle
operazioni di basso valore e verso l'innovazione tecnologica e sociale.
Il sistema economico mondiale, che nel 2020 si stava già disintegrando, non poteva
sopravvivere all'adozione simultanea del post-capitalismo verde da parte dei partiti liberali
e socialdemocratici. Nel 2030 si è ritrovato frammentato in blocchi regionali, con l'Europa
che aveva avuto il maggior successo, la Cina che aveva abbracciato e assorbito la
maggior parte della Russia, dell'Asia centrale e del Nord America, in un mercato
abbastanza autonomo.
Dopo il 2030, tuttavia, con la soppressione della globalizzazione finanziaria, è rivissuta
UNA nuova forma di globalizzazione economica, basata su viaggi, condivisione di
informazioni e commercio di materie prime.
Tra il 2030 e il 2050 il governo della città di Manchester ha dato priorità in modo
aggressivo all'idea di una giusta transizione allo stato zero-net-carbon. Ha funzionato
come una città-regione, distribuendo le principali entità di servizio come le università, le
istituzioni di ricerca e sviluppo e le grandi strutture sanitarie nelle ex-realtà industriali un
tempo stagnanti.
Entro il 2040 il centro di Manchester si è svuotato di veicoli, con biciclette, tram e
passeggiate nelle principali modalità di trasporto. Resta in vigore il razionamento del volo
ma ci sono sviluppi promettenti nell'aviazione di massa, senza emissioni di carbonio, a
celle a combustibile, quindi la città decide di mantenere l'aeroporto di Manchester,
nonostante le richieste dei radicali di eliminarlo.
Il fiume Irwell, inquinato nel 2020 come quando Friedrich Engels lo fissava dal Ducie
Bridge, ora ha lontre che giocano sulle sue sponde e sul fiume - da qualche parte tra
Ramsbottom e Bacup - ci sono castori. Per quanto riguarda la vita sociale della città, è
diversa come lo è adesso rispetto all'età del dopoguerra di Ena Sharples e Stan Ogden
(personaggi della soap a base di Salford, Coronation Street ), ma non riesco a prevedere
come.

Mancanza di immaginazione

Per sopravvivere alle battaglie degli anni 2020, la sinistra deve immaginare la propria
utopia. Ma ciò che è frustrante dell'attuale attenzione al raggiungimento della neutralità del
carbonio è la totale mancanza di immaginazione - tra politici, scienziati e manifestanti - su
come dovrebbe essere l'economia, come condizione preliminare per raggiungerla. In un
certo senso, il fallimento dell'immaginazione economica è comprensibile. L'economia
come disciplina accademica di massa è decollata solo negli ultimi 60 anni e il suo principio
fondamentale è stato che. .. nulla di diverso è possibile. Ma poiché il mondo è ora
costretto a immaginare il capitalismo senza carbonio, deve anche essere costretto a
contemplare un'economia senza lavoro obbligatorio.
L'obiettivo è rendere l'economia priva di carbonio e circolare in termini di risorse, è quello
di ridurre le ore lavorate e promuovere aumenti misurabili della salute umana e della
felicità, quello di riconnettere la cintura di ruggine suburbana con il centro e trovare fonti di
cibo sostenibili. Modellare e testare i percorsi di transizione deve diventare un compito
mortalmente serio.
La città sarà l'unità principale per effettuare questa transizione: è abbastanza grande da
operare su scala ma abbastanza piccola da consentire di provare diversi percorsi di
transizione in diverse città e in modo che la popolazione possa sentirsi vicina al processo
decisionale e sperimentare direttamente i risultati.
Nel 1960, quando nacqui, Manchester sembrava e si sentiva una versione elettrificata del
suo sé del XIX secolo: c'erano ancora ciminiere, strade acciottolate e fuochi di carbone.
Oggi sembra che sia passata un'era. Entro l'anno 2080 deve aver avuto luogo un'altra
transizione qualitativa. Ma non inizierà nemmeno se non riusciamo a immaginarla.
Project Syndicate 1.10
Come ripensare il capitalismo
(Simon Johnson ex capo economista FMI, prof. al MIT Sloan)

La crisi finanziaria del 2008, insieme ai falliti sforzi per combattere i cambiamenti
climatici e alla crescente disuguaglianza, ha logorato il consenso neoliberista che
ha prevalso negli Stati Uniti e in gran parte dell'Occidente per più di due
generazioni. Tre questioni devono essere considerate nel valutare ciò che verrà
dopo.

WASHINGTON, DC - La United States Business Roundtable, un'organizzazione di
amministratori delegati di grandi aziende statunitensi, ha recentemente rilasciato una
dichiarazione che ha suscitato grande scalpore in alcuni ambienti. Piuttosto che
concentrarsi principalmente o esclusivamente sulla massimizzazione del valore per gli
azionisti, sostengono i titani corporativi americani, le aziende dovrebbero attribuire
maggiore peso al benessere della loro più ampia comunità di stakeholder, inclusi
lavoratori, clienti, vicini e altri.
Dato che gli amministratori delegati di grandi aziende vengono assunti e licenziati
principalmente sulla base del loro contributo agli utili, tali dichiarazioni vanno prese con un
certo cinismo. A meno che e fino a quando gli incentivi creati dai mercati finanziari non
cambieranno, dovremmo aspettarci che prevalga il motivo del profitto a breve termine.
Le opinioni della Business Roundtable fanno parte di tentativi più ampi di reimmaginare il
capitalismo - costituiscono l'argomento degli attuali corsi di alto profilo presso la Harvard
Business School, la Brown University e altrove. Nel suo recente libro The Economists'
Hour, Binyamin Appelbaum, un influente giornalista del New York Times, sostiene che gli
economisti debbano essere incolpati di aver inclinato troppo il mondo verso i profitti. E i
candidati presidenziali democratici stanno avanzando idee che vanno dalla modesta
riforma a una revisione più sostanziale del funzionamento dei mercati.
Ci sono tre principali considerazioni da fare quando si pensa come riadattare i mercati
all'attuale economia americana.
Il primo problema è che gli incentivi di mercato sono effettivamente positivi in alcuni
contesti. Se sei un imprenditore e vuoi raccogliere capitali, fare appello a un bene sociale
più ampio ti farà guadagnare molto poco. Per trasformare un settore - e sfidare gli
operatori storici rappresentati nella Business Roundtable - è necessario un modello di
business che prometta profitti futuri. Ad esempio, il capitale di rischio privato ha finanziato
il processo di conversione della ricerca sul genoma umano in farmaci salvavita negli ultimi
due decenni.
In secondo luogo, occorre ovviamente trovare un equilibrio tra gli sforzi pubblici e privati
(in cerca di profitto). L'argomento più forte di Appelbaum è che i principali economisti
hanno denigrato l'azione pubblica e, almeno dagli anni '60, hanno visto gli affari privati
attraverso occhiali tinti di rosa. Come sottolinea correttamente James Kwak (il mio
coautore su altre questioni), dietro lo sviluppo e la diffusione di queste idee si nascondono
potenti interessi (sebbene il suo libro, Economism, evidenzia anche come i politici
distorcano le analisi economiche sensate per sostenere l'opinione ingenua che l' impresa
è infallibile).
In terzo luogo, il settore privato in genere non considera le esternalità positive e negative -
azioni che riguardano altre persone ma non l'attore. Ad esempio, in Jump-Starting
America, Jonathan Gruber e io sosteniamo che il settore pubblico ha un ruolo importante
da svolgere nell'investimento scientifico di base, poiché le conoscenze generali che ne
risultano influenzano molte persone, in modi difficili da prevedere. Questa era esattamente
la logica alla base del sostegno governativo di grande successo fornito al progetto sul
genoma umano; motiva anche il finanziamento più ampio fornito al National Institutes of
Health. Quasi tutte le medicine moderne emergono da un processo supportato, nelle sue
prime fasi, dall'NIH.
Anche il settore privato non è generalmente bravo a regolarsi, sempre a causa
principalmente delle esternalità. Ad esempio, le società del settore finanziario fanno
pressioni per allentare la regolamentazione, consentendo loro di realizzare profitti più
elevati ma anche di assumersi maggiori rischi. Nessuna singola azienda si preoccupa
abbastanza dei rischi per l'intero sistema. Allo stesso modo, le compagnie energetiche
vogliono estrarre più risorse naturali. I loro amministratori delegati non sono pagati per
preoccuparsi dei cambiamenti climatici.
Il modello a lungo prevalente per l'economia statunitense era quello di consentire al
mercato di organizzare la maggior parte delle attività economiche e quindi di regolare o
ridistribuire in relazione ai risultati. Ma la crisi finanziaria del 2008, insieme a falliti sforzi
per combattere i cambiamenti climatici e risultati economici a lungo termine deludenti per
la maggior parte degli americani (mentre alcuni ricchi sono diventati molto più ricchi), ha
logorato il consenso alla base di questo modello.
Possiamo avere una forma più inclusiva di capitalismo che produca risultati migliori? Sì,
secondo la senatrice Elizabeth Warren, che si candida alla nomina presidenziale
democratica su una piattaforma a favore delle riforme. Warren, che si è fatta un nome
politico sostenendo una più forte protezione dei consumatori per i prodotti finanziari, non è
affatto anti-mercato. Piuttosto, sostiene che la progettazione diversa di strutture di mercato
porterà a risultati diversi (e migliori). Molte delle sue varie proposte equivalgono a
ripensare ciò che è consentito in termini di strutture di mercato e comportamenti
consolidati, nonché di come limitare l'influenza del denaro in politica.
Il mercato non è necessariamente buono o cattivo. Ciò che si ottiene dal capitalismo
dipende da come lo si modella. Se fai affidamento su persone facoltose e imprese già
potenti per prendere le decisioni chiave, otterrai soprattutto ciò che già hai: un'economia
altamente diseguale, incline a crisi, che si precipita a capofitto verso una catastrofe
climatica.
Social Europe del 2.10
Dovremmo preoccuparsi delle differenze di reddito all'interno e tra i paesi?
Dani Rodrik (prof. di economia e politiche internazionali alla Kennedy School
Università di Harvard)

L'ascesa del nazionalismo populista in tutto l'Occidente è stata in parte alimentata
da uno scontro tra gli obiettivi di equità nei paesi ricchi e standard di vita più elevati
nei paesi poveri.

All'inizio delle lezioni ogni autunno, prendo in giro i miei studenti con la seguente
domanda: è meglio essere poveri in un paese ricco o ricchi in un paese povero? La
domanda in genere invita a un dibattito considerevole e inconcludente. Ma possiamo
escogitare una versione più strutturata e limitata della domanda, per la quale esiste una
risposta definitiva.
Riduciamo l'attenzione ai redditi e supponiamo che le persone si preoccupino solo dei
propri livelli di consumo (ignorando la disuguaglianza e le altre condizioni sociali). 'Ricco' e
'povero' sono quelli rispettivamente nella parte superiore e inferiore del 5% della
distribuzione del reddito. In un tipico paese ricco, il 5% più povero della popolazione riceve
circa l'1% del reddito nazionale. I dati sono molto più scarsi per i paesi poveri, ma non
sarebbe troppo fuori dal comune ipotizzare che il 5% più ricco in quei paesi riceva il 25%
del reddito nazionale.
Allo stesso modo, supponiamo che i paesi ricchi e poveri siano quelli nel 5% superiore e
inferiore di tutti i paesi, classificati in base al reddito pro capite. In un tipico paese povero
(come la Liberia o il Niger), il reddito pro capite è di circa $1.000, rispetto ai $65.000 in un
tipico paese ricco (per esempio, Svizzera o Norvegia). (Questi redditi sono adeguati ai
differenziali di costo della vita, o potere d'acquisto, in modo da poterli confrontare
direttamente.)
Ora, possiamo calcolare che una persona ricca in un paese povero ha un reddito di
$5.000 ($ 1.000 x 0,25 x 20) mentre una persona povera in un paese ricco guadagna
$13.000 ($ 65.000 x 0,01 x 20). Misurata in base a standard di vita materiali, una persona
povera in un paese ricco è ricca più del doppio rispetto a una persona ricca in un paese
povero.
Questo risultato sorprende i miei studenti; la maggior parte si aspetta che sia vero il
contrario. Quando pensano agli individui ricchi nei paesi poveri, immaginano dei magnati
che vivono in palazzi con un seguito di servitori e una flotta di macchine costose. Ma
mentre tali individui certamente esistono, un rappresentante del 5% più importante nei
paesi molto poveri è probabilmente un burocrate governativo di livello medio.

"Grande divergenza"

Il punto più ampio di questo confronto è quello di sottolineare l'importanza delle differenze
di reddito tra i paesi, rispetto alle disuguaglianze all'interno dei paesi. All'alba della
moderna crescita economica, prima della Rivoluzione industriale, la disuguaglianza
globale derivava quasi esclusivamente dalla disuguaglianza all'interno dei paesi. I divari di
reddito tra l'Europa e le parti più povere del mondo erano piccoli. Ma quando, nel XIX
secolo, l'Occidente si sviluppò, l'economia mondiale subì una "grande divergenza" tra il
nucleo industriale e la periferia che produceva beni primari. Durante gran parte del
dopoguerra, le disparità di reddito tra paesi ricchi e poveri hanno rappresentato la maggior
parte della disuguaglianza globale.
Dalla fine degli anni '80 in poi, due tendenze hanno iniziato a modificare questa immagine.
In primo luogo, a partire dalla Cina, molte parti delle regioni in ritardo di sviluppo hanno
iniziato a sperimentare una crescita economica sostanzialmente più rapida rispetto ai
paesi ricchi del mondo. Per la prima volta nella storia, il tipico residente nei paesi in via di
sviluppo si stava arricchendo a un ritmo più veloce rispetto ai suoi omologhi in Europa e
Nord America.
In secondo luogo, le disuguaglianze hanno iniziato ad aumentare in molte economie
avanzate, in particolare quelle con mercati del lavoro meno regolamentati e protezioni
sociali deboli. L'aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti è stato così acuto che non è
più chiaro se il tenore di vita dei "poveri" americani sia superiore a quello dei "ricchi" nei
paesi più poveri (con i ricchi e i poveri definiti come sopra ).
Queste due tendenze sono andate in direzioni opposte in termini di disuguaglianza globale
complessiva: una l'ha diminuita mentre l'altra l'ha aumentata. Ma hanno entrambe
aumentato la quota di disuguaglianza all'interno del paese nel totale, invertendo una
tendenza ininterrotta osservata dal 19 ° secolo.
Dati dati frammentari, non possiamo essere certi delle rispettive quote di disuguaglianza
all'interno e tra paesi nell'economia mondiale di oggi. Ma in un articolo inedito basato sui
dati del World Inequality Database, Lucas Chancel della Paris School of Economics stima
che fino a tre quarti dell'attuale disuguaglianza globale potrebbe essere dovuta alla
disuguaglianza all'interno del paese. Stime storiche di altri due economisti francesi,
François Bourguignon e Christian Morrison, suggeriscono che la disuguaglianza all'interno
del paese non è apparsa così grande dalla fine del XIX secolo.

Priorità politiche

Queste stime, se corrette, suggeriscono che l'economia mondiale ha varcato una soglia
importante, chiedendoci di rivisitare le priorità politiche. Per molto tempo, economisti come
me hanno detto al mondo che il modo più efficace per ridurre le disparità di reddito globale
sarebbe accelerare la crescita economica nei paesi a basso reddito. I cosmopolitani nei
paesi ricchi - in genere i professionisti ricchi e qualificati - potrebbero così pretendere di
mantenere alto il loro livello morale quando minimizzano le preoccupazioni di coloro che si
lamentano della disuguaglianza domestica.
Ma l' ascesa del nazionalismo populista in tutto l'Occidente è stata in parte alimentata dalla
tensione tra gli obiettivi di equità nei paesi ricchi e standard di vita più elevati nei paesi
poveri. L'aumento degli scambi commerciali delle economie avanzate con i paesi a basso
reddito ha contribuito alla disuguaglianza salariale interna. E probabilmente il modo
migliore per aumentare le entrate nel resto del mondo sarebbe consentire un massiccio
afflusso di lavoratori dai paesi poveri ai mercati del lavoro dei paesi ricchi. Non sarebbe
una buona notizia per i lavoratori dei paesi ricchi meno istruiti e meno pagati.
Tuttavia, le politiche dell'economia avanzata che enfatizzano l'equità domestica non
devono essere dannose per i poveri globali, anche nel commercio internazionale. Le
politiche economiche che aumentano i redditi nella parte inferiore del mercato del lavoro e
riducono l'insicurezza economica sono buone sia per l'equità domestica sia per il
mantenimento di una sana economia mondiale che offra alle economie povere la
possibilità di svilupparsi.
Puoi anche leggere