La pubblicità nonostante i mass media - Verso una comunicazione integrata di marca - HUB Campus

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Laura Minestroni

            La pubblicità nonostante
                 i mass media
             Verso una comunicazione integrata di marca

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2. La mutazione del consumatore

               2.1 Da oggetto a soggetto di critica

                Ogni giorno, milioni di persone in tutto il mondo parlano del-
           le marche e dei prodotti su Internet. Prendono la parola su blog
           e forum e dicono la loro attorno a casi specifici. Si divertono con
           il linguaggio e gli stereotipi degli spot televisivi, pubblicandone
           parodie personalizzate e irriverenti su YouTube, oppure diven-
           tano fan di questo o quell’altro brand nelle pagine ufficiali di
           Facebook. Ci sono marche come Activia di Danone che «metto-
           no nelle mani dei consumatori» la scelta dei gusti del prodotto e
           dunque della propria offerta di mercato. E che, su suggerimento
           di questi, attuano decisioni importanti per esempio in termini
           di packaging (come l’eliminazione del cartone nel formato da
           quattro vasetti di yogurt che avrebbe permesso di risparmiare
           circa 800 tonnellate di carta all’anno e 1.500 tonnellate di CO2,
           pari a quella assorbita da 125.000 alberi in un anno).
                Oggi il consumatore esercita un ruolo attivo. Genera e so-
           cializza un nuovo sapere anche attraverso la Rete. È in grado di
           sviluppare strategie di alleanza e collaborazione con le imprese.
           Non è più rivolto (solo) al best buy, al miglior rapporto qualità/
           prezzo, ma vuole pure difendere e valorizzare i propri diritti.
           Un consumatore, insomma, che come ha osservato Fabris «passa
           dall’essere oggetto di critica a soggetto di critica» 1. Questo indi-
           viduo ha, rispetto a marche e prodotti con cui si rapporta, in ge-
           nerale, maggior potere rispetto a vent’anni fa. Si tratta di quello
           che ormai è comunemente definito consumer empowerment: più
           autonomia di scelta; accresciute aspettative in termini di quali-
           tà; capacità di difendersi dalla pubblicità martellante, ripetitiva,

               1
                   G. Fabris, La società post-crescita, cit. p. 4.

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                invasiva; facoltà di incidere in maniera concreta sulle strategie
                delle imprese; grande discrezionalità nell’uso dei media.
                    Nei confronti dell’advertising, ad esempio, il pubblico ha or-
                mai sviluppato veri e propri anticorpi contro l’eccessiva invaden-
                za. Ed è in grado di riconoscerne la povertà formale e l’assenza
                d’idee, come pure – al contrario – le innovazioni dei linguaggi
                e dei mezzi di comunicazione. Un gran numero di ricerche sul
                campo ha messo in luce un atteggiamento di rifiuto nei confronti
                dell’eccesso non motivato, del cattivo gusto, della trasgressione
                scontata (basata sugli stereotipi sessuali), della stucchevolezza e
                della finzione (la famiglia felice).
                    L’informazione e la persuasione, due aspetti strettamente
                connessi e in continua osmosi nella pubblicità, paiono per la
                prima volta messi in discussione dal pubblico stesso. Tradizio-
                nalmente, uno dei valori intrinseci della pubblicità mass-market
                è stato la credibilità: la pubblicità garantiva, da sola, una cer-
                ta affidabilità del prodotto. Ora, in molti ambiti, il ruolo che
                l’advertising tradizionale riveste nei processi di acquisto risulta
                indebolito dalla Rete. Internet sta soppiantando la pubblicità nel
                suo ruolo informativo, proprio nel senso che appare più credibi-
                le. Soprattutto perché qui le possibilità di confronto, discussione
                e interazione, pongono qualsiasi messaggio sotto il vaglio di una
                corte spietata e agguerrita sul controllo. Se la dimostrazione di
                come il prodotto agisce, la pubblicità puramente informativa o
                che esalta certe performances è guardata con fastidio o con so-
                spetto, allo stesso modo, la pubblicità che enfatizza troppo gli
                attributi intangibili e le prestazioni immateriali, provoca scetti-
                cismo e diffidenza. Questo nuovo atteggiamento ci porta a para-
                frasare il celebre assioma di Paul Watzlawick «è impossibile non
                comunicare» con «non basta più comunicare». Non basta più
                comunicare perché oggi le marche, per essere attrattive, devono
                offrire vantaggi ai loro interlocutori: sconti, vantaggi, customer
                utilities, applicazioni. Ne deriva che la pubblicità deve essere,
                prima di tutto, utile. Il che comporta un «ridimensionamento»
                della forza espressiva e connotativa dei linguaggi, dei codici e
                degli strumenti utilizzati.
                    È il «contenuto» a rappresentare oggi la dimensione che gui-
                da il consumo della pubblicità. «Contenuto» può essere news,
                documentario, intrattenimento, opinione, o qualunque altra for-

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           ma di comunicazione che abbia il potenziale di generare coin-
           volgimento del pubblico (audience engagement). Master Card,
           per esempio, comunica ai suoi clienti, attraverso un’applicazio-
           ne mobile per I-phone chiamata «Priceless Picks», i luoghi in
           cui usare la carta ottenendo sconti: sfruttando la localizzazione
           GPS, comunica i punti vendita più prossimi. È un servizio of-
           ferto dalla marca e ha una ricaduta positiva sulla sua immagine.
               E non è casuale se il dibattito teorico accademico degli ultimi
           anni veda ampio consenso attorno all’idea che il marketing delle
           società avanzate sia nel pieno di un processo evolutivo che si
           fonda su una nuova prospettiva «servizio-centrica» 2. Una pro-
           spettiva, cioè, in cui il touchpoint, ossia il punto di contatto con
           il consumatore in vista di una relazione, sia «un contenuto in
           servizio» che la marca, in ogni sua manifestazione, offre o do-
           vrebbe offrire in maniera efficace e coerente.
               Anche la richiesta di trasparenza appare oggi come un tema
           centrale che regola il rapporto tra marca, consumatore, comu-
           nicazione.
               La pubblicità onesta non inganna e non mente. Lo ricordava
           il motto dell’agenzia Mc Cann Erickson che è stato, storicamen-
           te, The truth well told, cioè «la verità ben detta». Vale a dire
           retoricamente ben detta: convincente, persuasiva. E non è affatto
           un caso che il primo significato del termine «persuasione», pre-
           supponga l’idea di verità. Persuadere significa, infatti, far sì che
           il proprio interlocutore modifichi consapevolmente la propria
           opinione alla luce di un argomento considerato vero o giusto
           (dal latino per-suadeo: ti convinco per, affinché…).
               Tuttavia, è anche possibile sostenere come la pubblicità abbia
           avuto per troppo tempo la cattiva abitudine a dire mezze verità
           tacendo la metà più sgradevole. La celebre battuta di Cary Grant
           nel film di Hitchcock Intrigo Internazionale la dice lunga: «nel
           mondo dell’advertising non esistono bugie, c’è solo l’espedien-
           te dell’esagerazione». E non pochi autori si sono soffermati su

               2
                 Per un approfondimento si vedano R.F. Lusch – S.L.Vargo, Service-
           Dominant Logic. A Guiding Framework for Inbound Marketing, in «Marketing
           Review», 6/2009; S.L. Vargo, Toward a transcending conceptualization of rela-
           tionship: a service dominant perspective, in «Journal of Business and Industrial
           Marketing», 24 (5/6), 2009, pp. 373-379.

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                questo fenomeno, a partire da Baudrillard. I suoi contributi sulla
                demitizzazione della pubblicità rimangono a tutt’oggi notevoli 3.
                    Nondimeno, va detto che il ricorso all’informazione o alla
                persuasione più suggestiva, oppure il loro dosaggio nella co-
                municazione, è sempre stato un fatto di opportunità e strategia:
                considerando che la vera funzione della pubblicità è quella di
                stimolare le vendite, poco importa la natura del messaggio se
                questo riesce a creare nel pubblico una maggiore propensione
                all’acquisto. Tuttavia, già negli anni Novanta, Brioschi osserva-
                va che «l’analisi di tali messaggi e della relativa struttura mette
                in evidenza il prevalere, in un numero consistente di casi, della
                componente persuasivo suggestiva su quella informativa» 4.
                    Nascondere gli aspetti negativi di un prodotto o di un’im-
                presa per portare alla luce quelli positivi non è più possibile.
                Rischia di diventare addirittura ridicolo e controproducente.
                All’uso dell’asterisco malizioso, usato troppe volte nella pub-
                blicità stampa per rivelare a fondo pagina verità scomode (Iva
                e tasse da includere a un prezzo stracciato, tasso zero che non
                è mai zero), va tutta l’antipatia del pubblico. Comunicare con
                quell’approccio nel «mondo digitale» ad esempio, dove il frui-
                tore della pubblicità ribatte e dice la sua, significa oggi, per un
                inserzionista,venir bombardato dalle critiche in tempo reale. Si
                capisce perché le aziende che abbiano scheletri nell’armadio fa-
                rebbero meglio, adesso, ad attrezzarsi a gestire un’operazione
                di crisis management applicata alla comunicazione prima di en-
                trare nell’insidioso terreno dei social media. Così, accanto a un
                comportamento del consumatore (consumer behavior), appare
                per la prima volta in tutta la sua evidenza sociale l’idea di un
                corporate behavior, il comportamento delle aziende. Che deve
                necessariamente far parte della strategia. Ed ecco spiegata la re-
                sistenza di tante marche ad aprirsi all’interazione con gli uten-
                ti nel web. Qui i consumatori possono replicare, smascherare,
                interrogare, chiedere spiegazioni. Ed è vietato non rispondere.

                     3
                       Si vedano in particolare La società dei consumi. I suoi miti e le sue struttu-
                re, Il Mulino, Bologna 2010; Della seduzione, SE, Milano 1997 e V. Codeluppi
                (a cura di), Il sogno della merce, Lupetti & Co., Milano 1987.
                     4
                       E.T. Brioschi (1995), La comunicazione d’azienda, in «Scienze sociali e
                dottrina sociale della Chiesa», nº 4, 1995.

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           Possono persino dirottare la marca, con azioni di brand hija-
           cking 5: Wipperfürth fa riferimento, in proposito, a qualcosa di
           simile a una persona o un gruppo che, generalmente senza troppi
           convenevoli, costringe il pilota a volare e atterrare in un luogo
           diverso da quello stabilito. Insomma, un’azione terroristica bella
           e buona che consiste nell’assumere il controllo di una marca.
           In questa metafora, l’azienda è l’aeroplano, i manager sono i
           piloti, tutti i consumatori o più in generale gli stakeholders, sono
           i potenziali dirottatori. Questa definizione ci fa pensare alla re-
           cente esperienza della lunga occupazione (15 mesi) del carcere
           dell’Asinara da parte degli operai cassintegrati della Vinyls, con
           l’operazione social media L’isola dei cassintegrati che, parafra-
           sando un celebre format televisivo, propone un reality «reale»,
           dove nessuno è famoso ma tutti sono senza lavoro, e che attra-
           verso Facebook, Twitter e blog è riuscita a movimentare media e
           opinione pubblica su temi d’interesse comune.
               Un più pertinente caso di brand hijacking è quello subito dal
           marchio di abbigliamento Diesel. In risposta alla pubblicità «Be
           Stupid!» (la recente campagna di comunicazione integrata che
           inneggiava con ogni mezzo alla stupidità, senza alcuna perti-
           nenza o legame col prodotto), l’annuncio è stato rimanipolato e
           dirottato semanticamente fino a diventare: Smart buy 50 $ jeans;
           Stupid spend 250 $. E poi pubblicato sul web. Un vero e proprio
           boomerang per la marca che ha fatto della stupidità il suo ves-
           sillo e del premium price dei suoi prodotti una leva competitiva.
               È evidente che il ruolo del destinatario della comunicazio-
           ne persuasoria in generale, e della pubblicità in particolare, sia
           profondamente cambiato: non più destinatario passivo di una
           suggestione 6, ma soggetto attivo, capace di interpretarla o re-

               5
                  Per un approfondimento si veda A. Wipperfürth, Brand Hijack: Market-
           ing without Marketing, Portfolio 2005.
               6
                 Al termine «suggestione» (che deriva dal latino suggestus la cui radice è
           suggero cioè soggiogare) si è fatto ricorso in letteratura per lungo tempo. Usato
           comunemente per definire quel processo di influenza sugli atteggiamenti, sulle
           opinioni e sul comportamento dell’individuo capace di insinuare subdolamente
           un pensiero o un’idea al di sotto della soglia della coscienza, il termine presume
           che il recettore della comunicazione sia una sorta di sonnambulo (vedi il «son-
           nambulismo sociale» legato ai processi imitativi magistralmente descritto da Ga-
           briel Tarde o più semplicemente alla «trance ipnoide» del consumatore indicata
           da Vance Packard ne I persuasori occulti). A cavallo tra gli anni Cinquanta e

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                sistervi, di bloccarla o di respingerla, di trattarla come «spam»
                o posta indesiderata, di accoglierla del tutto o in parte e di rie-
                laborarla in termini personali e valutativi. Anche sul fronte del
                consumo vi sono continui segnali dell’incisività del mutamento
                in atto. Non solo è possibile affermare che i consumatori stia-
                no divenendo a loro volta produttori e venditori (prosumers 7 e
                sellsumers) ma anche che in generale si stiano trasformando in
                «consumatori critici», cioè soggetti di critica, appunto. Negli
                ultimi decenni s’è assistito in tutte le società avanzate a un per-
                sistente sviluppo di movimenti di varie matrici ideologiche e
                culturali che rivendicano stili di vita e d’acquisto più sobri, una
                maggiore responsabilità sociale e ambientale, e che sembrano
                muoversi «in direzione contraria al consumismo e all’edonismo
                che all’osservatore superficiale appaiono come i fenomeni do-
                minanti» 8. In realtà, vi sono continue evidenze che l’accresciu-
                to potere del consumatore sia da ravvisarsi anche nel suo potere
                discrezionale rispetto alle scelte dei prodotti e delle fonti d’in-
                formazione; nel riscatto dall’iperconsumo e dal materialismo
                che avevano caratterizzato gli anni Ottanta e, non da ultimo,
                nell’assunzione di responsabilità e nei caratteri di «doverosità»
                di certe valutazioni o comportamenti.
                    Un filone di studi particolarmente interessante, a questo pro-
                posito, è quello che indaga il rapporto consumo/felicità e che
                mostra quanto complesso e «sociale» sia il nostro uso dei beni.
                Non è una novità: Douglas e Isherwood hanno ricordato che «i
                beni sono neutri, ma i loro usi sono sociali: possono essere usati
                come barriere o come ponti» 9 e ancor prima Veblen teorizzò
                la capacità del consumo di rendere visibile una data posizione
                sociale acquisita attraverso meccanismi di ostentazione, emu-

                Sessanta, cioè parallelamente alla nascita della pubblicità come «disciplina», si
                è manifestata la tendenza a sostituire il termine suggestione con quello di persua-
                sione o di comunicazione persuasoria.
                    7
                      Per un approfondimento sulla nozione di «prosumer» si rimanda a G.
                Ritzer – N. Jurgenson, Production, Consumption, Prosumption. The Nature of
                Capitalism in the Age of the Digital Prosumer, in «Journal of Consumer Cultu-
                re», vol. 10/13, 2010.
                    8
                      L. Bruni, Note sul consumo e sulla felicità, Nuova Umanità, XXIII, nº 138,
                6/2001, pp. 869- 870.
                    9
                      M. Douglas – B. Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consu-
                mo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 14.

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           lazione e differenziazione. Ma gli studi sulla felicità (in Italia
           è Luigino Bruni a dedicarvi le più interessanti riflessioni) van-
           no ben oltre. Essi nascono dalla constatazione che l’equazione
           «più ricchezza uguale più benessere» cominci a scricchiolare 10.
           Le ricerche empiriche di Robert Lane, dell’Università di Yale,
           chiariscono questo passaggio. L’autore parte dalle analisi empi-
           riche sulla felicità, e in particolare dalla perdita di felicità nelle
           democrazie di mercato e dà la sua risposta al perché a un au-
           mento di reddito possa corrispondere una diminuzione di felici-
           tà. Considerando che «molti, forse la maggioranza, dei piaceri
           della vita non hanno prezzo, non sono in vendita, e quindi non
           passano attraverso il mercato» 11, Lane interpreta la mancanza
           di felicità delle società capitalistiche avanzate come la contro-
           partita della diminuzione del «consumo» di beni relazionali.
           Ma che cos’è un bene relazionale?
               In realtà, il concetto di «bene relazionale» non è ancora stato
           definito in modo univoco. Viene usato da vari autori con signi-
           ficati diversi, senza che vi sia sempre coerenza. In questa sede
           prenderemo a prestito la definizione di Bruni, secondo cui i beni
           relazionali sono «beni prodotti da rapporti, da incontri nei qua-
           li l’identità e le motivazioni dell’altro con cui interagisco sono
           elementi essenziali nella creazione e nel valore del bene – l’ami-
           cizia è un tipico bene (asset per la precisione) relazionale» 12.
               Così, l’imperativo categorico della crescita economica e del
           benessere: consumare di più, viene messo in discussione. Non
           è necessariamente vero che consumare più beni aumenti quella
           felicità che cerchiamo attraverso i beni stessi. Inoltre «consu-
           mare di più» non significa per forza consumare più «merci». La
           categoria di «bene economico», in questa prospettiva, si allar-
           ga fino a comprendere rapporti, incontri, significati, esperienze.
           Comunque, va precisato che la nozione di «felicità» è davvero
           ambigua, o comunque antropologicamente e storicamente varia-
           bile. Si pensi soltanto che la costituzione americana cita la «fe-

               10
                  Per un approfondimento si veda R. Easterlin, Income and Happiness:
           Towards a Unified Theory, Mimeo, Oxford University, Oxford 2000.
               11
                  R. Lane, The loss of happiness in market democracies, Yale University
           Press, Yale 2000, p. 59.
               12
                  L. Bruni, Note sul consumo e sulla felicità, cit., p. 883.

02 AZ Minestroni.indd 41                                                                  13/12/11 10:35
42    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                licità» come orizzonte del cittadino; quelle europee tendono a
                mettere in rilievo altre categorie, la nostra, ad esempio, la libertà
                o il lavoro. Da quanto si è detto finora, dunque, l’ipotesi di per-
                dita di felicità nelle democrazie di mercato rimane circoscritta
                e leggibile «solo» dentro un’ottica meramente sociologica, ma
                necessariamente politica, prevedendo un «giudizio» sul merca-
                to. Ciò che a noi qui interessa sottolineare, tuttavia, è la modalità
                con cui gli individui hanno oggi acquisito una inedita consape-
                volezza del consumo, che rimane, per dirla con Max Weber, un
                agire sociale dotato di senso. Possiamo, se solo lo vogliamo,
                consumare di più consumando «meglio». Questa «presa di co-
                scienza» appare sempre più diffusa nelle società contemporanee.
                Basti pensare alla dimensione ambientale e energetica affrontata
                consumando diversamente; oppure alla sfida del consumo «cri-
                tico»; al cosiddetto buycott 13, finalizzato a promuovere l’acqui-
                sto di determinati beni per favorire una causa politica, sociale o
                ambientale (lampadine a basso consumo energetico, cibo locale,
                cibo biologico, pesce «dolphin safe», detersivi compatti, prodot-
                ti equosolidali, riciclabili o riciclati, a chilometri zero, a impatto
                zero ecc.). La novità è che tali comportamenti non appartengono
                più solo alla sfera della «protesta», della negazione, del rifiuto o
                di frange ideologizzate, ma anche a quella della «scelta» di mol-
                ti. Non più solo il boicottaggio di specifici marchi o di prodotti
                firmati da una impresa di cui si disapprova il comportamento 14;
                non più solo il negative purchasing (la scelta di evitare prodotti
                che si condannano come auto inquinanti, pannolini per bambini
                che non siano biodegradabili, prodotti di origine animale ecc.),
                ma anche positive buying cioè acquisti dal significato positivo.
                Il che impone una riflessione più generale attorno al fatto che

                     13
                        Il neologismo buycott è stato usato per la prima volta il 17 maggio 2005
                dal critico Jeff Cohen nell’appello Join the BUYcott volto a promuovere negli
                Stati Uniti l’acquisto della benzina della rete di distribuzione venezuelana Citgo,
                considerando che il presidente del Venezuela Hugo Chavez sarebbe l’unico capo
                di stato democraticamente eletto tra i maggiori Paesi produttori di petrolio. In
                altre parole, la scelta di una benzina piuttosto che un’altra rappresenterebbe una
                scelta pro o contro la democrazia. Nell’appello Jeff Cohen aveva precisato che
                l’iniziativa era coerente rispetto alla scelta di prediligere mezzi di trasporto pub-
                blici o non inquinanti o alla promozione dello sviluppo delle energie rinnovabili.
                     14
                        Per un approfondimento si rimanda a M. Drillech, Le Boycott, Presses du
                Management, Paris 1999.

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La mutazione del consumatore             43

           l’agire di consumo sembri ormai aver inglobato le istanze politi-
           che di un segmento vasto di società e ne abbia tradotto i desideri
           o la richiesta, questa volta davvero imponente, di trasformazione
           verso una dimensione più «civile» e «umana».

               2.2 Un’attenzione parziale continua

               In un’epoca a forte densità comunicativa come la nostra, in
           cui si assiste a un’imponente disseminazione sociale della mar-
           ca e dei suoi messaggi (strettamente pubblicitari e non, si pensi
           al packaging, al punto vendita, alle sponsorizzazioni…) sono
           sempre più importanti le procedure che consentono agli indivi-
           dui di far fronte alla mole sterminata d’informazioni in arrivo
           attraverso processi di selezione, schematizzazione, inferenza e
           semplificazione dei percorsi decisionali. Si tratta di un modo
           per ottimizzare e risparmiare energie cognitive. Tendiamo a
           scegliere, ricordare e considerare il credibile, il conosciuto, il
           rassicurante, il familiare rispetto a ciò che richiede di essere
           compreso, approfondito e verificato.
               L’attenzione, d’altra parte, è strutturalmente selettiva. Come
           ha osservato Kapferer nel suo studio sulla persuasione:
               Il mondo ci circonda per 360º, il nostro campo visivo non
               copre che 210º circa. La vista è precisa soltanto nel raggio
               di due gradi […]. In un certo modo sembra che l’organismo
               operi una scelta degli stimoli che, a loro volta, controlleranno
               il comportamento 15.

              Non possiamo rispondere a tutte le molteplici stimolazioni
           che riceviamo: è necessario operare di continuo delle scelte.
           L’attenzione è un’«allocazione selettiva» dello sforzo di trat-
           tamento dell’informazione 16. E ciò vale a maggior ragione nel
           campo delle scelte di consumo e delle preferenze d’acquisto,

               15
                  J.N. Kapferer, Le vie della persuasione. L’influenza dei media e della
           pubblicità sul comportamento, ERI, Torino 1982, p. 155.
               16
                  Per un approfondimento si veda il classico D.A. Norman, Memory and
           Attention, Introduction to Human Information Processing, John Wiley, New
           York 1969.

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44    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                in un ambito, cioè, caratterizzato dal costante incremento delle
                possibilità alternative e da una sempre più marcata somiglianza
                fra prodotti e servizi in termini di caratteristiche e potenzialità.
                Sicché si può affermare che

                    […] in un mercato come l’attuale, in cui un’avanzata tecnologia
                    ha praticamente equiparato, rendendole oggettivamente quasi
                    indistinguibili, le varie marche di uno stesso prodotto e talvolta
                    prodotti tra loro diversi, e in cui le alternative di scelta offerte
                    dal pubblico sono – dal punto di vista della produzione – omo-
                    genee ed indifferenziate, il consumatore è sempre più indotto
                    ad appellarsi, quale criterio distintivo di scelta, a quei criteri di
                    differenziazione marginale artificiosamente attribuiti al prodotto
                    dalla pubblicità 17.

                    Però, questo consumatore descritto da Fabris nel 1968 s’è
                ulteriormente evoluto: è sempre più indipendente e consape-
                vole nelle sue preferenze, sempre più critico e sospettoso nei
                confronti della pubblicità. Cambiata anch’essa, poiché sempre
                meno potrà contare sull’«artificiosità» dei criteri di differenzia-
                zione marginale attribuiti al prodotto o al servizio citata poc’an-
                zi. E, al contrario, dovrà legittimare ogni contenuto intangibile;
                fornire argomentazioni a supporto del beneficio proposto, con-
                tare sull’autenticità (anche delle esperienze generate) e sulla tra-
                sparenza della comunicazione.
                    La psicologia cognitiva ha da tempo dimostrato come i con-
                sumatori acquisiscano informazioni su beni e servizi da diverse
                fonti, non tutte ascrivibili ai canonici messaggi pubblicitari e
                promozionali. Già nel 1972, Howard e Ostlund della Colum-
                bia University evidenziavano la straordinaria rapidità con cui il
                consumatore tende a comporre i propri media patterns, a usa-
                re le informazioni, a selezionare le une rispetto alle altre; ad
                apprendere, nel tempo, quali meritano più attenzione e quali
                ricordare, quali soddisfano i suoi bisogni di conoscenza, in-
                trattenimento, orientamento 18. Le imprese stesse, d’altra parte,

                    17
                      G. Fabris, La comunicazione pubblicitaria, cit., p. 322.
                    18
                      Per un approfondimento si veda J.A. Howard – L.E. Ostlund, Buyer
                Behavior: Theoretical and Empirical Foundations, Alfred A. Knopf Inc., New
                York 1973, in particolare le pp. 187-229.

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La mutazione del consumatore               45

           consapevoli o meno, emettono, un «flusso consistente di comu-
           nicazioni che si affianca alla pubblicità e talvolta riveste persino
           un peso maggiore di questa» 19.
                Così, i processi di acquisizione delle informazioni da parte
           degli «individui consumatori» risultano adesso indubbiamente
           più complessi che in passato. L’attenzione, più che in qualsiasi
           altra fase socioculturale, è selettiva, limitata, difficile da cattura-
           re. Stiamo parlando di un consumatore che già dall’epoca precri-
           si, numerose ricerche in campo nazionale, e non solo, descrive-
           vano come pragmatico, emotivo, competente, selettivo, esigente,
           curioso, proattivo, alla ricerca di prodotti e servizi personalizza-
           ti, attento ai dettagli e al prezzo, nomade ma orientato all’affare,
           infedele alla marca, spaesato 20. E soprattutto distratto.
                D’altra parte, oggi ci si riferisce a una «attenzione parziale
           continua» 21, un eufemismo, forse, per non dire perenne distra-
           zione degli individui. Una distrazione generata da un overload
           informativo, da una iperscelta e iperofferta di canali e mezzi;
           dal moltiplicarsi di messaggi, segnali, annunci. E ulteriormen-
           te complicata da una irreversibile, cronica, mancanza di tem-
           po. Una quantità crescente di sms, email e stimoli di ogni tipo,
           distrae la nostra attenzione dall’attività – o dalle attività – cui
           ci stiamo dedicando. Al plurale, perché svolgiamo sempre più
           attività contemporaneamente. E a ognuna di queste dedichia-
           mo una quota ristretta di concentrazione. Se l’attenzione è una

               19
                  «Al consumatore, del resto, interessa relativamente sapere da quale mo-
           mento dell’impresa scaturisce la comunicazione più seduttiva o più efficace. E,
           comunque, il più delle volte sarebbe incapace di discernerlo. Il consumatore è
           investito da un flusso globale di comunicazione che ha come fonte d’impresa o
           la marca ed è per lui irrilevante conoscere se le diverse componenti del mix co-
           municativo sono state consapevolmente e strategicamente attivate dall’impresa
           oppure no» (G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, Franco Angeli, Milano
           1992, p. 546).
               20
                  Centromarca-Università Vita-Salute San Raffaele, Evoluzione del ruolo e
           del significato della marca: marca industriale, marca commerciale e prezzo nel
           nuovo scenario della cultura di consumo, Milano, novembre 2007.
               21
                  Continuous Partial Attention: il termine è stato coniato da Linda Stone nel
           1998. Per un approfondimento si vedano L. Stone, Continuous Partial Attention.
           Not the Same as Multi-Tasking, in «Business Week», July 24, 2008 e R. Staglia-
           nò, Troppi stimoli per il cervello: non ci concentriamo più, in «la Repubblica»,
           28 marzo 2006.

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46    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                questione di grado e di sforzo, di selettività e intensità 22, l’at-
                tenzione parziale continua corrisponde a uno stato ininterrotto
                di massima allerta capace di creare quello che è stato definito
                un «senso artificiale di crisi» 23 e di impotenza: una condizione
                che sperimentiamo ormai pressoché ovunque, sempre e in ogni
                luogo. Arriviamo a mettere a fuoco una priorità assoluta e con-
                temporaneamente «buttiamo l’occhio» (o trasferiamo le energie
                cognitive) alla periferia della scena per vedere se vi siano, e se
                stiamo perdendo, altre opportunità. A quel punto, se intercet-
                tiamo un messaggio o un contenuto interessante, sposteremo il
                nostro sguardo. Il nostro focus è labile, volubile, variabile e sog-
                getto alla deconcentrazione.
                    Proviamo a pensare come questo comportamento, ormai in-
                teriorizzato, si rifletta sulla fruizione dei contenuti pubblicitari.
                Se ai tempi di Carosello la pubblicità era un appuntamento at-
                teso che avveniva in un luogo di rappresentazione deputato (il
                salotto buono, il tinello) scandendo i ritmi del quotidiano (dopo
                «tutti a nanna») e al quale si prestava un’attenzione massima,
                nell’era dello smartphone i messaggi commerciali si polveriz-
                zano in una miriade di luoghi, di occasioni e di forme. Perdono
                la loro sacralità e per certi versi quell’aura e divengono, insieme
                alla marca, strumenti di una nuova «discorsività sociale» che ci
                avvolge 24. Non è casuale, infatti, se Henry Jenkins (2007) abbia
                parlato a tal proposito di «tele-avvolgimento».
                    Nel corso degli ultimi vent’anni siamo diventati degli spe-
                cialisti nel prestare una continua attenzione parziale al mondo
                che ci circonda e agli stimoli che riceviamo. Non che prima
                dedicassimo la massima attenzione a un «soggetto» alla volta,
                per compartimenti stagni. Da sempre, ci sono momenti in cui
                un’attenzione parziale, ma costante, è la migliore strategia di
                attenzione per quello che stiamo facendo 25. A piccole dosi, la

                    22
                       Per un approfondimento si veda J.N. Kapferer, Le dimensioni dell’atten-
                zione, in Le vie della persuasione, cit., pp. 155-171.
                    23
                       L. Stone, Continuous Partial Attention, cit.
                    24
                       Per un approfondimento sui temi della discorsività sociale della marca in
                una prospettiva socio semiotica si veda A. Semprini, La marca. Dal prodotto al
                mercato, dal mercato alla società, Lupetti, Milano 1996.
                    25
                       Secondo il modello dell’attenuazione sviluppato da Treisman, gli input
                non desiderati non sono bloccati da una «strozzatura» selettiva come invece so-

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La mutazione del consumatore               47

           costante attenzione parziale ci è utile. Tuttavia, la mutazione in
           questo senso s’è spinta all’estremo, se si pensa che numerosi
           autori attribuiscono proprio a questo fenomeno l’ aumento con-
           siderevole, nella nostra epoca, di malattie e disturbi cognitivi
           legati all’attenzione 26.
               Nell’era dell’attention economy e dell’attention manage-
           ment le persone affinano sistemi individuali che corrispondono
           a soluzioni cognitive per gestire lo stress derivante dalle mol-
           te informazioni e il poco tempo disponibile. Il nuovo rapporto
           con il tempo, infatti, s’intreccia con il nuovo rapporto con «lo
           sviluppo» delle tecnologie, prima ancora che con le tecnologie
           stesse. Uno sviluppo tumultuoso, incessante, di fronte al quale,
           al di là di ogni discorso sul digital divide, ci si sente sempre
           impreparati e sempre acerbi.
               Nella fase che stiamo vivendo, gli inserzionisti si trovano
           a dover negoziare l’attenzione del consumatore: offrendo con-
           tenuti sotto forma di customer utilities, servizi, esperienze, in-
           trattenimento o vantaggi su misura. Catturare l’interesse delle
           persone, significa anche superarne la sazietà, le resistenze, l’in-
           differenza, il rifiuto della pubblicità stupida, ripetitiva, aggres-
           siva. Significa ingaggiarle, sostituendo al modello ridondante
           della tivù generalista (interruzione e ripetizione), quello dell’en-
           gagement (contatto e relazione) che ne prevede la partecipazio-
           ne, anche solo emotiva. Ingaggiare il pubblico significa, inoltre,
           seguirlo, guardarlo, osservarlo fino a conoscerlo e studiare i suoi
           percorsi per farsi trovare.
               È opportuno, a questo punto, far chiarezza sul termine: in-
           gaggio non è adescamento, né pura seduzione; per ingaggiare
           è necessario offrire supporting evidences, o per meglio inten-
           derci, «pezze d’appoggio». Occorre fondare le promesse su
           argomentazioni reali, tangibili e interessanti. Informazioni,
           cioè, che appaiano rilevanti per vita e le passioni individuali.

           steneva la teoria del filtro di Broadbent, ma semplicemente attenuati. Per un
           approfondimento si vedano D.E. Broadbent, Perception and Communication,
           Pergamon Press, London 1958; A. Treisman, Strategies and Models of Selective
           Attention, in «Psychological Review», nº 76, 1969, pp. 282-299 e A. Treisman,
           Selective Attention in Man, in «British Medical Bulletin», nº 20, 1964, pp.12-16.
               26
                  L’attenzione parziale continua innescherebbe nel nostro organismo una
           sovrapproduzione di ormoni dello stress, a partire da noradrenalina e cortisolo.

02 AZ Minestroni.indd 47                                                                       13/12/11 10:35
48    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                È necessario che marche e imprese siano credibili, trasparenti,
                interattive e pronte a interagire con un panorama della comuni-
                cazione in cui è il consumatore ad avere il controllo.
                    Quando si parla di «attenzione parziale continua» si fa riferi-
                mento a un soggetto che oggi fruisce i diversi media in maniera
                indifferenziata, per certi versi fungibile.
                    Passiamo da uno schermo all’altro, da una connessione
                all’altra e il nostro processo di acquisizione delle informazioni è
                complesso, fluido e insieme intermittente, reticolare e continuo.
                Certamente non lineare.
                    La tv non è più l’oracolo che fu negli anni Cinquanta e Ses-
                santa. La pubblicità, allora, costituiva, rispetto alla generazione
                postbellica, non solo un forte novità, ma soprattutto un elemento
                «magico» e seduttivo centrale: è parallela al boom economico e
                a un generale «sentimento di rinascita» che non riguarda solo e
                necessariamente il prodotto da vendere, quanto una inedita «nar-
                razione». Si pensi solamente al già citato Carosello e più in gene-
                rale al «tempo» dell’annuncio: lungo, articolato, filmico o teatra-
                le. La cosiddetta réclame trova nella televisione (si potrebbe dire
                nell’apparecchio televisivo) il fulcro della famiglia, della stessa
                famiglia che prima recitava il rosario davanti al focolare o s’intrat-
                teneva a lungo a tavola. Insomma una pubblicità dialogica, visiva
                sì, ma anche «letteraria».
                    Al contrario, oggi, l’apparecchio televisivo è sempre acceso,
                quasi che il flusso della programmazione sia una rassicurante
                tappezzeria che ci avvolge. Si guarda la televisione, ma nello
                stesso tempo, la sera, a casa, sul divano, si accede a Facebook
                attraverso il proprio dispositivo mobile, si naviga in Rete, si ac-
                quista on line. E c’è chi sostiene che il potere di fascinazione
                esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta sia
                stato assunto dai tablets: un nuovo totem, ancora raro e dunque
                attorno al quale ci si riunisce come davanti a un focolare in un
                rapporto quasi fisico, di totale compenetrazione, con l’oggetto 27.

                     27
                        Lo rivela una ricerca commissionata dall’UPA (Utenti Pubblicità Asso-
                ciati) che attribuisce un’insperata valenza di fascinazione alle immagini digitali
                veicolate attraverso l’iPad e tutti i devices concorrenti. In particolare si rimanda a
                G. Lonardi, L’efficacia dei messaggi sulla «tavoletta apre un nuovo mercato alla
                pubblicità, in «la Repubblica Affari e Finanza», 22 novembre 2010.

02 AZ Minestroni.indd 48                                                                            13/12/11 10:35
La mutazione del consumatore               49

               Siamo sempre connessi, e forse, sempre più disattenti. Pro-
           babilmente, come scrive Franco Ferrarotti, siamo un «popolo di
           informatissimi idioti» 28. Eppure la nostra mente ha – di fatto
           – imparato a «surfare» la vastissima superficie della conoscen-
           za; a fare acrobazie e slalom tra l’infinità di segnali e la mole
           poderosa di contenuti, messaggi e suggestioni da «smistare». La
           cultura contemporanea, accrescendo la complessità, non fa altro
           che imporre agli individui nuove sfide cognitive 29. E la pubblici-
           tà dovrà sempre più tenerne conto.

               2.3 Multitasking: l’integrazione parte dal basso

               C’è un trait d’union che congiunge una serie di contribu-
           ti teorici che hanno affrontato il tema dei media negli ultimi
           sessant’anni a partire da Innis passando per McLuhan, Ong e
           Meyrowitz fino a Negroponte, Castells e Jenkins 30. È l’idea
           che a ogni cambiamento tecnologico nella comunicazione sia
           sempre corrisposto un cambiamento di percezione del mondo,
           di organizzare l’esistenza, di agire e interagire all’interno dello
           spazio sociale. In definitiva, un cambiamento di cultura. Que-
           sta metamorfosi giunge sino a noi e descrive il «paesaggio»
           degli ultimi anni con un mutamento radicale nella fruizione dei
           media che «perturba» incisivamente l’agire sociale e che non

                28
                   Un popolo di informatissimi idioti?, in F. Ferrarotti, Homo sentiens.
           Giovani e musica. La rinascita della comunità dallo spirito della nuova musica,
           Liguori, Napoli 2002.
                29
                   Secondo Steven Johnson tali sfide cognitive corrisponderebbero a una na-
           turale evoluzione degli individui: siamo più intelligenti e più svegli delle gene-
           razioni che ci hanno preceduto grazie alla nuova cultura popolare, all’overload
           informativo e alla «pressione» dell’innovazione tecnologica sconosciuti sino a
           trent’anni fa. Per un approfondimento si veda S. Johnson, Everything Bad is
           Good for You: How Today’s Popular Culture is Actually Making Us Smarter,
           Penguin, London 2005.
                30
                   In particolare ci riferiamo ad alcuni grandi «classici» come H.A. Innis,
           Impero e comunicazioni, Meltemi, Roma 2001; M. McLuhan, Gli strumenti del
           comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967; W. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino,
           Bologna 1986; J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici
           influenzano il comportamento sociale, Baskerville Bologna, 1993; N. Negro-
           ponte, Being digital, Random House, New York 1995; M. Castells, La nascita
           della società in rete, Egea, Milano 2002; H. Jenkins, Cultura convergente, Apo-
           geo, Milano 2007.

02 AZ Minestroni.indd 49                                                                        13/12/11 10:35
50    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                può non ripercuotersi nei linguaggi e nelle forme espressive
                della pubblicità.
                    Basti pensare alla rapidità con cui i giovani hanno ormai pra-
                ticamente superato il limite della separazione tra virtuale e reale,
                tipico del web 2.0, trasformando la Rete in una sorta di estensio-
                ne del proprio spazio vitale e di quello sociale. C’è chi sostiene,
                che oggi, all’epoca dei social media, questa dualità non abbia più
                senso, perché la società non è né on line né off line, è semplice-
                mente «aumentata». E gli individui che la abitano sono «cyborg».
                Così, la realtà aumentata e popolata dai cyborgs non sarebbe altro
                che un nuovo territorio in cui le realtà digitale e materiale si co-
                costruiscono dialetticamente. Ciò che è certo è che abbiamo a che
                fare con un individuo mobile, zigzagante, distratto, multicanale
                e digitale. Un soggetto che impone una severa revisione dell’ap-
                proccio alla comunicazione, specie quella di marca e d’impresa.
                    Si tocca qui un tema alquanto importante poiché questo nuovo
                soggetto, che è anche il destinatario dei messaggi pubblicitari, è,
                come abbiamo visto, capace di mettere in pratica strategie cogniti-
                ve che gli consentono di affrontare la mole sterminata di informa-
                zioni che giungono da più fronti e si manifestano in varie forme.
                    L’atteggiamento descritto nel precedente paragrafo, quello
                dell’attenzione parziale e continua, è motivato dal desiderio di
                «non perdere nulla», non lasciarsi sfuggire alcun segnale, mes-
                saggio o contenuto perché tutto potenzialmente può essere utile
                e interessante. Gli psicanalisti parlerebbero a tal proposito di
                una coazione a «trattenere». È una specie di vigilanza labile, ma
                persistente. Così esaminiamo costantemente ogni opportunità,
                come radar, senza soffermarci troppo sulle singole opzioni. In
                questo modo, si plana sulla superficie della conoscenza, sfioran-
                dola, evitando di scendere in profondità.
                    V’è poi un secondo fenomeno, che val la pena considerare,
                quello del multitasking, motivato invece dal desiderio di essere
                più produttivi e più efficienti. In particolare, il termine media mul-
                titasking si riferisce all’«uso simultaneo di più media» 31. È que-

                    31
                       «The use of more than one type of medium at time»: la definizione (nostra
                traduzione) è tratta da: A.L. Gutnick – M. Robb – L. Takeuchi – J. Kotler, Al-
                ways Connected. The new digital media habits of young children, The Joan Ganz
                Cooney Center at Sesame Workshop, New York 2010, p. 11.

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La mutazione del consumatore               51

           sta simultaneità il dato antropologicamente più rilevante, ed è qui
           che risiede il cambio di paradigma, a nostro avviso. Perché essere
           multitasking nell’uso dei media significa combinare i media con
           un’interazione nella vita reale (ad esempio, mandare sms mentre
           si è a tavola o si sta ascoltando la lezione all’università); utiliz-
           zare due o più tipi di supporti allo stesso tempo (come guardare
           il nostro programma preferito in tivù mentre ci si scambia file in
           Rete e si parla al telefono); svolgere più attività all’interno di un
           singolo media (come l’ascolto della radio in streaming quando si
           studia o si lavora al computer) 32. E allora, chi non lo è?
               Viviamo in una società nella quale portare con sé un Black-
           berry o un iPhone è come ammettere che il nostro impegno verso
           l’attività corrente sarà solo parziale: infatti, nello stesso tempo,
           controlleremo la posta, faremo una capatina su Facebook, ac-
           quisteremo on line, manderemo messaggi istantanei. Ma questo
           comportamento oggi è socialmente accettabile. D’altra parte,
           come già osservava Silverstone, i media ci offrono «pietre di pa-
           ragone e punti di riferimento per la conduzione della vita di tutti i
           giorni, per la produzione e il mantenimento del senso comune» 33.
               Così, da un lato, lo «strumento» è utile per lavorare, dall’al-
           tro, consente di comunicare sempre, comunque, con chiunque,
           dovunque. Ne deriva l’idea di un’infinita potenza comunicati-
           va: tema, a ben vedere, che lascia da un lato stupefatti, dall’al-
           tro impone riflessioni anche diverse e non necessariamente po-
           sitive. È come se a ogni attività – non importa se un colloquio
           vis à vis o una conversazione elettronica, una partita al video-
           game o l’invio di un’emoticon – si assegnasse la stessa prio-
           rità, senza curarsi troppo delle buone maniere e del grado di
           importanza. Così, parafrasando Norbert Elias, potremmo dire
           che nella nuova società digitalizzata e frammentata, cambiano
           i costumi, in un mutevole rapporto tra istinto e controllo socia-
           le, tra spontaneità e educazione 34.

               32
                  Per un approfondimento si veda C. Wallis, The impacts of media multita-
           sking on children’s learning & development, The Joan Ganz Cooney Center and
           Stanford University, Stanford 2010.
               33
                  R. Silverstone, Perché studiare i media?, Il Mulino, Bologna 2002, p. 24.
               34
                  N. Elias, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi
           nel mondo aristocratico occidentale, trad. it. di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna
           1998.

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52    LA PUBBLICITÀ NONOSTANTE I MASS MEDIA

                    Si mangia (anche al ristorante) tra documenti e dispositivi
                mobili. Si scola la pasta mentre si parla al telefono. Può capitare
                persino, come è accaduto a chi scrive, che il medico che vi stia
                visitando mandi messaggi dal suo smartphone mentre siete di-
                stesi sul lettino dell’ambulatorio, seminudi.
                    Tutto questo è diventato un processo automatico, quasi inte-
                riorizzato. A volte abbiniamo attività meno impegnative (come
                camminare per strada o guardare la televisione) ad altre che
                richiedono più concentrazione (come scrivere una e-mail o
                parlare al telefono).
                    E c’è chi sostiene che il media multitasking, oltre che a un
                «istinto di produttività», corrisponda alla volontà di ottimizzare
                il proprio time budget, vale a dire le risorse di tempo a dispo-
                sizione. Insomma che serva a ritagliarsi più tempo per sé, per
                rilassarsi. Non siamo del tutto convinti di questo. Soprattutto se
                si osserva quanto tale atteggiamento sia diffuso tra i giovanissi-
                mi. A tal proposito vale la pena citare una ricerca pubblicata nel
                2010 dalla Kaiser Family Foundation, secondo la quale i giovani
                americani tra gli 8 e i 18 anni dedicano una media di 7 ore e
                38 minuti all’utilizzo di «entertainment media» in una giornata
                tipo. Ci si riferisce, in particolare, ad attività come guardare la
                televisione, giocare a videogames o computer games, ascoltare
                musica, mandare messaggi istantanei, navigare su Internet, leg-
                gere libri. Considerato che tale tempo è speso in forme di media
                multitasking, in realtà, in quelle sette ore e mezzo, i giovani ri-
                escono a confezionare un totale di 10 ore e 45 minuti in con-
                tenuti multimediali. È interessante osservare il processo in una
                serie storica: 1999, 2004 e 2009. In questo decennio, il tempo
                globalmente speso utilizzando entertainment media è aumentato
                di un’ora e diciassette minuti al giorno (da 6 ore e 21 a 7 ore e
                38), e – proprio a causa della fruizione multitasking – la quan-
                tità totale di contenuti multimediali consumati durante il perio-
                do considerato è passata dalle 8 ore e 33 del 2004 alle 10 e 45
                del 2010 35. E allora, se la gente utilizza i media in maniera così
                simultanea per certi versi integrata, perché gli operatori della

                    35
                      Per un approfondimento si veda V.J. Rideout – U.G. Foehr – D.F. Ro-
                berts,Generation M2. Media in the lifes of 8-18 years old, Henry J. Kaiser
                Family Foundation, Menlo Park California 2010.

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La mutazione del consumatore            53

           comunicazione sono così restii ad adottare lo stesso approccio
           «sistematico» e integrato?
               Fabris, già nel 1992, distingueva due tipi di comunicazione
           emessa dall’impresa. Da un lato, quella in cui le diverse compo-
           nenti del mix comunicativo siano state consapevolmente e strate-
           gicamente attivate. In questo caso la comunicazione che raggiun-
           gerà il consumatore sarà incisiva, chiara e molto probabilmente,
           efficace. E dall’altro, quella in cui le diverse componenti del mix
           comunicativo non siano state consapevolmente e strategicamente
           attivate dall’impresa e «con tutta probabilità, sarà un balbettio
           confuso da cui faranno fatica del levarsi le singole componenti
           del mix di comunicazione singolarmente corrette» 36. Nondime-
           no, oggi gli individui combinano le informazioni (ufficiali e non)
           che ricevono sui prodotti, indipendentemente dal fatto che sia la
           stessa azienda a integrare i messaggi pubblicitari e promozionali
           attraverso i vari mezzi di comunicazione.
               Secondo Naik e Raman, «per evitare che i consumatori inte-
           grino le informazioni in modo incoerente, le aziende dovrebbero
           farsi carico di questo processo» 37.
               Il presente lavoro vuole indagare proprio il tema – a nostro
           modo di vedere ancora ampiamente inesplorato – dell’integra-
           zione strategica del mix di mezzi e, più in generale, del mix co-
           municativo da parte dell’impresa e della marca.

               36
                 G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, cit., p. 546.
               37
                 P.A. Naik – K. Raman, Understanding the Impact of Synergy in Multime-
           dia Communications, in «Journal of Marketing Research», vol. 40, November
           2003, p. 342.

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