La primavera araba. Le cause, gli effetti e gli sviluppi.

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La primavera araba.
                                Le cause, gli effetti e gli sviluppi.

                                            Introduzione

Il 17 dicembre 2010 il giovane ambulante tunisino Mohamed Bouazizi si dà alle fiamme per
protestare contro la polizia che aveva sequestrato la mercanzia che cercava di vendere per strada.
Quello che sembrava un episodio come tanti ha segnato, simbolicamente, l’inizio di una serie di
cambiamenti epocali nell’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Mentre in alcuni Paesi, come
la Siria, si continua a combattere, in altri, come Tunisia, Egitto e Libia, sono caduti regimi che si
credevano ormai radicati e consolidati, facendo emergere le enormi contraddizioni, ma anche le
grandi speranze, di un mondo che si è sempre pensato essere immobile ed immutabile.
Le rivolte che hanno infiammato il mondo arabo rappresentano uno degli eventi internazionali più
dirompenti degli ultimi anni, non solo per l’area del Mediterraneo ma per l’intero sistema
geopolitico internazionale. Non sappiamo ancora quale sarà il destino della maggior parte dei Paesi
della cosiddetta “primavera araba”, ma è comunque evidente che stiamo assistendo ad un
cambiamento epocale in una delle regioni più complesse del sistema globale, dalle cui sorti
dipenderanno numerose questioni di ordine politico, economico e di sicurezza, per gli attori del
nord e del sud del mondo, ma soprattutto per gli stessi Paesi coinvolti e per la ridefinizione dei
nuovi equilibri di tutta l’area mediorientale.
La primavera araba ha riacceso l’attenzione dei media e delle diplomazie mondiali sulle tante
incognite di questa “porzione di mondo” che, forse, fino ad ora erano state sottovalutate, se non
volutamente poco considerate, in quanto sacrificate sull’altare di una supposta stabilità regionale.
Stabilità che, al livello dei singoli Paesi, si basava su “certezze” che già da tempo cominciavano a
dare segnali di cedimento, fino allo scoppio delle rivolte che hanno spazzato via alcuni tra i più
longevi regimi dell’area. In tale contesto, i problemi di sicurezza e stabilità venivano ricordati per lo
più solo in riferimento dell’annoso conflitto arabo-israeliano mentre, paradossalmente, all’interno
degli stessi sistemi arabi stava maturando qualcosa di più dirompente.
Oggi i popoli del mondo arabo, per molto tempo considerato “immutabile nel suo immobilismo”,
sembrano essersi svegliati dall’apparente torpore e guardando al mondo con occhi nuovi, chiedendo
il proprio spazio, rivendicando la propria unicità e ponendo nuove sfide alla comunità
internazionale che non può più pensare ai Paesi del sud del Mediterraneo soltanto per le questioni
legate ai flussi migratori, agli approvvigionamenti energetici e al terrorismo internazionale, ma deve
tenere conto delle complessità di un’area che vive molteplici tensioni. Tensioni legate ai processi di
democratizzazione, al nuovo ruolo assunto dall’Islam politico nei sistemi istituzionali,
all’importanza dello Stato e dei suoi organi all’interno della società, ai processi demografici in atto,
alla natura autoritaria di molti attori per anni al potere e alla sfida circa il superamento o meno di
questo modello nei nuovi ordini istituzionali che vanno sostituendosi a quelli vecchi.
La difficoltà nell’interpretare e nel capire le rivolte che hanno attraversato molti Paesi del Vicino
Oriente e del Nord Africa nasce dunque dall’aver ignorato per lungo tempo queste realtà che ci
pongono dinanzi a scenari politici complessi e diversificati, troppo spesso letti con la lente
occidentale del generico mondo arabo-islamico, dimenticandone le peculiarità sociali, ideologiche,
economiche e culturali e cadendo nell’errore di credere che le cosiddette “rivolte a effetto domino”
presuppongano necessariamente le stesse cause, gli stessi contesti e soprattutto le stesse
conseguenze. La primavera araba, in altre parole, non è uguale per tutti, ed ogni Paese coinvolto
presenta caratteristiche che non sono interamente assimilabili a quelle degli altri Paesi che, pur
condividendo parte del patrimonio politico e culturale ed essendo geograficamente vicini, hanno
conosciuto un percorso storico diverso e di conseguenza necessitano di un approccio differente. E’
in questo senso che possiamo riferirci a questo fenomeno anche con l’espressione di “Primavere
Arabe,” al plurale. Non sarebbe altrimenti possibile capire la durezza dello scontro interno e,
successivamente, le incognite della Libia post-Gheddafi, i drammi della Siria e dello Yemen e delle
guerre civili che (seppure in presenza di condizioni strutturali del tutto diverse) li hanno
caratterizzati, e i difficili tentativi di normalizzazione e demilitarizzazione istituzionale dell’Egitto
post-Mubarak. Allo stesso modo sarebbe impossibile, per esempio, comprendere perché le rivolte
siano nate in un Paese apparentemente stabile come la Tunisia, così come indagare circa il vero
significato delle timide riforme delle monarchie arabe del Golfo. Ancor più difficile, poi, sarebbe
interpretare gli effetti delle rivolte nell’ottica più ampia del futuro dell’intero Medio Oriente
allargato: una regione in cui persistono fattori come il mai sopito conflitto arabo-israeliano, la
percezione costante della minaccia iraniana, e il ruolo che la Turchia, indecisa tra l’opzione europea
e quella di protagonista egemonico mediorientale, potrebbe giocare nel futuro dell’area.
Cosa c’è allora davvero dietro alle piazze colme di giovani che inneggiano alla libertà e per questo
hanno deciso finanche di morire? Quali sono e da dove nascono, storicamente, le dinamiche che
hanno dato vita alle rivolte?
Analizzeremo le situazioni di Tunisia, Egitto, Libia, e Siria.
Algeria e Libano giocano invece un ruolo diverso. L’Algeria è stata appena sfiorata dall’ondata di
rivolte. Il timore di tutte le forze politiche e sociali che potessero ripetersi l’esperienza drammatica
della guerra civile che ha sconvolto il Paese negli anni novanta e il carattere per lo più socio-
economico e non politico delle proteste, ha significato che una serie di politiche di sussidi ed aiuti
economici varate dal presidente Bouteflika placasse ottimamente il malcontento.
Il Libano, invece, praticamente non è stato toccato dalle rivolte, concentrato sulle questioni di
natura interna. L’evoluzione della sua situazione politica non sembra poter essere influenzato tanto
dall’andamento delle rivolte del mondo arabo quanto, invece, da un eventuale cambio di regime
della vicina Siria e dalle tensioni con lo stato di Israele.

                                      La situazione tunisina

Trattare le rivolte tunisine del 2010/2011 abbisogna di una piccola premessa, necessaria per capire
quanto, paradossalmente, la Tunisia avesse recentemente perso le libertà umane conquistate
cinquant’anni addietro.
Ad inizio 2011, infatti, il Presidente Ben Ali è costretto a lasciare il potere. Ma come vi era
arrivato?
Nel 1987 Ben Ali sale al potere, con un colpo di stato appoggiato anche dall’Italia. Con esso viene
deposto Bourguiba, un Presidente che aveva mosso passi da gigante verso un Paese moderno e
progressista. Bourguiba difatti abrogò il doppio regime (coranico e civile) nei tribunali e
progressivamente attuò lo stesso nelle scuole. Approvò il Codice dello statuto della persona (CSP),
che di fatto emancipa le donne (divieto della poligamia, necessità di un'età minima e del reciproco
consenso per il matrimonio, abolizione del dovere di obbedienza della sposa, sostituzione del
divorzio al ripudio, solo maschile). Cinque mesi dopo è vietato l'uso dell'hijab (il velo) nelle scuole
e sette mesi dopo alle donne tunisine è pienamente riconosciuto il diritto di voto.
Il 25 luglio del 1957, avvenne la proclamazione della Repubblica, e nel 1959 venne adottata la
prima Costituzione repubblicana, che conferma la natura laica dello Stato.
Tutte queste conquiste furono letteralmente spazzate via dal colpo di stato di Ben Alì, che ridusse ai
minimi termini i diritti basilari dell’uomo, stroncando la libertà di stampa e gli oppositori politici (il
gradimento “bulgaro” ad ogni elezione oscillerà tra il 95% e il 99%). Ad estenuare più di ogni altro
aspetto la popolazione, tuttavia, era la corruzione. In uno Stato in cui era assolutamente impossibile
muoversi legalmente per qualsivoglia necessità, e dove ogni ambito sociale era comandato in
maniera dittatoriale da personaggi strettissimamente legati alla famiglia del Presidente o di sua
moglie, la revoca della licenza ad un povero venditore ambulante ed il sequestro della merce bastò a
portare quest’ultimo al suicidio. L’ondata di empatica protesta che ne scaturì fu inarrestabile: la
popolazione vide colmarsi la misura della frustrazione per la disoccupazione, per la corruzione della
polizia, per l’indifferenza delle autorità (molto più concentrate ad arricchirsi che a svolgere la loro
funzione di utilità pubblica), il tutto condito dalla crescente preoccupazione per il rialzo dei prezzi
dei beni di prima necessità (quali pane, farina, zucchero, latte).
Più in profondità traspariva tuttavia la profonda insoddisfazione, specie delle generazioni più
giovani, per il regime decisamente autoritario di Ben Alì, per la mancanza di libertà di espressione,
per il bavaglio imposto alla stampa e per una società basata sul clientelismo. Folle di oltre
cinquantamila persone si radunarono quotidianamente per le strade protestando contro Ben Alì,
dando vita a scontri con le forze armate.
L’inasprirsi delle proteste portò Ben Alì alla fuga in Arabia Saudita, da cui tuttavia continuava a
mantenere il potere. Puntando sulla fiducia delle forze armate, Ben Alì ordinò di stroncare la
repressione nel sangue. Su ordine del Presidente, la polizia attuò la politica della terra bruciata
contro l’esercito e le proprietà, private e pubbliche, nel tentativo di seminare panico e terrore nella
popolazione e quindi preparare il terreno per un colpo controrivoluzionario che consentisse il
ritorno del dittatore. Neutrale in una prima fase, l'esercito ha comunque avuto un ruolo decisivo
nella caduta del regime. Il generale dell’esercito, difatti, rifiutò di sparare sulla popolazione, e fu
allora destituito, mentre i soldati avevano invece continuato a fraternizzare con loro, condividendo i
motivi della protesta. Una delegazione di ufficiali raggiunse Ben Ali per comunicargli il rifiuto
dell'arma di essere lo strumento della repressione, privando il Presidente di una forza fondamentale.
A seguito dell’esilio volontario di Ben Alì, fu instituito un governo di unità nazionale presieduto da
Ghannouchi, durante il quale le attività del partito dell’ex presidente furono dichiarate cessate, e le
sedi furono tutte chiuse. Ciò tuttavia non placò le proteste in quanto Ghannouchi era visto come
ancora troppo vicino a Ben Alì.
Una settimana dopo, a seguito degli scontri tra un corteo e la polizia che provocò la morte di 5
persone, Ghannouchi annunciò le sue dimissioni. Al suo posto fu nominato premier Béji Caïd
Essebsi, ministro degli Esteri durante la presidenza di Bourguiba, e un mese dopo egli abolisce la
polizia segreta.
Con Essebsi la situazione si distende, e la Tunisia vive una febbrile e tuttavia difficile fase
diplomatica interna, che porterà, nell’ottobre del 2011, alle elezioni per l'Assemblea Costituente
della Tunisia che hanno visto la netta affermazione del partito islamico moderato Ennahda, seguito
dal Congresso per la Repubblica. Il difficile cammino costituente, caratterizzato da tensioni anche
tra i partiti, si è concluso con alcune intese che hanno permesso di mantenere un quadro politico-
istituzionale stabile, sotto una presidenza ad interim (Marzuki) che traghettasse il Paese in vista
delle prime elezioni post-dittatura.
Il 26 gennaio 2014 è entrata in vigore una nuova Costituzione. A tre anni di distanza dalla prima
delle rivoluzioni arabe, la Tunisia ha iscritto nella sua legge fondamentale la parità tra uomini e
donne, la libertà di coscienza, il divieto dell’accusa di apostasia e il riconoscimento del carattere
civile (dunque non religioso) della repubblica. L’Assemblea, dominata dagli esponenti del partito
islamico Ennahda, ha approvato la nuova costituzione con duecento voti favorevoli e appena 14
contrari (più tre astensioni). Al termine della votazione i deputati si sono alzati dai banchi e hanno
intonato l’inno nazionale. In questo modo, senza divisioni tra le correnti politiche, la Tunisia è
entrata compatta nella democrazia, una democrazia che bisognerà consolidare e radicare ma che si
rispecchia in una costituzione che rispetta tutti e garantisce le libertà di ogni cittadino.
il 26 ottobre 2014 si sono tenute senza incidenti e contestazioni Elezioni legislative per eleggere il
Parlamento tunisino. Esse costituivano le prime elezioni libere, giudicate a livello internazionale
sostanzialmente rispettose delle tradizioni democratiche parlamentari e realmente multipartitiche.
Essebsi ha trionfato, seguito dal partito Ennahda, ed è stato eletto Presidente della Tunisia il 31
Dicembre 2014.

Questo grande momento è dovuto anche a quei laici che hanno scelto di allearsi con gli islamisti
governando insieme a loro per evitare una frattura politica dettata dalla religione. Con il loro
comportamento hanno dato prova di grande coraggio, perché sfidando le critiche hanno integrato
Ennahda in una coalizione parlamentare. È anche grazie a loro che il partito islamico è stato
costretto a dipendere dai voti anziché dalla forza, a intraprendere la strada del compromesso e ad
assumersi le responsabilità derivanti dall’esercizio del potere.
Quando la tensione sociale ha raggiunto livelli critici e i fanatici islamisti hanno cominciato a
uccidere e alimentare la violenza (in un momento in cui anche l’Egitto si ribellava contro gli
islamisti al potere), i ministri di Ennahda e il capo del partito hanno scelto la via della conciliazione,
accettando la nuova costituzione e la nomina di un governo tecnico incaricato di preparare nuove
elezioni.
Gli islamisti tunisini hanno deciso di passare all’opposizione per ricompattarsi. Lo spirito del
compromesso ha dunque prevalso, non senza qualche momento di tensione ma con il
coinvolgimento di tutte le correnti politiche. Come richiede una moderna democrazia.

                                      La situazione Egiziana
L’Egitto è sicuramente il Paese che più di ogni altro ha subito i maggiori capovolgimenti dopo la
Primavera Araba, in un susseguirsi di avvicendamenti politici che ancora oggi ne minano la stabilità
interna, prima ancora di quella nello scacchiere internazionale.
Allo scoccare della primavera araba, il potere in Egitto era in mano a Mubarak.
Salito al potere dopo l’assassinio di Sadat nel 1981, Mubarak ha da allora governato per trent’anni
senza mai revocare lo stato d’emergenza. Prorogato strategicamente e senza soluzione di continuità,
tale stato è necessario per aggirare la costituzione e permettere al Presidente di muoversi senza
alcun paletto legislativo, soffocando avversari politici e libertà personali.
Nei trent’anni di governo, il malcontento della gente è salito vertiginosamente per una serie di
aspetti. Innanzitutto il livello di corruzione, altissimo, che tarpa le ali alla popolazione; poi,
paradossalmente, da una emancipazione scolastica portata avanti in maniera effimera, a cui di fatto
non è seguito alcun tipo di riforma del lavoro, lasciando che gran parte della popolazione giovanile
si ritrovasse senza futuro, con titoli di studi non previsti dalla realtà lavorativa.
Sulla scia dei moti tunisini, anche in Egitto la rivolta del 2011 è cominciata con il suicidio di alcuni
manifestanti che si sono dati fuoco per protestare contro le misere condizioni generali. Basti pensare
che, a dispetto di un aumento della potenza economica che non trovava freni, in Egitto gran parte
della popolazione viveva con meno di un dollaro e mezzo al giorno.
Dopo oltre due mesi di scontri e trattative soffertissime che hanno tirato in ballo anche gli Usa, da
sempre manovratori dei giochi nell’area mediorientale, Mubarak rassegnò infine le dimissioni dalla
carica di Presidente nel febbraio 2011.
Tuttavia, ciò ha dato il via ad una fase di tremenda instabilità, che dura ancora adesso.
Dopo una presidenza transitoria guidata dal Ministro della Difesa, Gen.le Tantawi, ad oltre un anno
dalle dimissioni di Mubarak, infatti, nel giugno del 2012 si sono tenute in Egitto le prime elezioni
presidenziali post-dittatura, che hanno portato alla presidenza Mohamed Morsi, candidato del
partito legato ai Fratelli Musulmani. Da sempre con idee islamiste, e votato ad un approccio politico
dell’Islam, Morsi dopo appena due mesi sostituì Tantawi come Ministro della Difesa con Al-Sisi,
figura sconosciuta e creduta di buon livello per il solo fatto di essere reputato buon musulmano.
Pochi mesi dopo, inoltre, Morsi varò un decreto che accentrò nelle sue mani amplissimi poteri
anche nel campo giudiziario. Il fine ufficiale di Morsi sarebbe stato quello di rendere non
impugnabili i suoi decreti presidenziali per evitare possibili rallentamenti all'attività dell'Assemblea
Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. Inoltre, la dichiarazione autorizzava
Morsi a prendere, senza ulteriori specificazioni, tutte le misure necessarie per "proteggere" la
rivoluzione. Tutto ciò, assieme al proclamato intento che nella Costituzione egiziana fossero accolti
elementi favorevoli alla parziale introduzione di norme ispirate alla Shari'a, fino ad allora indicata
solo come "fonte d'ispirazione" del diritto, contribuì a scatenare una vivacissima reazione di piazza
delle opposizioni, esasperate dalle crescenti e irrisolte difficoltà economiche e dalla strisciante
islamizzazione in un Paese la cui fetta di popolazione di religione cristiana copta non è esigua.
Il decreto sancisce l’inizio di una nuova ondata di disordini, che culminano, nell’estate del 2013,
con un nuovo colpo di Stato.
Il 1º luglio 2013, le Forze Armate egiziane guidate da Al-Sisi hanno rivolto un ultimatum al
Presidente della Repubblica, dopo giorni di crescenti manifestazioni d'insofferenza verso il governo
dei Fratelli Musulmani, imponendo a Mohamed Morsi di avviare a soluzione entro 48 ore la
gravissima crisi politica e finanziaria che si trascinava da tempo nel Paese.
Non avendo avuto riscontri, Al-Sisi ha attuato un incruento colpo di Stato militare, deponendo
Mohamed Morsi e insediando provvisoriamente al suo posto Adli Manṣūr, e ha ordinato l'arresto di
numerosi componenti della Fratellanza Musulmana con l'imputazione di "incitamento alla violenza
e disturbo della sicurezza generale e della pace". Lo stesso giorno Al-Sisi, ha annunciato in
televisione che il Presidente Morsi aveva "fallito nel venire incontro alle richieste del popolo
egiziano" e ha dichiarato la sospensione della Costituzione.
Il governo ad interim che Al-Sisi ha installato dopo il colpo di Stato del 3 luglio ha attuato una
repressione implacabile e sanguinosa dei sostenitori di Morsi, ritenuta da alcuni un vero sterminio
di massa, con l'uccisione di più di 2.500 manifestanti appartenenti alla Fratellanza Musulmana su
20.000 arrestati in maniera arbitraria, e sistematiche violazioni dei diritti umani.
Alle successive elezioni presidenziali del 2014 Al-Sisi è stato eletto Presidente della Repubblica
Araba d'Egitto con una maggioranza bulgara del 96,91%. Ciò gli ha permesso di soffocare ogni
opposizione, limitando la libertà di stampa e permettendo l'arresto degli oppositori politici in nome
della stabilità e della lotta al terrorismo, e di assumere su di sé ogni potere: esecutivo, legislativo
(l'ultimo Parlamento eletto fu sciolto da un tribunale nel 2012), di fatto giudiziario, militare.

                                       La situazione siriana
La Siria ha sempre svolto un ruolo delicatissimo e particolare, nell’economia del mantenimento di
uno status-quo che evitasse cambiamenti drastici in tutta la regione mediorientale che si sarebbero
rivelati incontrollabili dalla comunità internazionale.
Il paradosso fondante di tutto la dinastia Assad è di essere un governo appartenente ad una
minoranza sciita pur in uno Stato a maggioranza sunnita. Tale situazione si rispecchia al di fuori dei
confini siriani, dove appunto svolge un ruolo di chioccia per le minoranze sciite che le sorgono
intorno. La sua fortunata collocazione geografica ha offerto al regime di Assad la possibilità di porsi
al crocevia di due assi di potere assai diversi e competitivi quali quello sciita dell’Iran e quello
sunnita dei Paesi del Golfo, come la Monarchia Saudita. Inoltre, in quanto paese culla dell'ideologia
nazionalista araba e in parte panaraba, la Siria rappresenta la punta più avanzata della politica anti-
israeliana nel Vicino Oriente (soprattutto dopo che Egitto e Giordania hanno avviato un processo di
normalizzazione delle loro relazioni con lo Stato ebraico). In questo modo la Siria ha saputo
sfruttare al massimo questa sua peculiarità, ottenendo grandissimi risultati più grazie ai rischi delle
conseguenze geo-politiche di un suo crollo che grazie ad una effettiva collaborazione con la
comunità internazionale.
L’appoggio al partito Hezbollah libanese, la sua contrarietà allo Stato di Israele e la sua protezione
ad Hamas rende Assad un regime altamente amato nel mondo arabo, ed una spina nel fianco degli
Stati Uniti.

L’intifada scoccata in Siria a seguito dei moti tunisini si insinua nel solco della esclusività siriana,
esprimendosi anch’essa in modi che si distaccano dalle altre rivolte arabe. Se tali rivolte infatti
hanno visto grandi masse affluire nelle piazze delle città principali e colpire gli edifici simboli del
potere, in Siria gli scontri hanno avuto luogo per lo più nelle periferie rurali, dove le condizioni di
povertà hanno portato ad un malcontento sempre crescente di questa fetta di popolazione contro il
regime. In queste zone hanno preso forma dei veri e propri gruppi combattenti organizzati, formati
da soldati disertori, che si sono poi uniti formando il Consiglio Nazionale Siriano, raccogliendo
tutte le voci contrarie al regime di Assad. Per la prima volta, in quarant’anni, si era velata la
possibilità di un’alternativa al regime.
Il perdurare degli scontri ha mutato la rivolta politica in guerra civile. L’intervento di Hezbollah a
difesa di Assad e di Turchia e Paesi del Golfo in difesa dei sunniti ha mutato ancora gli scontri,
dando loro una connotazione non più nazionale ma regionale. Il conseguente coinvolgimento delle
potenze mondiali, in forma diplomatica e/o di sostegno concreto ad una o all’altra fazione, (Russia e
Cina pro-Assad; Usa, Inghilterra e Francia pro-ribelli) ha reso infine moti rivoluzionari siriani una
questione internazionale. Il punto critico si è avuto nell’agosto 2013 quando, a seguito dell'uso di
armi chimiche avvenuto a Damasco, Stati Uniti e Unione europea accusarono le forze governative
di Assad di aver condotto l'operazione, mentre la Russia e l'Iran invece difesero il governo e
accusarono i ribelli. Si aprì così concretamente la possibilità di un intervento militare contro il
regime, quando Barack Obama annunciò la possibilità di uno strike punitivo con il lancio di missili
verso le postazioni militari siriane in 48 ore; tuttavia, il timore di un allargamento incontrollato del
conflitto su scala mondiale permise alla diplomazia di prendere il sopravvento e, grazie alla
proposta avanzata dal presidente della Russia Vladimir Putin, venne raggiunto un accordo che
eliminava la possibilità di intervento armato in cambio della distruzione dell'arsenale chimico
siriano e l'adesione del governo siriano alla "Convenzione sulle armi chimiche".
L'accordo venne votato all'unanimità all'Onu a settembre.
Il 3 giugno 2014, a fronte di una rinvigorita offensiva delle truppe lealiste a Homs e Aleppo, si sono
svolte in Siria le elezioni presidenziali, per la prima volta con la presenza di più candidati. Le
votazioni, fortemente contestate dalla maggior parte dei Paesi occidentali e del mondo arabo sunnita
e riconosciute invece come legittime da Russia, Iran e Venezuela, si sono svolte solo nelle aree
controllate dal governo e hanno visto Baššār al-Asad riconfermato presidente per la terza volta con
l'88.7% dei voti.

I moti siriani durano ancora oggi e, a causa delle spinose e delicatissime specificità descritte
all’inizio, potranno durare ancora per molto tempo, con conseguenze geo-politiche imprevedibili, i
cui effetti potrebbero portare ad un vero e proprio terremoto mondiale.

                                       La situazione libica
A differenza degli altri protagonisti della primavera araba, il fulcro della popolazione libica era
ancora una insita distinzione tribale. In un Paese altamente frammentato (oltre 140 tribù) il
sentimento di appartenenza al proprio clan era ancora fortissimo, e lo è ancora adesso. Gheddafi
basò il proprio quarantennale governo proprio sull’istituzione di una “Repubblica delle masse” che
evitasse problemi, riuscendo abilmente a districarsi nelle maglie tribali senza pretendere di romperle
o di unirle, semplicemente foraggiandone la fedeltà in cambio di sussidi e ruoli di un certo rilievo.
Nonostante la situazione sociale non fosse affatto migliore di quella tunisina o egiziana, la rivolta
libica non ha la sua scintilla in un motivato episodio di malcontento. Sono stati i giovani e il loro
uso strategico dei social ad aprire gli occhi alla popolazione su quanto stesse succedendo in Tunisia
ed in Egitto, spronando la gente a cacciare il dittatore. Nel febbraio 2011, quindi, anche la Libia si
ritrovò coinvolta nella primavera araba. L’aumentare degli scontri portò alle prime morti civili, che
alimentarono sempre più lo spirito di ribellione dei manifestanti. Fattore fondamentale della rivolta
libica fu l’esercito che, a differenza di quanto successo negli altri Paesi, si sfaldò totalmente,
dividendosi in lealisti e pro-ribelli, privando la situazione di quell’elemento di stabilità che avrebbe
potuto giocare un ruolo importantissimo.
I moti divennero quindi una guerra civile vera e propria, con l’esercito fedele al regime che si
scontrava sanguinosamente e quotidianamente con i manifestanti. Si formò così il Consiglio
nazionale di transizione. Il Consiglio Nazionale controllava e gestiva le regioni occupate dai
rivoluzionari libici. Compiti principali del Consiglio erano quelli di proseguire le azioni della
Rivoluzione fino alla liberazione dell'intera Libia e in seguito organizzare libere elezioni e redigere
una nuova costituzione. Ne facevano parte varie forze anti-Gheddafi e alcuni ex membri del
Comitato generale popolare di Libia e dell'Esercito libico passati dalla parte delle forze di
opposizione. Proprio la divisione interna allo stesso esercito rese necessario per Gheddafi il ricorso
alle truppe mercenarie, arruolate da altri Paesi africani.
Dopo sette mesi di scontri, il 17 ottobre del 2011 anche l’ultima roccaforte dei lealisti cadde in
mano ai ribelli, e tre giorni dopo Gheddafi venne catturato a Sirte ed ucciso dalla folla inferocita. Il
suo regime ebbe così fine.
Il processo democratico del Paese procede tutt’oggi a rilento.
Il Consiglio nazionale generale, in carica dall’agosto 2012, non essendo in grado di stilare la nuova
Costituzione aveva deciso di indire le elezioni per il 25 giugno scorso. L'obiettivo: eleggere i 200
membri del Consiglio dei rappresentanti, il nuovo organo politico incaricato di redigere la carta
costituzionale.
Il verdetto elettorale è stato eloquente: solo il 20 per cento degli aventi diritto è andato a votare,
segno di una disaffezione crescente verso le autorità politiche considerate legittime a governare.
L’errore più grande compiuto dal governo centrale è stato quello di non essere riuscito a disarmare
le numerose milizie che si sono contrapposte a Gheddafi, non formando un esercito regolare, ancora
oggi definito in modo poco chiaro.
Dopo la caduta di Gheddafi la Libia è divenuta così ostaggio degli scontri fra le numerose milizie
tribali che formavano la coalizione dei ribelli. I diversi governi che si sono succeduti hanno tentato
di imporre l'autorità del potere centrale su questi gruppi, cercando di disarmarli o di integrarli
nell'esercito nazionale, ma hanno sostanzialmente fallito.
Gli scontri, che durano tutt’oggi, vertono su due punti cardini: Bengasi e Tripoli.
La situazione, già di per sé frammentaria e instabile, è precipitata dopo il tentativo di colpo di stato
del generale Haftar e con l'occupazione del palazzo del parlamento a Tripoli da parte di soldati a lui
fedeli. Il generale aveva lanciato due giorni prima un attacco contro alcune milizie islamiche nella
Cirenaica, ma non autorizzato dal governo centrale. Tuttavia, il 30 luglio 2014, una di queste
milizie ha occupato Bengasi proclamando l'emirato islamico.
Se Bengasi è quindi sotto il controllo delle milizie islamiche, nella stessa Tripoli sono in corso
violenti scontri, in particolare nella zona dell'aeroporto, punto strategico nevralgico.
Agli scontri tra milizie islamiche, milizie laiche e militari, si aggiunge il ruolo non di secondo piano
delle minoranze etniche, come Tuareg, che si battono quotidianamente per ottenere un
riconoscimento ufficiale dal governo. L’obiettivo di questa lotta è molto chiaro: vedersi
riconosciuta la propria identità, come ad esempio la lingua locale.

Insomma, la Libia è ancora coinvolta in una sanguinosa ricerca di stabilità, ed una pacifica
risoluzione diplomatica sembra tutt’altro che prossima.

                                                                                         Flavio Alaia
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