Politica estera e relazioni internazionali nell'Italia repubblicana.

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XXVIII Convegno SISP Perugia

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       La politica estera italiana: premesse storiche e nodi problematici (I)

Chairs:
Emidio Diodato e Federico Niglia

Discussant:
Luciano Bozzo

Relatore:
Emidio Diodato (Università per Stranieri di Perugia)
emidio.diodato@unistrapg.it

Politica estera e relazioni internazionali nell’Italia repubblicana.

Evidenziati da Angelo Panebianco, ma ripresi dagli studi di Federico
Chabod e Carlo Maria Santoro, i fattori constanti della politica estera
italiana sono stati individuati (i) in una irrisolta tensione geopolitica fra
Europa (modernizzazione) e Mediterraneo (anomalo ritardo) e (ii) nella
conseguente forbice fra rango apparentemente riconosciuto al paese e
ruolo effettivamente svolto di media potenza. Pur se emersi lungo una
traiettoria analitica di matrice realista, questi fattori sono stati impiegati
per spiegare la politica estera più come il prodotto di dinamiche interne
che come il risultato di mutamenti internazionali. Così intesi, ancora oggi
possono spiegare i principali cambiamenti di rotta tra l’epoca liberale e
fascista e quella repubblicana. Ma non appaiono utili a comprendere il
mutamento nell’Italia repubblicana. Non spiegano, ad esempio, come è
cambiata la politica estera italiana dopo la fine della Guerra fredda, se non
intendendola quale effetto della transizione verso la cosiddetta Seconda
Repubblica. Da questa lacuna interpretativa emerge la necessità di
approfondire il legame tra la politica estera e le relazioni internazionali.

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1. Una mappatura del campo di studi

Gli studi sulla politica estera possono essere sommariamente divisi in tre
settori. In primo luogo ci sono le memorie dei protagonisti: Capi di
governo, ministri degli Esteri, diplomatici. Si pensi agli scritti sulla
politica estera o sulla guerra in Africa di Francesco Crispi, oppure alle note
di Giulio Andreotti conservate presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Ma
si pensi anche agli scritti pubblicati da diplomatici di carriera e
recentemente raccolti sul blog di Stefano Baldi La penna del diplomatico.
In parte si tratta di fonti utili per gli studi diplomatici o per l’analisi dei
processi decisionali in politica estera. Per altro verso le memorie sono self-
serving, ossia acquisiscono un valore biografico che consente di ricostruire
un certo ambiente sociale o di lavoro. Vi sono poi gli altri due settori di
studi: quello della storia diplomatica o delle relazioni internazionali, e
quello dell’analisi di politica estera e di scienza politica. Nel primo caso
possiamo risalire a una consolidata tradizione italiana, partendo proprio dal
libro di Federico Chabod sui primi anni di politica estera del Regno
d’Italia, commissionato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
di Milano, per giungere agli scritti sulla politica estera fascista e
repubblicana di Ennio Di Nolfo. Entrambi gli storici hanno incrociato le
fonti ufficiali con quelle biografiche, superando la narrazione fattuale e
cronologica degli eventi al fine di chiarirne i presupposti culturali e
politici.

Il terzo settore di studi, quello della scienza politica, è invece più recente e
meno sviluppato. Difficile è rinvenire una tradizione italiana di scienza
della politica estera. Del resto, cosa si debba intendere con questa
espressione non è affatto chiaro neppure nel dibattitto internazionale. In un
capitolo scritto per l’Handbook of International Relations, pubblicato dalla
londinese Sage nel 2002, Walter Carlsnaes lamentava che in un manuale di
scienza politica del 1975 si fosse dato per naturale che la politica estera
appartenesse al «dominio empirico delle politiche pubbliche piuttosto che
delle relazioni internazionali» (Carlsnaes, 2002, p. 331). In altre parole,
stando a questa critica, la politica estera era stata considerata alla stregua
di altre politiche, ad esempio per la regolamentazione del mercato oppure
per la distribuzione dei servizi sociali. Mentre la specificità dell’analisi di
politica estera, quindi l’avere molto più in comune con il dominio empirico
delle relazioni internazionali, non poteva più essere posta in discussione.
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Ma cosa significa includere la politica estera nel dominio delle relazioni
internazionali e non in quello delle politiche pubbliche? In realtà, già le
prime generazioni di studiosi di scienza politica collocarono la politica
estera lungo la cerniera che divide la politica domestica e le relazioni
internazionali. D’altro canto, gli sviluppi più recenti mostrano che la
ricerca empirica intorno al problema del processo decisionale in politica
estera si svolge impiegando metodologie molto simili tanto per spiegare il
comportamento degli Stati quanto quello di altri attori non-nazionali che
affollano la scena internazionale (Stuart, 2008). A ben vedere, il vero
punto dirimente del confronto scientifico non concerne tanto la
collocazione della politica estera nel dominio empirico interno o esterno.
Quanto il peso da attribuire rispettivamente ai fattori domestici e a quelli
internazionali.

Da sempre si fronteggiano due visioni contrapposte sul primato tra i due
domini: Primat der Innenpolitik o Primat der Aussenpolitik. Ciò che però
di peculiare si trova nel dibattitto interno alla scienza politica è che tale
questione è stata posta interrogandosi, preliminarmente, su cosa intendere
con scienza, quindi come trattare gli affari politici nei limiti della
razionalità scientifica. Questa domanda ha segnato lo studio politologico
delle relazioni internazionali: sviluppatesi principalmente negli Stati Uniti,
le relazioni internazionali (International Relations) si sono organizzate in
due scuole di pensiero con posizioni molto differenti proprio sul rapporto
da intrattenere con la scienza politica. La prima scuola, affermatasi negli
anni Venti del Novecento, fu completamente interna alla scienza politica
affondando le sue radici nella fede nel potere dell’intelletto umano di
creare gradualmente un mondo migliore. Per questa scuola, di matrice
liberale, scopo della ricerca scientifica è indagare le condizioni per le quali
gli uomini agiscono razionalmente in modo che la somma delle loro scelte
individuali possa raggiungere un valore massimo per la società. Insomma,
si tratta di rendere migliore la politica così come la scienza economica
dovrebbe fare con l’economia. Se ciò vale tanto per le istituzioni politiche
interne quanto per quelle internazionali, allora obiettivo della ricerca
scientifica in questo campo è osservare le preferenze individuali o di
gruppo (Diodato, 2013, p. 23). Quindi, con riferimento alla politica estera,
occorre indagare quelle determinanti imputabili alle strutture governative,
ai gruppi di interesse, ai partiti politici, all’opinione pubblica.
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Per la seconda scuola, di matrice realista, ciò che più conta è invece la
politica tra le nazioni in un’arena internazionale anarchica, poiché priva di
governo. Non solo l’arena domestica, ma neppure la modernizzazione
politica, come vedremo, è quindi considerata rilevante. Gli studiosi realisti,
a partire dagli anni Quaranta, cercarono di tenere le relazioni internazionali
distinte dalla scienza politica domestica. Le strategie di politica estera
erano considerate dipendenti dai vincoli nella distribuzione del potere
internazionale e dalle opportunità per gli Stati di incidere sugli equilibri
politici, ovviamente per tentare di migliorare la propria posizione nelle
gerarchie di potere internazionale. Inoltre, queste stesse strategie erano
interpretate come combinazioni di azioni guidate tanto da interessi
razionali quanto da passioni politiche, a loro volta governate dalla volontà
di dominio. Fu così aperto un divario tra le relazioni internazionali e lo
studio comparato delle politiche estere. Quest’ultimo approccio, interno
alla scienza politica, era svolto da studiosi interessati allo sviluppo politico
e alla modernizzazione di specifiche regioni, soprattutto dopo la
decolonizzazione. La tradizione realista delle relazioni internazionali,
invece, ignorò il tema della modernizzazione e difficilmente gli studiosi
realisti scelsero di specializzarsi su specifiche aree geopolitiche (Guilhot,
2013). L’evoluzione successiva del realismo ha addirittura portato alla
nota presa di posizione di Kenneth Waltz (1996), secondo il quale occorre
tenere distinti gli studi di politica internazionale e di politica estera. Nel
primo caso, la ricerca scientifica dovrebbe spiegare perché Stati con lo
stesso potere agiscono similmente nonostante le differenze interne. Nel
secondo caso, la ricerca scientifica dovrebbe spiegare le ragioni di un
comportamento differente imputabile al regime interno.

In realtà, la differenza e le divergenze tra le due scuole di pensiero è stata
molto meno visibile di quanto non appaia dai grandi dibattiti teorici sulle
relazioni internazionali. Nelle ricerche empiriche o negli studi sul campo,
più profondi si sono rivelati altri ‘solchi’ di natura metodologica ed
epistemologica. Come cercherò di mostrare, questi due ‘solchi’ hanno
attraversato il liberalismo e il realismo trasversalmente. Il primo è noto
come il «problema dei livelli di analisi», ossia quale livello di analisi
mettere a fuoco per spiegare la politica mondiale. Nella formulazione
originaria del problema, in realtà, il divario tra liberalismo e realismo fu
presentato come insuperabile. Prendendo spunto proprio da Kenneth
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Waltz, David Singer (1961) affermò infatti che la scelta del livello di
analisi era all’origine dei differenti percorsi di ricerca della politica
comparata e delle relazioni internazionali. Nel primo caso, gli studiosi
mettevano a fuoco i comportamenti degli Stati e, comparandoli tra loro,
indagavano le regolarità nelle scelte e nelle azioni di attori simili, ma con
condotte non uniformi. Tali ricerche favorivano lo studio della
modernizzazione politica, vale a dire della convergenza di diversi paesi
verso i canoni della democrazia liberale e dell’economia di mercato. Nel
secondo caso, ossia a livello sistemico, gli studiosi postulavano invece un
alto grado di uniformità nel codice operativo di politica estera degli attori
nazionali. Quindi le regolarità comportamentali erano derivate
direttamente dalle caratteristiche del sistema internazionale. Entrambi i
percorsi di ricerca potevano essere validi, secondo Singer. Tuttavia
difficilmente i ritrovati esplicativi in termini di descrizione, spiegazione e
previsione avrebbero potuto essere sovrapposti in modo cumulativo. Per
questa ragione, egli suggeriva di operare una chiara scelta di campo ed
evitare di procedere in verticale tra livello domestico e internazionale.

Come anticipato, l’indicazione di Singer è stata però disattesa. Negli studi
empirici sulla politica estera, il problema della scelta del livello da
analizzare ha dato origine ad un dibattito più ampio – poiché caratteristico
delle scienze sociali in generale – tra individualismo metodologico, da una
parte, e olismo scientifico, dall’altra. Nel primo caso, si presuppone che lo
studio delle scienze sociali faccia capo a scelte individuali o di gruppo e
che queste possano rispondere a criteri di razionalità o ragionevolezza. Ne
consegue, come è stato affermato, che «la ricerca politologica approda ai
migliori risultati quando si dota di un’adeguata teoria dell’attore e
dell’azione» (Panebianco, 2009, p. 210). In particolare, con riferimento
alla politica estera, si è partiti dal dato inconfutabile che le scelte di un
paese sono quelle prese da parte di chi opera in nome dello Stato (Snyder,
Bruck, Sapin, 1954). Se questo approccio ha certo favorito la ricerca
compartiva del processo decisionale in politica estera, altrettanto vero è
che molti comparativisti hanno impiegato concetti cari ai realisti, come
l’anarchia internazionale e le gerarchie tra potenze. Inoltre, le
caratteristiche peculiari del sistema internazionale, incluse quelle
individuate da Kenneth Waltz, sono state considerate utili in molti studi di
caso (Hollis, Smith, 1990). Viceversa, un approccio olistico suggerisce di
subordinare le micro-interazioni tra individui tanto alla natura della
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struttura del sistema internazionale e alle forze che vi si generano, tanto
alle strutture e agli attributi interni agli Stati. In questo caso, producendo
uno scarto ontologico, sono i macro-fenomeni sociali e geopolitici ad
essere considerati più rilevanti, poiché si ritiene che questi decretino il
successo o il fallimento delle singole scelte.

Il secondo ‘solco’ concerne la nota distinzione tra spiegazione e
comprensione, là dove, rispettivamente, nel primo caso la ricerca
scientifica sulla politica estera dovrebbe limitarsi a mettere in evidenza il
nesso tra cause ed effetti, mentre nel secondo caso dovrebbe affrontare e
mettere in evidenza anche le motivazioni dell’agire sociale. Si tratta di una
questione epistemologica di ampia portata. Ma nello specifico della
politica estera ha riguardato, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda,
l’attenzione degli studiosi per temi come l’identità nazionale o, in senso
più ampio, la dimensione culturale e quella religiosa degli affari
internazionali. Per certi versi, il rifiuto da parte del realismo della teoria
della modernizzazione e il suo dar spazio, per dirla con George Liska
(1990), alla tragedia, hanno posto questa tradizione in una posizione di
vantaggio rispetto allo studio delle motivazioni, in particolare se si
considera la tematica del conflitto identitario. D’altro canto, il dibattitto sul
costruttivismo sociale e sulle modalità di formazione delle preferenze
nazionali ha dato nuovo vigore alla tradizione liberale su questi stessi temi
(Moravcsik, 1997). Si pensi, per fare un esempio, alla tematica della
formazione dell’interesse nazionale in società multiculturali (Hill, 2013).
Ad ogni buon conto, la distinzione nell’approccio è tra chi tende a
restringere l’ambito di ricerca della scienza politica allo studio del potere e
del processo decisionale in politica estera, e chi invece tendere a includere
tematiche cultuali e sociologiche, ovvero della cosiddetta sociologia
storica.

Nella letteratura di tipo manualistico sulla politica estera, gli studiosi
hanno spesso incrociato questi due ‘solchi’ come per arare il campo. Sono
così state proposte diverse matrici per semplificare una mappatura degli
approcci. Ma è molto difficile riuscire a collocare tutti i contributi rilevanti
in una delle quattro caselle che si otterrebbero ponendo, su un asse, la
prima dicotomia e, sull’altro, la seconda. Soprattutto è difficile inserire in
una matrice del genere quei contributi che propongono modelli
interpretativi sintetici, capaci cioè di coniugare fattori domestici e
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internazionali, motivazioni individuali e forze storico-sociali, nessi
esplicativi e interpretazione di singoli fenomeni. In fin dei conti, credo si
possa concordare con quanto affermato dallo stesso Walter Carlsnaes, vale
a dire che, comunque si approcci l’analisi della politica estera, il campo di
studi presenta tre problemi che lo attraversano trasversalmente: 1) quali
sono le cause del mutamento in politica estera? 2) qual è il ruolo delle idee
in politica estera? 3) e, soprattutto, quanto conta il problema agente-
struttura, ovverossia la dinamica che intercorre tra gli attori della politica
estera e la struttura di potere internazionale? (Carlsnaes, 2002, p. 343-
344).

2. Il caso italiano

Lo snodo principale per lo sviluppo di una scienza della politica estera
italiana è uno studio comparato di Angelo Panebianco (1997, pp. 227-251)
sulle politiche estere di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia, riferito
al periodo della Guerra fredda. Volendone schematizzare i risultati,
possiamo affermare che le decisioni di politica estera sono state viste come
una variabile dipendente, mentre la struttura governativa dell’Italia, ossia
una democrazia liberale di tipo consensuale, il potere dei principali partiti
politici e un’opinione pubblica tendenzialmente pacifista sono state
considerate le variabili indipendenti. Tuttavia, Panebianco attribuì
rilevanza altresì ai vincoli internazionali, intendendoli come processi
storici che generano opportunità politiche. Al punto che l’«anomalia
italiana» – ossia il fatto che la politica estera si sia caratterizza per essere
debole e il sistema politico per essere eterodiretto dall’esterno – è stata
imputata a una variabile interveniente: la posizione geopolitica di un paese
collocato lungo il confine dello stesso conflitto ideologico che lo divideva
all’interno. Come anticipato nell’introduzione, il modello di Panebianco ha
fatto leva su alcune costanti storiche e spiega bene il mutamento della
politica estera italiana rispetto alle precedenti epoche, liberale e fascista.
Ma non spiega come è cambiata la politica estera dopo la fine della Guerra
fredda, ossia quando la scelta atlantica compiuta dall’Italia repubblicana
non fu più legittimata dalla minaccia sovietica. Vi sono almeno due
questioni da considerare a tal proposito: quale è stato l’effetto
dell’incompiuta transizione da una democrazia consensuale a una
democrazia tendenzialmente maggioritaria, ossia ciò che ha segnato il
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passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica? Quale peso ha invece
giocato il passaggio dal legame atlantico, ossia quello imposto dalla
minaccia sovietica, al vincolo europeo rinsaldato con il Trattato di
Maastricht del 1992, che rappresenta probabilmente la più rilevante
trasformazione storica intervenuta negli ultimi venti anni?

Nell’analisi di Panebianco le idee giocano un ruolo importante per
spiegare il mutamento. Egli riprese soprattutto gli studi di Chabod e
Santoro, sottolineando l’irrisolta tensione geopolitica fra modernizzazione
di un’Italia penisola europea e anomalo ritardo di un’Italia isola
mediterranea. In verità, opportunamente Panebianco considerò differenti
le chiavi di lettura di Chabod, il quale insistette sugli orientamenti culturali
e rifiutò la geopolitica del suo tempo, e quella di Santoro, il quale rimarcò i
fattori geopolitici e aggiunse l’ulteriore tensione fra «rango» mancato di
grande potenza e effettivo «ruolo» italiano di media potenza (Santoro,
1991). Da una parte, nel modello proposto da Panebianco le ricadute delle
tensioni geopolitiche sugli orientamenti culturali del paese potrebbero
apparire più rilevanti delle differenze tra le due chiavi di lettura. Secondo
l’autore, infatti, «in un mondo diverso, dominato da regole diverse, l’Italia
repubblicana riproporrà, nella sua politica estera, molte caratteristiche dei
periodi precedenti» (Panebianco 1997, p. 230). Dall’altra, però, egli ha
spiegato i dilemmi dell’Italia repubblicana privilegiando la chiave di
lettura centrata sugli orientamenti culturali. In tal senso, i fattori geopolitici
semplicemente intervengono, mettendo in rilievo quella che è la vera
tensione costante della politica estera italiana: ossia l’opposizione tra
nazionalismo – che nel periodo liberale e fascista aveva fatto leva sulle
opportunità coloniali nel Mediterraneo – e internazionalismo – che si è
sempre nutrito dell’ideale di poter contribuire al mantenimento di un clima
pacifico e democratico. Questo dibattito originario ha in effetti lasciato
tracce indelebili sulla politica estera italiana, quindi sul mondo in cui i
decisori politici da sempre la rappresentano. Tali tracce furono già evidenti
nell’universalismo mazziniano, che accompagnò l’unità del paese, pur
perdendo presto di rilevanza con le scelte nazionaliste e coloniali di
Francesco Crispi. Ma ha ragione Panebianco ad insistere sul fatto che si
ritrovano soprattutto nelle retoriche dei decisori politici dell’Italia
repubblicana, durante la Guerra fredda, quando l’internazionalismo
divenne l’orientamento condiviso dalle principali forze politiche
repubblicane. Anzi, si può ritenere che certe spinte internazionaliste siano
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peculiari della politica estera italiana e che perdurino anche nella Seconda
Repubblica (Ignazi, Giacomello, Coticchia, 2012).

Tuttavia, occorre chiedersi quanto hanno pesato i fattori geopolitici e,
quindi, quanto contano i processi storici che vincolano l’orientamento
culturale di un paese. Se, durante la Guerra fredda, il sistema politico
italiano fu in qualche modo modellato dall’esterno, nel periodo successivo
le condizioni interne e internazionali sono mutate. Da un lato, si è aperto
un dibattito sul concetto di nazione. Ciò è avvenuto per varie ragioni, ma
anche perché l’alternanza al governo – favorita dalla tendenza alla
democrazia maggioritaria – ha dato corso a un potenziale diverso
orientamento in materia di politica estera. Il centro-destra ha sviluppato
una visione centrata sulla difesa dell’«interesse nazionale» in un sistema
post-bipolare nel quale si aprivano nuove opportunità per essere assertivi.
Mentre il centro-sinistra ha proposto di cogliere queste stesse opportunità
per agire «in linea con gli interessi internazionali dell’Italia» (Brighi, 2013,
p. 133). Vi è quindi stata una differenziazione tra tentativo di
nazionalizzazione della politica estera e internazionalismo di stampo
europeista (Carbone, 2011, p. 7). D’altro canto, si sono create oggettive
condizioni per un contributo più attivo dell’Italia al mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale. Prescindendo dalle distinzioni negli
orientamenti culturali, entrambi gli schieramenti hanno appoggiato
interventi militari all’estero trovando opposizione entro la propria
coalizione di governo, con la Lega Nord nel centro-destra e con la sinistra
radicale nel centro-sinistra. Inoltre, se si considerano i vincoli fiscali e
finanziari imposti al paese per il rispetto dei parametri della moneta unica
o dell’Europa di Maastricht, allora si può affermare che così come la
Guerra fredda e la minaccia sovietica segnarono la prima fase
repubblicana, i vincoli europei hanno caratterizzato la Seconda Repubblica
prescindendo dagli schieramenti politici (Diodato, 2014, p. 92-103). Alla
luce di questi fattori, quindi a fronte di macro-fenomeni sociali e
geopolitici molto differenti rispetto al passato, come bisogna procedere per
spiegare e comprendere le motivazioni delle scelte di politica estera? Non
occorrerebbe approfondire maggiormente le dinamiche che intercorrono
tra gli attori della politica estera e la struttura di potere internazionale?

Per procedere in questa direzione è utile disporre di un framework teorico
di relazioni internazionali, quindi concentrarsi sullo studio di caso italiano.
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In particolare, occorrere chiarire i concetti che consentono di approfondire
le ricadute delle tensioni geopolitiche sugli orientamenti culturali dei
decisori politici, quindi le loro strategie di politica estera, nonché i vincoli
nella distribuzione del potere e le opportunità di incidere sugli equilibri
internazionali. Il pendolo si sposterebbe, così, verso quei fattori
internazionali considerati più rilevanti dalla tradizione realista. Tuttavia, se
sono valide le costanti geopolitiche messe in luce da Santoro, allora
sarebbe poco utile tenere separata l’analisi di politica internazionale e
quella di politica estera. La composizione di un framework teorico
difficilmente potrebbe considerare irrilevante il problema della
modernizzazione politica, sia con riferimento ai dilemmi italiani tra
penisola europea e isola mediterranea, sia per gli effetti della
decolonizzazione nella regione mediterranea. Inoltre, muovendo ben oltre
la semplice logica dell’anarchia internazionale, difficilmente si potrebbero
ignorare quei processi storici che hanno dato un significato a termini come
atlantismo, europeismo o vocazione mediterranea, con i quali le forze
politiche e sociali dell’Italia repubblicana si sono da sempre confrontate.

Proprio la tensione tra modernizzazione e anomalo ritardo ci consente di
fare un passo avanti. Tra gli scienziati politici che hanno cercato di
spiegare come, sempre nel corso della Guerra fredda, i decisori politici
siano tutto sommato riusciti, pur se in modo precario o anomalo, a
coniugare la tensione geopolitica tra atlantismo/europeismo e vocazione
mediterranea, si segnala Pierangelo Isernia (1996). Panebianco risolse il
legame tra interno ed esterno riferendosi al concetto di «sistema penetrato»
o eterodiretto di James Rosenau (1969): un sistema che si differenzia dai
modelli di «reazione» oppure di «emulazione», ossia le altre due possibili
strategie di adattamento tra livello domestico e internazionale. Isernia ha
invece fatto ricorso alla metafora del «tavolo a due livelli» di Robert
Putnam (1988), per cui le decisioni sono il prodotto di negoziati il cui esito
dipende dai margini di manovra tra tavolo interno ed esterno. Nello
specifico del caso italiano, nel corso del negoziato interno i decisori
politici sarebbero riusciti a trasformare i vincoli internazionali in risorse.
Ciò avvenne in un sistema democratico consensuale ma ideologicamente
polarizzato. La divisione ideologica del sistema interno sarebbe infatti
stata utilizzata dai governi come albi per svincolare l’Italia dall’ancoraggio
atlantico ed europeo in quelle occasioni nelle quali si valutò vantaggioso
seguire una via indipendente. La conclusione di Isernia non smentisce la
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ricostruzione di Panebianco, che comunque rilevava una certa capacità
italiana a mimetizzare l’interesse nazionale: così ottenendo, attraverso tre
forme sbandierate di internazionalismo – ossia atlantismo, europeismo e
terzomondismo – garanzie militari per la sicurezza nazionale, un vincolo
di modernizzazione e la ricerca consensuale di qualche vantaggio
materiale e simbolico nel Mediterraneo (Panebianco, 1997, pp. 246-248).
Ma la metafora del tavolo a due livelli rende più dualistico il rapporto tra
fattori interni e internazionali, quindi appare meglio applicarsi allo studio
della politica estera della Seconda Repubblica.

Con qualche riferimento empirico cercherò di chiarire il perché. Negli anni
Novanta, segnati dall’ottimismo per la fine della Guerra fredda e quindi
dalla retorica della globalizzazione, i governi di centro-sinistra – subentrati
alla caduta del primo governo di centro-destra – misero in opera il loro
orientamento europeista agganciando il paese alla moneta unica. Dopo gli
attentati terroristici dell’11 settembre 2001, a soli tre mesi dal ritorno del
centro-destra al governo, l’Italia scelse invece un impegno più filo-
atlantico e in parte euroscettico nell’adesione alla crociata anti-terrorismo
lasciata dagli Stati Uniti. Nell’agosto 2006, nuovamente con il centro-
sinistra al governo, vi fu una svolta o un mutamento di marcia. L’Italia si
impegnò alla guida di una missione militare in Libano per superare la
stagione filo-atlantica e quindi affermare, ripartendo dal Medio Oriente, un
orientamento più europeista (Del Sarto, Tocci, 2008). I negoziati svolti sia
all’interno della litigiosa coalizione di centro-sinistra, sia al tavolo
europeo, rivelano come le micro-interazioni che i decisori politici
intrattennero sui due tavoli furono ispirate da una chiara ricostruzione dei
macro-fenomeni sociali e geopolitici, ossia l’opportunità di voltare pagina
dopo il fallimento del tentativo di esportazione della democrazia in Iraq
(Diodato, 2014a). Ebbene, la minore o maggiore divergenza tra dominio
interno ed esterno spiega bene sia la politica estera degli anni Novanta e
quella dopo il settembre 2001, sia la svolta del 2006, quest’ultima attuata
in un momento in cui la crociata anti-terrorismo era entrata in crisi anche a
livello internazionale. Inoltre, spiega bene altresì il parziale mutamento
della linea di politica estera del centro-destra, tornato al governo nel 2008,
quando la forbice tra i due domini aumentò a causa della crisi economica
nell’eurozona e dell’elezioni di Barack Obama negli Stati Uniti, che resero
più pesante la marginalizzazione dell’Italia in Europa. Mi riferisco

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all’entusiasmo con cui il Capo del governo accolse la ratifica del trattato di
Lisbona, approvato all’unanimità dal Parlamento italiano nel luglio 2008.

Queste evidenze empiriche ci invitano però a riflettere sul significato della
metafora di Putnam. Originariamente la metafora dei due tavoli fu pensata
quale base per uno sviluppo algebrico delle relazioni internazionali
attraverso la teoria dei giochi. In questa versione, ripresa da Isernia, il
gioco del negoziato a più livelli è concettualizzato in modo dualistico. Va
oltre una spiegazione mono-causale, centrata sul primato della politica
estera oppure della politica interna, ma interpreta i vincoli internazionali o
le preferenze domestiche come fattori separati, i quali, in specifiche
circostanze, possono sommarsi e così produrre un output decisionale. In
situazioni del genere, prevale sempre la tendenza ad osservare il pendolo
della politica estera o dall’interno, come ha fatto Isernia, oppure
dall’esterno, come fanno gli studiosi realisti che accordano rilevanza agli
orientamenti culturali delle coalizioni dominanti (Snyder, 1991). Il
percorso ondivago della politica estera della Seconda Repubblica, tuttavia,
suggerirebbe un approccio più dialettico e meno dualistico. In una accurata
ricerca sulla politica estera italiana, è stato recentemente suggerito di
adottare un «modello strategico-relazione», vale a dire un modello in cui
l’agente è un attore strategico che opera in una struttura strategicamente
selettiva (Brighi, 2013, pp. 35-41). In questo tipo di modello, le idee o gli
orientamenti culturali sono sì importanti ma solo perché rappresentano il
punto di mediazione tra ambiti o livelli, domestico e internazionale,
mutuamente co-estensivi.

L’approdo a un modello strategico-relazionale segna a mio avviso un
passaggio importante, poiché favorisce la capacità del ricercatore di
coniugare fattori domestici e internazionali, motivazioni individuali e forze
storico-sociali, nessi esplicativi e interpretazione di singoli fenomeni.
Tuttavia, occorre approfondire ancora il campo di studi se si vuole far
germogliare una robusta ricerca politologica sulla politica estera italiana.
Soprattutto occorre riflettere sul problema di natura ontologica che
abbiamo solo accennato e che risponde al seguente quesito: nel momento
in cui si considerano le idee come punto di mediazione tra agente e
struttura, quindi come causa di mutamento, quale peso si accorda
all’intervento dell’ambiente materiale, ovverossia a quella realtà che, per
ragioni di chiarezza, non possiamo che definire oggettiva? Insomma,
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quanto i fattori geopolitici contano da sé o solo perché percepiti dai
decisori politici? Anche David Singer (1961, p. 87) colse il problema e lo
fece più o meno in questi termini: vero è che la percezione è il principale
fattore se un individuo cadrà subito a terra facendo un passo fuori dalla
finestra oppure no; ma, d’altro canto, egli cadrebbe indipendentemente
dalla sua percezione della forza di gravità. Nell’analisi delle decisioni di
politica estera, insomma, occorre tenere distinti, come raccomandato
originariamente da Harold e Margaret Sprout (1956; 1965), l’«ambiente
psicologico» e l’«ambiente operativo». Nel primo, l’attore o il decisore
politico definisce i rapporti con i contesti istituzionali del dominio interno
e di quello esterno allo Stato, quindi costruisce ponti fra le micro-
interazioni che produce in questi due contesti e la sua ricostruzione dei
macro-fenomeni sociali e geopolitici. Ciò che conta, in questo primo
ambito, sono i modelli cognitivi mediante i quali il mondo è percepito o
interpretato. L’ambiente operativo coincide invece con la realtà della
politica internazionale entro cui le azioni di politica estera falliscono o
hanno successo.

Tutto sommato, il problema geopolitico dell’Italia è la tensione geopolitica
fra penisola europea e isola mediterranea. Il paese potrà affrontarlo in
molti modi. Ma se, nel corso della Guerra fredda, la forbice fra rango e
ruolo si è chiusa, con l’attribuzione all’Italia del ruolo di media potenza, è
perché l’impatto che lo Stato italiano può avere a livello internazionale è
ridotto e quindi il paese è soggetto a pressioni e vincoli esterni. Il fascismo
aveva portato a maturazione il sogno del periodo liberale di diventare una
grande potenza, generando però un tragico divario tra ambiente
psicologico e ambiente operativo. Le forze democratiche che ancorarono
l’Italia alla scelta atlantica chiusero quella forbice, trasformando il paese in
una media potenza. Tuttavia non risolsero alcune anomalie di fondo,
soprattutto con riguardo al Mediterraneo. Non riuscirono a razionalizzare
una politica che, non senza ambiguità, tra anni Cinquanta e Sessanta fu
definita neo-atlantica. Il passaggio alla Seconda Repubblica avrebbe
potuto favorire una transizione democratica vincolata alle nuove esigenze
di modernizzazione imposte dall’integrazione europea. Ma il fallimento di
alcune strategie filo-atlantiche e le difficoltà economiche dell’eurozona
hanno posto l’Italia nuovamente in una condizione di grande difficoltà e
debolezza, soprattutto sul fronte mediterraneo.

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