Politica estera e relazioni internazionali nell'Italia repubblicana.
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XXVIII Convegno SISP Perugia Panel 8.7. La politica estera italiana: premesse storiche e nodi problematici (I) Chairs: Emidio Diodato e Federico Niglia Discussant: Luciano Bozzo Relatore: Emidio Diodato (Università per Stranieri di Perugia) emidio.diodato@unistrapg.it Politica estera e relazioni internazionali nell’Italia repubblicana. Evidenziati da Angelo Panebianco, ma ripresi dagli studi di Federico Chabod e Carlo Maria Santoro, i fattori constanti della politica estera italiana sono stati individuati (i) in una irrisolta tensione geopolitica fra Europa (modernizzazione) e Mediterraneo (anomalo ritardo) e (ii) nella conseguente forbice fra rango apparentemente riconosciuto al paese e ruolo effettivamente svolto di media potenza. Pur se emersi lungo una traiettoria analitica di matrice realista, questi fattori sono stati impiegati per spiegare la politica estera più come il prodotto di dinamiche interne che come il risultato di mutamenti internazionali. Così intesi, ancora oggi possono spiegare i principali cambiamenti di rotta tra l’epoca liberale e fascista e quella repubblicana. Ma non appaiono utili a comprendere il mutamento nell’Italia repubblicana. Non spiegano, ad esempio, come è cambiata la politica estera italiana dopo la fine della Guerra fredda, se non intendendola quale effetto della transizione verso la cosiddetta Seconda Repubblica. Da questa lacuna interpretativa emerge la necessità di approfondire il legame tra la politica estera e le relazioni internazionali. 1
1. Una mappatura del campo di studi Gli studi sulla politica estera possono essere sommariamente divisi in tre settori. In primo luogo ci sono le memorie dei protagonisti: Capi di governo, ministri degli Esteri, diplomatici. Si pensi agli scritti sulla politica estera o sulla guerra in Africa di Francesco Crispi, oppure alle note di Giulio Andreotti conservate presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Ma si pensi anche agli scritti pubblicati da diplomatici di carriera e recentemente raccolti sul blog di Stefano Baldi La penna del diplomatico. In parte si tratta di fonti utili per gli studi diplomatici o per l’analisi dei processi decisionali in politica estera. Per altro verso le memorie sono self- serving, ossia acquisiscono un valore biografico che consente di ricostruire un certo ambiente sociale o di lavoro. Vi sono poi gli altri due settori di studi: quello della storia diplomatica o delle relazioni internazionali, e quello dell’analisi di politica estera e di scienza politica. Nel primo caso possiamo risalire a una consolidata tradizione italiana, partendo proprio dal libro di Federico Chabod sui primi anni di politica estera del Regno d’Italia, commissionato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, per giungere agli scritti sulla politica estera fascista e repubblicana di Ennio Di Nolfo. Entrambi gli storici hanno incrociato le fonti ufficiali con quelle biografiche, superando la narrazione fattuale e cronologica degli eventi al fine di chiarirne i presupposti culturali e politici. Il terzo settore di studi, quello della scienza politica, è invece più recente e meno sviluppato. Difficile è rinvenire una tradizione italiana di scienza della politica estera. Del resto, cosa si debba intendere con questa espressione non è affatto chiaro neppure nel dibattitto internazionale. In un capitolo scritto per l’Handbook of International Relations, pubblicato dalla londinese Sage nel 2002, Walter Carlsnaes lamentava che in un manuale di scienza politica del 1975 si fosse dato per naturale che la politica estera appartenesse al «dominio empirico delle politiche pubbliche piuttosto che delle relazioni internazionali» (Carlsnaes, 2002, p. 331). In altre parole, stando a questa critica, la politica estera era stata considerata alla stregua di altre politiche, ad esempio per la regolamentazione del mercato oppure per la distribuzione dei servizi sociali. Mentre la specificità dell’analisi di politica estera, quindi l’avere molto più in comune con il dominio empirico delle relazioni internazionali, non poteva più essere posta in discussione. 2
Ma cosa significa includere la politica estera nel dominio delle relazioni internazionali e non in quello delle politiche pubbliche? In realtà, già le prime generazioni di studiosi di scienza politica collocarono la politica estera lungo la cerniera che divide la politica domestica e le relazioni internazionali. D’altro canto, gli sviluppi più recenti mostrano che la ricerca empirica intorno al problema del processo decisionale in politica estera si svolge impiegando metodologie molto simili tanto per spiegare il comportamento degli Stati quanto quello di altri attori non-nazionali che affollano la scena internazionale (Stuart, 2008). A ben vedere, il vero punto dirimente del confronto scientifico non concerne tanto la collocazione della politica estera nel dominio empirico interno o esterno. Quanto il peso da attribuire rispettivamente ai fattori domestici e a quelli internazionali. Da sempre si fronteggiano due visioni contrapposte sul primato tra i due domini: Primat der Innenpolitik o Primat der Aussenpolitik. Ciò che però di peculiare si trova nel dibattitto interno alla scienza politica è che tale questione è stata posta interrogandosi, preliminarmente, su cosa intendere con scienza, quindi come trattare gli affari politici nei limiti della razionalità scientifica. Questa domanda ha segnato lo studio politologico delle relazioni internazionali: sviluppatesi principalmente negli Stati Uniti, le relazioni internazionali (International Relations) si sono organizzate in due scuole di pensiero con posizioni molto differenti proprio sul rapporto da intrattenere con la scienza politica. La prima scuola, affermatasi negli anni Venti del Novecento, fu completamente interna alla scienza politica affondando le sue radici nella fede nel potere dell’intelletto umano di creare gradualmente un mondo migliore. Per questa scuola, di matrice liberale, scopo della ricerca scientifica è indagare le condizioni per le quali gli uomini agiscono razionalmente in modo che la somma delle loro scelte individuali possa raggiungere un valore massimo per la società. Insomma, si tratta di rendere migliore la politica così come la scienza economica dovrebbe fare con l’economia. Se ciò vale tanto per le istituzioni politiche interne quanto per quelle internazionali, allora obiettivo della ricerca scientifica in questo campo è osservare le preferenze individuali o di gruppo (Diodato, 2013, p. 23). Quindi, con riferimento alla politica estera, occorre indagare quelle determinanti imputabili alle strutture governative, ai gruppi di interesse, ai partiti politici, all’opinione pubblica. 3
Per la seconda scuola, di matrice realista, ciò che più conta è invece la politica tra le nazioni in un’arena internazionale anarchica, poiché priva di governo. Non solo l’arena domestica, ma neppure la modernizzazione politica, come vedremo, è quindi considerata rilevante. Gli studiosi realisti, a partire dagli anni Quaranta, cercarono di tenere le relazioni internazionali distinte dalla scienza politica domestica. Le strategie di politica estera erano considerate dipendenti dai vincoli nella distribuzione del potere internazionale e dalle opportunità per gli Stati di incidere sugli equilibri politici, ovviamente per tentare di migliorare la propria posizione nelle gerarchie di potere internazionale. Inoltre, queste stesse strategie erano interpretate come combinazioni di azioni guidate tanto da interessi razionali quanto da passioni politiche, a loro volta governate dalla volontà di dominio. Fu così aperto un divario tra le relazioni internazionali e lo studio comparato delle politiche estere. Quest’ultimo approccio, interno alla scienza politica, era svolto da studiosi interessati allo sviluppo politico e alla modernizzazione di specifiche regioni, soprattutto dopo la decolonizzazione. La tradizione realista delle relazioni internazionali, invece, ignorò il tema della modernizzazione e difficilmente gli studiosi realisti scelsero di specializzarsi su specifiche aree geopolitiche (Guilhot, 2013). L’evoluzione successiva del realismo ha addirittura portato alla nota presa di posizione di Kenneth Waltz (1996), secondo il quale occorre tenere distinti gli studi di politica internazionale e di politica estera. Nel primo caso, la ricerca scientifica dovrebbe spiegare perché Stati con lo stesso potere agiscono similmente nonostante le differenze interne. Nel secondo caso, la ricerca scientifica dovrebbe spiegare le ragioni di un comportamento differente imputabile al regime interno. In realtà, la differenza e le divergenze tra le due scuole di pensiero è stata molto meno visibile di quanto non appaia dai grandi dibattiti teorici sulle relazioni internazionali. Nelle ricerche empiriche o negli studi sul campo, più profondi si sono rivelati altri ‘solchi’ di natura metodologica ed epistemologica. Come cercherò di mostrare, questi due ‘solchi’ hanno attraversato il liberalismo e il realismo trasversalmente. Il primo è noto come il «problema dei livelli di analisi», ossia quale livello di analisi mettere a fuoco per spiegare la politica mondiale. Nella formulazione originaria del problema, in realtà, il divario tra liberalismo e realismo fu presentato come insuperabile. Prendendo spunto proprio da Kenneth 4
Waltz, David Singer (1961) affermò infatti che la scelta del livello di analisi era all’origine dei differenti percorsi di ricerca della politica comparata e delle relazioni internazionali. Nel primo caso, gli studiosi mettevano a fuoco i comportamenti degli Stati e, comparandoli tra loro, indagavano le regolarità nelle scelte e nelle azioni di attori simili, ma con condotte non uniformi. Tali ricerche favorivano lo studio della modernizzazione politica, vale a dire della convergenza di diversi paesi verso i canoni della democrazia liberale e dell’economia di mercato. Nel secondo caso, ossia a livello sistemico, gli studiosi postulavano invece un alto grado di uniformità nel codice operativo di politica estera degli attori nazionali. Quindi le regolarità comportamentali erano derivate direttamente dalle caratteristiche del sistema internazionale. Entrambi i percorsi di ricerca potevano essere validi, secondo Singer. Tuttavia difficilmente i ritrovati esplicativi in termini di descrizione, spiegazione e previsione avrebbero potuto essere sovrapposti in modo cumulativo. Per questa ragione, egli suggeriva di operare una chiara scelta di campo ed evitare di procedere in verticale tra livello domestico e internazionale. Come anticipato, l’indicazione di Singer è stata però disattesa. Negli studi empirici sulla politica estera, il problema della scelta del livello da analizzare ha dato origine ad un dibattito più ampio – poiché caratteristico delle scienze sociali in generale – tra individualismo metodologico, da una parte, e olismo scientifico, dall’altra. Nel primo caso, si presuppone che lo studio delle scienze sociali faccia capo a scelte individuali o di gruppo e che queste possano rispondere a criteri di razionalità o ragionevolezza. Ne consegue, come è stato affermato, che «la ricerca politologica approda ai migliori risultati quando si dota di un’adeguata teoria dell’attore e dell’azione» (Panebianco, 2009, p. 210). In particolare, con riferimento alla politica estera, si è partiti dal dato inconfutabile che le scelte di un paese sono quelle prese da parte di chi opera in nome dello Stato (Snyder, Bruck, Sapin, 1954). Se questo approccio ha certo favorito la ricerca compartiva del processo decisionale in politica estera, altrettanto vero è che molti comparativisti hanno impiegato concetti cari ai realisti, come l’anarchia internazionale e le gerarchie tra potenze. Inoltre, le caratteristiche peculiari del sistema internazionale, incluse quelle individuate da Kenneth Waltz, sono state considerate utili in molti studi di caso (Hollis, Smith, 1990). Viceversa, un approccio olistico suggerisce di subordinare le micro-interazioni tra individui tanto alla natura della 5
struttura del sistema internazionale e alle forze che vi si generano, tanto alle strutture e agli attributi interni agli Stati. In questo caso, producendo uno scarto ontologico, sono i macro-fenomeni sociali e geopolitici ad essere considerati più rilevanti, poiché si ritiene che questi decretino il successo o il fallimento delle singole scelte. Il secondo ‘solco’ concerne la nota distinzione tra spiegazione e comprensione, là dove, rispettivamente, nel primo caso la ricerca scientifica sulla politica estera dovrebbe limitarsi a mettere in evidenza il nesso tra cause ed effetti, mentre nel secondo caso dovrebbe affrontare e mettere in evidenza anche le motivazioni dell’agire sociale. Si tratta di una questione epistemologica di ampia portata. Ma nello specifico della politica estera ha riguardato, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, l’attenzione degli studiosi per temi come l’identità nazionale o, in senso più ampio, la dimensione culturale e quella religiosa degli affari internazionali. Per certi versi, il rifiuto da parte del realismo della teoria della modernizzazione e il suo dar spazio, per dirla con George Liska (1990), alla tragedia, hanno posto questa tradizione in una posizione di vantaggio rispetto allo studio delle motivazioni, in particolare se si considera la tematica del conflitto identitario. D’altro canto, il dibattitto sul costruttivismo sociale e sulle modalità di formazione delle preferenze nazionali ha dato nuovo vigore alla tradizione liberale su questi stessi temi (Moravcsik, 1997). Si pensi, per fare un esempio, alla tematica della formazione dell’interesse nazionale in società multiculturali (Hill, 2013). Ad ogni buon conto, la distinzione nell’approccio è tra chi tende a restringere l’ambito di ricerca della scienza politica allo studio del potere e del processo decisionale in politica estera, e chi invece tendere a includere tematiche cultuali e sociologiche, ovvero della cosiddetta sociologia storica. Nella letteratura di tipo manualistico sulla politica estera, gli studiosi hanno spesso incrociato questi due ‘solchi’ come per arare il campo. Sono così state proposte diverse matrici per semplificare una mappatura degli approcci. Ma è molto difficile riuscire a collocare tutti i contributi rilevanti in una delle quattro caselle che si otterrebbero ponendo, su un asse, la prima dicotomia e, sull’altro, la seconda. Soprattutto è difficile inserire in una matrice del genere quei contributi che propongono modelli interpretativi sintetici, capaci cioè di coniugare fattori domestici e 6
internazionali, motivazioni individuali e forze storico-sociali, nessi esplicativi e interpretazione di singoli fenomeni. In fin dei conti, credo si possa concordare con quanto affermato dallo stesso Walter Carlsnaes, vale a dire che, comunque si approcci l’analisi della politica estera, il campo di studi presenta tre problemi che lo attraversano trasversalmente: 1) quali sono le cause del mutamento in politica estera? 2) qual è il ruolo delle idee in politica estera? 3) e, soprattutto, quanto conta il problema agente- struttura, ovverossia la dinamica che intercorre tra gli attori della politica estera e la struttura di potere internazionale? (Carlsnaes, 2002, p. 343- 344). 2. Il caso italiano Lo snodo principale per lo sviluppo di una scienza della politica estera italiana è uno studio comparato di Angelo Panebianco (1997, pp. 227-251) sulle politiche estere di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia, riferito al periodo della Guerra fredda. Volendone schematizzare i risultati, possiamo affermare che le decisioni di politica estera sono state viste come una variabile dipendente, mentre la struttura governativa dell’Italia, ossia una democrazia liberale di tipo consensuale, il potere dei principali partiti politici e un’opinione pubblica tendenzialmente pacifista sono state considerate le variabili indipendenti. Tuttavia, Panebianco attribuì rilevanza altresì ai vincoli internazionali, intendendoli come processi storici che generano opportunità politiche. Al punto che l’«anomalia italiana» – ossia il fatto che la politica estera si sia caratterizza per essere debole e il sistema politico per essere eterodiretto dall’esterno – è stata imputata a una variabile interveniente: la posizione geopolitica di un paese collocato lungo il confine dello stesso conflitto ideologico che lo divideva all’interno. Come anticipato nell’introduzione, il modello di Panebianco ha fatto leva su alcune costanti storiche e spiega bene il mutamento della politica estera italiana rispetto alle precedenti epoche, liberale e fascista. Ma non spiega come è cambiata la politica estera dopo la fine della Guerra fredda, ossia quando la scelta atlantica compiuta dall’Italia repubblicana non fu più legittimata dalla minaccia sovietica. Vi sono almeno due questioni da considerare a tal proposito: quale è stato l’effetto dell’incompiuta transizione da una democrazia consensuale a una democrazia tendenzialmente maggioritaria, ossia ciò che ha segnato il 7
passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica? Quale peso ha invece giocato il passaggio dal legame atlantico, ossia quello imposto dalla minaccia sovietica, al vincolo europeo rinsaldato con il Trattato di Maastricht del 1992, che rappresenta probabilmente la più rilevante trasformazione storica intervenuta negli ultimi venti anni? Nell’analisi di Panebianco le idee giocano un ruolo importante per spiegare il mutamento. Egli riprese soprattutto gli studi di Chabod e Santoro, sottolineando l’irrisolta tensione geopolitica fra modernizzazione di un’Italia penisola europea e anomalo ritardo di un’Italia isola mediterranea. In verità, opportunamente Panebianco considerò differenti le chiavi di lettura di Chabod, il quale insistette sugli orientamenti culturali e rifiutò la geopolitica del suo tempo, e quella di Santoro, il quale rimarcò i fattori geopolitici e aggiunse l’ulteriore tensione fra «rango» mancato di grande potenza e effettivo «ruolo» italiano di media potenza (Santoro, 1991). Da una parte, nel modello proposto da Panebianco le ricadute delle tensioni geopolitiche sugli orientamenti culturali del paese potrebbero apparire più rilevanti delle differenze tra le due chiavi di lettura. Secondo l’autore, infatti, «in un mondo diverso, dominato da regole diverse, l’Italia repubblicana riproporrà, nella sua politica estera, molte caratteristiche dei periodi precedenti» (Panebianco 1997, p. 230). Dall’altra, però, egli ha spiegato i dilemmi dell’Italia repubblicana privilegiando la chiave di lettura centrata sugli orientamenti culturali. In tal senso, i fattori geopolitici semplicemente intervengono, mettendo in rilievo quella che è la vera tensione costante della politica estera italiana: ossia l’opposizione tra nazionalismo – che nel periodo liberale e fascista aveva fatto leva sulle opportunità coloniali nel Mediterraneo – e internazionalismo – che si è sempre nutrito dell’ideale di poter contribuire al mantenimento di un clima pacifico e democratico. Questo dibattito originario ha in effetti lasciato tracce indelebili sulla politica estera italiana, quindi sul mondo in cui i decisori politici da sempre la rappresentano. Tali tracce furono già evidenti nell’universalismo mazziniano, che accompagnò l’unità del paese, pur perdendo presto di rilevanza con le scelte nazionaliste e coloniali di Francesco Crispi. Ma ha ragione Panebianco ad insistere sul fatto che si ritrovano soprattutto nelle retoriche dei decisori politici dell’Italia repubblicana, durante la Guerra fredda, quando l’internazionalismo divenne l’orientamento condiviso dalle principali forze politiche repubblicane. Anzi, si può ritenere che certe spinte internazionaliste siano 8
peculiari della politica estera italiana e che perdurino anche nella Seconda Repubblica (Ignazi, Giacomello, Coticchia, 2012). Tuttavia, occorre chiedersi quanto hanno pesato i fattori geopolitici e, quindi, quanto contano i processi storici che vincolano l’orientamento culturale di un paese. Se, durante la Guerra fredda, il sistema politico italiano fu in qualche modo modellato dall’esterno, nel periodo successivo le condizioni interne e internazionali sono mutate. Da un lato, si è aperto un dibattito sul concetto di nazione. Ciò è avvenuto per varie ragioni, ma anche perché l’alternanza al governo – favorita dalla tendenza alla democrazia maggioritaria – ha dato corso a un potenziale diverso orientamento in materia di politica estera. Il centro-destra ha sviluppato una visione centrata sulla difesa dell’«interesse nazionale» in un sistema post-bipolare nel quale si aprivano nuove opportunità per essere assertivi. Mentre il centro-sinistra ha proposto di cogliere queste stesse opportunità per agire «in linea con gli interessi internazionali dell’Italia» (Brighi, 2013, p. 133). Vi è quindi stata una differenziazione tra tentativo di nazionalizzazione della politica estera e internazionalismo di stampo europeista (Carbone, 2011, p. 7). D’altro canto, si sono create oggettive condizioni per un contributo più attivo dell’Italia al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Prescindendo dalle distinzioni negli orientamenti culturali, entrambi gli schieramenti hanno appoggiato interventi militari all’estero trovando opposizione entro la propria coalizione di governo, con la Lega Nord nel centro-destra e con la sinistra radicale nel centro-sinistra. Inoltre, se si considerano i vincoli fiscali e finanziari imposti al paese per il rispetto dei parametri della moneta unica o dell’Europa di Maastricht, allora si può affermare che così come la Guerra fredda e la minaccia sovietica segnarono la prima fase repubblicana, i vincoli europei hanno caratterizzato la Seconda Repubblica prescindendo dagli schieramenti politici (Diodato, 2014, p. 92-103). Alla luce di questi fattori, quindi a fronte di macro-fenomeni sociali e geopolitici molto differenti rispetto al passato, come bisogna procedere per spiegare e comprendere le motivazioni delle scelte di politica estera? Non occorrerebbe approfondire maggiormente le dinamiche che intercorrono tra gli attori della politica estera e la struttura di potere internazionale? Per procedere in questa direzione è utile disporre di un framework teorico di relazioni internazionali, quindi concentrarsi sullo studio di caso italiano. 9
In particolare, occorrere chiarire i concetti che consentono di approfondire le ricadute delle tensioni geopolitiche sugli orientamenti culturali dei decisori politici, quindi le loro strategie di politica estera, nonché i vincoli nella distribuzione del potere e le opportunità di incidere sugli equilibri internazionali. Il pendolo si sposterebbe, così, verso quei fattori internazionali considerati più rilevanti dalla tradizione realista. Tuttavia, se sono valide le costanti geopolitiche messe in luce da Santoro, allora sarebbe poco utile tenere separata l’analisi di politica internazionale e quella di politica estera. La composizione di un framework teorico difficilmente potrebbe considerare irrilevante il problema della modernizzazione politica, sia con riferimento ai dilemmi italiani tra penisola europea e isola mediterranea, sia per gli effetti della decolonizzazione nella regione mediterranea. Inoltre, muovendo ben oltre la semplice logica dell’anarchia internazionale, difficilmente si potrebbero ignorare quei processi storici che hanno dato un significato a termini come atlantismo, europeismo o vocazione mediterranea, con i quali le forze politiche e sociali dell’Italia repubblicana si sono da sempre confrontate. Proprio la tensione tra modernizzazione e anomalo ritardo ci consente di fare un passo avanti. Tra gli scienziati politici che hanno cercato di spiegare come, sempre nel corso della Guerra fredda, i decisori politici siano tutto sommato riusciti, pur se in modo precario o anomalo, a coniugare la tensione geopolitica tra atlantismo/europeismo e vocazione mediterranea, si segnala Pierangelo Isernia (1996). Panebianco risolse il legame tra interno ed esterno riferendosi al concetto di «sistema penetrato» o eterodiretto di James Rosenau (1969): un sistema che si differenzia dai modelli di «reazione» oppure di «emulazione», ossia le altre due possibili strategie di adattamento tra livello domestico e internazionale. Isernia ha invece fatto ricorso alla metafora del «tavolo a due livelli» di Robert Putnam (1988), per cui le decisioni sono il prodotto di negoziati il cui esito dipende dai margini di manovra tra tavolo interno ed esterno. Nello specifico del caso italiano, nel corso del negoziato interno i decisori politici sarebbero riusciti a trasformare i vincoli internazionali in risorse. Ciò avvenne in un sistema democratico consensuale ma ideologicamente polarizzato. La divisione ideologica del sistema interno sarebbe infatti stata utilizzata dai governi come albi per svincolare l’Italia dall’ancoraggio atlantico ed europeo in quelle occasioni nelle quali si valutò vantaggioso seguire una via indipendente. La conclusione di Isernia non smentisce la 10
ricostruzione di Panebianco, che comunque rilevava una certa capacità italiana a mimetizzare l’interesse nazionale: così ottenendo, attraverso tre forme sbandierate di internazionalismo – ossia atlantismo, europeismo e terzomondismo – garanzie militari per la sicurezza nazionale, un vincolo di modernizzazione e la ricerca consensuale di qualche vantaggio materiale e simbolico nel Mediterraneo (Panebianco, 1997, pp. 246-248). Ma la metafora del tavolo a due livelli rende più dualistico il rapporto tra fattori interni e internazionali, quindi appare meglio applicarsi allo studio della politica estera della Seconda Repubblica. Con qualche riferimento empirico cercherò di chiarire il perché. Negli anni Novanta, segnati dall’ottimismo per la fine della Guerra fredda e quindi dalla retorica della globalizzazione, i governi di centro-sinistra – subentrati alla caduta del primo governo di centro-destra – misero in opera il loro orientamento europeista agganciando il paese alla moneta unica. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, a soli tre mesi dal ritorno del centro-destra al governo, l’Italia scelse invece un impegno più filo- atlantico e in parte euroscettico nell’adesione alla crociata anti-terrorismo lasciata dagli Stati Uniti. Nell’agosto 2006, nuovamente con il centro- sinistra al governo, vi fu una svolta o un mutamento di marcia. L’Italia si impegnò alla guida di una missione militare in Libano per superare la stagione filo-atlantica e quindi affermare, ripartendo dal Medio Oriente, un orientamento più europeista (Del Sarto, Tocci, 2008). I negoziati svolti sia all’interno della litigiosa coalizione di centro-sinistra, sia al tavolo europeo, rivelano come le micro-interazioni che i decisori politici intrattennero sui due tavoli furono ispirate da una chiara ricostruzione dei macro-fenomeni sociali e geopolitici, ossia l’opportunità di voltare pagina dopo il fallimento del tentativo di esportazione della democrazia in Iraq (Diodato, 2014a). Ebbene, la minore o maggiore divergenza tra dominio interno ed esterno spiega bene sia la politica estera degli anni Novanta e quella dopo il settembre 2001, sia la svolta del 2006, quest’ultima attuata in un momento in cui la crociata anti-terrorismo era entrata in crisi anche a livello internazionale. Inoltre, spiega bene altresì il parziale mutamento della linea di politica estera del centro-destra, tornato al governo nel 2008, quando la forbice tra i due domini aumentò a causa della crisi economica nell’eurozona e dell’elezioni di Barack Obama negli Stati Uniti, che resero più pesante la marginalizzazione dell’Italia in Europa. Mi riferisco 11
all’entusiasmo con cui il Capo del governo accolse la ratifica del trattato di Lisbona, approvato all’unanimità dal Parlamento italiano nel luglio 2008. Queste evidenze empiriche ci invitano però a riflettere sul significato della metafora di Putnam. Originariamente la metafora dei due tavoli fu pensata quale base per uno sviluppo algebrico delle relazioni internazionali attraverso la teoria dei giochi. In questa versione, ripresa da Isernia, il gioco del negoziato a più livelli è concettualizzato in modo dualistico. Va oltre una spiegazione mono-causale, centrata sul primato della politica estera oppure della politica interna, ma interpreta i vincoli internazionali o le preferenze domestiche come fattori separati, i quali, in specifiche circostanze, possono sommarsi e così produrre un output decisionale. In situazioni del genere, prevale sempre la tendenza ad osservare il pendolo della politica estera o dall’interno, come ha fatto Isernia, oppure dall’esterno, come fanno gli studiosi realisti che accordano rilevanza agli orientamenti culturali delle coalizioni dominanti (Snyder, 1991). Il percorso ondivago della politica estera della Seconda Repubblica, tuttavia, suggerirebbe un approccio più dialettico e meno dualistico. In una accurata ricerca sulla politica estera italiana, è stato recentemente suggerito di adottare un «modello strategico-relazione», vale a dire un modello in cui l’agente è un attore strategico che opera in una struttura strategicamente selettiva (Brighi, 2013, pp. 35-41). In questo tipo di modello, le idee o gli orientamenti culturali sono sì importanti ma solo perché rappresentano il punto di mediazione tra ambiti o livelli, domestico e internazionale, mutuamente co-estensivi. L’approdo a un modello strategico-relazionale segna a mio avviso un passaggio importante, poiché favorisce la capacità del ricercatore di coniugare fattori domestici e internazionali, motivazioni individuali e forze storico-sociali, nessi esplicativi e interpretazione di singoli fenomeni. Tuttavia, occorre approfondire ancora il campo di studi se si vuole far germogliare una robusta ricerca politologica sulla politica estera italiana. Soprattutto occorre riflettere sul problema di natura ontologica che abbiamo solo accennato e che risponde al seguente quesito: nel momento in cui si considerano le idee come punto di mediazione tra agente e struttura, quindi come causa di mutamento, quale peso si accorda all’intervento dell’ambiente materiale, ovverossia a quella realtà che, per ragioni di chiarezza, non possiamo che definire oggettiva? Insomma, 12
quanto i fattori geopolitici contano da sé o solo perché percepiti dai decisori politici? Anche David Singer (1961, p. 87) colse il problema e lo fece più o meno in questi termini: vero è che la percezione è il principale fattore se un individuo cadrà subito a terra facendo un passo fuori dalla finestra oppure no; ma, d’altro canto, egli cadrebbe indipendentemente dalla sua percezione della forza di gravità. Nell’analisi delle decisioni di politica estera, insomma, occorre tenere distinti, come raccomandato originariamente da Harold e Margaret Sprout (1956; 1965), l’«ambiente psicologico» e l’«ambiente operativo». Nel primo, l’attore o il decisore politico definisce i rapporti con i contesti istituzionali del dominio interno e di quello esterno allo Stato, quindi costruisce ponti fra le micro- interazioni che produce in questi due contesti e la sua ricostruzione dei macro-fenomeni sociali e geopolitici. Ciò che conta, in questo primo ambito, sono i modelli cognitivi mediante i quali il mondo è percepito o interpretato. L’ambiente operativo coincide invece con la realtà della politica internazionale entro cui le azioni di politica estera falliscono o hanno successo. Tutto sommato, il problema geopolitico dell’Italia è la tensione geopolitica fra penisola europea e isola mediterranea. Il paese potrà affrontarlo in molti modi. Ma se, nel corso della Guerra fredda, la forbice fra rango e ruolo si è chiusa, con l’attribuzione all’Italia del ruolo di media potenza, è perché l’impatto che lo Stato italiano può avere a livello internazionale è ridotto e quindi il paese è soggetto a pressioni e vincoli esterni. Il fascismo aveva portato a maturazione il sogno del periodo liberale di diventare una grande potenza, generando però un tragico divario tra ambiente psicologico e ambiente operativo. Le forze democratiche che ancorarono l’Italia alla scelta atlantica chiusero quella forbice, trasformando il paese in una media potenza. Tuttavia non risolsero alcune anomalie di fondo, soprattutto con riguardo al Mediterraneo. Non riuscirono a razionalizzare una politica che, non senza ambiguità, tra anni Cinquanta e Sessanta fu definita neo-atlantica. Il passaggio alla Seconda Repubblica avrebbe potuto favorire una transizione democratica vincolata alle nuove esigenze di modernizzazione imposte dall’integrazione europea. Ma il fallimento di alcune strategie filo-atlantiche e le difficoltà economiche dell’eurozona hanno posto l’Italia nuovamente in una condizione di grande difficoltà e debolezza, soprattutto sul fronte mediterraneo. 13
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