Studio per un dizionario italiano-bengali
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Università di Roma “La Sapienza” Facoltà di Studi Orientali Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali Studio per un dizionario italiano-bengali Uno strumento didattico per le esigenze comunicative della comunità bengalese in Italia Candidata: Carola Erika Lorea Relatore: Prof. Francesco De Renzo Correlatore: Prof. Mario Prayer Anno Accademico 2009/2010 1
Introduzione La comunità di immigrati provenienti dal Bangladesh è una delle più numerose in Italia e, a Roma, è anche una delle più visibili. Ogni cittadino romano, anche il più lontano dagli studi sull'immigrazione, si sarà di certo ritrovato a rifiutare una rosa al ristorante, a comprare un ombrello quando all'improvviso piove, a stampare un documento da un internet point, o a contrattare per un accendino da un venditore ambulante di San Lorenzo. Dietro a queste e a molte altre attività brulicano gli sforzi degli immigrati bangladeshi (o bengalesi, se usiamo una connotazione etnico- linguistica piuttosto che politica), spesso e volentieri confusi con migranti di altra provenienza, come indiani e pakistani; nelle bigiotterie, dietro alle bancarelle di abbigliamento, nelle cucine delle pizzerie italiane e ai banchi di spezie del mercato Esquilino, la forza lavoro bengalese si integra e si interseca con le vite di altre migliaia di italiani, nonostante il radicamento alle proprie origini e consuetudini e alla propria comunità etnica sia molto intenso. I figli degli immigrati frequentano le scuole elementari e medie e siedono ai banchi insieme ad altre decine e decine di provenienze geografiche. Per loro, così come per i loro genitori, l'apprendimento della lingua italiana è una priorità non trascurabile: è il veicolo dell'integrazione, della formazione, della socializzazione, e gli strumenti per ottenerlo sono qualitativamente scarsi e quantitativamente insufficienti. Rispetto all'immigrazione cinese o a quella sudamericana, il materiale didattico e i supporti lessicali esistenti per i parlanti bengali sono praticamente pari a zero: d'altronde la lingua bengali non è fra le più studiate nelle università italiane, nonostante i manuali e le grammatiche per gli apprendenti italiani di bengali L2 siano paradossalmente più numerosi degli strumenti didattici per apprendenti bengalesi di italiano L2. Nelle scuole in cui ho lavorato in questi anni per l'insegnamento dell'italiano, nonostante in certe classi più di un terzo degli alunni fossero di provenienza bengalese, non vi sono né materiali didattici utili agli studenti di madrelingua bengali, né personale specializzato, o perlomeno munito di qualche nozione sulla 6
lingua di partenza, adibito al sostegno e all'insegnamento dell'italiano L2. Allo stesso modo nelle altre istituzioni italiane, negli ospedali, nei tribunali, nei centri di prima accoglienza e di permanenza temporanea, ecc., non vi sono gli strumenti adatti per far fronte alle esigenze dei nuovi cittadini: della popolazione italiana composta in larga parte da immigrati poco o per nulla competenti nella nostra lingua. L'elaborazione di un dizionario bilingue essenziale e maneggevole, specificatamente costruito a partire dalle esigenze della comunità bangladeshi in Italia, intende inserirsi in tale lacuna. Al fine di essere funzionale allo scopo prefissato, il lemmario del dizionario italiano-bengali è nato a seguito di un'attenta selezione lessicale che tiene conto del vocabolario di base dell'italiano, dei campi semantici che più premono alla vita degli immigrati del Bangladesh, e del lessico dell'immigrazione. Per questo motivo i destinatari di un dizionario così concepito sono non solo i parlanti di lingua bengali (fra cui includiamo, oltre ai bangladeshi, anche i bengalesi provenienti dalla regione indiana del West Bengal presenti, seppure in minor misura, in Italia) ma anche tutti coloro che lavorando nel campo dell' immigrazione si trovano a dover fronteggiare una barriera linguistica e culturale: mediatori, insegnanti, impiegati presso enti facilitatori e strutture pubbliche, volontari dei corsi di italiano per immigrati non nativi, uffici di collocamento e di orientamento al lavoro. Al principio della decisione di intraprendere questo progetto risiede l'idea di collaborare ad una integrazione sana ed indispensabile in una società multiculturale e plurilinguistica. Al raggiungimento dell'integrazione fra i membri sociali di diversa matrice linguistica e culturale concorre in maniera imprescindibile l'acquisizione della lingua italiana, strumento centrale per assicurare parità dei diritti, dei doveri e della salute, elemento cardine per allontanare le situazioni di marginalità e di discriminazione. Con tali premesse, ovvero la constatazione della mancanza di strumenti linguistici ad uso e consumo della comunità bengalese in Italia, di politiche linguistiche proporzionate alla presenza di immigrati sul nostro territorio, e di provvedimenti pratici per raggiungere una condivisa idea di integrazione, ho gettato le basi per la costruzione del dizionario, costruzione che prende piede da ricerche e approfondimenti anche molto lontani dal puro ambito lessicale. Per questa ragione 7
l'elaborato che presento in questa sede è suddiviso in due sezioni. La prima sezione comprende tutto l'iter lavorativo che ha permesso la realizzazione del dizionario bilingue italiano-bengali. La seconda sezione consiste invece nella concreta esemplificazione del dizionario vero e proprio. La prima sezione si articola in tre capitoli riguardanti le ricerche che soggiaciono alla creazione del dizionario in quanto strumento consapevolmente utile ai suoi destinatari. Nel primo, si ricostruisce l'identità del principale utente del dizionario: gli immigrati bangladeshi. Verrà pertanto descritta la storia dei movimenti migratori dal Bangladesh e la presenza bengalese in Italia in termini sociologici e demografici: chi sono gli immigrati bangladeshi, quali peculiarità li contraddistinguono dalle altre comunità di migranti, quanti sono, di cosa si occupano, come si inseriscono nella società italiana. Nel secondo, si intende esplorare quella che è la situazione del fenomeno migratorio in Italia, dell'integrazione degli immigrati e in particolare dell'integrazione linguistica, premesso e dimostrato il ruolo di centralità dell'acquisizione linguistica nel processo di inserimento, lavorativo e non. Il terzo capitolo racchiude invece le indagini linguistiche e glottodidattiche da cui prende il via l'elaborazione concreta del lemmario. In primis si motiva l'importanza di disporre di un dizionario vista la centralità della dimensione lessicale all'interno del processo di apprendimento di una seconda lingua. Si prosegue, poi, con la descrizione del lessico italiano con l'intento di inquadrarne il nucleo, o vocabolario di base. Infine, descritti e dimostrati i limiti dell'esistente vocabolario di base dell'italiano, si enunciano i criteri di selezione e costruzione di un lemmario che miri, secondo i principi della moderna glottodidattica, a soddisfare le necessità dell'apprendente. L'essenza di tutti e tre i capitoli è l'intento di costruire un lemmario volto all'utilità e alla spendibilità delle parole, piuttosto che alla loro frequenza: è grazie a questo criterio e ai metodi elaborati per concretizzarlo che nel dizionario compariranno tutte le parole necessarie a una situazione di immigrazione (permesso di soggiorno, certificato, residenza, irregolare, accoglienza, discriminazione, ecc.), alla ricerca della casa e di un lavoro (contratto, curriculum, affittare, ecc.), alla frequenza della scuola dell'obbligo (iscrizione, tassa, sostregno, ecc.), alla tutela dei propri diritti e all'interazione con le strutture italiane adibite al contatto fra società e immigrato 8
(modulo, consultorio, maternità, asilo nido, guardia medica, ecc.). Oltre ad essere utile, il dizionario italiano-bengali è stato pensato in modo da essere facilmente consultabile e sinteticamente esauriente per un'utenza di parlanti che per la maggior parte dei casi non hanno alcuna nozione di grammatica italiana, né hanno frequentato alcun corso per l'apprendimento formale e guidato della lingua. Dunque, perché il dizionario funga allo stesso tempo da supporto lessicale e didattico, sono stati inseriti a lemma elementi generalmente assenti nella dizionaristica tradizionale (quali preposizioni articolate, femminili dall'uscita diversa dal maschile, participi passati irregolari o imprevedibili per l'apprendente non nativo, ecc.) di modo che, anche senza competenze nell'uso e nella consultazione di un dizionario si possa arrivare nel modo più semplice e più veloce alla parola cercata. Inoltre compare, ad ogni voce, l'indicazione di pronuncia del lemma basata sulla traslitterazione in caratteri bengali, che non presuppone alcuna conoscenza in materia di convenzioni di trascrizione fonetica per poter pronunciare - con tutte le inevitabili approssimazioni – correttamente la parola cercata. Proprio perché l'utilità è l'obiettivo a cui mira questo intero elaborato, l'augurio e la speranza a seguito del lavoro svolto è quello che il dizionario abbia la possibilità di rendersi concretamente utile nelle mani dei suoi utilizzatori e che risulti uno strumento effettivamente funzionale al miglioramento delle abilità comunicative. Inoltre, considerato che l'inadeguatezza delle politiche linguistiche e la scarsità di materiale didattico per un pubblico di apprendenti immigrati sono problematiche che non riguardano solamente i bangladeshi, ma altre centinaia di migliaia di immigrati di altre origini, spero che il lavoro esemplificato in questo elaborato possa essere riutilizzato come modello per la costruzione di altri dizionari di altre lingue dell'immigrazione che abbiano l'intento di soddisfare le necessità comunicative dei loro utenti, filippini, ucraini o punjabi o di qualsiasi altra madrelingua. E' famosa una pagina di Croce che diceva che chi pone fine a una ricerca "intravede le prime incerte linee di un'altra, che egli medesimo, o chi verrà dopo di lui, eseguirà. E con questa modestia, che è delle cose stesse e non già del mio sentimento personale, con questa modestia che è insieme fiducia di non aver pensato indarno, io metto termine al mio lavoro, porgendolo ai ben disposti come strumento di lavoro". 9
I. Il dizionario: per chi e perché 10
1) CAPITOLO 1 Le caratteristiche dell'immigrazione bengalese 1. I movimenti migratori dal Bangladesh e la presenza bengalese in Italia Il processo migratorio è uno degli elementi più dinamici dell'economia e della società bengalese. Anzi, si potrebbe dire che l'economia del Bangladesh è in diretta relazione con l'andamento della mobilità internazionale dei suoi abitanti. Essendo un Paese estremamente popoloso, il Bangladesh ha sempre goduto e, al contempo, sofferto di un grande surplus di forza-lavoro, il che lo rende uno dei principali Paesi di esportazione internazionale di manodopera già da un paio di secoli. D'altra parte, da relativamente pochi anni, anche in Italia si comincia a percepire la presenza sempre maggiore di immigrati provenienti da tale area. Per poter meglio comprendere la situazione italiana, anche per mezzo del paragone con le precedenti esperienze migratorie che hanno origine dal Bangladesh, è indispensabile fornire una rapida panoramica della storia delle migrazioni bengalesi. Seppure le ricerche effettuate a tale proposito siano insufficienti e il materiale piuttosto scarso, siamo in grado, a partire dai dati esistenti, di suddividere la storia delle migrazioni bengalesi in tre fasi: una prima fase detta “dei pionieri”, una seconda fase di migrazioni rivolte soprattutto verso il Medio Oriente, e una terza fase di migrazioni che interessano in primo luogo i paesi occidentali.1 1.1 Una storia dei movimenti migratori dal Bangladesh alle maggiori destinazioni internazionali 1 Cfr. QUATTROCCHI, PATRIZIA; Il fenomeno migratorio nel comune di Monfalcone: il caso della comunità bengalese: rapporto di ricerca. La Grafica, Gradisca D'Isonzo, 2003. Cap. 3, pp. 45-59. 11
In Bangladesh i migranti sono chiamati probashi, gli “abitanti di fuori”, oppure, in special modo nel dialetto della regione di Sylhet, londoni. La prima grande meta delle migrazioni bengalesi è infatti Londra, e per estensione, l'Inghilterra, paese in cui l'immigrazione dall'Asia Meridionale, a seguito dell'esperienza coloniale, è un fenomeno storico e ben radicato. Il governo coloniale rivalutò, a partire dall'inizio del XX secolo, una risorsa assai preziosa e ancora poco mercificata: la forza lavoro a basso costo. Risalgono già al 1700 le prime testimonianze di manodopera bengalese ingaggiata dalla Compagnia delle Indie Orientali per lo svolgimento di mansioni umili; si trattava in particolare di lascar, mozzi o marinai impiegati sulle navi e retribuiti con compensi decisamente inferiori a quelli dei marinai inglesi. La maggior parte dei lascar proveniva da tre regioni del Bangladesh: Chittagong, Noakhali, e in particolar modo Sylhet. Le prime due regioni si trovano vicino al mare: lì, l'arruolamento di uomini sulle navi mercantili è una pratica tradizionalmente esistente ed accettata. Sylhet, per contro, è una regione continentale, collocata nel nord-est del Paese, e gli unici marinai tradizionalmente presenti sono quelli che, imbarcati sulle chiatte, percorrono i grandi fiumi della regione. Il loro massiccio arruolamento sulle navi inglesi è dovuto alle peculiarità nell'organizzazione socio-economica della regione di Sylhet. Già dall'epoca coloniale infatti, il territorio, anziché essere diviso in latifondi sottoposti al potere degli zamindar2, era parcellizzato fra i diversi lavoratori agricoli che erano quindi, al contempo, anche piccoli proprietari terrieri, abituati a gestire il loro patrimonio e ad investire sulle sue possibilità di miglioramento. A causa del benessere diffuso, della maggiore autonomia, dell'attitudine al lavoro e della capacità imprenditoriale, dal distretto partì un forte flusso migratorio. Per tutto il XIX secolo e l'inizio del XX, migrare è un'opportunità che sfrutta solamente una classe medio-alta di proprietari terrieri pronti a rischiare investimenti sul futuro. Questa tendenza si rafforza a tal punto che ancora oggi Sylhet risulta essere l'area di provenienza preponderante (95%), per quanto riguarda l'emigrazione bengalese in Gran Bretagna. Fino agli anni '50-'60 , in questa prima fase che è stata definita “dei pionieri”, gli 2 Latifondisti dalla privilegiata posizione economia, politica e sociale, paragonabili in qualche modo ai nostri feudatari. 12
immigrati bengalesi in Inghilterra sono esclusivamente uomini, solitamente celibi, ed essendo membri del Commonwealth possono lavorare e vivere in Gran Bretagna senza particolari limiti di tempo o difficoltà burocratiche. Nel 1962 le cose iniziano a cambiare: la legislazione in materia di immigrazione viene modificata e si inaugura il sistema dei cosiddetti labour voucher (buoni di lavoro, documenti di lavoro) in base al quale l'accesso al mercato del lavoro britannico avviene unicamente tramite tali “permessi di lavoro” rilasciati dal Ministero. Per ottenere il voucher di lavoro è utile avere parenti o amici che già risiedono nel Paese, essere in contatto con le istituzioni britanniche, e avere una rete di conoscenze che agevolino le cose anche dal Bangladesh. A tale livello agiscono degli intermediari, dei veri e propri broker: essi hanno solitamente già vissuto di persona l'esperienza della migrazione, sono informati sulle opportunità lavorative, conoscono i percorsi burocratici da seguire, sono in possesso dei contatti necessari all'interno delle istituzioni britanniche per avviare con successo nuovi percorsi migratori, e spesso prestano denaro ai nuovi migranti che devono costruirsi una vita al di là della frontiera bengalese. A Sylhet, terra di benestanti e intraprendenti proprietari terrieri, la presenza degli intermediari, e quindi anche la consuetudine a migrare, si radicano più velocemente.3 Questa seconda fase migratoria è caratterizzata dall'impiego di una gran parte dei migranti nel settore industriale. Si tratta di una migrazione temporanea: il lavoratore bengalese vive in Gran Bretagna per brevi periodi, da qualche mese a pochi anni, limitando al minimo indispensabile le spese per la sopravvivenza, con l'obiettivo principale di tornare nel proprio Paese di origine quanto prima, e lì godersi le ricchezze accumulate e il nuovo status sociale acquisito a seguito dell'esperienza lavorativa all'estero. Dal 1971, anno in cui il Bangladesh ottiene la sua indipendenza affrancandosi dal Pakistan, la politica di accoglienza della Gran Bretagna cambia radicalmente. Viene approvato l'Immigration Act, che stabilisce regole sempre più rigide per l'ingresso nel Paese. Da questo momento in poi, migrare diventa 3 Per un'interessante raccolta di testimonianze sulla prima fase migratoria, vedi ADAMS, CAROLINE; Across seven seas and thirteen rivers: life stories of pioneer Sylethy settlers in Britain. Thap, London, 1987 13
un'esclusiva possibilità di chi è già in contatto con altri immigrati residenti in Inghilterra e già inseriti saldamente nel nuovo tessuto sociale. Per le famiglie e le comunità che si trovano al di fuori della “rete migratoria”, la migrazione verso la Gran Bretagna diventa un percorso quasi impossibile. Per coloro che già vi si trovano, invece, cambia il progetto migratorio iniziale: a seguito dei cambiamenti legislativi, i lavoratori immigrati tendono a stabilizzarsi, a richiedere il ricongiungimento familiare per vivere sedentariamente nel nuovo Paese con le proprie famiglie, e a naturalizzarsi. Infatti, dagli anni '70 agli anni '90 in Gran Bretagna la maggior parte dei nuovi arrivi è rappresentata dalle mogli e dai figli dei già residenti. In concomitanza con l'innalzarsi di barriere e difficoltà in Gran Bretagna, sorgono per i bengalesi nuove opportunità migratorie, nuove destinazioni e nuove formule. La prima e la più importante per impatto è la migrazione che ha come destinazione i Paesi del Medio Oriente. Proprio negli anni in cui l'Inghilterra chiude i suoi confini, l'economia dell'area mediorientale vive un momento di forte espansione che culmina, nel '74, con il boom dei prezzi del petrolio. La riorganizzazione dell'economia dell'area richiama molti lavoratori da tutta l'Asia, tra i quali una grande parte proviene dal subcontinente indiano. La provenienza non è più limitata a Sylhet ma coinvolge anche nuovi distretti del Paese, come Chittagong, Noakhali, Comilla e Dhaka. Inizialmente, soprattutto fra 1976 e 1981, la richiesta dei paesi mediorientali riguarda categorie professionali elevate (medici, infermieri, insegnanti) da inserire nelle loro infrastrutture in rapida crescita. Gli anni '90 invece sono caratterizzati da un notevole cambiamento nell'offerta di lavoro, che si concentra esclusivamente sulla manodopera a basso costo, carente di specializzazione, relegata a settori lavorativi di basso profilo, con scarsa retribuzione e scarso riconoscimento sociale4. Negli stessi anni la migrazione comincia gradualmente a rivolgersi anche verso i paesi di recente industrializzazione del Sud-Est asiatico, primo fra tutti la Malesia. Anche in questo caso si tratta di migrazioni di breve durata e sulla base di contratti per specifici lavori, di solito di bassa qualifica.5 L'ingaggio del migrante si basa sull'istituzione dei “contratti di lavoro”, per la 4 Vedi Tabella 1 in appendice. 5 Cfr. MAHMOOD, RAISUL AWAL, Data on migration from Bangladesh, Asian and Pacific Migration Journal, (4), 4, 1995, p. 46 14
quale, a differenza dei “voucher di lavoro” britannici, il migrante “compra” prima della partenza un posto di lavoro che può essere solo quello indicato sul contratto, stipulato con il governo del Paese in questione o con compagnie private. Agli inizi degli anni '80 i costi di un contratto della durata di due anni in Arabia Saudita variavano tra 40 e 60.000 taka (8-12.000 sterline). Comprensibilmente, tali cifre selezionano in partenza i potenziali fruitori. Ancora una volta, i mediatori rivestono un ruolo di primaria importanza: nel 1985 si contano già, in Bangladesh, ben 300 agenzie ufficiali di reclutamento, nate con l'unico obiettivo di collocare, attraverso la stipula di contratti regolari, i lavoratori bengalesi nei paesi asiatici. Secondo i dati del BMET (Bureau of Manpower, Employment and Training), dal 1976 al 2008 un totale di 5.613.752 di persone intraprendono un percorso migratorio. Di queste, 2.474.392 scelgono l'Arabia Saudita come paese di destinazione e 1.005.139 gli Emirati Arabi Uniti. Gli altri paesi verso cui è orientata la migrazione bengalese della terza fase sono Malesia, Kuwait, Oman, Qatar e Bahrein.6 Mentre il flusso di migrazione temporanea continua ad investire i paesi del Medioriente e del sud-est asiatico, persiste un lento ma continuo processo migratorio verso i paesi industrializzati dell'Occidente, che i migranti raggiungono grazie alle richieste di visti lavorativi, visti per studenti e richieste di ricongiungimento familiare. Fra i paesi del “primo mondo”, Gran Bretagna e Stati Uniti rappresentano le due destinazioni maggiori; a seguire, in ordine decrescente per presenza bengalese, troviamo l'Italia, Canada, Giappone, Australia, Grecia e Spagna. Le fonti ufficiali riportano che quasi 1,2 milioni di bengalesi vivono stabilmente, in qualità di residenti, nei paesi industrializzati7. 1.2 Politiche migratorie del governo bengalese La legislazione bengalese in materia di migrazione è nata, dopo l'Indipendenza, ricalcando l'Emigration Act del 1922, forgiato nel passato coloniale. 6 Vedi Tabella 2 in appendice 7 Cfr. SIKDER, MOHAMMAD JALAL UDDIN, Bangladesh: refugee and migratory movements research unit. Asian and Pacific Migration Journal, (17), 3-4, 2008, p. 272 15
Con l'inizio dei flussi migratori verso il Medioriente, l'argomento migrazione divenne una delle maggiori preoccupazioni del governo, visti i grandi benefici che un'emigrazione a larga scala avrebbe potuto apportare alle condizioni economiche del Paese, ed esso iniziò ad assistere l'esportazione di forza lavoro bengalese con la fondazione di enti ed istituzioni ad hoc. Primo fra tutti, nel 1976, il BMET (Bureau of Manpower, Employment and Training). Nel frattempo, la legge del '22 si dimostrò inadeguata alle nuove dimensioni del fenomeno e bisognosa di un'attualizzazione. Nel 1982 venne perciò promulgata l'Emigration Ordinance, che divenne la base per la più completa legislazione del 2002. Con essa, il governo si impegnava ad autorizzare l'emigrazione ai soli cittadini in possesso dei documenti di viaggio validi, ad esempio un permesso lavorativo accordato dal datore di lavoro all'estero, oppure un visto lavorativo emesso dal governo dello stato in questione. Inoltre permetteva la migrazione di coloro che venivano selezionati tramite i contatti forniti dalle agenzie di collocamento riconosciute dal governo. Queste ultime si organizzarono nel 1984 in un gruppo noto come BAIRA (Bangladesh Association of International Recruiting Agencies) e si moltiplicarono progressivamente, fino a passare da 23 a 780 nel giro di tredici anni. Nel 1997 l'esigenza di una normativa più completa per organizzare e tutelare i migranti e la richiesta sempre più pressante da parte della società civile e della RMMRU (Refugee and Migratory Movements Research Unit) di nuove politiche sull'emigrazione spinse il governo a istituire il MoEWOE (Ministry of Expatriates' Welfare and Overseas Employment); il nuovo ministero, attivo dal 2001, si sarebbe incaricato di correggere e migliorare l'Emigration Ordinance, e inoltre di promuovere, monitorare e regolare il contesto migratorio, occupandosi di creare nuove opportunità migratorie per i bangladeshi nel mondo, e di risolvere le loro problematiche. Fra le politiche intraprese dal governo per regolare i flussi migratori dal Bangladesh citiamo, per concludere, il più recente provvedimento, ovvero l'Overseas Employment Policy del 20068. 1.3 Le modalità di migrazione e il problema dell'immigrazione irregolare 8 Per approfondimenti, vedi SIKDER, op. cit, pp. 264-270 16
I canali di migrazione dei lavoratori bengalesi hanno subito notevoli cambiamenti nel tempo. Durante i flussi migratori rivolti alla Gran Bretagna e fino ai primissimi anni '70, il ruolo del governo bengalese nell'organizzazione delle dinamiche migratorie è stato sostanzialmente quello di un osservatore passivo. Poi, rendendosi conto dell'enorme domanda di manodopera da parte del Medio Oriente e del conseguente beneficio che le migrazioni avrebbero apportato all'economia domestica, il governo inaugurò una consistente politica di esportazione di forza lavoro. Ad esempio, vennero negoziati accordi bilaterali con i paesi richiedenti la manodopera per provvedere al massiccio invio di lavoratori bengalesi. Un terzo dei migranti che si recarono in Medio Oriente dal 1977 al 1980 usufruì di questo, diciamo, canale ufficiale. Ma in tempi più recenti, il suo ruolo nelle faccende della migrazione è stato minimo.9 Gli anni'80 sono stati contrassegnati dalla nascita e dal proliferare delle agenzie private per il collocamento e l'esportazione di manodopera. Dal 1977 al 1981 l'attività delle agenzie private crebbe dal 7 al 40%, ed ebbe un ruolo di avanguardia nella scoperta delle nuove mete migratorie.10 Nonostante alcune ONG e diversi enti, come l'RMMRU (Refugee and Migratory Movement Research Unit) e il già citato BMET, si stiano occupando di raccogliere dati sempre più dettagliati ed esaurienti al fine di una maggiore comprensione dei processi migratori che hanno come paese di origine, e pure di ritorno, il Bangladesh, la situazione è ancora lontana dall'essere chiara e completa. Ad aggravare la difficoltà e la parzialità della ricerca, sta il fatto che, secondo stime elaborate da istituti di ricerca come l'RMMRU, solamente il 40% di coloro che decidono di migrare viene reclutato da agenzie ufficiali di intermediazione. Vi sono perciò altri canali di migrazione, “informali” ed irregolari. In primo luogo, si può fare ricorso a mediatori non riconosciuti ufficialmente che svolgono lo stesso ruolo di quelli 'a norma'. I contratti vengono stipulati e comprati dai lavoratori prima della partenza, ma a un prezzo inferiore rispetto ai contratti ufficiali, poiché si tratta di lavori molto pesanti, a rischio, non tutelati da assicurazioni, o senza garanzia di durata. 9 Cfr. B.B.KUMAR; Illegal migration from Bangladesh. Astha Bharati, Delhi, 2006. Cap. 4, pp. 78-82 10 Cfr. MAHMOOD, RAISUL AWAL, Ibidem. 17
In alternativa, si può ricorrere all'emigrazione illegale, senza avere alcun contratto di lavoro in mano. Il migrante ha ben poco potere contrattuale al momento dell'arrivo nel paese ospite ed è perciò destinato a sopravvivere, nella maggior parte dei casi, attraverso lavori precari e malpagati, magari facendo il venditore ambulante o il lustrascarpe. Anche in quest'ultimo tipo di migrazione intervengono gli intermediari e i faccendieri locali, che hanno contatti in grado di mobilitare una rete di conoscenze tale da consentire al migrante di arrivare a destinazione. Tali figure vengono comunemente chiamate dalal. Il costo della migrazione illegale è molto elevato, ma ad ogni modo più accessibile rispetto a quella regolare. Ogni paese di destinazione ha una “tariffa” che varia a seconda delle opportunità di guadagno e di inserimento che il paese stesso offre. A seguito di alcune interviste11, sappiamo ad esempio che qualche anno fa Francia e Germania costavano circa 15.000 euro, mentre pare che l'Italia sia una delle destinazioni più 'economiche' dell'Europa Occidentale (dai 10 ai 12.000 euro). 1.4 Caratteristiche del migrante: la selezione in partenza Se una famiglia composta da cinque-sette persone in Bangladesh vive con 60.000 taka ( all'incirca 1.000 euro) all'anno, la sproporzione tra il reddito medio familiare e il costo di una migrazione è evidente. Per questo motivo la decisione di migrare spetta non solo alla persona direttamente interessata, ma coinvolge necessariamente tutto il nucleo familiare. Il migrante è un investimento e una responsabilità condivisa da tutti, di cui tutti beneficeranno, in caso positivo, o di cui tutti subiranno gli effetti negativi, nel caso qualcosa non dovesse funzionare. E' un compito che interessa l'intera famiglia quello di procurare la somma necessaria per mandare in porto la migrazione, e trattandosi di una somma molto elevata, in un Paese in cui la maggior parte della popolazione vive in condizioni di indigenza, è evidente che l'accesso alla migrazione è limitato a quella esigua, ma presente, classe media/medio-alta di proprietari terrieri, imprenditori, piccoli commercianti o 11 Cfr. QUATTROCCHI, PATRIZIA. Ibidem. 18
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