DA "LA STORIA" DI ELSA MORANTE
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DA “LA STORIA” DI ELSA MORANTE Il 16 ottobre 1943, i tedeschi al comando del maggiore Kappler, compirono una razzia nel ghetto di Roma e inviarono nei campi di sterminio più di mille ebrei di quella che era la più antica comunità ebraica formatasi dopo la cacciata da Gerusalemme conquistata dai Romani nel 70 d.C. 16 OTTOBRE 1943, ROMA – TIBERTINO Dopo i bombardamenti, la stazione aveva ripreso a funzionare. Si trattava di una stazione secondaria, non c’era mai molta folla, specialmente il lunedì, oggi poi ce n’era ancora meno. Solo pochi borghesi vi si aggiravano, l’edificio aveva un’aria abbandonata e provvisoria. Il cancello era aperto: non c’era nessuno di guardia all’esterno. A una decina di passi dall’entrata, si udì un orrendo brusio, non si capiva da dove precisamente venisse. Quella zona appariva deserta, non c’era movimento di treni, traffico di merci e le sole presenze che si scorgessero erano al limite dello scalo, entro la zona della ferrovia principale, due o tre inservienti del personale dall’apparenza tranquilla. Verso la carreggiata di accesso ai binari il suono aumentò di volume. Non era, come Ida aveva creduto, il grido degli animali ammucchiati nel trasporto che a volte si sentiva echeggiare in questa zona, era un vocio di folla umana, proveniente dal fondo delle rampe e Ida andò dietro a quel segnale. Il tragitto le parve chilometrico come una marcia nel deserto, non incontrò nessuno, solo un macchinista solitario che mangiava vicino ad una locomotiva spenta. L’invisibile vocio s’avvicinava e cresceva, e richiamava certi clamori degli asili, dei cimiteri e delle prigioni, però tutti rimescolati alla rinfusa. In fondo alla rampa, su un binario morto, stazionava un treno di lunghezza sterminata. Il vocio veniva da lì dentro. Erano forse una ventina di vagoni bestiame, alcuni spalancati, altri sprangati con barre di ferro ai portelli; i carri non avevano finestre, se non una apertura a grata. A qualcuna di quelle grate, si scorgevano due mani o degli occhi fissi. In quel momento non c’era nessuno di guardia. La signora Ida Di Segni era là che correva avanti e indietro con le sue gambucce senza calze, corte e magre, di una bianchezza malaticcia, il suo vestitino di mezza stagione sventolava dietro al corpo. Correva urlando lungo la fila dei vagoni con voce oscena, chiamando il nome dei suoi cari. Dall’interno qualche voce conosciuta la raggiunse per gridarle d’andar via se no quelli avrebbero preso pure lei, lei gridava che non sarebbe andata via, picchiando i pugni contro i carri e attaccandosi alla spranga del portello nel tentativo di forzarlo. Dietro la graticciola era comparsa una piccola testa di vecchio. Si vedevano i suoi occhiali sul suo naso macilento e le sue mani aggrappate ai ferri; Ida riconobbe la sua voce lenta e sentenziosa: era quella del marito. L’interno dei carri, scottati dal sole, rintronava sempre di quel vocio incessante: parlottii senza senso, voci che chiamavano, altre che conversavano, altre che ridacchiavano… A momenti, su tutto questo, si levavano delle grida agghiaccianti, oppure parole elementari come , . Da uno dei vagoni esterni, una donna giovane lanciava a tratti urla convulse e laceranti, tipiche delle doglie del parto. La signora Di Segni, protesa verso quel viso, s’era messa a chiacchierare nella maniera familiare, come di una sposa che parla al suo sposo, poi litigarono perché la signora voleva salire, imprecava verso i fascisti, chiamava i familiari, voleva salire con loro. Da lontano i facchini della stazione le dicevano di andarsene prima che arrivassero i tedeschi. Quando finalmente si decise di allontanarsi, una voce la chiamò e una mano che si sporgeva le gettò un foglietto. Ida lo raccolse e fuggì via dalla stazione.
DA “CAMPO DI STERMINIO” DI HEINRICH BOLL Questo brano sui campi di sterminio nazisti presenta un momento particolare: quello che precede la fuga, il lager sta per essere smantellato e ciò significa l’eliminazione delle prove dell’olocausto, cioè dei prigionieri ancora vivi. L’unica cosa che resiste ancora è il coro. Il cancello si aprì grazie a una sentinella. L’autista toccò col gomito il suo vicino dicendogli che erano arrivati e tutti e due scesero a terra. Schroeder e Plorin si avviarono a una baracca che sorgeva dietro la torre di guardia; il lager era immerso nel silenzio. Tutto era immobile, solo dal camino del crematorio si levava l’intenso fumo nero. L’ufficiale era addormentato. Egli si alzò sistemandosi alla meglio e chiese quanti fossero, Schroeder rispose che erano sessantasette; chiese come andassero le cose e l’ufficiale rispose che entro sera il lager sarebbe stato vuoto, tranne il coro. I due autisti uscirono. Il furgone verde venne aperto soltanto un’ora più tardi. Il lager era di forma quadrangolare, formato da sedici baracche, quattro per ognuno dei lati, con una breve apertura nel lato sud dove c’era l’entrata. Agli angoli sorgevano le torri di guardia, nel mezzo c’erano le baracche della cucina, una baracca-gabinetto e accanto alla torre sud-est c’era il crematorio. Il lager era immerso in un assoluto silenzio, dalla baracca della cucina si alzava un sottile filo di fumo azzurro; Filskeit dal suo ufficio guardò fuori: dietro al furgone si erano fermati due autocarri. Blauert entrò dal cancello con cinque uomini che si diressero dove lui fece loro cenno. C’erano molti ebrei biondini in Ungheria, a Filskeit questi davano ancora più fastidio di quelli scuri. Ilona scese dal camion, non riusciva neanche più ad avere paura. La luce l’aveva colpita, il mondo le sembrava spettrale. Camminando cercò qualche volto conosciuto, ma non ce n’erano. La sentinella le fece un cenno e la portò alla schedatura, poi entrò con la sua scheda in un’altra stanza. Nella stanza c’era solo un uomo, portava l’uniforme d’ufficiale e sul petto una vistosa medaglia. L’uomo tese muto la mano, lei gli diede la scheda e aspettò: neanche adesso provava paura. L’uomo lesse la scheda e le disse di cantare. Lei cominciò a cantare le litanie di Ognissanti. Continuò a cantare vari canti sacri e Filskeit la fissava: era l’immagine della bellezza, pienezza e perfezione. La sua voce aveva suscitato in lui qualcosa che lo paralizzò: la fede. Fuori era tutto silenzio, nessuno si muoveva. Filskeit si sentì afferrare come da uno spasimo, tentò di gridare, ma dalla gola uscì solo un rauco soffio bestiale. Con la mano che tremava afferrò la pistola, si voltò e sparò alla cieca sulla donna che morì. Corse fuori e cominciò il massacro.
ANNA FRANK: “IL DIARIO DI ANNA FRANK” Anna Frank era una ragazza tedesca di origine ebrea, nata a Francoforte nel 1929 e morta a soli 16 anni nel campo di concentramento di Bergen Belsen nel 1945. Apparteneva ad una famiglia agiata (il padre era un banchiere) che, in seguito alle persecuzioni, fu costretta a trasferirsi ad Amsterdam. Con l’occupazione tedesca dell’Olanda, lei e la sua famiglia, la famiglia Van Daan e il Dottor Dussel furono perseguitati dai tedeschi e costretti a nascondersi in un alloggio segreto sopra una vecchia fabbrica, fino a quando furono scoperti dalle SS. Portati nei campi di concentramento, la madre morì e un anno più tardi morirono anche Anna e sua sorella. Tre settimane dopo la loro morte, gli inglesi liberarono il campo. Il suo diario fu trovato nell’alloggio segreto dopo la guerra e consegnato al padre, unico superstite della famiglia. Il suo diario fu pubblicato ad Amsterdam nel 1947. Anna, nei due anni di segregazione, scrisse un diario in cui racconta le sue gioie, i dolori, le speranze, le discussioni sul cibo, sull’uso del bagno, le piccole insofferenze tra persone che vivono troppo vicine in uno spazio ristretto. Spesso parla di Peter, figlio dei Van Daan, di cui si accorge di essere innamorata. Il padre si era allontanato da lei, la madre era solo un’amica e non mostrava affetto materno. Anna studiava molto, le sue passioni erano la storia, il francese e materie letterarie, ma in quell’ambiente non vi era nulla di speciale, se non quando andava da Peter, per il quale provava un sentimento d’amore da lui ricambiato. Il 4 agosto 1944 un tedesco e quattro olandesi fecero irruzione nell’alloggio segreto e furono tutti arrestati e avviati in un campo di concentramento in Olanda.
In queste pagine di diario Anna descrive alla sua amica immaginaria la sua amicizia con Peter, un sentimento che le fa sopportare meglio il terribile cammino che l’aspetta. DA “IL DIARIO DI ANNA FRANK” DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 13 FEBBRAIO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che si era accorta che Peter la guardava continuamente e non sapeva spiegarselo, perché aveva pensato che Peter fosse innamorato di Margot. Per tutto il giorno aveva cercato di non guardarlo troppo, ma se lo faceva, anche lui la guardava e provava una sensazione gradevole dentro di sé. DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 18 FEBBRAIO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che ora il suo unico scopo era di vedere Peter. Ora stava bene perché l’oggetto della sua amicizia era sempre in casa. Non era innamorata, ma sentiva nascere un nobile sentimento di amicizia. La mamma non era contenta che disturbasse Peter e ogni volta che lei andava nella sua stanza, la mamma la guardava in modo molto strano e quando tornava le domandava dove fosse stata e questo era molto sgradevole. DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 23 FEBBRAIO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che il tempo era splendido e lei era molto animata; andava quasi ogni mattina nel solaio dove lavorava Peter, si sedeva per terra e dalla finestra guardava il cielo, il castagno dai rami scintillanti di goccioline, i gabbiani e gli altri uccelli. Peter stava in piedi e insieme guardavano senza parlare. Quando Peter lavorava lei lo seguiva e lo guardava in silenzio, ma rimaneva incantata dalla natura che le dava serenità e la faceva incontrare con Dio, che voleva che tutti gli uomini fossero felici. DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 27 FEBBRAIO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che non faceva altro che pensare a Peter, dalla mattina alla sera. Lei e Peter non erano tanto diversi, ad entrambi mancava una madre che li capisse e li trattasse con sensibilità. A volte le veniva quasi voglia di andar via di casa, ma siccome non lo poteva fare, doveva nascondere quello che sentiva. Peter invece si chiudeva in se stesso, restava come trasognato e si nascondeva.
DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 28 FEBBRAIO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che vedeva Peter quasi di continuo, ma non poteva avvicinarlo. Margot le aveva detto che lui non aveva bisogno di amici; eppure non poteva continuare a stare solo e lei lo voleva aiutare. Confida a Kitty che viveva solo per poterlo incontrare e che era certa che anche lui lo voleva. DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 19 MARZO 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che era stata una giornata importante perché lo aveva incontrato: erano vicini alla finestra, si erano raccontati tante cose, si erano parlati dei litigi e del loro allontanarsi dai genitori; lei le aveva parlato di papà, di mamma, di Margot e di se stessa, di come sfogasse la sua rabbia piangendo, mentre Peter aveva confidato che andava ad imprecare in soffitta. Aveva scoperto di avere molte cose in comune con Peter e fu felice quando lui le disse che lei lo aiutava con la sua gaiezza quando la sentiva fare baccano. Ora credeva che le volesse bene. DALLA PAGINA DEL DIARIO DEL 16 APRILE 1944 Anna scrive a Kitty per raccontarle che la sera precedente era stata molto importante per la sua vita. Seduti sul divano Peter le aveva posato un braccio sopra le spalle stringendola forte. Il suo cuore batteva in fretta, le aveva accarezzato la guancia e il braccio e giocherellato con i suoi riccioli. Al momento di rientrare nelle proprie stanze le aveva dato un bacio.
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