La mia Istanbul era una favola
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Un romanzo che può essere letto in vari modi. Chi vuole, scrive lo scrittore turco Mario Levi nella premessa, può accontentarsi di leggere quel capito- letto di poche pagine, intitolato “Gli stornelli”, posto all’inizio del libro per La mia Istanbul era una favola IL LIBRO di Mario Levi rivedere quello che già sa. Invece, per quelli che si interessano solo ai par- ticolari… “Come ogni ebreo, ero in fondo anch’io in fondo un viaggiatore errante alla ricerca di ‘partorire’, vivere e trovare il proprio Paese” o che le cose raccontate “qui”, o qui S vissute come una “scrittura”, in que- sto “racconto lungo”, che si è lasciato scrivere piano piano, inquieteranno qualcu- no. Anche nelle notti che sembravano senza fine – nelle quali cercavo di allonta- narmi il più possibile dagli altri, da coloro che volevano spingermi ad accettare questa «scrittura», nelle quali anzi cercavo di indagarla – mi ero lasciato prendere da una tale sensazione. Erano notti, quelle notti, in cui mi inducevo a collocare in certi posti della mia vita le cose che mi venivano fatte sentire… Una sensazione dalle radici pro- fonde, individuabili in una eredità ricevuta, che non sarebbe riuscita a liberarsi di me malgrado tutti gli angoli e i giochi nascosti che avevo scoperto, sebbene avessi tentato di rendere quel “me” che mi rendeva me stesso, “la mia scrittura”, con un’altra voce, con quella mia voce interiore… Dovevo ovviamente esporre il racconto del vivere questa eredità «nella mia lingua», dovevo vedere e dimostrare nella misura concessa- mi dalle mie capacità, “dai miei limiti”, l’e- stensione di questa possibilità nella mia vita, nella città in cui ero nato e in cui vivevo. Con l’energia trasmessa da tale convincimento, sarei dunque stato in grado 108
IL LIBRO di procedere su questo “ciglio” più tran- pito i polmoni, senza badare alla mia asma, quillo, più familiare e affidabile. Avrei con il fumo di “ogni cosa che fumasse” potuto esprimere questo “ciglio” con parole nella mia mente, “al di là di quello del car- risapute, restando nelle acque di una iden- bone della stufa”. Per questo avevo voluto tità che “gli altri” si aspettavano da me. Ma sposarmi con una puttana dagli occhi questa situazione che adattavo, che avrei azzurri, dai capelli color del miele, con le potuto adattare a me stesso, era solo una lentiggini, la quale mi insegnava, con tutta delle possibilità che vivevo, a cui volevo la sua generosità e la sua ruvidezza, quei aggrapparmi. Una delle possibilità che risvolti oscuri, a me del tutto ignoti, del vivevo, a cui volevo aggrapparmi… fare l’amore, in quei giorni del mio oscuro Senonché, nei giorni in cui cercavo di nuo- “apprendistato”, e che talvolta diceva di tare in quelle acque tranquille, altre voci voler diventare professore di Sociologia in mi avevano chiamato. Anche per questo, qualche università. Per questo avevo prefe- anche perché non avevo potuto credere a rito leggere Spinoza nel giorno del Grande questa possibilità fino in fondo, la paura di Digiuno. Per questo avevo pensato di restare in un unico posto, di vivere e mori- diventare un ruffiano, per questo avevo re per un unico posto aveva aperto dentro provato a scrivere testi pubblicitari. Per di me la strada per andare là dove non ero questo avevo odiato le donne “virtuose”, potuto restare, vivere a lungo. Per questo che si vantavano di cucinare un ottimo mi ero lasciato prendere da quei sogni. Per börek e dei buoni involtini di foglia di vite. questo avevo detto bugie, avevo imparato a Per questo mi ero disgustato anche di quel- vivere anche con le menzogne, avevo tradi- le donne che parlavano o giocavano con la to ciò che amavo. Per questo mi ero riem- “libertà”, senza tuttavia essere disposte a Archivio Alinari
LA MIA ISTANBUL ERA UNA FAVOLA sporcarsi le mani, che solo parlavano e gio- “Non era colpa mia essere cavano, e che alla fin fine restavano sempre legate a quelle loro case e a quelle loro nato come un estraneo “eredità”; mi ripugnavano anche quelle che cercavano di basare su un fondamento nella penisola di Istanbul “scientifico” tutti quei miei “punti di vista”, per potersi meglio difendere, o per più vicina all’Occidente. essere sempre in grado di dimostrarsi a vicenda di saper tenere questo mondo in Non era neppure colpa pugno, limitandosi a descrivere alcune “cose”, senza avere il coraggio di toccare mia vivere Istanbul come quei sentimenti, di toccarli davvero… Certo erano queste le mie solitudini, questi una favola, né voler i miei giochi, questo ciò che in quegli anni non potevo dire a nessuno. Il bambino den- talvolta assomigliare alle tro di me, che credeva di essere stato abbandonato, che cercava sempre di met- persone di altri libri o ai tersi in mostra davanti a qualcuno, aveva personaggi di racconti o però sentito il bisogno di vivere così. Quel bambino per anni aveva preteso da me drammi della mia vita... quest’uomo. Quel bambino aveva ragione. Quel bambino aveva diritto a tutte queste Insomma la mia Istanbul “sfacciataggini”… E, forse, queste erano le vie seguite da quel bambino per meglio era una favola” vedere, conoscere… Era dunque con tale sforzo di comprensione che cercavo di pro- cedere ancora verso quel racconto che cre- devo di vivere un bel giorno, o, per meglio dire, di ritrovare nella mia oscurità, quel re a disagio gli altri con la mia esistenza, racconto nel quale non potevo ancora con quanto desideravo dire e rammentare. rinunciare a credere?… Forse. Sicuramente, In quei giorni avevo anch’io una favola che in simile situazione, bisogna che io mi volevo “raccontare”, semplicemente “rac- interroghi una volta di più su me stesso, contare”. Era la favola del vivere una avendo sempre in mente me stesso, i miei “scrittura”, un viaggio in diversi “Paesi” sdegni, i miei dubbi, i miei tradimenti, in del mondo, come un “violinista”. Come nome di questo racconto che ho cercato di ogni ebreo, ero anch’io in fondo un viag- costruire dentro di me. Bisogna che ancora giatore errante alla ricerca di “partorire”, una volta mi interroghi su me stesso… vivere e trovare il proprio Paese. Come Che io cerchi di capire se quel senso di ogni ebreo, anch’io ero agli occhi di qual- poter recare disagio agli altri con le cose cuno un “senza patria”… Come ogni che dico rientri o meno fra quelli che, ebreo, anch’io ero uno “dei soliti”, “diffi- volente o nolente, ho assunto da qualcun dente e inaffidabile”, “senza lingua ed altro. Poiché quanto ho vissuto allora mi estraneo”… Quella storia, dunque, quella ha insegnato che bisognava tacere, tacere storia che potrei definire “la nostra storia”, seppellendo dentro di me la mia collera. dove, quando, come e per chi era mai Alla fin fine sono nato anch’io in un clima cominciata?… Dove, quando, per chi?… dove non è facile infastidire alcuni reggen- Anche questo era uno di quei racconti che do uno specchio davanti ad alcuni altri, avevamo cercato di custodire per rinviare, invitandoli a pensare da una prospettiva per continuare a sperare, per vivere fino in diversa. Le “lingue” di quel clima erano il fondo, per vivere e dimostrare, a dispetto di mio rifugio. Le “lingue” di quel clima “quelli”, o “vivere raccontando”, a genera- erano anche la mia prigionia… re un nuovo mattino dopo una notte lunga, Nei giorni in cui mi ero messo in viaggio, che sembrava non finire mai? Il passato invece, non avevo affatto intenzione, non- che avevamo raccontato, e, anzi, che pensa- ostante quello che avevo vissuto, di mette- vamo di avere raccontato, il passato di 110
Contrasto_Laif quale lingua o di quali parole era, in real- Non era certo lo “sbaglio” di nessuno quel- tà?… Queste sono anche un po’ le doman- lo che si viveva in quelle relazioni. Nessun de che richiedono il coraggio di porsele, istante era l’esito di un istante “sbagliato”. dalle risposte capaci di dare adito a piccoli E soprattutto non c’era nessuno sbaglio. omicidi, all’uccisione in qualche posto di Non c’era “sbaglio”… Non c’era né “lo certe cose, certe cose alle quali non riuscia- sbaglio” né “il giusto”. C’era solamente ciò mo in alcun modo a dare un nome. Non che veniva vissuto, ciò che si poteva vivere avevamo pensato invano che ci saremmo e ciò che si voleva lasciare a qualcuno. Ciò sfiniti ancor di più in quelle relazioni, giu- che veniva vissuto, ciò che si poteva vivere sto quel pellegrino d’amore, ogni giorno, in e ciò che si voleva lasciare a qualcuno… ogni persona… Quelle relazioni, nel corso Oppure… Ciò che si voleva «mostrare» a di quegli anni, erano forse diventate ancor qualcuno, per credere che sarebbe vissuto, di più la nostra solitudine. Perché le parole, per crederlo, benché per poco. quelle parole, non erano sempre le nostre Stando così le cose, questo libro, con un parole… Le parole non erano sempre le simile approccio a “quanto viene racconta- nostre parole… Ma quelle parole potevano to”, può leggersi in diversi modi. Chi anche essere la nostra nudità, la riscoperta vuole, può accontentarsi di leggere quel di noi stessi, ed eravamo stati strappati capitoletto di poche pagine, intitolato “Gli dalla nostra «origine» piano piano, in modo stornelli”, posto all’inizio del libro, per subdolo, da parte di coloro che volevano rivedere quello che già sa. Si potrà ritenere darci solamente le loro parole… Potremmo che quanti faranno questa «scelta» abbiano chiederci adesso l’un l’altro quali fossero letto e “visto” il libro. Può bastare questo quelle parole? Potremmo volere l’uno dal- sforzo per capire un altro, gli altri. D’altra l’altro quelle parole, ricordarle l’uno all’al- parte, questo si era già fatto in precedenza, tro? Potremmo essere di nuovo quelle anche prima ci si era limitati a tanto. Le parole?… Potremmo essere di nuovo quelle immagini, o semplicemente le cose visibili, parole?… Noi, possiamo essere noi?… già in precedenza erano bastate ad altri. 111
LA MIA ISTANBUL ERA UNA FAVOLA Aysun Altindag Finirlo in breve tempo e poi, dopo averlo _Lo scrittore turco, di origini ebree, Mario Levi, autore finito, metterlo in un posto che si credeva del libro Istanbul era una favola fosse quello giusto, lontano da sconvolgi- menti, rientrava nelle opzioni risapute, che ci assegnavano a quei posti, ai nostri posti veri… E le pagine che restavano indietro, quelle che contenevano le storie che ancora mia “scrittura” che, bene o male, indirizza continuano dentro di me, erano per quelli la mia vita. Non era mai stato facile dimo- che si interessavano solo ai “particolari”… strare il coraggio di raccogliere i “pezzi”, di Per quelli che si interessavano solo ai “par- metterli insieme. Più che capacità, richiede- ticolari”… Per quelli che volevano compie- va pazienza, di poter guardare di nuovo, al re qualche passo verso qualcun altro per momento debito, quell’immagine, collocan- mezzo dei “particolari”, delle “lingue per- dosi all’interno di essa. Per poter vedere dute”… Chi vuole, può procedere dalla quel quadro, per poterlo vedere veramente, prima pagina verso l’ultima, ascoltando, era necessario un impegno, lo sforzo della sentendo anche, il suono dei propri passi, dedizione, una “spontaneità”. Era un affare “saltando” diversi capitoli, o disponendoli di cuore, questo. Un affare di cuore… Solo in un “altro” ordine di lettura e importan- un affare di cuore. Proprio come in quelle za. So bene che nemmeno questa è una relazioni che cercavamo di alimentare, “proposta” nuova. In altri climi, in altre difendere, non perdere. Proprio come in “scritture” e in altri tempi già in preceden- quella relazione in cui eravamo entrati con za si era voluto procedere seguendo questa la nostra “vera lingua”, che cercavamo di voce, lo so. Ma io, quando oso fare una alimentare, difendere, non perdere, che ci “proposta” del genere, o ricordarla, malgra- permetteva di crescere in noi stessi, che ci do tutte le probabili ripetizioni, verosimil- mostrava a noi stessi forse nel modo più mente penso soprattutto a quel tocco della corretto… 112
IL LIBRO Naturalmente non sono in grado di sapere “Paese” in cui si sarebbe potuta rifugiare. chi questi dettagli avrebbero portato, dove Una persona insieme testimone, spettatore, e come. Non occorre che io torni a ripetere protagonista di quanto raccontava… Una a questo punto che, mentre una persona persona, in altre parole, che restava, sem- procede verso un’altra, oppure avanza den- brava condannata a restare sia all’interno tro un’altra con tutte quelle vecchie imma- che all’esterno di quanto narrava. I “muri” gini dentro di sé, sta vivendo la propria erano stati eretti anche là, anche i “muri” avventura, solo la propria avventura. Nel avevano tracciato e, cosa ancor più notevo- posto in cui mi ero avvicinato ad alcuni le, avevano rivelato i confini di “quel bandoli, c’era il mio protagonista di un rac- paese”. Non ero estraneo a quei “muri”… conto che cercava di guardare da una fine- Quei «muri» erano anche i miei muri… I stra completamente diversa a quella città miei muri… I miei muri che volevo ritro- dove era nato, al mare della quale aveva vare nella mia «lingua», che sognavo di anelato, che non era riuscito in alcun modo raccontare «nella mia lingua»… E forse ad abbandonare e che, di più, era disposto a nella storia di questi muri si sarebbe potuta una lunga marcia per trovare la propria cercare quella paura di compiere passi sba- “lingua”, la propria “lingua originale”. Il gliati… Quella paura era nascosta in quei segreto del “Paese” era nascosto in questa muri… Ma non era colpa mia essere nato marcia, i confini del “Paese” sarebbero stati come un “estraneo” nella penisola di tracciati con questa “lingua”. Il “Paese” era Istanbul più vicina all’”Occidente”. Non questa stessa “lingua”, l’orizzonte che que- era neppure colpa mia vivere Istanbul come sta “lingua” aveva dischiuso, i sogni che una favola, né voler talvolta assomigliare questa “lingua” aveva concesso, risvegliato, alle persone di altri libri o ai personaggi di il sentimento che questa “lingua” aveva racconti o drammi della mia vita che mi generato. Il racconto, poi, era molto antico. additavano una direzione, né usare, senza L’orologio del racconto, per esempio, era un rendermene conto, le parole “degli altri”, orologio già “usato”, “vissuto” in altri luo- influenzato da un antico abbaglio, né cono- ghi, le “morti” nel racconto erano di quelle scere la speranza di un nuovo viaggio, di “notorie”, il libro nel racconto era un libro una nuova liberazione. Insomma, la mia scritto con pazienza, sia per nascondersi Istanbul era una favola… Questa favola era che per non nascondersi. In questo libro il mio racconto… Questa favola era il una persona considerava il testo che cerca- “loro” racconto… Questa favola era il va di raccontare, di costruire, come l’unico nostro racconto… Questa favola era il vostro racconto… Questa favola era il rac- conto di chi percepiva se stesso come estra- neo nella propria città. Questa favola, non- Ambiente e memoria ostante tutto il vissuto, era il racconto del Il libro di Mario Levi, scrittore desiderio di considerare le acque del ebreo turco (Baldini Castoldi Bosforo come un grembo materno… Dalai editore, 832 pagine, Questa favola era il racconto del timore di 18,50 euro), è un viaggio tra essere ingoiati da una di quelle correnti, di vecchie fotografie, pretesto di essere risucchiati in un mare del tutto numerose storie che da loro si diverso, per una bracciata “sbagliata”, per originano. Ne nasce una splendida, colorita un colpo di remo… Questa favola, ecco, era descrizione di luoghi e persone che vivono le une una favola. vicine alle altre con le loro abitudini, la loro religione e cultura: un melting pot di razze che costituiscono l’essenza più vitale di una città incantata e tragica. Attraverso questo romanzo, costituito di frammenti di un passato anche recente, l’autore riesce a ricreare l’atmosfera di una capitale che per la sua posizione geografica e per la sua storia culturale e politica è un punto nodale della vita dell’Occidente. 113
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