INTRODUZIONE AL CINQUECENTO - MECENATISMO E MUSICA A STAMPA 08/05/2011

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08/05/2011

INTRODUZIONE AL CINQUECENTO

Introduzione al Cinquecento

MECENATISMO E MUSICA A
STAMPA

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Osservando il mondo musicale del passato, e soprattutto l'epoca umanistico-
rinascimentale, ci si imbatte necessariamente nel fenomeno che viene
comunemente definito come mecenatismo. La parola 'mecenate' è stata
riferita, fino a qualche tempo fa, alla figura di un ricco e spesso nobile
personaggio il quale, per puro amore dell'arte, commissionava opere a
musicisti, pittori o letterati, intrattenendo con essi un rapporto quasi da pari a
pari.
Alla luce degli studi più recenti, si è compreso invece che questa descrizione
non corrisponde affatto alla realtà storica delle epoche passate.
Osservando per sommi capi la vita dei principali compositori fiamminghi, ci si
potrà forse meravigliati dalla frequenza con cui ricorrono espressioni quali «fu
al servizio di», «fu alle dipendenze di», e simili. Proprio in tal modo si
realizzava infatti il rapporto fra committente e musicista: per usare i termini
che compaiono nei documenti dell'epoca, un rapporto padrone-servo, in cui il
mecenate offriva protezione in cambio di sottomissione e prestazione di
servizi. Il musicista era uno dei tanti dipendenti della corte, con la funzione di
realizzare concreti eventi sonori per le varie necessità del suo signore.

 La musica era come una specie di status symbol. Una cappella
 numerosa, formata da musicisti famosi in tutta Europa, che
 eseguissero musica costruita con il massimo della complessità
 e dell'artificio, proclamava al mondo (cioè, essenzialmente,
 alle corti rivali e ai sudditi stessi) la ricchezza e la potenza del
 mecenate.

 La committenza di opere musicali destinate a questo scopo è
 stata definita mecenatismo istituzionale, proprio perché era
 un elemento imprescindibile dalle istituzioni politiche.

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Già da vari secoli alcune grandi corti (soprattutto quella pontificia, quella dei re di
Francia, quella dei re d'Inghilterra, quella dei duchi di Borgogna e, nel Trecento,
quella - papale prima e antipapale poi - di Avignone) erano fornite di un certo
numero di ecclesiastici che si occupavano delle celebrazioni liturgiche giornaliere,
garantendo ad esse - oltre che la cura degli arredi sacri, l'approvvigionamento di
candele, ostie, ecc. - anche una veste sonora, spesso polifonica. La posizione
sociale di questi musicisti era tra le più elevate nei ruoli dei dipendenti della corte:
infatti, essi erano in primo luogo uomini di Chiesa e di cultura, che svolgevano
sovente mansioni di consiglieri, amministratori e diplomatici; la loro maggiore o
minore abilità musicale veniva considerata solo secondariamente, e non influiva
sulla retribuzione percepita.

Nel corso del Quattrocento, anche numerose corti italiane (ad esempio, quella
aragonese di Napoli, quella sforzesca di Milano, quella estense di Ferrara, oltre alle
'famiglie' degli alti dignitari ecclesiastici) vollero emulare l'esempio dei grandi
sovrani d'oltralpe, istituendo - in modo più o meno permanente - analoghe
cappelle di corte. Mantenere una cappella polifonica divenne così parte integrante
delle prerogative 'istituzionali' di un principe. In sintonia con le loro origini, le
cappelle italiane coltivarono di preferenza il repertorio polifonico e si contesero i
servigi dei migliori compositori francofiamminghi.

Nel corso del secolo, tuttavia, il mecenatismo
istituzionale declinò verso un mecenatismo
umanistico, svincolato da necessità istituzionali
ma dipendente da necessità culturali.

Per verificare la reale esistenza della
contemporaneità tra musica 'istituzionale'
(polifonia sacra e musica per fiati) e musica
'umanistica', facciamo un esempio concreto: le
corti di Mantova e di Ferrara agli inizi del
Cinquecento. Queste due piccole corti erano
unite da vincoli di parentela: la figlia del duca di
Ferrara Ercole I d'Este, Isabella (1474-1539), era
andata in sposa nel 1490 al marchese Francesco
Gonzaga, signore di Mantova. Intraprendente,
colta (studiò il latino fin dall'età di sei anni; suo
precettore fu il noto umanista Antonio Tebaldeo),
appassionata di musica (era stata allieva di un
compositore fiammingo, Johannes Martini),
Isabella si circondò di un raffinato cenacolo di          Isabella d’Este a Mantova
intellettuali e musicisti.

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  A Ferrara, invece, era arrivata
  nel 1502 una sposa
  proveniente da Roma: Lucrezia
  Borgia (1480-1519). Lucrezia
  era figlia naturale dello
  spagnolo Rodrigo Borgia - che
  divenne papa con il nome di
  Alessandro VI - e sorella di
  Cesare, il famoso duca
  Valentino, ed era andata in
  sposa ad Alfonso d'Este, figlio
  di Ercole ed erede del casato".

Tra Isabella d'Este e Lucrezia Borgia si scatenò immediatamente un'accesa
rivalità: ambedue le dame avanzarono richieste perché venisse aumentato
l'appannaggio concesso loro, in modo da accrescere il proprio fasto a scapito
dell'avversaria; Isabella, poi, scherniva l'inferiorità intellettuale di Lucrezia,
mentre questa si burlava degli atteggiamenti mascolini di costei, cercando
tuttavia di imitarne le iniziative culturali: se la marchesa di Mantova
prediligeva le poesie di Petrarca e stimolava la produzione dei petrarchisti, la
duchessa di Ferrara fruiva del servizio di Pietro Bembo e si faceva ricopiare su
pergamena il Canzoniere del grande aretino. Ma Lucrezia dovette lottare
innanzi tutto con la proverbiale tendenza al risparmio di Ercole d'Este (se ne
lamentò anche Ludovico Ariosto, al servizio del duca dal 1497 al 1501), poi con
le difficoltà finanziarie del ducato in occasione della guerra contro papa Giulio
II; la sua corte personale dovette limitarsi ad una settantina di dipendenti
(escluse le dame di compagnia), mentre Isabella era servita da uno stuolo di
circa 150 persone.

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Nel novero di questi salariati vanno computati, presso tutte e due le signore,
anche i musicisti. Infatti esse disponevano di un proprio gruppo di esecutori -
ben distinto da quello alle dipendenze dei rispettivi mariti - essenzialmente
costituito da cantori, liutisti e suonatori di strumenti ad arco; Isabella, per di
più, aveva anche un tastierista, forse perché ella stessa suonava questo tipo
di strumenti. Alcuni di questi strumentisti erano in realtà soprattutto
compositori. Di essi il più famoso (e meglio retribuito) era Bartolomeo
Tromboncino (1470 ca.-1535 ca.), che ha legato il suo nome soprattutto alla
composizione di frottole (un genere di musica profana, polifonico ma
eseguibile anche monodicamente).

Ovviamente, le due dame scesero in lizza per accaparrarsi i servigi di questo
abilissimo frottolista; benché Tromboncino fosse da lunghi anni musicista
personale di Isabella, Lucrezia Borgia riuscì nel 1505 ad assumerlo nella
propria corte.

Se alle dame competevano soltanto gli strumentisti da
camera, produttori del repertorio “umanistico”, i loro
rispettivi consorti, in quanto detentori del potere
politico, disponevano degli esecutori necessari ad
espletare non solo il mecenatismo 'umanistico', ma
anche quello 'istituzionale'. Trombettieri e
strumentisti a fiato della cappella 'alta' erano presenti
da lungo tempo nelle corti di Ferrara e di Mantova; ad
essi si affiancarono poi i cantori della cappella
polifonica (quella di Ferrara era alla pari, per numero
e qualità di esecutori, con le maggiori cappelle
europee).

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A Mantova, il maestro di cappella di Francesco Gonzaga e del suo successore
Federico era Marchetto Cara (1470 ca.-1525 ca.), anch'egli celebre in qualità
di frottolista, che si occupava sia delle musiche da chiesa che di quelle da
camera. Dalle lettere di Isabella d'Este si evince con chiarezza che ella non
aveva alcuna giurisdizione su Cara e sugli altri musicisti del marito;
similmente, anche Lucrezia Borgia si guardò bene dall'intervenire
sull'operato dei maestri di cappella di Ferrara, che poco dopo il suo arrivo
annoveravano musicisti del livello di Josquin Desprez e Jacob Obrecht.
Tutt'al più, come risulta da alcuni documenti, la duchessa chiese in prestito
al coniuge alcuni strumentisti a fiato per suonare musiche di danza durante
alcune feste da lei stessa organizzate.
Una separazione pressoché assoluta divideva quindi la sfera musicale
'istituzionale', di pertinenza dei governanti, da quella di tipo 'umanistico', a
cui era consentito l'accesso anche alle consorti: impensabile era, per
l'epoca, che una donna potesse gestire i simboli sonori del casato
d'appartenenza.

Io non compro più speranza (Audio)

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 Introduzione al Cinquecento

 LA MUSICA A STAMPA

Lo schiudersi del Cinquecento fu segnato da un'importantissima innovazione
tecnologica: nel 1501 fu pubblicato per la prima volta un intero volume di
musiche a stampa.
L'applicazione alla musica delle tecniche di stampa aveva registrato qualche
tentativo verso la fine del Quattrocento, sia in Italia che in Germania; ma
solo con la raccolta Harmonice Musices Odhecaton, pubblicata a Venezia,
nel 1501, da Ottaviano Petrucci da Fossombrone, si ebbe l'inizio di una
sistematica attività editoriale in campo musicale. La stamperia di Petrucci
usava un sistema a caratteri mobili: ovvero, pezzettini di piombo
appositamente sagomati, con i quali era necessario effettuare su ogni foglio
una triplice impressione, stampando innanzitutto i righi musicali, poi - sopra
di essi - le note, ed infine il testo, i titoli, i numeri di pagina, ecc. Si trattava di
una tecnica un po’ complessa (le tre impressioni dovevano combaciare
perfettamente), che tuttavia permetteva di riutilizzare gli stessi caratteri per
comporre nuove pagine.

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Il marchio di Petrucci (a sinistra) e una pagina uscita dalla sua stamperia

Una tipografia
rinascimentale

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Uno stampatore romano, Andrea Antico, impiegò pochi anni dopo un altro
sistema: incidere a mano la pagina musicale completa su una tavoletta di legno
(xilografia). Apparentemente questo era un metodo più semplice, che
permetteva anche maggiore libertà alla fantasia dell'incisore, dato che non si
aveva a che fare con caratteri già forgiati; però bastava cadere nel minimo
errore per dover gettar via la lastra incisa e ricominciare tutto da capo.

Ambedue le tecniche di stampa, pur subendo numerose e sostanziali
modifiche, ebbero una rapida e travolgente diffusione: gli stampatori si
moltiplicarono, e gradualmente leggere musica dalla pagina scritta (ora
reperibilissima e relativamente a buon mercato) diventò una possibilità
concreta per un più ampio strato sociale, facendo diminuire in modo sensibile
la quantità di musica trasmessa oralmente. (Le leggi del mercato ebbero però
una contropartita in termini di qualità del prodotto: la perfezione e
l'accuratezza tecnica ed estetica delle edizioni di Petrucci restarono
ineguagliate).

    Pagina a stampa di Andrea Antico

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Emblematica, a questo proposito, è la figura del francese Pierre Attaignant:
egli fu il primo editore di musica ad aver realizzato una produzione definibile
quasi di massa, grazie anche al decisivo sostegno del re di Francia Francesco
I, di cui Attaignant era lo stampatore ufficiale. Attaignant aveva ripreso da
un altro stampatore francese, Pierre Haultin, la tecnica di stampa a caratteri
mobili ad impressione unica: i caratteri di piombo raffiguranti le note erano
forniti ciascuno del proprio pezzettino di pentagramma, espediente che
permetteva di comporre direttamente la pagina completa. Lo sfruttamento
intensivo a cui erano sottoposti i singoli caratteri fece però scadere il livello
estetico della pagina stampata: l'uso smussava sempre più gli angoli dei
caratteri, non facendoli combaciare perfettamente gli uni con gli altri. Era
visibilissimo quindi lo spezzettamento dei pentagrammi stampati nelle loro
singole componenti.

Soprattutto negli anni '30 e '40 del Cinquecento, Attaignant pubblicò
numerosi libri contenenti un genere musicale molto in voga: un tipo di
chanson notevolmente diverso da quello coltivato dai fiamminghi.

  LA CHANSON PARIGINA

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 Questa nuova chanson, detta parigina perché diffusa soprattutto
 nell'ambito della corte francese dei Valois, era più semplice e meno
 contrappuntistica della sua corrispondente fiamminga, la quale si
 distingueva da un mottetto quasi esclusivamente per il testo profano. La
 chanson parigina era invece molto più legata al ritmo verbale del testo
 stesso: le voci procedevano spesso con andamento omoritmico (cioè
 tutte insieme con lo stesso ritmo), in stile tendenzialmente sillabico, la
 fine delle frasi del testo era sottolineata generalmente da una pausa.

 La condotta omoritmica delle parti era sovente alternata con sezioni in
 cui trovava maggiore spazio l'imitazione contrappuntistica tra le voci,
 anche se si trattava di un tipo di contrappunto molto meno complesso
 di quello fiammingo. Non erano rare neppure alternanze tra sezioni in
 metro binario e sezioni in metro ternario.

Uno dei più importanti autori di chansons, Clément Janequin (1485 ca.-
1558), ne sviluppò un tipo particolare: la chanson descrittiva. Le voci,
generalmente quattro o cinque, descrivevano scene concrete, come una
battaglia (La guerre, detta anche La bataille de Marignan perché pare
celebrasse la vittoria di Francesco I a Marignano del 1515), il cinguettio degli
uccelli (Le chant des oiseaux) i gridi dei venditori ambulanti (Les cris de Paris)
e così via, servendosi con grande abbondanza di onomatopee testuali e
musicali. Ad esempio, in La guerre le voci non solo hanno melodie che
sembrano squilli di trombe o rombi di cannoni, ma usano spesso, al posto
delle parole, fonemi quali «fa ri ra ri ra» e altri. Queste singolari
caratteristiche rendevano la chanson molto divertente da cantare e da
ascoltare, decretandone un successo vastissimo ed entusiastico che si estese
a tutta Europa.
Un altro celebre autore di chansons è Claudin de Sermisy (1490 ca.-1562).

 Audio Le chant des oiseaux                musica

  Audio La guerre                           musica

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