CORAM POPULO La Rivista del Liceo Plauto
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#1 Dicembre 2020 CORAM POPULO La Rivista del Liceo Plauto Liceo Classico Plauto via Renzini, 70 Roma corampopulo@liceoplauto.it 1
Il progetto di un giornale scolastico è nato per rendere gli allievi protagonisti di un’attività creativa. La scuola dovrebbe fornire agli studenti gli strumenti necessari per le tre competenze fondamentali: il “sapere”, il “saper fare” e il “saper essere”. A queste competenze vogliamo aggiungere “saper rappresentare”, che implica diversi livelli di comunicazione. La realizzazione di una rivista mira allo sviluppo di diverse competenze: linguistiche, grafiche, logiche, sociali, relazionali, operativo-manuale-informatiche. Costituisce un’occasione per potenziare le competenze comunicative degli allievi e, nello stesso tempo, favorire la collaborazione per il conseguimento di un obiettivo comune. Questo progetto è uno strumento capace di costruire percorsi strutturati su temi della contemporaneità mediante un processo di apprendimento, che procede attraverso la ricerca, la progettazione e la rielaborazione creativa della conoscenza e della realtà, favorendo un contesto formativo. Gli studenti avranno l’opportunità di leggere e scrivere il proprio presente, di esprimersi e di comunicare. Con le difficoltà della didattica a distanza e dopo 6 incontri virtuali, è nato questo primo numero di Coram Populo, la Rivista del Liceo Plauto, che compie 50 anni. Nel 1970 fu pubblicato anche il primo numero del primo giornalino dell’Istituto: Lo Spillo. Con allievi ricchi di entusiasmo abbiamo costituito una redazione, che rimane aperta a tutti gli studenti che vorranno portare il proprio contributo. Ringraziamo il Dirigente Scolastico Giovanni Cogliandro e tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di Coram Populo. Prof. Giuliana Iannotti (docente referente) 2
Scrittura, Positività e Comunità scolastica di Giovanni Cogliandro Sono molto lieto che in questi giorni di Natale venga pubblicato il primo numero della rivista Coram Populo del nostro Liceo. Scrivere è gesto di libertà, assunzione di responsabilità, sguardo critico, ma anche affettuoso verso la realtà che ci circonda. Quando ero studente di Liceo, negli anni novanta del XX secolo, insieme ad alcuni amici a partire dal nostro quinto ginnasio abbiamo portato avanti la redazione di un giornale d’Istituto. Il nostro giornale aveva per motto “che solo amore e luce ha per confine”: il nostro sguardo era critico, ma voleva essere capace di scorgere la bellezza del mondo che ci circondava, di andare oltre il pur necessario continuo rilievo critico sulla realtà politica, sull’invadenza massmediatica e sulla banalizzazione consumistica che caratterizzava gli anni successivi alla fine della guerra fredda. Ci sembrava impensabile che con l’affievolirsi dello scontro tra opposte ideologie si affievolisse anche la passione per la partecipazione alla vita pubblica, civile e politica. La positività del nostro essere studenti si declinava nel voler partecipare alla vita pubblica (alcuni di noi compreso chi scrive furono eletti negli anni seguenti rappresentanti d’Istituto), ma anche nel voler continuare a narrare, a descrivere la propria esperienza di vita scolastica. Avevamo anche una rubrica curata da uno di noi che si chiamava proprio De Vita scholastica. Nella nostra redazione non c’erano insegnanti e stampavamo in ciclostile prima e presso una tipografia poi, coprendo le spese con la vendita del giornale a mille lire per le classi. Crediamo tutt’ora (siamo ancora in contatto fra di noi) che sia necessario uno sguardo terso e critico al tempo stesso su ciò che ci circonda, dalla realtà circoscritta della nostra quotidianità agli orizzonti sconfinati della filosofia, dell’arte e della scienza che scruta il cosmo, delle ultime sfide della matematica, della bellezza dei poemi omerici e delle tragedie greche. Non c’erano i cellulari, ci segnavamo i nostri numeri di telefono di casa con la penna sulle mani per comunicare tra di noi e accordarci su iniziative belle e affascinanti, ma anche difficili da portare avanti. Se oggi ispirandoci all’incipit del bel libro di Alasdair MacIntyre After Virtue dovessimo ricostruire un lessico della scuola (un esercizio che in effetti potrebbe essere stimolante per la nostra mai sopita creatività linguistica), probabilmente la prima parola fondamentale e necessaria da declinare ed analizzare, dopo la crisi permanente che dura da decenni, sarebbe positività. La positività che oggi tanto ci fa paura è quella sierologica, noi invece ci ostiniamo a pensare alla positività assoluta e volenterosa, la positività che supera persino l’ottimismo della volontà, quella positività di chi non si sfianca dinanzi alle avversità. Per questo l’altra parola fondamentale di un possibile lessico rinnovato della scuola potrebbe essere Comunità. Comunità scolastica ed educativa, perché questi aggettivi rendono meglio del participio educante e di qualunque participio la coessenzialità di questi aggettivi per la descrizione della scuola, che senza di ciascuno di questi due non sarebbe Scuola. Essere comunità significa confrontarsi continuamente, condividere scelte critiche e proposte progettuali, come abbiamo cercato di fare insieme in questi due mesi con i docenti e i rappresentanti degli studenti di questa bella istituzione scolastica. Alcune scuole si sono sfaldate nei conflitti interni, altre con fatica hanno saputo fare gruppo e reagire insieme. I docenti del Liceo Plauto insieme a chi scrive credono fermamente nella necessaria anteriorità dell’ottimismo, nella necessità di vincere l’isolamento che uccide dentro molti nostri colleghi bruciandone l’entusiasmo e trasformandoli in meri burocrati o funzionari di un apparato, spegnendo la luce che ardeva nei loro occhi appena vinto il concorso da insegnante o nel mio caso da dirigente scolastico, che sia stato un anno o venti anni fa poco importa. Fare comunità è svolgere pratiche comunitarie per vincere la tentazione di cedere alla violenza degli uffici, traduzione letterale della burocrazia, termine che chiunque non abbia tempo di leggere i saggi di Max Weber può ritenere come sintesi essenziale di un pensiero fecondo sulle dinamiche del potere pubblico (ma anche privato), una finta neutralità che è anche sterilità e male da evitare. 3
Quando la comunità riesce a stringersi verso un unico obiettivo, tutto si affronta meglio: alcune volte basta semplicemente la comprensione, la non opposizione per principio a rendere più facili i processi organizzativi in momenti di particolare difficoltà come quello che stiamo attraversando. Questa situazione non è troppo diversa tra grandi città come Roma, dove le scuole si sentono una goccia insignificante in un oceano di poteri, e i piccoli paesi dove la scuola gode del dovuto prestigio sociale ma si rischia l'ingerenza politica locale. In entrambi i contesti si può toccare con mano la rottura dell’alleanza educativa a fondamento della comunità scolastica, che può manifestarsi nelle martellanti richieste dei genitori con le loro chat invasive fino al parossismo o i consigli di classe o d’istituto trasformati in arene di varie rivendicazioni. Ricostruire e ritessere i rapporti tra scuola e famiglie dopo questa rottura e le conflittualità che si è portata dietro è oggi più necessario che mai. In questo 2020, annus horribilis dal punto di vista sanitario e che tante vittime e paure ci ha portato, abbiamo avuto una crisi senza precedenti che ha spezzato la nostra naturale tendenza alla socialità e alla vita comune (ne parlava già Aristotele) e ci ha lasciato a casa per mesi. Cosa è cambiato dopo la sospensione della didattica in presenza? In altre scuole già in crisi la conflittualità è esplosa, più in generale le criticità emerse in questi mesi sono risalenti a tanti anni fa come, ad esempio, la problematica mai risolta delle classi sovraffollate. Quello che mi colpisce negativamente - come ho già rilevato in altri contesti pubblici - è vedere un’attenzione mediatica che in questi mesi di pandemia si indirizza verso la scuola troppo spesso: è bassa speculazione giornalistica o politica, senza una vera volontà di risolvere di cooperare tra istituzioni ma solo scaricando responsabilità di eventuali inadempienze. Cosa invece c’è di buono? Che il dibattito pubblico sulla scuola sia ripartito, con una passione, un’intensità e una partecipazione che non si erano mai viste prima. Probabilmente mai nella storia repubblicana si è tanto parlato di vita scolastica e di pratiche di scuola, il pilastro fondamentale dello stato sociale. Certo il discorso pubblico si sposta velocemente come le mode di pensiero e le mode di abbigliamento, direi meglio ancora come la fama virgiliana, cosicché anche in questo si attua una delle tante declinazioni della teoria sociologica detta Acceleration theory di Hartmut Rosa. Tenere quindi aperta una finestra di riflessione comunitaria è necessario come non mai, per questo motivo sono molto felice che questa collaborazione giornalistica tra docenti e studenti abbia avuto un nuovo inizio. Saluto quindi tutta la Comunità scolastica del Liceo Plauto e invito gli studenti a partecipare alla vita della Redazione, a contribuire con testi di alto livello a questa bella Rivista che sin dal nome scelto, Coram Populo, si pone di fronte alle persone, che vuole narrare e rappresentare. Pejac – #STAYARTHOMEPEJAC, Arte dalla finestra di casa. 4
50 anni al Plauto Dal 1970 il nostro amato “Liceo Plauto” ha visto passare numerose generazioni di studenti provenienti da varie zone di Roma. Progettato nel 1967 da Vittorio De Feo, importante architetto razionalista, sorge in zona Spinaceto e porta il nome del grande commediografo romano Tito Maccio Plauto, appunto. Da sempre offre moltissimi servizi, come le attività laboratoriali (di scienze e lingue), la presenza di un’aula informatica e di una biblioteca, un corso di laboratorio teatrale. Le due grandi palestre e lo spazio esterno attrezzato hanno sempre permesso lo svolgimento di tantissime iniziative. Caratterizzato da quel mattonato rosso e dalla grande aula magna, con il pavimento a quadrettoni, il Plauto offre un’accoglienza calorosa, che, accompagnando noi alunni nel corso dei 5 anni, arriva a farci percepire l’Istituto quasi come una seconda casa. Anche alla fine del percorso di studi custodiremo sempre nel cuore questo luogo che per noi è stato molto rassicurante. L’autore Plauto (nato intorno al 250 a.C. e morto intorno al 184 a.C.) fu esponente arguto del genere teatrale della Palliata (le commedie latine di argomento greco). La caratteristica delle sue commedie fu la semplice comicità dettata dalla scelta dei personaggi (tratti dal quotidiano) e delle situazioni da trattare, così come dal lessico utilizzato. È per noi tradizione assistere alle riproduzioni teatrali delle sue commedie, che ebbero e continuano ad avere un grandioso successo. Quest’anno, per commemorare i 50 anni del Plauto, si è deciso di collaborare per la prima volta con un brand importante come “Little America” per la realizzazione delle felpe d’Istituto. Plauto fu uno dei più importanti commediografi che riuscì ad imprimere la sua potestas nel mondo latino, è per questo che abbiamo scelto la maschera come soggetto per le felpe, volendo cogliere dalle maschere plautine l’astuzia e la scaltrezza per “mettere in scena la nostra vita”. Le maschere sono il simbolo per antonomasia del teatro, usate per rendere i personaggi più caratteristici. Abbiamo deciso di proporre due modelli: College e Hoodie. Nella College al centro è riprodotta la maschera, a sinistra troviamo la data di nascita della scuola in numeri romani (MCMLXX) e a destra la data odierna. Nel modello Hoodie una notevole scritta posteriore sottolinea i 50 anni di anniversario. La scuola è uno spettacolo e gli studenti ne sono gli interpreti, queste felpe rappresentano i nostri costumi di scena. Da cinquant’anni il nostro Liceo Plauto assicura una formazione di alta qualità, un’attenzione alla vita degli studenti senza precedenti e un rapporto trasparente e di rispetto tra tutti, una grande famiglia in cui si cresce insieme e ci si prepara per affrontare il futuro, soprattutto in questi anni così delicati per la vita di noi studenti. I rappresentanti d’Istituto: Alice Felli, Fabio Germani, Michela Pieroni e Alberto Rojas 5
Intervista ad Abramo Maione Un racconto coinvolgente da parte di un ex allievo del Liceo Plauto e Direttore del primo giornalino della scuola: Lo Spillo, pubblicato nel 1970. Com’è nata l’idea del giornalino nel 1970? Dagli studenti o da un docente? No, l’idea è stata nostra, è stata un’iniziativa spontanea. L’apertura del Liceo Plauto è avvenuta il 5 ottobre del 1970, è stata contestuale all’inaugurazione del nuovo quartiere di Roma, Spinaceto, che nasceva dalla legge 167 dell’edilizia popolare, quindi da un intervento pubblico nel campo dell’edilizia. Eravamo studenti che arrivavano da licei e quartieri diversi, c’erano la voglia e il desiderio di conoscersi, nonostante il trasferimento poco gradito: all’epoca Spinaceto era un quartiere “dormitorio” per antonomasia, direi. Era caratterizzato da questi palazzoni, il resto era tutta campagna, non c’era nulla. Quindi a scuola c’è stata un’occasione di incontro, erano anche anni di impegno politico, erano trascorsi 2 anni dal ‘68, che ancora continuava, aveva la sua deriva e, infatti, molti di noi erano politicizzati diciamo, però ognuno a modo proprio. Spontaneamente è nata l’idea di scrivere il giornalino, che abbiamo chiamato “Lo Spillo” perché avevamo intenzione di pungere. Poi alla fine è stata la vita a pungere noi. Tra l’altro riguardo ai professori c’era un problema di ruolo, quindi di presenza fisica. Nelle prime settimane le classi erano 1°, 2° e 3° liceo classico, facevamo lezione in un’unica aula ed eravamo 13-14 persone. Quanti studenti hanno aderito all’iniziativa? C’è sempre un gruppo promotore, ma in tutto eravamo una decina. Le nostre riunioni di redazione duravano non meno di 2 o 3 ore. Eravamo di classi diverse, dal 4° ginnasio al 3° liceo. L’adesione c’è stata un po’ da parte di tutti, c’era anche qualcuno del Liceo Scientifico (che poi sarebbe diventato il Majorana, autonomo e con la sua sede attuale). Non tutti volevano scrivere. Il primo numero del giornalino è stato scritto dopo due mesi dall’apertura del liceo. L’esperienza, però, è durata solo un anno perché quello successivo è stato complicato, molti ragazzi del 3° si erano diplomati e avevano lasciato, poi sono subentrate altre dinamiche, altre situazioni. Sono nate delle conflittualità anche tra di noi perché da parte di qualcuno si voleva dare una forte politicizzazione al giornalino, questo creò delle divergenze che poi sono sfociate nella mancata uscita dei numeri successivi. Com’è stato possibile realizzare il giornale con i mezzi a disposizione negli anni ’70? La stampa non era un problema. Io avevo a casa un ciclostile, era di mio padre che negli anni ‘60 l’aveva usato per stampare dei libri: era un Gestetner, mitico all’epoca perché consentiva di stampare in proprio spendendo 6
pochissimo, si trattava solo di comprare le matrici in cera che, poi consentivano la stampa, e l’inchiostro in tubetti, che costavano poco. Si è posto il problema di migliorare la qualità del giornale, che era scadente (come si vede dal primo numero) ed è rimasta tale nei numeri successivi, perché ci eravamo informati, ma per noi i costi erano proibitivi. Quello che abbiamo notato è che si dava importanza ai contenuti, non interessava molto la parte grafica, non ci sono immagini, diversamente da oggi. Si, è vero. Ora cerco di spiegarmi con gli occhi di allora: per noi era importante trasmettere contenuti, comunicare, era proprio una necessità, avevamo quest’ansia di contestare la società, come all’epoca si diceva. Il nostro obiettivo era contestare l’autoritarismo, ma in fondo forse noi cercavamo l’autorevolezza da parte delle istituzioni e in generale della società. C’era questo bisogno, forse adolescenziale, di avere interlocutori seri. Negli anni ‘70 c’era molto conformismo nella scuola, nella società, in famiglia. Io penso a mio padre, ai dirigenti della pubblica amministrazione, abituati a comandare in ufficio e in famiglia; le madri casalinghe abituate, invece, ad ubbidire e ad avere poco spazio, così come noi ragazzi, che dovevamo adeguarci a questi padri dirigenti anche in casa. Le ragazze facevano parte della redazione? Le ragazze c’erano, ma noi rispecchiavamo un po’ il maschilismo di quegli anni, eravamo sicuramente una componente maggioritaria. Io ho anche approfondito una conoscenza con una di queste ragazze, che poi è diventata mia moglie. Ci siamo conosciuti qui a scuola. Lei frequentava il 4° Ginnasio e io il 2° Liceo e la conoscenza si è approfondita proprio grazie al giornalino. Quanti numeri sono stati pubblicati? Quattro. Quali sono state l’accoglienza e la reazione del pubblico al giornalino? Buona, l’accoglienza è stata buona. Al momento della distribuzione e dei commenti in assemblea c’era un grande interesse, perché era una novità e si avvertiva molto il desiderio profondo di comunicare, di confrontarci, di scambiare opinioni. Erano anni di fermento, soffrivamo un po’ di un isolamento fisico dal resto della città e il fatto di essere periferia. Noi davamo il giornalino e chiedevamo una piccola offerta in modo da avere una cassa comune per sostenere le spese. C’è stato anche lì un piccolo problema perché il denaro, purtroppo, corrompe tutto: uno degli autori addetti alla distribuzione si è tenuto le offerte. Questo è successo con la pubblicazione dell’ultimo numero e credo che abbia influito con la fine dell’iniziativa. La sincerità e la trasparenza erano gli ideali che ci avevano mosso, ad intraprendere questa iniziativa, per cui questa cosa ha suscitato scandalo. Essendo ipergarantisti non potevamo condannarlo, ha detto di non aver ricevuto offerte, impossibile. Com’era il rapporto tra allievi e insegnanti in quel periodo? È difficile rispondere, noi avevamo pochi insegnanti, c’era il problema di una copertura di ruoli che non avveniva. Soprattutto per il Liceo Scientifico, la provincia non dava l’autorizzazione alla formazione delle nuove classi e quindi non inviava insegnanti di ruolo. Ne abbiamo avuto pochissimi. Un punto di riferimento molto importante è stato il docente di storia e filosofia, il prof. Arcangelo Comparelli, che poi è diventato il Preside. Avevamo una professoressa di greco anni ‘40, sembrava essere venuta del secolo precedente: un rapporto bruttissimo. Abbiamo avuto anche un professore che ci incitava a non venire a scuola, lo dico sinceramente. Ci diceva di non perdere tempo e di partecipare alle manifestazioni, era molto politicizzato. La professoressa di scienze era molto brava, perché, pur nella precarietà della situazione, dava il massimo. 7
Il liceo era carente di tutto, a partire dai professori per arrivare alle attrezzature logistiche, i banchi, non funzionava nemmeno il riscaldamento, quello che oggi sembra scontato all’epoca non lo era per niente. Il primo Preside Marotta era molto comprensivo della situazione Il rapporto, nonostante tutto, era buono perché c’era entusiasmo. Non c’era conflittualità: eravamo uniti dal desiderio di decollare e di cooperare. Il giornalino lo leggevano volentieri anche i docenti. Come era vista Spinaceto in quegli anni? Com’è cambiato il territorio nel tempo? Male, Spinaceto non suscitava mai commenti neutrali. Inizialmente ci vergognavamo un po’ di abitare in questo quartiere, come ho detto soffrivamo il fatto di essere in periferia, una periferia un po’ promiscua. Spinaceto è nato con la caratteristica di non avere un’identità particolare, a differenza di altri quartieri di Roma: Prati, Trastevere, Garbatella sono quartieri storici che hanno un’identità, una storia. A Spinaceto abbiamo avuto anche fenomeni di abusivismo che hanno generato dei problemi. L’assegnazione degli Foto di ritornoaspinaceto.blogspot.com appartamenti avveniva tramite un concorso perché erano stati costruiti con la legge 167, quindi erano stati utilizzati anche i fondi dei dipendenti statali, che versavano ogni mese i contributi all’istituto delle case popolari. All’epoca Spinaceto era diviso in lotti, 8 in tutto. Nella strada dove abitava la mia famiglia, via Aversa, la maggior parte degli abitanti lavoravano per lo Stato: il cosiddetto ceto medio. In altre zone del quartiere, invece, non c’era questa omogeneità nei residenti, anche per via delle occupazioni che si erano estese. A Roma negli anni ‘70 c’era un problema di alloggi e il triste fenomeno delle baracche, quindi molti furono dirottati a Spinaceto. Poi si è scoperto che, oltre alle persone che avevano realmente bisogno, esisteva un mercato clandestino, di gente che occupava e vendeva. Quando ci sono questi episodi si presenta l’illegalità in varie sfaccettature. Però l’aspettativa era buona: Spinaceto aveva una concezione urbanistica che doveva sviluppare le relazioni umane, perché i cosiddetti lotti erano costruiti separando, per esempio, il traffico pedonale da quello veicolare, non si voleva fare uno “stradone” come in altre zone di Roma. Questi palazzi dovevano rappresentare una sorta di comunità. Ogni lotto aveva il suo centro sociale che doveva essere luogo di riunioni, di incontri, di rappresentazioni teatrali, culturali e musicali. Al centro del quartiere era previsto un centro polifunzionale con teatri, cinema, altri luoghi di aggregazione giovanile, che poi, invece, non sono stati realizzati. Non c’erano negozi, solo un piccolo centro comunale di consumo e per la spesa ognuno tendeva tornare nel proprio quartiere di provenienza. Le nostri madri erano Foto di ritornoaspinaceto.blogspot.com quasi sempre a casa. I padri uscivano solo per lavorare e la loro vita sostanzialmente non era cambiata, al massimo si allungavano i tempi per raggiungere il luogo di lavoro. La macchina era molto diffusa all’epoca, la benzina costava poco, erano ancora gli anni del boom economico. I più penalizzati eravamo noi ragazzi, che dovevamo vagare per le vie deserte del quartiere oppure andare fuori. Poi si sono sviluppate queste iniziative come il giornalino e ci incontravamo anche dopo la scuola per le riunioni di redazione. In questo caso c’è stata un’aggregazione positiva. Per riassumere e concludere: nonostante tutte le difficoltà e i limiti, la concezione urbanistica del quartiere ha favorito le relazioni umane, però si poteva fare molto di più. C’era una grande aspettativa, realizzata quindi solo in parte. Abbiamo dovuto aspettare molti anni e ancora adesso il quartiere soffre di un isolamento e di carenza di 8
servizi. Si può dire, però, che è stato l’ultimo l’esempio riuscito di interventi di edilizia popolare pubblica, perché ce ne sono stati altri che si sono rivelati fallimentari. Dal punto di vista scolastico Spinaceto è stato ben realizzato per la presenza di tante scuole e questo bisogna dirlo. Siamo stati tutelati, nel quartiere ci sono: in ogni lotto c’era la scuola materna, per cui i genitori senza prendere la macchina e fare km scendevano a piedi e accompagnavano i bambini a scuola e si è rivelata preziosa; abbiamo avuto scuole medie e elementari, il liceo classico, il liceo scientifico e un istituto per ragioneria. Mi diceva di avere una famiglia “Plautina”, tutti avete frequentato il Liceo Plauto. Se dovesse fare un confronto tra la sua esperienza e quella dei suoi figli? Non si può neanche fare il paragone, sono situazioni completamente diverse. L’esperienza dei miei figli è stata molto più completa, più ricca. Loro hanno frequentato il Liceo Plauto a fine anni ‘90, quando ormai l’Istituto era collaudato. Il prof. Comparelli si è impegnato molto negli anni a rilanciare il Liceo. I professori erano di ruolo. Sicuramente una situazione nettamente migliore, intanto hanno studiato molto. Purtroppo noi, invece, nel ‘70 abbiamo studiato poco, già fare lezione tutti insieme nella stessa aula era limitativo, con prof che andavano e venivano, durante anni di fermento e di contestazione, con troppe distrazioni esterne e tante manifestazioni. I miei figli hanno studiato tantissimo, hanno poi proseguito gli studi con successo, e soprattutto, hanno svolto tante attività complementari che la scuola offriva nell’offerta formativa e scoperto tante attitudini, inclinazioni, che in una scuola di antico stampo non avrebbero potuto scoprire sicuramente. Sono molto contento del percorso che hanno svolto al Plauto e del fatto che l’abbiano scelto liberamente, non sono stati condizionati in alcun modo. Quale fu l’impatto della struttura scolastica sul quartiere? L’assetto urbanistico colpì molto e fu accolto bene, ma eravamo delusi dal fatto che non ci fu un riscontro completo per noi che, come abbiamo detto, badavamo sempre ai contenuti, oggi è diverso. Forse non abbiamo dato nemmeno il giusto risalto all’urbanistica, che sicuramente ha una grande importanza, ma le problematiche che ci interessavano maggiormente erano altre. Cosa ne pensa di queste nuove generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”? Guardando i miei tre figli, i nipoti e gli amici, posso dire che sicuramente hanno molte conoscenze digitali utili per aiutarli a sfruttare le proprie competenze, le proprie attitudini, però certamente viene un po’ sacrificata la relazione umana. In realtà l’uso di questi dispositivi favorisce molto la comunicazione, però non è casuale che in questa era di grande comunicazione regni molto l’incomunicabilità. Comunicare solo attraverso i messaggi, solo con Whatsapp, solo con e-mail, disumanizza un po’ le relazioni. Dobbiamo usarli, ma nel modo giusto, senza farli diventare gli idoli della nostra comunicazione, che non può passare unicamente attraverso questi dispositivi. Mia madre, che era molto acuta e ha avuto tante esperienze, forse esagerando, diceva che non era molto “presente” questa generazione, la definiva poco umana. C’è il rischio di creare una realtà esclusivamente virtuale e invece abbiamo bisogno di comunicazione umana, dobbiamo tornare ad essere umani. Io ho tre figli, tutti usano molto questi strumenti. Silvia ha iniziato l’attività di filmmaker quando il Plauto lanciò l’iniziativa di ricordare Marta Russo, la ragazza uccisa alla Sapienza, attraverso la realizzazione di audiovisivi e filmati. La sua passione è nata così: lei realizzò un cortometraggio e i genitori di Marta Russo, che facevano parte della giuria, la premiarono. Mia figlia ha poi coltivato questa passione fino a farla diventare la sua professione, adesso lavora nel campo delle fiction televisive e cinematografiche. Anche mio figlio ha avuto modo di sviluppare le sue attitudini artistiche qui al Plauto, perché faceva il tecnico durante le rappresentazioni dell’Istituto e adesso è un fonico di professione e lavora con il digitale. La prima figlia è un soprano e regista teatrale, ha preso diverse lauree, anche se vive soprattutto di ripetizioni di latino e greco, questo grazie allo studio serio fatto in questo liceo. Ha avuto degli insegnanti molto validi e lo ha dimostrato sul campo. Praticamente ho tre figli artisti che hanno sviluppato qui queste loro doti, hanno confermato la validità degli studi e questo ci tengo a dirlo perché questo liceo, se pur di periferia, si è fatto onore nel tempo. 9
I miei figli hanno avuto modo di ampliare gli orizzonti della cultura, che non ha i limiti delle singole materie tradizionali e specifiche. Qual è il suo ricordo più bello del Liceo Plauto? Ce ne sono tanti. Il ricordo più bello è stato quello di aver conosciuto mia moglie. È stato anche molto casuale. In quel periodo le assemblee erano molto frequenti e un giorno dovevamo trasferirci dalle aule all’aula magna, allora io le ho detto: “ci spostiamo”, lei ha capito “ci sposiamo”. È stato un equivoco linguistico, ma poi ci siamo sposati davvero e ci siamo sposati davvero e dopo 50 anni stiamo ancora insieme. Sicuramente il ricordo migliore è questo, è il caso di dire: abbiamo portato a casa un risultato! Ricordo poi gli amici, le partite di pallone tra classico e scientifico, le assemblee studentesche molto affollate. Un altro bel ricordo è il rapporto con il prof. Comparelli, che poi è continuato: la presenza dei miei figli in questo liceo mi ha dato la possibilità di continuare ad avere rapporti con la scuola, sono diventato il presidente del consiglio di istituto, coronando una sorta di carriera per questo mio desiderio di partecipare sempre vivo, in modo critico, senza esagerare. Come diceva Gaber: “libertà è partecipazione”. I ricordi sono tanti, il Plauto ci ha dato l’opportunità di essere un po’ noi stessi con il giornalino, con le esperienze, con il confronto, con le discussioni, ci ha dato modo di comunicare, di esprimerci e di confrontarci. Forse avremmo dovuto discutere meno e studiare di più, ma era una situazione particolare. Alla fine, però, è andata bene anche lavorativamente, sono stato funzionario della presidenza del consiglio dei ministri, quindi non mi lamento. Ho ricevuto una formazione che mi ha consentito di superare i concorsi, di svolgere un lavoro anche impegnativo e non considero scontato il fatto di essere arrivato alla pensione, di avere una bella famiglia, un legame ancora solido con mia moglie e tre figli, che considero preziosi. Ecco, loro meriterebbero di più per il tanto impegno profuso nello studio e nel lavoro, si vede che appartengono ad una generazione precaria, purtroppo. La mia generazione è stata più fortunata. Oggi è tutto complicato, infatti i figli ci rimproverano di non capirli perché abbiamo avuto una vita “troppo facile”, ma erano i tempi diversi dell’età dell’oro. Noi avevamo la strada spianata, loro la stanno costruendo faticosamente, sono molto precari nel lavoro e tutto questo si traduce anche nella precarietà degli affetti. Un caloroso grazie ad Abramo Maione per la partecipazione ancora attiva. La Redazione 10
“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” (Khalil Gibran) 2020 Pagina di un diario condiviso di Giulia Di Maggio Un anno di cui si potrebbe parlare all’infinito. È cominciato ricco di buoni propositi, successivamente andati in fumo e svaniti nel nulla, insieme a gran parte della nostra libertà. Ci siamo trovati “rinchiusi” a casa per uno strano virus del quale forse sappiamo ancora poco o niente: Covid-19, o più comunemente chiamato Coronavirus. È iniziato tutto il 1° dicembre 2019 con i primi casi riscontrati tra i lavoratori del mercato umido di Wuhan, in Cina. Nelle prime settimane di Gennaio 2020 gli scienziati hanno individuato in questi soggetti strane polmoniti causate da un nuovo nemico. All’inizio di marzo c’è stata la prima chiusura delle scuole in Lombardia. Noi ragazzi abbiamo sottovalutato il problema, tanto da desiderare la chiusura quasi come fosse una vacanza. Prima chiusura: 15 giorni. I casi aumentano, anche i ragazzi del sud e del centro vengono inseriti in un programma chiamato DAD, questo strano termine per indicare la “didattica a distanza”, iniziata come un gioco, presa poi molto più seriamente, anche La voce dello sguardo, merys.art perché i 15 giorni di chiusura sono diventati un mese… e poi mesi. È la sera del 9 marzo 2020: adulti e bambini sono incollati al televisore per il tanto atteso DPCM, il decreto parlamentare del consiglio dei ministri, perché, ormai stanchi di stare a casa, attendono con ansia la libertà e la data del rientro a scuola, ma solo cattive notizie. Inizia il primo ed interminabile lockdown: negozi e centri commerciali chiusi, scuole chiuse, parchi chiusi, regioni chiuse … tutto chiuso. Per noi ragazzi sono finite tutte le abitudini: uscire con gli amici, abbracciarsi, baciarsi e condividere l’ultimo pezzo di panino preso al bar della scuola. Tutto è finito. Le lezioni a distanza sono così diventate un obbligo, ma anche l’unico motivo valido per svegliarsi e non rimanere a letto, pensando alla mancata libertà e rimpiangendo il nostro tutto: l’ultimo abbraccio all’amica, l’ultimo allenamento e l’ultima partita giocata in campo, l’ultima uscita con gli amici, l’ultima litigata con il 11
compagno di banco per avere più spazio, l’ultima risata guardando un film in classe appoggiati all’amico che funge da divano, l’ultima interrogazione con l’ansia vera, quella di avere i compagni e i professori che ti puntano gli occhi addosso, l’ultimo cambio dell’ora, quei pochi minuti per scattare foto e selfie mentre qualcuno controlla se sta arrivando il/la Prof, la sensazione “liberatoria” dell’ultima campanella, ma soprattutto… l’ultima uscita senza mascherina, quell’orribile protezione che copre i sorrisi e lascia solo all’immaginazione la possibilità di vederli. Nel pieno di una pandemia mondiale, abbiamo scoperto nuove emozioni e ci siamo abituati un po’ forzatamente ad accettarle, abbiamo sofferto per diversi motivi. È veramente difficile trovare almeno un vero aspetto positivo in questa situazione, ma sono sicura che c’è, deve esserci! Bisogna solo cercarlo ovunque e, prima o poi si troverà. Un aspetto positivo può essere quello di aver trascorso più tempo con i nostri familiari, un tempo diverso dal solito, che forse ha contribuito a farci conoscere più a fondo. O forse il possibile vero lato positivo di questo momento è che abbiamo capito (?) di doverci godere ogni singolo istante della vita, perché è prezioso e perché da un momento all’altro possiamo ritrovarci senza niente o, addirittura, senza qualcuno… si, perché molti (familiari, amici o semplicemente conoscenti) sono venuti a mancare. A Maggio abbiamo pensato di aver riconquistato la libertà: tornare a passeggiare, correre, vedere gli amici (anche se con un distanziamento di almeno un metro e le mascherine sul viso) sono state piccole, ma grandi conquiste necessarie dopo un periodo così particolare e difficile. Con l’estate e la continua diminuzione dei casi positivi abbiamo creduto di aver ripreso in mano la nostra vita, potendo addirittura tornare tra i banchi di scuola a Settembre. È stato difficile, non si può negare, ma svegliarsi sentendo di aver un vero motivo per farlo è stato meraviglioso, siamo stati felici di tornare a scuola e guardare negli occhi il compagno di banco, anche se a un metro di distanza. La classe è diventata per noi un banco “unico”: siamo uniti, anche se distanti! È iniziato così l’anno scolastico e anche le risatine con il proprio “vicino”, le foto (anche se da lontano), la conoscenza di nuovi compagni di classe, il commento sulla prof, l’ansia per l’interrogazione. Un tentativo di tornare alla realtà della nostra quotidianità che, purtroppo, si è nuovamente interrotto con un’ulteriore chiusura delle scuole superiori per ripiombare in emozioni che abbiamo sperato di non provare mai più: il sentirsi bloccati; il sentimento di non aver dato abbastanza e non essersi goduto tutto; la solitudine stando a casa da soli o, per i più fortunati, in compagnia del proprio animale domestico, mentre i genitori sono a lavoro e i fratellini più piccoli e più “fortunati” sono a scuola; la tristezza per tutto; la paura di non poter tornare mai più alla normalità, di non tornare ad abbracciarsi, di non poter rivedere i propri nonni o i parenti lontani. Adesso siamo qui, ad aspettare il nuovo anno sperando sia migliore di questo… intanto proviamo a goderci le lucine appese ai balconi e gli addobbi, lo scambio dei regali (anche se lasciati dietro la porta per non contagiarsi), preparando biscotti e torte per festeggiare quello che dovrebbe essere il periodo più bello e felice dell’anno, quello che si dovrebbe trascorrere seduti a tavoli lunghissimi con tutti i parenti e anche il vicino se è solo. So che in qualche modo supereremo anche questo e riusciremo a provare un po’ di felicità aspettando la mezzanotte del 31 dicembre per esprimere il desiderio che sarà unico e di tutti in qualunque parte del mondo: tornare alla vita e alla “normalità”. 12
DIDATTICA A SCOPO DI LUCRO (?) -Se ti sembra di non star pagando un prodotto allora il prodotto sei tu- The social dilemma, Netflix di Diego Reynoso Ormai è risaputo come la pandemia globale che stiamo vivendo abbia messo sotto scacco la società e con essa anche l'economia e le istituzioni della nostra nazione. Uno dei settori maggiormente colpiti è stato proprio quello dell'istruzione, di cui è stata messa a nudo tutta la disorganizzazione e la significativa insufficienza di fondi, basti pensare che le spese destinate alla scuola da parte dell'Italia sono circa il 3,8 per cento del PIL e il 7,9 per cento della spesa pubblica totale (Fonte: Eurostat, COFOG). 17 novembre, Rete degli studenti medi a piazza Montecitorio per “insegnare” ai parlamentari del nostro paese come, attraverso il Next Generation EU e la legge di Bilancio, si investono i soldi sulla scuola. Le carenze della scuola italiana, però, si sono palesate anche sulla DAD (Didattica a Distanza) che si è subito rivelata spesso un sistema di insegnamento fallimentare e confusionario, tendente ad alimentare il profitto di poche e grandi aziende. La didattica online, infatti, si appoggia su aziende private (Google, Microsoft e TIM) e, nonostante i servizi siano gratuiti, queste hanno dichiaratamente scopi di lucro. La scelta del Miur di affidarsi ai “grandi” della tecnologia è dovuta alla confusione iniziale, causata dal primo lockdown e dalle funzioni che queste grandi aziende potevano garantire. Questa soluzione segna una grande sconfitta per la scuola pubblica e libera, poiché sta arrivando gradualmente nelle mani di privati che, in quanto tali, possono stabilire condizioni d'uso dei software o dei siti e avere libero accesso ai nostri dati personali; volendo andare nello specifico si potrebbe dire che Google abbia basato una parte enorme del suo profitto su un algoritmo dedito ad apprendere i dati degli utenti per indagare sulle preferenze e le abitudini di ognuno, in modo da “inquadrare” gli individui e veicolare l’invio di annunci e/o pubblicità più funzionali. Infine, per evitare che la scuola vada in mano ai privati e che questi possano lucrare sugli studenti, la DAD dovrebbe essere svolta su piattaforme open source (letteralmente “sorgente aperta”, in informatica: software non protetto da copyright e liberamente modificabile dagli utenti) che, essendo libere, sarebbero più sicure per la privacy e potrebbero essere gestite e modificate direttamente dalle scuole, secondo le esigenze di alunni e docenti. 13
Stop alla violenza 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne di Nicole Cavallini Il 25 novembre è una data molto importante dedicata ad un tema purtroppo ancora attuale e che si pone spesso al centro del dibattito pubblico. Azioni di violenza contro le donne rappresentano un fenomeno che ormai si ripete troppo spesso: maltrattate, picchiate, molestate, uccise, umiliate, sminuite, donne che non hanno un valore in una relazione sentimentale, alle quali viene negato il diritto di parola e di espressione, donne uccise solo per aver affermato la propria libertà. Se ognuno provasse a riflettere sulla parola “violenza” quale immagine focalizzerebbe la mente? Forse l’immagine di un oggetto che rappresenta la violenza sul piano personale della propria esperienza, ma sarebbe troppo facile. Potremmo rappresentarla con un sinonimo? Con la rabbia? La frustrazione? La solitudine? Con tutte queste parole? In che modo è possibile descrivere la violenza? Com’è possibile rappresentare le mostruosità subite ogni giorno da alcune donne? Ma si può davvero descrivere e definire la violenza? Senza averla vissuta personalmente, potremmo mai arrivare al punto di definirla? Cosa sente davvero una donna dentro di sé quando viene umiliata? Cosa prova una ragazza stuprata e picchiata? Potremmo mai esprimerlo? Potremmo capire fino in fondo la sua paura di affrontare ogni relazione umana dopo un’esperienza del genere? Siamo in grado di immedesimarci del tutto in una persona che subisce determinate violenze? Tutti, o quasi, a queste domande possiamo rispondere solo con una parola: NO. Nel 2011 una ragazza di 27 anni, Valentina Pitzalis, è stata cosparsa di benzina e data alle fiamme dall’uomo che diceva di amarla. Valentina si svegliò nel letto di un ospedale, con il volto completamente sfigurato, con una mano amputata e l’altra gravemente danneggiata. Purtroppo, si sente parlare spesso di casi del genere. Sappiamo dai notiziari che ogni tre giorni una donna viene uccisa, e ogni quindici minuti avviene una violenza. Deleteria tanto quanto quella fisica, la violenza può esser anche psicologica. Perché una donna dovrebbe sentirsi inferiore, dipendere dal giudizio di qualcuno o avere il permesso di un uomo? Centinaia di associazioni ogni giorno lavorano affinché tutto questo termini al più presto, affinché una donna si senta libera di decidere da sola come comportarsi, come porsi, come affrontare qualsiasi situazione ogni giorno della sua vita. Essere donna, nella totalità della propria bellezza, ha sempre avuto i suoi evidenti limiti imposti dalla società. Va compreso che la donna deve essere rispettata e che un amore violento non potrà mai definirsi tale, ma una malattia che va denunciata! Ricordiamo che questi diritti vengono esposti e trattati in questa giornata, ma dovrebbero essere rispettati anche tutti i giorni dell’anno! “Per tutte le violenze consumate su di Lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi Signori, davanti ad una Donna!” (William Shakespeare) 14
“Il compito dell’Arte è svelare la relazione tra uomo e ambiente.” (D. H. Lawrence) L’Arte continua a vivere Un percorso-mostra di Arte Contemporanea a Villa Borghese nella ricerca di un’armonia vitale La Redazione (a cura di Giuliana Iannotti) L’Arte è viva, anche se i musei e le gallerie sono chiuse. Lo dimostrano le iniziative sul web per rendere fruibili le opere, pur se virtualmente, e mostre come quella ospitata da Villa Borghese dal 15 settembre al 13 dicembre: “Back to Nature”, un progetto espositivo curato da Costantino D’Orazio con artisti di rilievo internazionale come Andreco, Mario Merz, Mimmo Paladino, Benedetto Pietromarchi, Davide Rivalta, Grazia Toderi, Edoardo Tresoldi, Nico Vascellari. Le installazioni di Arte Contemporanea sono state poeticamente immerse nella natura del parco in un dialogo tra il segno contemporaneo, le architetture e gli elementi naturali, ma anche il segno della vita che continua, che non si ferma nel nome della bellezza e dei valori, nella ricerca di un’armonia vitale. La natura diventa scenario di un percorso concettuale che riesce a colpire tutti i sensi, visibile da ogni visitatore del parco. Questa mostra è un invito a superare le soglie della percezione, per trovare “altro”, per entrare nell’evento, perché ogni volta che guardiamo non lo facciamo solo con gli occhi, ma con tutto ciò che siamo e sentiamo e con tutto ciò che è la nostra cultura. Andreco è un artista, un ingegnere e un viaggiatore. La sua opera Drops, è composta da 5 sculture nate dalla riflessione sull’intreccio tra la morfologia delle gocce d’acqua e le forme geometriche dei Giardini Segreti della Galleria. L’installazione, allestita presso la “Prospettiva del Teatro” (un ampio cortile semicircolare nel Parco dei Daini) è un rapporto tra pieni e vuoti, un insieme di segni nello spazio che offrono la trasparenza, elemento in comune con altre opere esposte. Queste forme filtrano la realtà ed il paesaggio, come a voler condurre lo spettatore all’essenza delle cose e della vita stessa. Drops, Andreco 15
Il Parco dei Daini ospita anche Mario Merz e il suo Igloo di Oporto, un’opera davvero suggestiva. Per l’artista l’igloo è un tema ricorrente, che simboleggia la forma abitativa essenziale, ogni volta proposto in modo originale e con una chiave di lettura sempre diversa e ricca di significati. Sulla cima un cervo sovrasta la struttura ridotta all’essenziale. Sul fianco dell’animale è posta una scritta luminosa che indica un numero,10946, tratto dalla serie numerica progressiva elaborata dal matematico Leonardo Fibonacci nel XII secolo, sistema che regola la crescita e l’evoluzione degli elementi naturali, una successione che riesce ad unire in modo immediato e visibile la matematica alla biologia, all’arte e alla bellezza. La possiamo vedere ovunque in natura: è il modo che i vegetali hanno di crescere organizzandosi nella maniera Igloo di Oporto, Mario Merz. più efficiente. L’installazione sembra una visione magica, un fermo immagine, una scena in grado di dialogare con l’ambiente circostante, ma pure di creare suspense e silenzio intorno a sé. L’artista sembra voler restituire il mondo e le sue leggi attraverso un rebus. L’artista beneventano Mimmo Paladino ha realizzato un’opera per l’occasione. Nella realizzazione delle sue dieci bandiere si è ispirato alle sculture che in passato ornavano viali e siepi di Villa Borghese. Il Cardinal Scipione Borghese possedeva una collezione archeologica, che oggi è in parte custodita nel Museo Pietro Canonica: statue di divinità antiche, ritratti di imperatori, tritoni e ninfe. Paladino con il suo stile unico e inconfondibile si è ispirato all’arte antica così come agli elementi naturali per creare immagini in cui ridisegna il passato con raffinata vivacità, accostandolo alle sue caratteristiche figure totemiche, ai propri segni e simboli per approdare ad un nuovo regime dell’immaginario contemporaneo. Senza titolo- Bandiere (2020), particolare, Mimmo Paladino. Nell’ambito di Back to Nature è stata allestita una mostra dell’artista Benedetto Pietromarchi al Museo Carlo Bilotti, curata da Paolo Falcone. L’artista indaga sul rapporto tra natura e artificio attraverso disegni e sculture. Quello che colpisce è la realizzazione di tre enormi installazioni con delle radici capovolte: un ulivo, una quercia e un cipresso, alberi che hanno tutti un valore fortemente simbolico. Sul legno delle radici, quindi sull’elemento naturale, l’artista pone dei fiori artificiali in piombo e setola creati da lui. La Bufala di Davide Rivalta è stata realizzata con la stessa tecnica dei meravigliosi leoni posti sulla scalinata della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e all’interno del Cortile d’Onore di Palazzo del Quirinale. Rivalta usa il metodo della cera persa, un’antica tecnica del secondo millennio a. C., portando lo spettatore a riflettere su quali siano i cambiamenti dovuti al fattore tempo e sulle leggi che, invece, rimangono costanti. Le sculture di Rivalta sono il mistero di una voce fuoricampo, il sentimento della mutazione che impaurisce e commuove, così come l’immutabilità. Nella Loggia dei Vini, luogo di feste e banchetti progettato da Flaminio Ponzio, è stata allestita un’opera di Grazia Toderi. La struttura della loggia è ovale, forma simbolica che si presta perfettamente ad accogliere la 16
videoinstallazione, composta da cinque ellissi in movimento che disegnano all’interno del sito una mappa celeste. Un’installazione che vuole portarci oltre il corpo per scoprire lo spirituale, induce lo spettatore quasi a misurarsi con la materia, come se l’artificio fosse l’esistenza. Etherea è l’opera di Edoardo Tresoldi, un’installazione fortemente suggestiva ed evocativa. Un’architettura trasparente che si fonde con la natura, l’atmosfera, il cielo e anche con lo spettatore, perché è “abitabile” e alta 11 m circa. La trama e la trasparenza della rete metallica usata dall’artista crea una nuova dimensione: arte, terra, cielo e natura si confondono. Si annulla il confine e il limite degli elementi, quello che vediamo sembra un dipinto, un’apparizione da attraversare prima che svanisca, quasi un ologramma se ammirato con le luci della sera. Nico Vascellari ha proposto un video realizzato nel Nord dell’Italia e proiettato in questa occasione alla “Casa del Cinema”. L’opera mostra la sua caratteristica di mettere in scena contesti spettacolari: in Vitriol l’artista è protagonista di una performance stravagante, sorvola il paesaggio italiano sospeso da un elicottero, dormiente (dopo un’iniezione di liquido soporifero nel sangue), viene trasportato tra le nuvole e indaga i limiti della resistenza umana. Si ha il senso di percepire l’infinito, l’artista sembra voler fare un atto di coraggio e non avere paura nel suo abbandono fisico e mentale all’atmosfera Etherea, Tresoldi. e alla natura. L’Accademia Aracne (che prende il nome dall’omonimo mito) è un’associazione di sole donne che hanno tessuto la propria opera su quattro alberi del Parco dei Daini, rivestendoli con dei lavori a maglia che li trasformano in sculture colorate, una tecnica che si chiama Yarn Bombing. Tessere è un lavoro meticoloso, un’arte che qui intreccia passione e natura, in una trama dal forte impatto visivo. In questo processo artistico il filo informe della lana grezza acquista un ordine e una struttura, così come il pensiero diventa una forma e si trasforma in arte. Andrea Mauti dell’Accademia di Roma ha realizzato “Wing project”: delle grandi ali variopinte che permettono allo spettatore di far parte dell’opera e di immortalare con un selfie la propria “trasformazione”. Quest’opera è l’esempio di come l’arte sia lo specchio della società e di come continui a vivere grazie agli spettatori. Non esiste tempo per l’Arte, come afferma Sgarbi: “Ogni opera d’arte è, e basta, così come la bellezza è”. 17
Riflessioni su una mostra del momento La Redazione (a cura di Susanna Mastrofini) Siete degli appassionati d'arte e non riuscite proprio a stare senza entrare in un museo almeno una volta al mese? E allora questa mostra fa davvero al caso vostro! Già, perché nonostante la chiusura dei musei, la mostra è aperta. Sì, avete capito bene. E non si tratta di un’infrazione alla norma legislativa, bensì di un’iniziativa molto originale e coraggiosa della Galleria Nazionale in Palazzo Barberini. L’edificio, costruito nel corso del XVI secolo e divenuto in seguito residenza di una delle famiglie più importanti della Roma del Seicento, i Barberini, ospita una collezione strepitosa. Non ci siete mai stati? Beh, un vero peccato! Appena si potrà uscire di nuovo in sicurezza, vi consiglio vivamente di visitarlo. Troverete opere sorprendenti e famose, come la Fornarina di Raffaello, l’Annunciazione di Filippo Lippi, Giuditta e Oloferne di Caravaggio, soffitti affrescati, i busti ritratto di Bernini, una scala monumentale a elica di Borromini e, addirittura, un appartamento in stile rococò per la cui visita dovete prenotarvi in biglietteria. In questi mesi così difficili per tutti, ma in particolare per alcuni settori lavorativi, il mondo della cultura è stato molto svantaggiato. Le istituzioni museali hanno, però, colto l’opportunità di utilizzare queste chiusure al pubblico per attuare lavori di restauro, di riqualificazione, di ricerca e… per allestire mostre! La vostra domanda già me la immagino: “ma chi le vede le mostre, se i musei sono chiusi?”. "E internet, allora, a che serve?" Così vi risponderei. E infatti, se andate sul sito ufficiale della Galleria, trovate non solo la collezione online, con foto e informazioni storico-artistiche della collezione e del palazzo, ma anche una sezione dedicata alla nuova mostra, con una bella presentazione, il dossier e un video in cui il curatore, Michele Di Monte, ci accompagna tra gli spazi e le opere scelte. L'esposizione si intitola “L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano” e si sofferma a indagare quel particolare rapporto che si stabilisce tra opera e spettatore, soprattutto nel periodo dal Cinquecento al Settecento. Quando ci si trova di fronte ad un qualunque oggetto d’arte, infatti, non si è mai osservatori passivi, distaccati o indifferenti, bensì ci si sente coinvolti dall’immagine che ci si trova di fronte. D’altronde, l’arte suscita sempre delle reazioni, delle emozioni e delle riflessioni. Di apprezzamento, di sorpresa, di perplessità, di curiosità o di rifiuto totale. Ci fa mettere in gioco, dunque, ci coinvolge e provoca in noi un processo introspettivo. Magari a volte non ce ne accorgiamo, ma l'immagine ci comunica qualcosa tanto quanto un testo o un insieme di suoni. L'occhio, lo sguardo, deve essere guidato per poter scovare e svelare quel che a prima vista appare nascosto. Solo in questo modo possiamo entrare in relazione con chi, o cosa, è rappresentato, in un vero e proprio dialogo tra chi guarda e chi è guardato. Spesso questo rapporto si ammanta di ambiguità, in un gioco delle parti sorprendente e che suscita ulteriori “riflessioni”. E così, in mostra troviamo opere che raffigurano personaggi che si rivolgono direttamente a noi, come la Ragazza in una cornice di Rembrandt, che sembra aspettarci. Oppure capita che, come ne La buona ventura di Simon Vouet, siamo quasi chiamati a prendere una posizione all’interno dell’episodio raffigurato. O, ancora, sono i personaggi raffigurati a sentirsi osservati da noi che, con il nostro sguardo indiscreto, ci manifestiamo in tutta la nostra curiosità e invadenza, come in Davanti al cavalletto di Jacob van Oost. Degno di nota è anche l'allestimento della mostra, che ha l'arduo compito di conservare l'opera, valorizzandola e rendendola più comprensibile. Qui una serie di specchi accompagna il visitatore lungo il percorso articolato in cinque sezioni, come a voler giocare ancora di più sull’ambiguità degli sguardi e a sollecitare la riflessione dell’arte sull’arte, sulla visione e su quando siamo o non siamo spettatori della realtà che ci circonda. 18
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