Comunicazione 2020 - Smart Marketing

Pagina creata da Vittoria Lombardo
 
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Comunicazione 2020 - Smart Marketing
La Copertina d’Artista - Tutto è
comunicazione 2020
Una donna ci fissa diritto negli occhi, ha un megafono e delle strane extension applicate ai capelli,
sicuramente è una manifestante, impegnata in una delle innumerevoli proteste esplose in questa
fase post lockdown da coronavirus.

È strano, ma il megafono copre la sua bocca e parte del suo naso e, in un periodo di distanziamento
sociale e dispositivi di protezione individuale, come quello che viviamo, quest’immagine non può non
ricordarci che anche le mascherine coprono la stessa porzione di viso. Quindi, questa “anonima
manifestante”, che potrebbe essere chiunque, e protestare per qualunque cosa, in una maniera
sibillina e curiosa ci immerge nell’attualità più stringente.
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Credo che questa voglia di celare l’identità della protagonista dell’opera sia stata una scelta non
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casuale da parte dell’artista. Gli occhi di questa manifestante ci fissano, ci scrutano, quasi ci sfidano,
eppure noi non possiamo distogliere lo sguardo, siamo calamitati, catturati, forsanche sedotti ed
inquietati da questa donna che ci trafigge con i suoi occhi e che sembrano scavare nella nostra più
recondita intimità.

Fra tutte le domande che si affollano nella nostra testa, una prende il sopravvento su tutte le altre,
ed è: “quale sarà mai la protesta a cui prende parte questa manifestante?”.

Incuriositi e smaniosi di scoprirlo, ci concentriamo sulla scena, che però non ci aiuta più di tanto a
capire la causa per cui si batte questa giovane donna. L’artista, e lo capiamo proprio dallo sfondo, ha
utilizzato la tecnica del collage, ed infatti la scenografia, le strane extention dei capelli, il viso e
addirittura il megafono sono formati da piccole strisce di carta accuratamente selezionate e tagliate
per comporre un meta-racconto, un racconto nel racconto.

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Queste strisce di carta, tagliate così fini da sembrare gli sfilacci di una distruggi documenti come
quelle presenti negli uffici, sono il definitivo colpo di coda che l’artista di questo mese, Paola
Montanaro (classe 1969), ci assesta. Come in una di quelle word-cloud che troviamo nelle immagini
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di Google, l’opera addensa e stratifica altri significati, come nella migliore tradizione Pop, è insieme
immediata e complicata, semplice ma pure complessa, chiara ma anche difficile.

Ma capire la tecnica non ci aiuta ancora a capire la natura della protesta, potrebbe essere una
contro il razzismo, oppure contro l’ennesimo monumento ritenuto politicamente scorretto, od ancora
la protesta di una qualunque di quelle categorie di lavoratori e commercianti ridotte sul lastrico da
più di due mesi circa di chiusura e lockdown?

            Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Forse il titolo può trarci d’impaccio, ed aiutarci a collocare correttamente manifestante, causa e
protesta; l’opera si intitola “Urlo”, e d’un tratto un’illuminazione ci abbaglia, le nostre lezioni di
storia dell’arte durante le scuole superiori ci ricordano lo sconvolgente “Urlo” (o Grido) di Edvard
Munch, il geniale pittore norvegese che nel 1895, sul finire del secolo, dipinse una serie di quadri
dai colori pastosi e tinte fosche che ritraevano un uomo in primo piano che, guardando in faccia lo
spettatore, si contorceva in un urlo di disperazione. Munch dava sfogo alle angosce esistenziali di
fine secolo, tecnologia e scienza galoppavano velocemente, il capitalismo si affermava in tutto il
mondo, il divario fra ricchi e poveri aumentava e all’orizzonte si addensavano le nubi del primo
conflitto mondiale. Insomma, il quadro dell’artista norvegese era un ritratto della condizione
dell’uomo di fronte al progresso ed alla tecnologia ed insieme il presagio di una catastrofe che stava
per arrivare.
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E la nostra artista Paola Montanaro cosa vuole presagire?
Forse che in un mondo iperconnesso e virtualizzato come il nostro, dove abbiamo più informazioni di
quelle che riusciamo ad analizzare, più foto di quelle che riusciremmo mai a guardare e un autentico
surplus di comunicazione, comunque alla fine non riusciamo a dare priorità ed importanza o
quantomeno a scegliere le informazioni corrette, importanti o quanto meno più utili per noi?

Oppure, l’Urlo della nostra artista ci racconta che per fare emergere una protesta, un messaggio, dal
confuso rumore di fondo della comunicazione odierna, abbiamo bisogno necessariamente di un
megafono?

O, infine, che dobbiamo rassegnarci al fatto che i poteri forti hanno compreso che, nel mondo
virtuale e non, la censura non deve più oscurare o rimuovere una giusta causa o un messaggio, ma
basta che lo sommerga, anzi lo affoghi, in una marea indistinta e confusa di altre informazioni
perché, di fatto, non sia più visibile?
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Credo che lo scopo, sotteso a questa bellissima opera, consapevole o inconscio che sia, è quello di
farci capire l’importanza dei concetti di “attenzione” e “concentrazione”, qualità che i neurologi
ci dicono siano drasticamente diminuite negli ultimi 10 anni, passando dai 10 secondi circa a
meno di 5; l’opera densa, stratificata e magnetica della Montanaro ci esorta a fermarci, a riflettere,
a concentraci, e così facendo ci aiuta a districarci ed orientarci nel mondo d’oggi.
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L’arte contemporanea quindi, come mappa e bussola, o se preferite come navigatore, strumento
privilegiato per indicarci il cammino, accompagnare i nostri viaggi, e, perché no, anche le nostre
cause e le nostre proteste. Un tool, uno strumento, quello dell’arte, che spesso dimentichiamo di
utilizzare, ma che può essere quello più importante che abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi,
qualunque sia la nostra professione. La bellezza forse non salverà il mondo, ma di sicuro può aiutarci
a vivere meglio e più “consapevolmente” le nostre vite, e quindi, alla fine, un poco ci salva.

  Paola Montanaro classe 1969, originaria di
  Massafra, ma residente a Lecce, dove vive ed
  opera. Appassionata fin da giovane di disegno e
  fotografia, intraprende studi prettamente
  scientifici che però le forniranno una base
  essenziale ed originale per la sua ricerca artistica.
  All’inizio è la grafica che l’avvicina all’arte, ed un
  materiale che più di tutti caratterizzerà la sua
  cifra stilistica: la carta. Utilizzata dapprima come
  supporto, diverrà in seguito, sminuzzata, tagliata e
  frammentata, materia e mezzo privilegiato per comporre le suo opere artistiche, che vedranno nel
  collage di carta l’approdo definitivo dell’artista.

  Composizioni meticce sospese fra grafic art, illustrazione e pop art, i lavori della sua ultima
  produzione si concentrano sulle tematiche sociali, politiche e dell’attualità che diventano, in virtù
  della tecnica usata, vere meta-opere, con un significato palese ed uno, o molti, nascosti nelle
  scritte delle strisce di carta che l’artista ritaglia dalle riviste. Una sfida posta alla nostra capacità
  di fermarci, concentrarci e scoprire tutti i significati dell’opera.

  Per informazioni e per contattare l’artista Paola Montanaro: paolamontanaroart@gmail.com –
  www.paolamontanaro.com – Instagram: paolacollageart

Ultime mostre

2019

ARTE MUSA, 1ª edizione Concorso Letterario Germinazioni Arte – Scrivi un quadro d’autore, Lecce;

2018

I Collage di carta, in collaborazione con GeoArk // Arte e Arredo e Antonio Palma ph;

Lecce Bene Comune Incontro di lettura de #ilpaneelerose “Per raccontare la realtà con le
immagini” – “Dall’autoritratto alle foto di una irrecuperabile ribelle”;

Collettiva a tema libero in occasione dell’inaugurazione della nuova sede di Labirinti Artistici,
Lecce;

2017

Lecce Fashion Night, Partecipazione, con Madmood, alla serata targata “Confindustria Lecce
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Fashion Night”;

MUST Museo Storico della città di Lecce – Esposizione di un’opera, omaggio al fotografo Steve
McCurry, in occasione della serata inaugurale della mostra fotografica e incontri a tema, a cura
della Pro Loco di Lecce;

Itinerari Rosa Pro Loco in Puglia tra cielo e… mare, Open Space Palazzo Carafa, Lecce.

Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi
alla selezione della sesta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed
inviando un portfolio alla nostra redazione: redazione@smarknews.it

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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Tutto è comunicazione - L’editoriale di
Raffaello Castellano
Comunicazione 2020 - Smart Marketing
Dove eravamo rimasti???

Gli ultimi 4 mesi hanno visto l’Italia ed il Mondo intero sprofondare nell’incubo della pandemia da
SARS-CoV-2 che tra le altre cose ha monopolizzato e verticalizzato totalmente la comunicazione e
l’informazione. Ne è un esempio anche questo magazine, che, a partire dal numero di febbraio
“Virale” fino al numero di maggio “Upgrade”, ha dipanato un racconto del quotidiano che si è
concentrato interamente sulle problematiche, ma pure le opportunità che un cambio di paradigma
così radicale come una pandemia virale porta insite in sé.

L’agenda politica, sociale, economica e culturale ha visto l’adozione di un lessico nuovo, di nuovi
linguaggi e soprattutto di nuovi comunicatori.

Le parole nuove le conosciamo bene, sono: quarantena, lockdown, coronavirus, Covid-19,
emergenza sanitaria, zona rossa, contagio, infetti, terapia intensiva, etc..

Il linguaggio nuovo è stato quello dei bollettini della Protezione Civile, delle Conferenze
Stampa del Governo a tarda notte, delle dirette Facebook, delle stanze di Zoom, delle
videochat di Skipe, degli innumerevoli webinar, videoconferenze e corsi online che si sono
susseguiti senza soluzione di continuità.

I nuovi comunicatori sono stati un po’ a sorpresa gli scienziati, soprattutto epidemiologi, virologi,
biologi, medici, veterinari, esperti di statistica e giornalisti scientifici, che hanno spopolato su tutti i
media, soprattutto la televisione, che è passata con “estrema” naturalezza da prime serate animate
da Panzironi e il Mago Otelma direttamente a virologi di fama come Ilaria Capua e Roberto
Burioni.
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o Burioni e Ilaria Capua

Insomma, la scienza, quella ufficiale e rigorosa, ha goduto di uno spazio e di un’attenzione mai viste
prima. Vuoi per paura, vuoi per disperazione, tutti noi, all’inizio della pandemia, perfino
terrapiattisti, no-vacs e complottisti vari, ci siamo rivolti alla scienza per avere una qualche
indicazione, una parola di speranza, un conforto, un’informazione sicura.

Ma tutto questo è durato poco, sono stati diversi i fattori che ci hanno piano piano allontanato dalla
scienza. Due su tutti, secondo chi scrive, i motivi principali: da una parte la diffusa ignoranza del
pubblico generalista sul funzionamento del metodo scientifico, e dall’altro gli scienziati stessi, che,
ubriacati dall’attenzione mediatica e abbagliati dalla luce dei riflettori, hanno per la maggior parte
sprecato questa occasione d’oro che il virus gli aveva offerto.

Ma analizziamo più approfonditamente entrambi i motivi.
Per quale motivo l’ignoranza su come funziona la scienza ha portato lentamente ma inesorabilmente
le persone a disaffezionarsi agli scienziati?

La scienza, al contrario di quello che pensa la gente comune, non fornisce certezze, ma anzi va
avanti per tentativi ed errori, teorie e confutazioni, successi e fallimenti. Fra i postulati
fondamentali del metodo scientifico ci sono: che una teoria possa essere falsificata, che un
esperimento possa essere replicato da un altro gruppo di scienziati, che un articolo
scientifico, prima della pubblicazione, debba essere validato da una comunità di pari.
Quindi la scienza, nelle migliori condizioni, propone teorie, ipotesi e studi che hanno una funzione
pratica, temporanea e possibile di verifiche future. Spingendo più in là il nostro ragionamento,
potremmo dire che se qualcuno propone una certezza inconfutabile, assoluta ed immutabile,
possiamo stare certi che non si tratta di scienza, ma di qualcos’altro.
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Quindi, alla luce del funzionamento del metodo scientifico, abbiamo capito che chiedere certezze alla
scienza è non solo sbagliato ma addirittura bizzarro, perché la scienza non è un dogma immutabile,
ma un processo dinamico ed in continua evoluzione.

Ma veniamo al secondo motivo: è indubbio che la maggior parte degli scienziati passati per la radio,
le dirette web e soprattutto la TV, abbiano peccato di narcisismo, finendo molto spesso per litigare
fra loro, urlando e contribuendo alla confusione e disaffezione del pubblico, che invece era alla
ricerca di rassicurazioni e di qualche parola di speranza. La colpa di questo purtroppo risiede nella
natura degli esseri umani, che, posti sotto i riflettori e la ribalta mediatica, spesso perdono la
bussola e dimenticano il loro ruolo. A discolpa della categoria si potrebbe addurre il fatto che,
ignorati per anni, mai ascoltati, sottopagati e frustrati, gli scienziati si siano fatti prendere la mano e
non abbiano saputo gestire un processo comunicativo così ampio, articolato e complesso come quello
mediatico, nel quale non ci si rivolge a pochi ricercatori sparsi per il mondo, che in definitiva parlano
la stessa lingua, ma ad un pubblico generalista, a digiuno di sapere scientifico e bisognoso di un
linguaggio più divulgativo, piano e chiaro.

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      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.
Ma, come ho ribadito all’inizio di questo editoriale, una cosa è l’informazione, altra cosa è la
comunicazione, saper divulgare è una capacità che bisogna saper imparare, coltivare ed esercitare,
e gli esempi di semplificazione e potabilizzazione di termini e discipline complesse abbondano.
Pensiamo al lavoro di divulgatori scientifici come Piero ed Alberto Angela, Mario Tozzi, Luca
Mercalli, di quelli storici come Alessandro Barbero o Paolo Mieli, o di quelli economici come
Carlo Cottarelli o Francesco Specchia, quest’ultimo fautore di un comunicazione economica non
solo divulgativa, ma addirittura pop, come il fortunato esperimento del canale multipiattaforma
POP Economy dimostra.

Ed è proprio il giornalista e direttore di POP Economy, Francesco Specchia, che abbiamo
intervistato sul tema di “tutto è comunicazione” e che ci ha aiutato ad orientarci meglio in questo
particolare periodo storico, congestionato ed intasato di parole, informazioni contraddittorie,
dichiarazioni politiche e fake news.

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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Prima di concludere, permettetemi un’ultima digressione, che come mia
abitudine sarà “laterale”.
Quale è, se c’è, la forma di comunicazione che meglio ci può aiutare a comprendere, filtrare e
classificare meglio l’immensa quantità di informazione e comunicazione che quotidianamente ci
sommerge?

Penso, ma sono molto sicuro, che la forma di comunicazione migliore per comprendere il presente
sia l’arte, soprattutto contemporanea. Come sapete, quasi dall’inizio della sua nascita questo
magazine affida ogni mese il tema alla sensibilità di un artista sempre diverso, scelto proprio per le
sue caratteristiche di stile e linguaggio. Lo sappiamo benissimo che un’immagine ci dice molte più
cose di un articolo: è più immediata, più interessante, più seducente, certo non sempre risulta facile,
o di univoca o rapidissima lettura, però l’arte (come tutta la cultura) ci costringe in un mondo
scandito da tempi sempre più concitati, come questi della ripartenza da Fase 3, a fermarci,
guardare, ammirare e riflettere, insomma l’arte, come ho detto altrove, ci aiuta a concentrare la
nostra attenzione, affinare il nostro pensiero ed ad approfondire il nostro senso critico.

Pensate che stia esagerando?
Allora vi propongo un piccolo e veloce test, proponendovi le tre Copertine d’Artista che il nostro
magazine ha dedicato negli anni al macro-tema della comunicazione: la prima, del giugno 2015,
realizzata da Michele Petrelli, dall’iconico titolo “Enforced Silence” (Silenzio Forzato); la
seconda, del giugno 2019, realizzata da Vincenzo Maraglino, dal lapidario titolo “Atrofizzati”, e
la terza, quella di questo 74° numero, del giugno 2020, realizzata da Paola Montanaro,
dall’emblematico titolo “Urlo”, e vi sfido a trovare tre “sintesi” migliori per raccontare l’attualità, il
contemporaneo, la nostra stessa vita.

L’arte, e la cultura in generale, ci aiutano a comprendere il presente, immaginare il futuro e ad
addestrarci al cambiamento, ed è anche per questi motivi che questo magazine si sforza di avere un
approccio laterale ed originale al contemporaneo, proponendovi rubriche come quelle del cinema,
della musica e quella della Copertina d’Artista, perché, all’apparenza, potrebbero sembrare
superflue od off topic in un mensile di marketing ed innovazione come il nostro, ma in realtà sono
quelle che più caratterizzano la nostra natura, il nostro stile, la nostra linea editoriale, e che voi, i
nostri lettori, numeri alla mano, sembra apprezziate particolarmente.

Buona lettura

                                                                               Raffaello Castellano
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Tutto è Comunicazione: intervista a
Francesco Specchia direttore di POP
Economy
Parafrasando una celebre massima di Emily Dickinson, dedicata all’amore, potremmo azzardare e
dire: “Che la comunicazione è tutto, è tutto ciò che sappiamo della comunicazione”.

E, benché un po’ tirata, questa massima calza a pennello al concetto di comunicazione, ancora di più
oggi che, nel mondo iperconnesso, digitalizzato e virtualizzato in cui ci muoviamo, abbiamo
compreso da tempo che la comunicazione, insieme all’informazione ed ai dati ad essa strettamente
connessi, sono i tre asset strategici più importanti non solo per il nostro futuro, ma anche adesso,
per il nostro presente.

Questo numero di giugno di Smart Marketing dal titolo “Tutto è Comunicazione” vuole fare il
punto sullo stato dell’arte della comunicazione interpersonale, politica, economica, sociale, culturale
e virtuale nel nostro Paese e nel Mondo, dopo, ma meglio sarebbe dire durante, la pandemia e
l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus.

Si è ripetuto come un mantra “nulla sarà come prima”, od ancora “cambierà tutto”, e noi abbiamo
visto come la comunicazione sia profondamente cambiata durante questa emergenza, sia nelle
modalità, nei mezzi, negli strumenti, nelle tematiche che soprattutto nella “natura stessa” dei
comunicatori.
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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Per aiutarci a districarci in questo “assembramento” caotico di dati, informazioni e comunicazioni,
noi di Smart Marketing abbiamo intervistato un comunicatore doc, il dott. Francesco Specchia,
giornalista, scrittore e conduttore radiofonico e televisivo di lungo corso, noto soprattutto per “POP
Economy – Il luna park dell’economia”, famoso ed innovativo format televisivo che approccia il
complicato mondo dell’economia con un linguaggio fresco, divulgativo e al contempo approfondito.

Domanda: Dott. Specchia, per cominciare, quanto ha inciso nella sua formazione ed esperienza il
fatto che lei abbia iniziato i suoi primi passi da giornalista e comunicatore nel mondo della carta
stampata in quotidiani come “Libero” e soprattutto “La Voce” di Indro Montanelli?

Risposta: “Ha inciso parecchio. Sono stato molto fortunato a vivere, come ragazzo di bottega,
l’esperienza di quel covo di spiriti folli che era la Voce, nel ’94. Montanelli era riuscito nell’impresa
di riunire sotto la sua ala grandi innovatori grafici e giornalistici come Vittorio Corona,
giovanissimi talentuosi come Travaglio e Gomez, firme che avevano fatto la storia della carta
stampata come Sergio Saviane. Ha reso il giornalismo libero, è stato gambizzato per questo; e ci ha
instillato un senso della scrittura, della notizia e dell’onore inarrivabili. Il mio primo figlio si chiama
Gregorio Indro non a caso. Libero, invece, l’ho vissuto da padre fondatore: rispetto alla Voce è
meno geniale ma più solido, e Feltri è la naturale prosecuzione – anche se animato da sentimenti
opposti – di Montanelli, solo più bravo nel dirigere l’orchestra”.

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periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Domanda: A proposito di Indro Montanelli, cosa pensa della recente ondata di sdegno anti
razzista e politicamente corretto che sta travolgendo l’opinione pubblica mondiale, al seguito
dell’omicidio da parte della polizia americana di George Floyd, e che si sta abbattendo anche, e
soprattutto, sulle statue di personaggi storici del passato?

Risposta: “Il caso della sposa bambina è ciclico e alimentato da avversari politici che a Montanelli
non son degni di lustrare le scarpe. Indro spiegò bene quali erano le condizioni storiche e giuridiche
di quel matrimonio. Non tirerò fuori tutte le eccezioni del caso, dalle unioni con ultraminorenni di
Maometto al concetto storico di “maggiore età” che cambia nella storia. E l’attacco alla sua statua
non ha nulla a che vedere con George Floyd. Dovrebbero prendere quei quattro idioti vandali e
spiegar loro di un signore che è stato condannato a morte dai nazisti, a cui hanno sparato le Brigate
Rosse, che è stato cacciato sia dal giornale di cui era il campione sia da quello che egli stesso aveva
fondato. Il vecchio Cilindro ha rifondato il nostro mestiere, dovremmo amarlo in silenzio solo per
questo”.

Domanda: Come è cambiata, se lo ha fatto, la comunicazione politica, scientifica, sociale ed
economica durante questa pandemia?

Risposta: “Quella politica si è spinta in modo ossessivo sugli annunci e sulle promesse non
mantenute (Alex Zanardi diceva che se un allenatore facesse quelle promesse sarebbe licenziato, i
politici invece li rieleggono). Quella scientifica, specie dei virologi, ha occupato tutti gli interstizi
della comunicazione, sostituendosi pericolosamente a quella politica. Le comunicazioni sociale ed
economica sono diventate una fastidiosa appendice della realtà nel mondo descritto dalla
comunicazione politica. E’ un circolo vizioso che prima o poi dovrà rompersi. E allora andremo alle
elezioni”.

Domanda: Durante il lockdown abbiamo assistito a due fenomeni comunicativi in antitesi fra loro.
Da una parte abbiamo avuto la prepotente ascesa degli scienziati, soprattutto virologi, biologi ed
epidemiologi, su tutti i media, dalla radio alle dirette facebook, dalla carta stampata alla tv, dove mai
prima d’ora si era visto un tale spazio dedicato alla scienza. Dall’altra parte, nel clima di paura ed
incertezza, è esplosa la produzione e circolazione di fake news e bufale che hanno intossicato il
dibattito pubblico e, cosa assai più grave, anche quello politico. Come possono stare insieme le due
cose, scienza e fake news, scienziati e complottisti? Sono davvero il sintomo di un’arteriosclerosi
della comunicazione?

Risposta: “Più che arteriosclerosi io parlerei di cortocircuito. Le fake sono il vero dramma del
secolo, perché con questo giornalismo “a rete”, conseguenza nefasta del web e dei social, è sempre
più difficile distinguerle dalla verità; mentre i virologi sono un fenomeno temporaneo ma che sta
anchilosando, come dicevo, la nostra comunicazione. In Italia, oggi, i virologi hanno una voce
oracolare, qualsiasi boiata dicano. Mentre in Usa, per dire, sono già diventati una caricatura. Si
tratta di aspettare e ancorarsi, come una volta, alla veridicità delle fonti”.

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ologo e filosofo austriaco Paul Watzlawick e il giornalista e politologo statunitense Walter
Lippman

Domanda: A proposito di arteriosclerosi della comunicazione, concetto caro alle teorie di Paul
Watzlawick, come si concilia, secondo lei, il primo assioma della comunicazione: “è impossibile non
comunicare”, postulato dallo psicologo e filosofo austriaco, principale esponente della Scuola di Palo
Alto, nel mondo iperconnesso e virtualizzato di oggi? Questo assioma ha perso vigore, o è più valido
che mai?

Risposta: “Nel mondo iperconnesso si sprecano le teorie e le definizioni: Walter Lippmann, per
esempio, dice che le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale
ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. Si comunica sempre, forsennatamente,
anche se in modo sempre diverso. Nel mio mestiere ora si staglia perfino la moda del “robot
journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di
senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. Credo che passerà anche questa. Ma, certo, così com’è
messa la società, non puoi evitare di esprimerti…”.

Domanda: Per concludere, lei è un esperto riconosciuto di comunicazione, soprattutto economica,
che attraverso i suoi vari programmi, in particolare con POP Economy, ha reso divulgativa e chiara;
secondo lei, guardando agli ultimi mesi, come si è comportata la comunicazione scientifica sul web
ed in tv? Gli scienziati hanno avuto un approccio divulgativo, sono ancora troppo complicati, o hanno
sprecato un’occasione, anche per eccesso di vanità e protagonismo? E, alla luce della pandemia di
Covid-19, quanto è e sarà importante la “comunicazione scientifica” nelle nostre vite?

Risposta: “La comunicazione scientifica del Covid, volgarizzandosi, diventando seriale e
adeguandosi alle esigenze televisive, ha senz’altro perso un po’ in autorevolezza, spesso rendendo
narcisi personaggi di un’austerità di solito invincibile. Ma tornerà a riacquisire i propri spazi e le
propria ineluttabilità quando passerà il Coronavirus e gli Italiani torneranno ad essere – a secondo
dei momenti – soltanto un popolo di poeti, santi, navigatori, allenatori di calcio, costituzionalisti,
espertoni di fondi europei…”.

  Francesco Specchia, fiorentino di nascita,
  veronese d’adozione è giornalista, scrittore e autore
  tv.

  Ha una laurea in legge e una specializzazione in comunicazioni di massa e antropologia criminale,
  ma non gli sono servite a nulla. Tra i fondatori del quotidiano “Libero” dove scrive di politica,
  cultura, tv e mass media, ha lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Angese
  assieme ai grandi satirici italiani. Per anni titolare del “Telebestiario” sul TgCom, in radio ha
  firmato trasmissioni per Radio Monte Carlo e R101 e “Prima pagina” su Radio3 Rai; e partecipato
  alla fondazione di “Agorà” su Raitre. Ha scritto e condotto programmi televisivi disparati e
  disperati, tra cui i talk show politici “Iceberg”, “Alias” , “Versus”, e “I Tartassati- Storie di fisco e
  dintorni”. Tra i suoi libri: saggi tra cui “Diario inedito del Grande Fratello” (Gremese), “Gli
  Inaffondabili” (Marsilio), “Terrorismo -L’altra storia” e “Giulio Andreotti-Parola di Giulio”
  (Aliberti). Bazzica spesso la tele, in programmi seriosissimi.

  Tifa per la Fiorentina, i film di genere e i fumetti d’autore. Ha due figli; il suo primogenito si
  chiama Gregorio Indro (e ancora si chiede il perché, ma quando sarà grande capirà…).
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Comunicare in maniera differente, questo
il motto “vincente” di Burger King
Ci aveva già abituato ad una comunicazione irriverente con la sua ultima trovata pubblicitaria nella
quale, la grande catena di fast food, per pubblicizzare la decisione di rimuovere i conservanti
artificiali dal suo panino più iconico aveva scelto di mostrare il naturale deperimento del proprio
hamburger fotografandolo ricoperto di muffa. Un ritorno alla verità con spot controversi e dai
messaggi forti che ritornano anche nella fase due e cioè quella del post pandemia.

            Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

E se, adesso, parole come “grazie, uniti, andrà tutto bene” sono bandite a causa dell’appiattimento
comunicativo generato da un’assenza di creatività, anche nei brand più famosi a farci scuola è
ancora una volta proprio Burger King.

Abbiamo superato anche la fase due e ci stiamo avvicinando alla fase tre dove però rimane l’obbligo
del distanziamento sociale, in questo nuovo scenario un ruolo chiave nella fase promozionale deve
essere attribuito allo storytelling aziendale che si deve adattare al nuovo “mondo” e deve non solo
essere in grado di comunicare i nuovi valori ma anche scegliere il modo più giusto.

Cambio di rotta
La priorità, adesso, è comunicare la sicurezza, la pulizia e soprattutto il distanziamento sociale. Le
persone che ancora sono “scosse” dal momento storico che stiamo vivendo, e dal lungo periodo di
reclusione che hanno subito, si ricorderanno e apprezzeranno sui brand che puntano sulle persone e
sulla solidarietà. In una strategia comunicativa non deve mai essere sottovalutato il posizionamento,
inteso come posizione che il brand occupa nella mente del consumatore, in quanto potrebbe
determinare il successo o il fallimento di una campagna promozionale.
Basti pensare alle perdite subite dal famoso brand di birre Corona che proprio a casa
dell’associazione al nome del temuto virus, specie in Cina, ha subito una calo delle vendite per un
ammontare di circa 285 milioni di dollari. Oppure il caso contrario quello di Barilla che elencando i
nomi delle persone che continuavano a lavorare e quindi permettevano di produrre la pasta per gli
italiani, è entrata favorevolmente nell’immaginario collettivo ed ha mantenuto le sue vendite anche
in una fase di pandemia.

Il caso Burger King
Comunicare dei valori, però, non vuol dire non poter introdurre nella propria strategia la creatività e
l’ironia. Lo sa bene Burger King che ha puntato tutto proprio sull’ironia per risultare credibile e al
tempo stesso affidabile. Al centro del discorso c’è sempre il panino più famoso della catena, il
Whooper. Ovviamente oltre a comunicare la sicurezza dei propri locali, adeguati alle norme vigenti,
Burger King non si ferma (ed è qui la sua forza), ma lancia un nuovo panino con una dose tripla di
cipolla che garantisce l’assoluto distanziamento sociale, il tutto comunicato con claim e grafica
accattivante sui propri social network. Un modo ironico e creativo che ha permesso al fast food di
continuare a lavorare anche in questo periodo così difficile, con un posizionamento nella mente del
cliente assolutamente unico, coerente e vincente.

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Pubblicità durante il lockdown: 3 approcci
comunicativi
Il mondo, lo vediamo tutti ogni giorno, sta vivendo un rapido cambiamento che ha avuto inizio con il
lockdown e l’emergenza sanitaria. Non solo sono cambiate le nostre vite e il nostro modo di
approcciarci al Web, con la diffusione di video e sistemi di messaggistica, ma anche il modo di fare
pubblicità. Tutte le aziende hanno dovuto ripensare al modo in cui trasmettere i messaggi
commerciali in questa fase, per parlare nel migliore dei modi a consumatori chiusi in casa. Meglio
mantenere la comunicazione pre lockdown o utilizzare nuovi approcci? Ecco i risultati di uno studio
del gruppo Dentsu Aegis Network e Toluna che presenta i 3 approcci comunicativi utilizzati dalle
aziende.

I 3 macro approcci alla comunicazione pubblicitaria durante il lockdown
Dentsu Aegis Network e Toluna, agenzie di ricerca specializzate in digital marketing hanno
realizzato uno studio per analizzare gli approcci alla comunicazione pubblicitaria durante il
lockdown. I risultati hanno permesso di capire come il mondo della pubblicità abbia risposto
all’emergenza coronavirus dei primi mesi del 2020.

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      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Tutte le aziende, infatti, hanno dovuto rivedere le strategie di comunicazione, la creatività dei
messaggi e la pianificazione della distribuzione. Sono stati così individuati tre macro approcci
usati dal brand per fare pubblicità durante il lockdown:

1. Approccio go ahead: è l’approccio utilizzato da tutte quelle aziende che hanno deciso di
   mandare in onda uno spot progettato già prima della pandemia e dell’emergenza COVID-19.
2. Approccio capitalize: è la strategia utilizzata dalle aziende che hanno creato uno spot adatto
   alle circostanze, ad esempio usando lo slogan #andratuttobene e #iorestoacasa.
3. Approccio adaptive: si tratta delle aziende che hanno modificato in parte spot televisivi
progettati prima del coronavirus, aggiungendo codini o scritte in sovraimpressione.

Pubblicità e COVID-19: le modalità di ricerca
La ricerca condotta da Dentsu Aegis Network e Toluna ha coinvolto ben 2.250 intervistati in Italia,
suddividendoli in gruppi uguali tra loro per criteri socio-demografici, conoscenza e acquisto dei
prodotti pubblicizzati. Ogni gruppo ha poi visto uno specifico spot e sono state analizzate le reazioni
sulla base di 4 KPI:

■   Gradimento;
■   Coerenza con il contesto e il momento storico;
■   Percepito di marca;
■   Considerazione dei prodotti e servizi pubblicizzati.

Gli stessi 15 spot oggetto della ricerca sono stati raggruppati e suddivisi sulla base degli approcci
go ahead, adaptive e capitalize. I risultati hanno dimostrato che le aziende che avevano realizzato
uno spot su misura per il COVID-19 secondo l’approccio capitalize hanno ottenuto i migliori risultati,
ma in molti casi non fare nulla e adottare una strategia go ahead ha portato a risultati pressoché
identici.

Cosa si può dedurre? Lo studio ha dimostrato come mantenere gli spot e la comunicazione
pubblicitaria programmata sia un modo sicuro per preservare una percezione positiva del brand
nella mente dei consumatori, generando un circolo virtuoso. L’approccio adaptive, invece, è stato
quello che ha ottenuto i risultati di impatto e gradimento più bassi, probabilmente a causa delle
diverse settimane di esposizione a pubblicità e raccomandazioni sul tema Coronavirus. Il pubblico,
secondo i risultati dell’indagine, ha continuato a premiare il brand che comunicava in modo uguale
al periodo pre-emergenza.

Pubblicità e COVID-19: l’importanza del contesto
Analizzando in modo ancora più approfondito i risultati dell’indagine emergono anche dati utili a
capire come affrontare il futuro dal punto di vista della pubblicità e come tornare alla normalità.
Quello che è rimasto il miglior modo di comunicare è un messaggio pubblicitario basato su valori
profondi e fondanti dei marchi, rassicurando allo stesso tempo i consumatori.

Si conferma, quindi, l’efficacia di un approccio go ahead in cui i brand rispondono alle
circostanze facendo leva sul sentiment dei consumatori, ma non modificano la comunicazione
cercando di adattarla all’emergenza sanitaria. Sicuramente in un contesto socio-economico che sta
cambiando, le aziende devono imparare a guardarsi attorno per adattare le strategie di
comunicazione e comprendere le nuove abitudini e necessità dei consumatori, senza tuttavia
stravolgere la loro identità e valori storici.

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L’ascolto mediato dalle arti sonore come
strumento di comunicazione e conoscenza
del territorio: Intervista alla sound artist
Daniela Diurisi
Le esperienze contemporanee del distanziamento sociale hanno evidenziato quanto siano importanti
nella nostra vita la comunità di riferimento e la possibilità di poter mantenere con gli altri una
comunicazione efficace che superi le barriere fisiche.

Abbiamo preso consapevolezza di non essere affatto quegli esseri asociali e che possono vivere bene
da soli che credevamo; al contempo, ci siamo riappropriati della lentezza del tempo, della riflessione,
del silenzio, e, probabilmente, abbiamo ristabilito anche un equilibrio ed una connessione più
profonda non solo con gli altri, ma anche con noi stessi.

Nel mondo in cui niente si assapora ma tutto si consuma, persino la musica è veloce, fruita in
streaming distrattamente ed in cui vanno per la maggiore brani corti e poco complessi perché non
c’è il tempo per lasciare spazio a domande e riflessioni.

In questo contesto, il silenzio non è contemplato e, bombardati come siamo da stimoli visivi e sonori,
ci ritroviamo a non essere più capaci di guardare ed ascoltare benché abili a vedere e sentire.
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aniela Diurisi

Non è solo un fatto di percezione, è comunicazione: l’ascolto non passa soltanto per un brano
musicale ma investe tutti i campi della nostra vita, li sentiamo, ma non siamo più capaci di ascoltare
veramente gli altri; non riuscendo a comprenderli, non riusciamo a stabilire una connessione
efficace e la situazione peggiora se ci affidiamo alla vista per percepire il mondo circostante ed
orientarci.

Quante volte ci sarà capitato di prestare attenzione all’abbigliamento di qualcuno appena conosciuto
per cercare di comprendere chi fosse, invece di prestare attenzione a quello che ci stava
raccontando di sé?

Lo stesso comportamento lo adottiamo quando cerchiamo di leggere un territorio, rimaniamo
affascinati dalle sue architetture, dai colori, dal paesaggio, ma non siamo in grado di riconoscerne i
suoni.

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   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.
Questo accade perché l’ascolto presuppone una lentezza che non siamo più abituati a sperimentare,
ma di cui dovremmo riappropriare per riconnetterci ai luoghi ed alle persone che li hanno abitati,
anche per ridisegnare un futuro diverso, più sostenibile e più equo, cercando di mediare tra le varie
istanze di tutti gli attori di un territorio.

Abbiamo chiesto alla sound artist salentina Daniela Diurisi, che ha realizzato la traccia sonora della
nostra Copertina d’Artista del maggio 2020 (Upgrade), di raccontarci le trame e gli aspetti che
investono la comunicazione non visiva concentrata sull’ascolto e, più in generale, le enormi
potenzialità delle arti sonore come strumento di comunicazione intergenerazionale, coesione sociale
e conoscenza del territorio, a partire dalla sua esperienza di organizzatrice del 9° forum
internazionale sul paesaggio sonoro, all’interno degli spazi della Distilleria “De Giorgi” a San Cesario
di Lecce dove, dal 2018, si occupa di progettazione di eventi, didattica e produzione come artista
sonora nell’ambito del progetto “Alchimie – la Distilleria De Giorgi residenza artistica di comunità”.

Domanda: Nel corso della sua esperienza, ha avuto modo di confrontarsi con la
realizzazione di percorsi sonori “al buio” insieme ad associazioni di non vedenti, come
nasce un progetto di questo tipo ed a chi si rivolge?

Risposta: Nel 2008 lavoravo ancora in uno studio di post produzione audio a Bologna. È stata
un’esperienza molto densa che mi ha permesso di immergermi nel mondo dei suoni a 360°. In quegli
anni mi stavo riavvicinando al mio territorio di origine, Lecce, dove poi mi sono trasferita e dove
adesso abito.

Mi sono occupata, proprio nel 2008, di portare all’interno di un convegno sulla comunicazione a
Lecce un percorso, strutturato dallo studio in cui lavoravo, relativo alla comunicazione non visiva,
concentrato sull’ascolto. Su suggerimento dei responsabili dello studio abbiamo organizzato, fra le
varie iniziative, una cena al buio con il coinvolgimento di un’associazione di non vedenti, composta
da cuochi e camerieri professionisti, della provincia di Bologna.

Abbiamo pensato ad una proposta di questo tipo, rivolta a persone che partecipavano al convegno
come esperti o uditori, quindi interessate ai temi della comunicazione, perché l’inversione dei ruoli
permette l’apertura sensoriale a nuove prospettive.

È stato molto complicato oscurare perfettamente la sala, perché gli occhi cercano a tutti i costi di
vedere ed un minimo bagliore fa sì che pian piano tutto appare. Solo con il buio totale ci
immergiamo nell’oscurità e gli altri sensi sono liberi di prendere il posto della vista e guidarci
nell’esperienza. L’egemonia dello sguardo perde la sua forza e il mondo intorno cambia forme e
dimensioni. Ovviamente i non vedenti si muovono abitualmente in questo spazio per noi inesplorato
ed ecco che i ruoli sono capovolti.

L’udito, in questa particolare condizione, ci aiuta ad orientarci nello spazio, disegnando distanze, e a
cercare di riconoscere le persone che ci sono vicine dall’intonazione della voce, ma in generale,
come accade per il gusto, il tatto e l’olfatto, il senso si apre e comincia ad ascoltare con profondità e
il mondo sonoro appare in tutte le sue trame.

I luoghi hanno in sé una propria identità sonora che li rende unici?

Certamente. Si parla infatti di “Impronta sonora” definendo un suono di riferimento (soundmark) di
una determinata comunità, che per la sua unicità contribuisce a determinarne l’identità culturale.

Chi è incuriosito da questi temi non può non leggere quello che è il punto di riferimento degli studi
sul paesaggio sonoro, il libro del compositore, scrittore e ambientalista canadese Raymond Murray
Schafer “Il Paesaggio Sonoro”. Come fondatore del World Soundscape Project presso la Simon
Fraser University, Schafer ha incoraggiato accademici e musicisti a registrare e preservare
l’ambiente sonoro del pianeta.

A proposito delle impronte sonore l’autore dice: “Una volta che un’impronta sonora è stata
identificata, meriterebbe di essere protetta, perché le impronte sonore rendono unica la vita
acustica di una comunità” (Schafer).

Se pensiamo a quali possono essere i suoni identitari dello spazio che viviamo, la prima strategia
utile è quella di chiudere gli occhi e ascoltare.

Se siamo in un ambiente hi-fi (hight fidelity), cioè con un buon rapporto suono/rumore (ad esempio
in un piccolo paese del sud alla controra), possiamo trovare qualcosa che solo noi ascoltiamo o
comunque ascoltiamo in quel particolare modo.

Provo a fare un esempio: nel mio paese c’è l’arrotino. Ogni tanto passa per le vie con il suo
camioncino munito di altoparlante, solitamente lo fa dopo pranzo; credo che da quando sono nata ho
sentito l’arrotino. È un suono particolare perché è in movimento. Oltre ad avere delle frasi che
annunciano il suo passaggio, queste frasi “camminano”, cambiano i loro parametri: il volume, il pan
(per intenderci passando dall’orecchio destro al sinistro), il timbro (se il camioncino passa dietro
casa i palazzi fanno da “scudo” e il suono della voce cambia). Insomma l’arrotino è una vera e
propria composizione in movimento, mai uguale a se stessa, e posso dire che è un’impronta sonora
del mio paese. Naturalmente l’ho più volte registrato per preservarne la memoria.
L’ascolto di suoni, rumori, racconti, memorie, voci, possono ridisegnare uno spazio fisico,
ristabilendo una connessione tra chi abitava quei luoghi e chi li abita o li abiterà in futuro?

Il dialogo si basa sull’ascolto, l’ascolto ci permette di ottenere un dialogo trasversale che può
produrre contenuti condivisi.

Ascoltando ci si può confrontare da un lato su quello che potrebbe essere migliorato, dall’altro su
quello che può essere recuperato e infine su quello che alle volte è presente ma si fa fatica a
focalizzare e quindi valorizzare.

Per affrontare la questione alla luce di questa tripartizione: passato/presente/futuro, è necessario
che tutti facciano la loro parte. La costruzione che alle volte può divenire decostruzione ha bisogno
di uno sguardo multisensoriale e infragenerazionale.

Il suono ricopre un ruolo importante non solo per la parte più immediata legata al linguaggio, ma
anche per la sua dimensione impalpabile più legata all’ambiente e all’ecologia.

Ci troviamo molto spesso di fronte all’incomunicabilità tra vari attori di un territorio,
mossi da interessi e visioni differenti: i soundscape studies possono essere concretamente
il mezzo con cui la comunità dialoga, favorendo così lo scambio intergenerazionale e la
coesione sociale?

I soundscape studies che, interpretando il paesaggio sonoro come scatola sonora in cui accade la
nostra vita, testimoniano l’identità dei luoghi e delle persone, che a loro volta vivono in queste
scatole, si concentrano sulle modalità con cui il suono partecipa alla percezione e alla comprensione
dello spazio, possono essere mezzo per connettere gli abitanti al luogo in una modalità lenta, dove il
tempo dell’ascolto diviene fondamentale per l’intreccio delle visioni e la costruzione collettiva del
nostro presente.

Il concentrarci sull’ascolto tramite i soundscape studies ci consente di avvicinarci ad un linguaggio
inesplorato con un tempo inusuale. Il tempo dell’ascolto richiede “tempo”, traduciamo questo gioco
di parole in un fatto concreto che riguarda l’indisponibilità all’ascolto, un’inevitabile causa di
distacco generazionale, superficialità anche dovuta ad una diffusione di una moltitudine di
informazioni “veloci”.

L’esperienza del lockdown ha cambiato il nostro modo di comunicare e ridisegnato il
paesaggio sonoro di molte città. Secondo lei, le mappe sonore potrebbero costituire un
modo differente di fruire di un territorio senza recarsi materialmente sul posto?

Abbiamo vissuto per tre mesi un’esperienza fuori dal comune. Molti di noi si sono interrogati su
questioni qualitative: abbiamo visto le acque trasparenti e piene di pesci dei canali di Venezia,
abbiamo vissuto le nostre case in ambienti acustici nuovi, dove il canto degli uccelli ha sostituito il
rumore delle macchine, la natura si è riappropriata dei suoi spazi.

Possiamo pensare che abbiamo vissuto un paesaggio sonoro del passato, possiamo solo immaginarlo,
ma forse la strada in cui viviamo suonava proprio così, se avessimo registrato i vari punti di un paese
durante il lockdown avremmo potuto impostare una mappa immaginaria dei luoghi nel passato.
Le mappe sonore sono senz’altro una possibilità di fruizione del territorio differente e sì, possono
essere strumento “a distanza”, ma vedo le loro potenzialità anche come ausilio ad una visita fisica.
Le mappe possono contenere racconti, suoni reali o immaginati, e se costruite insieme alle comunità
possono restituire una visione dei luoghi dal di dentro.

Proprio in questo periodo stiamo attivando un percorso partecipato con gli abitanti del paese in cui
vivo, il progetto si chiama “Il paese che parla”, creeremo una mappa dotata di QrCode che
conterranno audio narrazioni a cura degli abitanti e paesaggi sonori privati, cioè individuati dai
cittadini come tratti distintivi della loro percezione acustica del luogo.

Penso che sarà un progetto molto interessante sia per gli avventori esterni, che potranno conoscere
il paese in una chiave del tutto differente, che per gli stessi abitanti che si ascolteranno e
ascolteranno l’auto percezione della comunità. Per i fruitori esterni credo che sia un po’ come
quando per caso, in un viaggio, si ha occasione di essere invitati a cena da una persona del luogo, si
gustano i cibi locali, si vive la dimensione privata, insomma un viaggio vissuto.

  Daniela Diurisi ha studiato musica al DAMS di
  Bologna, ha conseguito nel 2016 la laurea di
  Secondo livello in Musica Elettronica presso il
  Conservatorio “T. Schipa” di Lecce. E’
  sassofonista (sax baritono e tenore), si occupa di
  sound design e arte sonora, in particolare
  sperimentando le possibilità di incontro fra il
  suono ed il teatro, sviluppando un percorso di
  ricerca a cavallo fra le arti performative e il puro
  ascolto. Realizza composizioni sonore per il teatro
  e per i media. Ha lavorato nella post produzione
  audio per il cinema, tv, localizzazione di
  videogames, ha condotto progetti «al buio» con il
  coinvolgimento di associazioni di non vedenti per
  nuovi percorsi della comunicazione non visiva. Si occupa di esecuzione e composizione
  Acusmatica.

  Per informazioni e per contattare l’artista: Daniela Diurisi: danieladiurisi@tiscali.it

  Soundcloud

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Si avvicina l'attesa edizione 2020 dei
Nastri d'Argento del cinema italiano
Periodo non facile anche per il cinema, ormai lo diciamo da un po’, ma questo non ha mai fermato la
sua voglia di ripartire e di riprendersi i suoi spazi. Così assistiamo, in questa strana estate 2020,
alla creazione di nuove aree di cinema all’aperto, a nuove modalità di fruizione del prodotto film e
alla trasformazione di formule collaudate per conformarsi alle necessarie regole di sicurezza. In
questo scenario si inseriscono premi, festival e anche la cerimonia dei Nastri d’Argento, il più
antico premio cinematografico italiano, assegnato ogni anno dal Sindacato nazionale giornalisti
cinematografici italiani (SNGCI), dal 1946; quest’anno la cerimonia, spostata al Museo MAXXI
di Roma, si svolgerà in presenza il 6 luglio.

Sarà un’edizione necessariamente diversa dalle altre; la diretta, che andrà in onda su Rai Movie, si
svolgerà sicuramente nel rispetto delle norme di sicurezza e adotterà inevitabilmente un registro
meno sfavillante e più pacato rispetto alle scorse edizioni, ma quello che possiamo dire è
sicuramente che il nostro paese ha bisogno di tornare a sognare e di conseguenza ha bisogno del
cinema per farlo, qualsiasi forma esso adotti. Il pensiero va automaticamente ad un altro premio
cinematografico importante, svolto in piena pandemia, il David di Donatello, che l’8 maggio scorso,
in presenza solo del presentatore Carlo Conti, ha avuto luogo con una cerimonia, sicuramente
sottotono, ma che è ugualmente riuscita a regalare momenti d’emozione agli attori e professionisti
protagonisti e anche al pubblico a casa. Diversi saranno, per fortuna, i Nastri d’Argento che si
svolgeranno in presenza a Roma, ma ciò che resta uguale è l’esigenza che abbiamo di andare avanti
e di riappropriarci di una sorta di normalità che ci faceva sentire tranquilli, quella parte di normalità
sana, che produce bellezza, arte e cultura.

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In attesa del 6 luglio, qui i film, gli attori ed i professionisti del settore candidati
all’ambito premio:
Miglior film

Gli anni più belli
Hammamet
La Dea Fortuna
Favolacce
Pinocchio

Migliore regia
Gianni Amelio – Hammamet
Pupi Avati – Il Signor Diavolo
Cristina Comencini – Tornare
Fratelli D’Innocenzo – Favolacce
Matteo Garrone – Pinocchio
Pietro Marcello – Martin Eden
Mario Martone – Il sindaco del rione Sanità
Gabriele Muccino – Gli anni più belli
Ferzan Ozpetek – La Dea Fortuna
Gabriele Salvatores – Tutto il mio folle amore

Miglior regista esordiente
Stefano Cipani – Mio fratello rincorre i dinosauri
Marco D’Amore – L’Immortale
Roberto De Feo – The Nest
Ginevra Elkann – Magari
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