Ci aspettano dopo la quarantena - Smart Marketing
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Tutto cambierà, anche il cinema: i film che ci aspettano dopo la quarantena C’è vita dopo la quarantena? Sicuramente una vita diversa, dal lavoro alle vacanze, dal modo di interagire a quello di divertirsi e in tutto questo ci sono l’arte e la cultura. Compagna e salvatrice di questa quarantena, la cultura ha confermato il suo ruolo fondamentale nella nostra vita, anche quando quest’ultima è in pausa dalla “normalità”. Come avremmo fatto senza libri, senza ricette di cucina, senza musica e senza cinema? Per fortuna abbiamo la possibilità di reperire film anche fermi sul nostro divano, grazie allo streaming e alla televisione, ma certamente per i professionisti del settore non è un bel momento, tra uscite di film rimandate e riprese sospese, senza dimenticare i gestori delle sale cinematografiche, costretti a chiudere fino a data da destinarsi. https://www.youtube.com/watch?v=X2HBqizCR6U In questa bolla di incertezze e di attese in cui viviamo, numerose sono le produzioni lasciate in sospeso, tra cui alcune molto attese: ■ Jurassic World: Dominion ■ Animali fantastici -Terzo episodio ■ La Sirenetta (in live action) ■ Matrix 4 ■ Mission Impossible 7 ■ The Batman ■ Elvis Accanto al problema delle riprese e delle post-produzioni interrotte dal virus, c’è anche quello di film belli e pronti che stavano per uscire proprio in questi mesi, la cui uscita è stata rinviata. Alcuni esempi: ■ Fast & Furious: The Fast Saga: uscita rinviata ad aprile 2021 ■ Mulan: uscita rinviata a luglio 2020 ■ Ghostbusters: Afterlife: uscita rinviata a marzo 2021 ■ Sing 2: uscita rinviata a dicembre 2020 ■ Top Gun: Maverick: uscita rinviata a dicembre 2020 ■ Minions: The Rise of Gru: uscita rinviata a luglio 2021 ■ No time to Die: uscita rinviata a novembre 2020 ■ Wonder Woman 1984: uscita rinviata ad agosto 2020 ■ Tenet: uscita rinviata a settembre 2020 ■ Lupin III – The First: uscita rinviata a fine 2020
■ New Mutants: uscita rinviata a fine 2020 ■ Volevo nascondermi: uscito per pochi giorni e poi sospeso fino a data da destinarsi ■ Ritorno al Crimine: uscita rinviata a data da destinarsi ■ Si vive una volta sola: uscita rinviata a data da destinarsi https://www.youtube.com/watch?v=r6oeUfVs3Ws Come in ogni circostanza c’è chi si ferma, chi rimanda e poi c’è chi trasforma le difficoltà in opportunità e a tal proposito alcuni produttori hanno deciso di lanciare i film sulle piattaforme on demand. Assistiamo, così, al debutto di alcune opere direttamente online: “The Lovebirds”, una commedia americana che debutterà direttamente su Netflix; “Un figlio di nome Erasmus”, la commedia del regista Alberto Ferrari, uscito il giorno di Pasqua su diversi portali; “L’uomo invisibile” l’horror disponibile on-demand già da fine marzo; “Trolls World Tour”, il sequel di Trolls, che dal 10 aprile sta riscuotendo un enorme successo in formato digitale. Scopri il nuovo numero > Reset Dopo aver parlato, a febbraio, dell’interconnessione in “Virale” ed esserci interrogati a marzo sulla situazione attuale in “Tutto andrò bene (?)”, oggi, con “Reset”, vogliamo parlare di soluzioni concrete. L’online ed il digitale saranno quantomai utili per offrire soluzioni e creare nuove opportunità. In tutto questo caos generale, a trovarsi in difficoltà sono anche gli organizzatori di importanti festival cinematografici, soprattutto il Festival di Cannes, previsto per maggio e quello di Venezia, previsto per settembre. Gli organizzatori di entrambi i festival hanno deciso di non optare per un’edizione online dell’evento, invece, prende sempre più forma l’ipotesi di una collaborazione tra i due, se sarà possibile, nel mese di settembre. https://www.youtube.com/watch?v=D5oC_NYpV0s Tempi duri per tutti, insomma, ma questo non deve mai farci perdere la speranza che si possa tornare a vivere nella “normalità”, anzi, migliorando il nostro modo di vivere e soprattutto convivere, con noi stessi, l’altro e la Terra. Torneremo a fare tutto e torneremo anche nelle sale cinematografiche, anche se c’è già chi pensa ad una valida alternativa, come il regista livornese Paolo Virzì che, riflettendo sull’attuale situazione del cinema, dice di non essere contrario ad un “grande rilancio estivo del drive-in”, una sorta di “se non riesci ad uscire dal tunnel, arredalo”, trasformato in -se non puoi entrare nella sala, porta la sala al di fuori. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Il film “Vieni avanti cretino” è la perfetta allegoria della Fase 2 e della ripartenza Nel 1982 esce nelle sale italiane “Vieni avanti Cretino”, un film di Luciano Salce, con uno strepitoso Lino Banfi, che in una serie di esilaranti sketches ha modo di sfoggiare tutto il suo estro e i suoi tempi comici. Ma perché rispolverare un grande classico della commedia comica italiana in un momento come questo? Perché mettere in relazione questo film “leggero” con la “complicata” Fase 2 che il nostro Paese ha da poco intrapreso? Credo che questo sia il film perfetto per la ripartenza per almeno due fattori. Il primo è che si tratta obbiettivamente di un film esilarante, un vero e proprio antidepressivo, del quale si avverte la necessità dopo due mesi buoni di ansia, distanziamento sociale e bollettini di guerra della Protezione Civile. Farsi quattro grasse risate guardando questo film è non solo il miglior esercizio ginnico per il nostro diaframma, ma anche, e soprattutto, per il nostro morale duramente colpito dal periodo di quarantena. Il secondo motivo è un po’ più articolato da esporre, ma è anche il messaggio più forte che, a mio modo di vedere, questo film veicola. E prima di parlarne dovremmo rivedere la trama del film. https://www.youtube.com/watch?v=vmJH_-Vhfo8
La storia è nota: siamo a Roma, e Pasquale Baudaffi (Lino Banfi) è un detenuto appena uscito dal carcere di Regina Coeli; ad attenderlo all’uscita c’è il cugino Gaetano (Franco Bracardi, il famoso pianista del Maurizio Costanzo Show), impiegato presso un ufficio di collocamento, che cercherà di aiutarlo in tutti i modi per avviarlo in un percorso di reinserimento onesto nella società, proponendogli svariate attività lavorative con impiego immediato. Sono proprio i vari tentativi lavorativi che Pasquale Baudaffi intraprenderà a fornire la materia narrativa e comica alla pellicola. Ma, ovviamente, prima di tutto, dopo essere uscito di prigione la prima cosa a cui pensa un uomo è il sesso, e quindi la prima tappa del peregrinare del nostro eroe nella tentacolare città eterna è proprio una vecchia “casa chiusa”. Ma il tempo è passato, e lì dove c’era la casa d’appuntamento ora c’è un rinomato studio dentistico, e lo sketch con uno dei pazienti (Gigi Reder) nella sala d’attesa mette in scena quello che è il tema sotterraneo di tutto il film:l’ inadeguatezza “temporale” del nostro protagonista. Infatti, così come il tempo ha trasformato la casa d’appuntamento in uno studio dentistico, il mondo nel quale Pasquale si sforza di trovare lavoro non è quello che lui conosceva. Il suo personaggio ci diverte proprio perché è sempre goffamente in ritardo sul tempo in cui vive. Il mondo che conosceva semplicemente non esiste più. Ed è qui che già ravviso una prima similitudine con la nostra personale esperienza: il mondo con cui ci andremo a confrontare durante la “Fase 2” non è più lo stesso che abbiamo lasciato due mesi fa, ed affrontarlo come se nulla fosse cambiato metterà anche noi in ridicolo o peggio in pericolo. https://www.youtube.com/watch?v=IJDoaOI-Whg Ma continuiamo con la trama. Pasquale è uno che non sia arrende e non molla, oggi diremmo che è resiliente, e che come un novello Ulisse attraversa la sua odissea alla ricerca prima dell’impiego perfetto, poi di quello migliore ed infine di qualsiasi tipo di impiego, pur di reinserirsi come membro produttivo della società. Da principio ci proverà come guardiacaccia, ma una nevrotica esaminatrice (Annabella Schiavone) gli sbarrerà la strada, dimostrando ancora una volta i meccanismi talvolta perversi di certi posti pubblici. Poi ci proverà come garagista in un’autorimessa, dove la sfortuna arriverà sotto le conturbanti forme di una ragazza, Carmela (Michela Miti), in fuga dai possessivi fratelli siciliani, che poi ruberanno tutte le auto della rimessa. È in questo episodio che il nostro protagonista si scontra con la malavita organizzata, che spesso impedisce a chi vuol rifarsi una vita onesta di raggiungere i propri scopi. Pasquale ci proverà come cameriere, ma, complice una coppia indecisa sulla consumazione e un datore di lavoro, Salvatore Gargiulo (Nello Pazzafini), vessatorio ed autoritario, anche questa esperienza sarà fallimentare. Ma il nostro eroe continua a provarci e, sempre come cameriere, viene ingaggiato presso una festa aristocratica organizzata da una contessa, dove però viene scambiato per un famoso cantante e ballerino di flamenco con esiti comici facilmente immaginabili. https://www.youtube.com/watch?v=xmHjALASoH0 L’ultimo tentativo è quello che Pasquale fa presso un’azienda di cibernetica, dove conoscerà, sì, una
splendida impiegata (l’attrice Moana Pozzi), ma anche il suo diretto superiore, il dottor Tomas (Alfonso Tomas), agitato, pieno di tic e oramai consumato dal suo lavoro, che spiegherà al nostro beniamino le sue semplici mansioni, che però crescono di numero e complessità in maniera molto veloce, trasformando anche Pasquale in una copia del suo superiore. Adesso, senza svelarvi il finale di questo film che vi invitiamo a recuperare, veniamo al secondo motivo per cui questa pellicola rappresenta una allegoria del nostro tempo, ancora sospeso fra paura, clausura, voglia di normalità e nuovi paradigmi. Scopri il nuovo numero > Reset Dopo aver parlato, a febbraio, dell’interconnessione in “Virale” ed esserci interrogati a marzo sulla situazione attuale in “Tutto andrò bene (?)”, oggi, con “Reset”, vogliamo parlare di soluzioni concrete. L’online ed il digitale saranno quantomai utili per offrire soluzioni e creare nuove opportunità. Ciò che in questo film ci fa ridere a crepapelle non è solo il perfetto meccanismo degli sketches che, come il titolo (una famosa battuta dei fratelli De Rege), rappresentano un omaggio alla tradizione dell’avanspettacolo italiano, ma, come abbiamo detto, è l’inadeguatezza di Pasquale per qualunque lavoro che gli viene proposto che crea il meccanismo comico per eccellenza: quello della caduta, tipico delle comiche mute. Pasquale è sempre in ritardo sul tempo della storia, non è formato a sufficienza per i lavori più professionalizzanti come il guardiacaccia, è schiacciato dalla burocrazia, è vessato da datori di lavoro, è raggirato dai malintenzionati, è sfortunato ed infine non riesce a rapportarsi adeguatamente all’automazione ed informatizzazione del suo posto di lavoro. https://www.youtube.com/watch?v=hCS4L6dLOOs Anche noi abbiamo sperimentato durante la quarantena un gap tecnologico; chi ha potuto ha trasformato il suo lavoro in modalità smart, facendo i conti con connessioni lente, strumenti inadeguati e l’incapacità di molti colleghi. Chi, meno fortunato, ha dovuto interrompere il proprio lavoro, forse l’ha perduto e ora, con la partenza della “Fase 2”, dovrà come Pasquale Baudaffi reinventarsi in una nuova professione. Altri ancora, come organizzatori di eventi, artisti e ristoratori, si troveranno in una situazione di precarietà per almeno altri 3, 4 mesi. Insomma, “Vieni avanti cretino” parla molto più del presente oggi di quando usci negli anni ’80, e, come ci insegna Italo Calvino, l’universalità e la contemporaneità di un testo sono i presupposti fondamentali di un classico. Noi parteggiamo per Pasquale, perché ci riconosciamo in lui, perché soffriamo e lottiamo insieme a lui, cadiamo, ci rialziamo e ci proviamo, in una parola cerchiamo, o meglio creiamo, la nostra “nuova normalità” attraverso quell’unico mezzo che davvero ci definisce in questo mondo: il nostro lavoro. Perché, come il sistema capitalistico nel film e nelle nostre vite dimostra, non importa chi sei, non importa dove stai andando, quello che importa davvero e unicamente è cosa fai.
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Il gioiello da tesaurizzare, su tutti, che meglio descrive quei momenti è “Tutti a casa”, del 1959, di Luigi Comencini, che inquadra perfettamente il caos di quei giorni, attraverso l’interpretazione memorabile di Alberto Sordi, il quale veste i panni del sottotenente Alberto Innocenzi, il quale vede squagliarsi la sua compagnia e si mette in marcia verso casa. Visto deportare un compagno dai nazisti, dopo la fuga dal padre (Eduardo De Filippo) che lo vorrebbe arruolato nell’ R.S.I., giunge a Napoli col soldato Ceccarelli (Reggiani) decidendo da che parte stare e cominciando a sparare contro i tedeschi: sono le quattro giornate di Napoli, quelle dal 24 settembre al 28 settembre 1943, quella ribellione del popolo napoletano che portò alla liberazione della città partenopea. Aiutato da un Alberto Sordi a dir poco sublime, conciliando felicemente il tono umoristico con quello drammatico, Comencini contribuisce a spezzare il muro di silenzio calato negli anni ’50 sulla Resistenza, affrontando con efficacia, e ottima precisione storica, un momento cruciale della nostra storia, accuratamente ignorato dal cinema italiano fino a quel momento. Arriva, dunque il periodo in cui tutta l’Italia è in attesa dell’arrivo delle truppe Alleate, che significa Liberazione dall’oppressore nazi-fascista e la fine della guerra. Il sud-Italia viene già liberato all’alba del fatidico 8 settembre 1943. A Napoli la Liberazione avviene il 28 settembre di quello stesso anno, al termine delle storiche “Quattro giornate di Napoli”. A Roma gli Alleati sarebbero entrati solamente il 4 giugno del 1944, dopo una strenua resistenza tedesca lungo la linea di Gurov, o definita anche Caesar, posta nella zona poco sopra Anzio, dove avvenne lo storico sbarco, che insieme a quello di Norimberga, ha deciso l’esito della seconda guerra mondiale. La Liberazione significava commozione, democrazia, libertà, fu una gioia per tutti. Film come “Napoli milionaria” (1950), nato dalla penna artistica di Eduardo De Filippo, descrivono alla perfezione il sentimento di rinascita del popolo italiano. La voglia di ricostruire, la voglia di raccontare gli scempi della guerra, per costruire un mondo migliore per i propri figli. L’alba di un giorno nuovo, la speranza di una ricchezza d’animo e di una stima reciproca ormai persa. La speranza, il senso della commedia stessa è un messaggio che Eduardo, dapprima rivolge alla sua Napoli ma che poi varca il confine, arriva al mondo, a tutti coloro che hanno subìto e che aspettano che passi la notte. Altro ritratto magnifico, che ci ricostruisce l’eroismo italiano in chiave “Liberazione” è quello de Il generale Della Rovere (1959), pensato e scritto per Vittorio De Sica, che interpreta magistralmente la figura di un imbroglione che durante la guerra finisce in prigione sotto le mentite spoglie di un generale dell’esercito italiano. Alla fine, l’imbroglione riscatterà la sua misera vita andando a morire con grande dignità, come se fosse veramente il generale Della Rovere, non rivelando importanti notizie che avrebbero messo in serio pericolo di vita partigiani e gente civile. CI sono altri momenti di storia Patria sulla Liberazione destinati a rimanere nella storia. Uno dei migliori a cogliere gli attimi di attesa che culminano nella gioia della Liberazione è “Il cambio della guardia”, splendido film del 1962, interpretato da Fernandel e Gino Cervi, reduci dal successo della serie di “Don Camillo e Peppone”. La pellicola tratta dal romanzo “Avanti la musica” di Charles Exbrayat, narra la storia di due amici, Mario e Attilio (Gino Cervi e Fernandel) ai tempi dell’arrivo degli alleati a fine seconda guerra mondiale. Se nella saga di “Peppone e Don Camillo”, Cervi ha sempre fatto il comunista e Fernandel il prete cattolico, qui ad Ardea le cose si sono ribaltate. Cervi
ha recitato la parte del gerarca fascista e Fernandel dell’antifacista. Nella coproduzione italo- francese – filmata sulla rocca della città – il podestà di Ardea, Mario Vinicio (Cervi), dà i poteri a un antifascista, Attilio Cappellaro (Fernandel), tanto i loro due figli stanno per sposarsi e tutto rimane dunque in famiglia. Ma sorgono degli inconvenienti, perché gli americani tardano ad arrivare e i gerarchi fascisti mettono loro i bastoni tra le ruote. A fine film, finalmente arrivano le truppe alleate e la commedia si chiude con la commozione della Liberazione tanto auspicata. Possiamo continuare citando altri film a loro modo esplicativi del particolare momento storico: Il partigiano Johnny (2000). Il regista Guido Chiesa gira la versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio con l’attore Stefano Dionisi nei panni del soldato disertore che si unisce alla Resistenza e che insieme a Fabrizio Gifuni (Ettore) racconta quegli anni, dal 1943 al 1945 circa, da un punto di vista umano e personale. Il terrorista (1963). Film di Gianfranco De Bosio ed interpretato, fra gli altri, da Gian Maria Volonté, Philippe Leroy e Raffaella Carrà. Il regista si rifà alla sua esperienza nella Resistenza veneta, nella quale ha partecipato a Padova per dare a questo film – come descrive il critico Gianni Rondolino – un impianto ideologico molto forte e uno stile asciutto che racconta la storia di un uomo che prova a fondare un GAP (Gruppo di azione patriottica) a Venezia nel 1943. Un giorno da leoni (1961). Nanny Loy descrive i sentimenti della Resistenza da un punto di vista umano e popolare. I suoi giovani, i personaggi di Michele, Gino e Danilo, che decidono di abbracciare la lotta oppure no, sono umani, a volte eroici e a volte indifferenti ma molto iconici del clima di quel periodo e delle scelte che fecero molti ragazzi. Per i quali spesso l’adesione alla Resistenza fu anche momento di crescita personale dopo un primo sentimento di naturale paura. A luci spente (2004). Diretto da Maurizio Ponzi il film racconta l’evoluzione di un set cinematografico romano sullo sfondo della primavera-estate del 1944. Nel cast l’attrice Giuliana De Sio e Giulio Scarpati partecipano ad una storia di trasformazione personale e artistica, dove anche il cinema capisce di non poter più girare lo sguardo di fronte alla realtà della guerra ma deve in molti casi farsi racconto ‘impegnato’ dell’attualità. La ragazza di Bube (1963). La storia d’amore tra la contadina Mara (Claudia Cardinale) e il partigiano Bube (George Chakiris) vista dal regista Luigi Comencini e tratta dal romanzo di Carlo Cassola. Un ritratto umano e sentimentale di come venivano vissuti i rapporti amorosi divisi dalla guerra. E poi vorremmo concludere con un piccolo grande miracolo, quello di Vittorio De Sica, di Cesare Zavattini e de La porta del cielo. “La porta del cielo” è un film del 1944 diretto da Vittorio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, e pur non essendo, da un punto di vista tecnico, tra i loro film più acclamati, è però quello che più di ogni altro assume grande rilevanza per capire “l’uomo De Sica” e “l’artista De Sica”. La genesi del film è particolarissima, perché se è facile raccontare i difetti di un uomo grande, grandissimo come Vittorio, è meno facile dare il senso della sua generosità, della sua fantasia e dell’affettuoso sortilegio in cui con il suo carisma era capace di avvolgere chiunque avesse vicino. De Sica e Zavattini con questo film, non solo avevano compiuto un vero e proprio atto eroico,
ma erano riusciti, evidenziando nella regia un’attenzione al particolare verista, a dare lo spunto per i loro successivi capolavori neorealisti, ma anche per quelli di Visconti e di Rossellini. De Sica, specialmente, era riuscito a fare quello che altri avevano tentato senza successo: cambiare il cinema per cambiare se stessi. De Sica riuscì attraverso questo piccolo film, commissionato dal Vaticano, a salvare dalla deportazione tantissimi ebrei, se ne contano più di 800: da brividi! Il risultato? uno straordinario, involontario miracolo operato dal cinema, che quando è buon cinema, sa essere più vero della realtà. Le riprese del film iniziarono il primo giorno di marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo, fuori le mura. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati. Lì avvenne il “piccolo grande miracolo”. Il fulcro della trama è la storia di un gruppo di malati in viaggio verso Loreto per chiedere il miracolo della guarigione alla Madonna. De Sica impose la presenza del suo grande amico e sceneggiatore di sublime livello Cesare Zavattini, con il quale scriveva i suoi film e avrebbe scritto i capolavori futuri. La sceneggiatura della “Porta del cielo” fu redatta da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, imposto dalla produzione vaticana e ben introdotto nella Curia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, prevalse l’irruenza delle idee del grande Zavattini, sostenute ovviamente da De Sica. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di quell’ateo e ingegnoso Zavattini? Ma il vero miracolo si compì e fu un altro. Poche sere prima dell’inizio delle riprese, nell’ultima decade di febbraio per la precisione, mentre De Sica e Zavattini mettevano a punto gli ultimi accorgimenti di sceneggiatura, assistettero ad una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi, dalla mattina dopo, nella splendida Basilica di San Paolo, sotto la protezione della bandiera vaticana: alla fine erano più di 800 persone, che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita firmata Città del Vaticano. Tra questi ovviamente anche De Sica e Zavattini. Ed anche la Mercader.
L a l o c a n d i n a d e l f i l m “ L a p o r t a d e l cielo” del 1944 diretto da Vittorio De Sica. Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione ( le notizie che arrivavano per radio, davano le truppe alleate ad un passo da Roma, ed esortavano la popolazione a resistere che la liberazione era vicina), la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Bunuel, in cui le persone erano praticamente costrette, in maniera quasi claustrofobica, dalle persecuzioni che avvenivano all’esterno a rimanervi tappate dentro. C’erano un sacco di ebrei dentro, alcuni famosi come Piperno, Lattes e addirittura Carlo Levi, e poi Modena, e tanti tanti partigiani. Le autorità nazi- fasciste erano perfettamente a conoscenza di ciò che stava succedendo all’interno della Basilica, ma non potevano intervenire per l’extraterritorialità di quella Basilica, a tutti gli effetti territorio vaticano. De Sica era stato anche informato da Monsignor Montini, di prestare attenzione, perché le autorità fasciste sapevano perfettamente cosa stava accadendo là dentro. Arrivò poi un’alba, quella del 4 giugno 1944, e le riprese continuavano quella mattina, stranamente presto, molto presto. Roma era ferma e calma quella mattina. Ma nell’aria si avvertiva un’atmosfera diversa e mentre, come da un mesetto a questa parte De Sica continuava a girare senza pellicola e avrebbe continuato anche
per mesi in attesa della liberazione, si udirono da fuori i rumori dei carri armati americani, delle grida della gente in festa: le truppe alleate avevano sfondato, era finita, gli americani erano entrati nella Capitale, Roma era stata liberata, almeno nella Capitale la guerra era finita. E la commozione ebbe il sopravvento, la grande paura era passata e gli 800 ebrei poterono dire grazie all’intuizione e all’eroismo di De Sica, di Zavattini e di tutta la troupe. Si compì il miracolo di un film nel film, il miracolo di una nazione che rifiorisce dalle miserie, partendo dalla descrizione realistica degli scempi causati dalla guerra: era nato il Neorealismo. Anche il grande scrittore Ennio Flaiano, rimase commosso ed estasiato dalla maniera in cui si svolse il film, e cosa accadde intorno al film stesso, rimase anch’egli estasiato dal miracolo che si compì, uno scritto dello stesso Flaiano, apparso il 6 maggio 1945 sul settimanale “Domenica” dice: “La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo, mi sembra, è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso. Basterà ricordare che il 3 giugno scorso, mentre a pochi chilometri di distanza si decideva la battaglia per Roma, 800 persone tra comparse e tecnici vari erano agli ordini del regista nell’interno della Basilica di San Paolo, intenti a girare, mostrando un disprezzo per la guerra che soltanto Archimede avrebbe condiviso. De Sica raccontava che gli aveva chiusi praticamente a chiave, altrimenti qualcuno sarebbe anche, stoltamente, potuto scappare. E rideva come di uno scherzo riuscito. Il film è stato girato a Roma durante i mesi dell’occupazione tedesca. Probabilmente sarebbe rimasto incompiuto se non fosse stato di proposito una risposta a quell’occupazione, agli atti che la caratterizzarono, e addirittura alla filosofia che l’aveva fatalmente provocata come episodio di una guerra diretta più contro l’Uomo che contro determinate nazioni”. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
I 5 migliori film italiani sulla Pasqua + 1 film “alternativo” Considerata la festa religiosa più importante del Cristianesimo, la Santa Pasqua celebra la risurrezione di Gesù. Moltissimi sono i film che raccontano la vita del Messia e la maggior parte di essi girati proprio nel nostro Paese, soprattutto nel sud-Italia, ricco di quei paesaggi brulli, di quelle gole scavate dal tempo e dalla siccità, similari a quelle originarie della Palestina. Ovviamente girare in Italia, significava abbattere i costi, tanto per le produzioni nazionali, tanto per quelle estere, con la possibilità di realizzare il film in un Paese dove non mancava certo la manodopera attoriale, anche e soprattutto nelle innumerevoli comparse. Già perché, la caratteristica dei film, in qualche modo incentrati su Gesù, dalla sua nascita alla sua morte in croce e della sua resurrezione, hanno fin dagli albori del cinema, attirato l’attenzione di cineasti e produttori. Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema. Tra kolossal di chiaro stampo hollywoodiano, cinema d’autore italiano e internazionale, numerosissime sono state le rappresentazioni cinematografiche di uno degli episodi più sentiti della storia del Cristianesimo; ma pochi sono stati quelli definibili “capolavori” sia da un punto di vista storico-sociologico, sia dal punto di vista figurativo. Certamente non possono mancare le opere di Pier Paolo Pasolini, scrittore e intellettuale laico, che da laico ha offerto quella che anche dal mondo della Chiesa è ritenuto il più bel film sulla vita di Gesù, ovvero Il vangelo secondo Matteo; e poi non va scordato il tormentato Gesù di Martin Scorsese, oppure la cruenta pellicola di Mel Gibson o il nazareno di Franco Zeffirelli. Insomma, tante visioni differenti, di un momento cruciale della storia del mondo e del cristianesimo, che prendono spunto sia dal Vangelo, che dal Nuovo Testamento, ma anche da romanzi ispirati alla vità di Gesù Cristo. E non solo, non mancano pellicole ambientate nei tempi moderni, che in qualche modo raccontano la Pasqua, sia da un punto di vista simbolico che commerciale, ma anche bizzarre ed innovative. Quelle che citeremo quì sono 6 pellicole italiane, le quali investono tutti i sottogeneri sopra indicati e rappresentano un’esaustiva selezione per comprendere l’autorialità nazionale di intendere la Pasqua. Si noti bene, come specificato sopra, si parla di Pasqua in tutte le sue innumerevoli declinazioni, anche ma non esclusivamente la descrizione storica della crocefissione di Gesù. https://youtu.be/P7RjM67QFRU 1. Il Vangelo secondo Matteo (1964), di Pier Paolo Pasolini Il film del maestro Pasolini restituisce la forza dirompente e “scandalosa” della parola di Gesù senza gli orpelli della iconografia tradizionale. Fa il tutto rimanendo fedele alla versione dell’apostolo Matteo, raccontando la storia di Gesù, dall’annunciazione alla Madonna, all’angelo che annuncia la sua resurrezione. Sceglie volti di non professionisti, gira tra i Sassi di Matera e gli aridi paesaggi delle Gravine di Massafra e Ginosa, e riesce a catturare, da laico, il mistero del sacro. Lo stile
alterna la macchina da presa a mano che insegue il volto dei personaggi a composizioni memori della pittura quattrocentesca, la brutalità realistica (gli indemoniati, il lebbroso, la crocifissione), all’elegia estatica (il battesimo, l’annuncio finale, qui proposto). Bello ed emozionante come nessun film che sia mai stato trattato dai Vangeli, al di là delle intenzioni d’autore e delle polemiche che lo accompagnarono. Nel cinquantenario della sua uscita, la Chiesa Cattolica, lo ha ritenuto il miglior film sulla vita di Gesù, interpretato dall’allora sconosciuto attore spagnolo Enrique Irazoqui e reso in maniera sublime dal genio di un uomo dichiaratamente laico, ma che ha saputo capire l’essenza dell’essere Cristiano, ben più di molti che si ritengono tali. https://youtu.be/PTTjjhJTpRc 2. Gesù di Nazareth (1977), di Franco Zeffirelli Probabilmente un po’ troppo melenso nel suo messaggio di fondo e certamente inferiore al capolavoro pasoliniano, questa versione della vita di Gesù, diretta da Franco Zeffirelli ebbe un enorme successo di pubblico. Concepito inizialmente solo per la televisione, era infatti diviso in sei puntate, ottenne una riduzione cinematografica forse migliore di quella televisiva, perché epurata di parti “inutili”, venendo trasmessa in tutto il mondo. Interessante anche per le numerose comparse famose che presero parte al film. https://youtu.be/RsC2Y1lNmUw 3. Non c’è pace tra gli ulivi (1950), di Giuseppe De Santis Ritratto di un mondo arcaico, segnato dalla storia ed assolutamente originale in un periodo storico in cui il “Neorealismo” era il genere più affermato nel panorama cinematografico italiano, il film di De Santis è legato alla Pasqua dal suo simbolismo. Ovvero quello che, 70 anni fa, ma anche oggi è tipico dell’Italia rurale e delle sue antiche tradizioni: quando è Pasqua significa che ormai per gli ulivi è tempo di fioritura. La vicinanza alla simbologia pasquale di questo raffinato film bucolico che è un intenso melodramma sociale, lo rende uno dei più interessanti legati ad una visione contadina della festività religiosa.
P r i m a c o m u n i o n e ( 1 9 5 0 ) , d i Alessandro Blasetti 4. Prima comunione (1950), di Alessandro Blasetti Supportato da un Aldo Fabrizi a dir poco magistrale e diretto con mano sapiente dal maestro Alessandro Blasetti, il film in perfetta commistione tra commedia e neorealismo narra della mattina di Pasqua travagliata di un commendatore che deve ritirare il vestito della prima comunione di sua figlia. Gliene succederanno di tutti i colori, affrontando contrattempi di ogni tipo. Il commendatore interpretato da Fabrizi è particolarmente azzeccato nella sua pretesa di risolvere ogni problema estraendo il portafoglio, sintomo ancora ai “primordi” di un’Italia pronta a farsi travolgere dal consumismo frenetico, quale è al giorno d’oggi anche una festa religiosa. https://youtu.be/ky67jMDAXhg 5. Volere volare (1991), di Maurizio Nichetti Uno scioglilingua cinematografico che presenta un ammiccamento puro e metaforico alla maschera da cartoon, ovvero un magistrale esempio di comicità intelligente e non volgare. Questo è Volere volare, bizzarro film diretto ed interpretato da Maurizio Nichetti, risposta italiana a Roger Rabbit. Il protagonista che di lavoro sonorizza cartoni animati, ad un certo punto si trasforma in cartoon e il film va avanti così, con una riuscita e fantasiosa tecnica mista tra realtà e animazione. Dinamico, irrazionale, divertentissimo, supportato da una bravissima Angela Finocchiaro e dai suoi fidi cartoon, il film è basato tutto sull’estro di Nichetti, che riesce a tirare fuori di tutto e di più dalle situazioni quotidiane, con una sfrenata allegria infantile. E siccome si tratta di qualcosa che ha a che fare con
l’istinto fanciullesco che ognuno ha nascosto dentro di sé, nel film sono presenti, in numerose scene le uova di Pasqua, simbolo, oltre che del consumismo, di quella spensieratezza fiabesca tipica dell’animo candido dei bambini: il cioccolato, la gioia della sorpresa, l’affetto dei propri cari. Ed eccoci al film alternativo enunciato anche nel titolo. https://youtu.be/e-k0B5nc1LA 6. White Pop Jesus (1979), di Luigi Petrini Un bizzarro, trash e atipico musical moderno interpretato da Awana Gana. Il suo personaggio è Jesus, un giovane, fuggito da un manicomio, convinto di essere il Messia, ritornato sulla terra: emerge dalle acque del mare a Taranto, vestito di bianco e va in giro per la città a professare. Parodia di Jesus Christ Superstar, film di Norman Jewison del 1973, il film di Petrini è una sorta di musical che ripercorre la vita di un moderno Gesù Cristo. Il tutto per le strade di Taranto, nelle quali si riconoscono il Lungomare, la Villa Peripato e tutto il Borgo. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Addio a Lucia Bosè, diva d’altri tempi L’epidemia mondiale di Coronavirus, ci porta via una delle dive più rappresentative e più leggendarie del nostro glorioso cinema, ovvero Lucia Bose’. Lei, che era stata scoperta, giovanissima, dal maestro Luchino Visconti, quando andando a comprare le paste nella pasticceria dove lavorava come commessa, le disse “Lei ha un viso fotogenico, farà del cinema”. Lucia aveva sì e
no 16 anni: era la Milano dell’immediato dopoguerra, e proveniva da una famiglia semplice dove si parlava esclusivamente il dialetto milanese e nessuno aveva grilli per il capo. La vita di Lucia cambia quando un giovane ignoto fotografo, invia una sua foto alla rivista “L’Europeo” senza nemmeno dirglielo. La rivista ha lanciato un concorso, Miss Sorriso 1947. Da quella foto parte però l’offerta di andare alla seconda edizione di Miss Italia, che allora è un evento per il quale il Paese si ferma. Lucia va a Stresa con la mamma Francesca, nel settembre del ’47, e contro ogni pronostico (suo, in primis) vince. E’ un podio pazzesco: seconda si classifica Gianna Maria Canale, terza Gina Lollobrigida, mentre una quarta concorrente – tale Eleonora Rossi Drago – viene squalificata perché già sposata.
L u c i a B o s è a l l ’ e p o c a d e l t i t o l o d i M i s s I t a l i a .
In giuria, a Miss Italia, c’è Edoardo Visconti di Modrone, parente di Luchino: un segno del destino. Lui si innamora follemente di lei e la invita ad andare con lui a Roma, dove ritroverà Luchino; ma è un uomo sposato, e a un certo punto la diciottenne Lucia deve scegliere fra una vita da “amante segreta” e una possibile carriera nel cinema. Sceglie la seconda, e il suo esordio è incredibilmente rocambolesco. Visconti la vorrebbe per un film che sta preparando ma non farà, “Cronache di poveri amanti”; Giuseppe De Santis è indeciso fra lei e Silvana Mangano per “Riso amaro”, e alla fine sceglie la seconda. Dopo l’immenso successo del film sulle “mondine” De Santis prepara “Non c’è pace tra gli ulivi” (1950) e vorrebbe di nuovo la Mangano, che però ha appena sposato Dino De Laurentiis ed è rimasta incinta; a quel punto Visconti dice a De Santis “perché non prendi la milanese?”, come la chiamano tutti nel giro. “Non c’è pace tra gli ulivi” è un esordio folgorante, seguito quasi subito dai primi due film di Michelangelo Antonioni, “Cronaca di un amore” (1950) e “La signora senza camelie” (1953), dove Lucia – pur giovanissima, e di estrazione proletaria – incarna meravigliosamente due donne borghesi molto più grandi di lei. L u c i a B o s è e W a l t e r Chiari nel 1954. Torna poi a lavorare con De Santis, interpretando “Roma, ore 11” (1952), un film corale tutto al femminile, tratto da un fatto di cronaca molto ben rielaborato dal punto di vista narrativo, con un’unità di luogo che prima attira e poi disperde miriadi di singole storie. Uno dei capolavori del “tardo neorealismo”, per uno sfaccettato ritratto della donna italiana anni ’50, con una congrua riflessione sui mass-media invadenti e manipolatori. Un anomalo film-inchiesta in cui spicca la straordinaria interpretazione drammatica di Lucia Bosè, che a soli 21 anni dimostra una sicurezza di fronte alla macchina da presa, davvero da attrice matura. Lavorerà anche nella commedia, ad esempio in “Parigi è sempre Parigi” (1951), storia di un gruppo di italiani in vacanza a Parigi, per seguire un’amichevole della nazionale di calcio. Su questo set conosce un giovanissimo Marcello Mastroianni e soprattutto il maestro Aldo Fabrizi. Seguirà una carriera discontinua, di grandi picchi e lunghi silenzi. Leggendario resta il suo legame d’amore con Walter Chiari. Il fascino seducente di Walter Chiari
non è di certo un mistero. La loro storia d’amore si sviluppa alcuni anni prima che la donna sposasse il torero Luis Miguel Dominguin. Sono tante le fotografie che li ritraggono insieme, una coppia che farà sognare gli italiani e che varrà ad entrambi il titolo degli eterni fidanzati del cinema. Il loro legame durò circa due anni, con anche alcune collaborazioni cinematografiche in comune: “Era lei che lo voleva” e “Accadde al commissariato”, per citarne alcune. Lucia diventerà vicina di casa dell’attore e i due convivranno così a Milano, come sottolinea un articolo di Oggi del ’54. Alla fine di quell’anno però, la Bosè conoscerà e sposerà Luis Miguel Dominguin, dopo essere partita per la Spagna per lavorare con Bardem contro il parere del fidanzato Chiari e della sua famiglia. All’epoca il torero era fidanzato con Ava Gardner, che lascerà per l’attrice. La prima invece si fidanzerà con Chiari, in uno strano scambio di partner. “La Bosè è stata la donna della sua vita, lo capisco. Bellezza rara, faceva impazzire anche me”, dirà diversi anni più tardi a Diva e Donna Simone Annicchiarico, il figlio di Chiari.
L u c i a B o s è c o n i l t o r e r o D o m i n g u i n . Poi venne il matrimonio con Luis Dominguin che lei, ancora oggi, chiamava semplicemente “il torero”: un matrimonio che in Spagna la trasforma in una sorta di “first lady”, perché è difficilmente immaginabile la popolarità di cui gode in quel paese il toreador numero 1; ma che la mette anche in situazioni imbarazzanti, dalle obbligate frequentazioni con il “caudillo” Franco e il gotha della reazionaria chiesa ispanica, fino alla progressiva rinuncia al cinema che è poco degno della “donna del torero”. Ciò nonostante, dopo la separazione, avvenuta in seguito ai continui tradimenti del marito, torna a lavorare per il cinema “impegnato” con i fratelli Taviani, con Fellini (nel “Satyricon”), con la Cavani, con Buñuel, con Bolognini, con la Duras, con Ponzi e con tanti altri. Ma se Visconti, fu lo scopritore del talento in erba di Lucia Bosè, il suo mentore fu Michelangelo Antonioni, che la conobbe in seguito al suo debutto sul grande schermo grazie al regista Giuseppe
De Santis. https://youtu.be/w_ZA_3uv4lM Sarà un pranzo con Luchino Visconti, a permettere che quella ragazza dalla bellezza significativa entri in contatto con il terzo regista più importante per la sua vita. All’epoca Antonioni è alla ricerca di un volto di primo piano per il suo film “Cronaca di un amore” e Visconti gli suggerirà di pensare alla Bosè. “Era scettico, mi considerava giovane e acerba per il ruolo di una trentacinquenne elegante e borghese, ma decise di farmi un provino che superai alla grande”, confesserà l’attrice nel corso di un’intervista. Sarà su quel set che si sentirà per la prima volta bellissima. Antonioni si rivelerà però estremamente severo sul set, “a tratti terribile”. “Dopo quaranta ciak, visibilmente stanca, sovrastata da un enorme cappello con veletta, mi scappò da ridere. Non lo avessi mai fatto, Michelangelo si avvicinò furioso e mi mollò uno schiaffo”, confessa la Bosè. Di fronte a quella scena, chiunque fosse stato presente avrebbe iniziato a darsela a gambe levate, ma non l’attrice. Lei, sicura di aver peccato di non professionalità, chiederà semplicemente di riprendere a girare. Se ne va dunque la “Ragazza di piazza di Spagna”, la giovane sartina Marisa, che nel leggendario film di Luciano Emmer (“Le ragazze di piazza di Spagna”-1952) sognava di fare la mannequin e si ritrovava a fare colazione sulle scalinate della famosa piazza romana, insieme ad altre due ragazze piene di sogni di e di speranze. Parlavano del domani, parlavano del futuro, diventando il simbolo di altre milioni di ragazze che in quegli anni erano chiamate ad emanciparsi e a diventare il motore trainante del nascente boom economico italiano. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
Nel 1995 usci “Safe”, un film che parlava di malattia, quarantena forzata e isolamento sociale. Una cupa profezia cinematografica che tutti dovremmo vedere. In questi giorni di Coronavirus e di clausura forzata, mi è tornato in mente un film abbastanza vecchiotto, del 1995, “Safe”, di Todd Hayne, lo stesso regista che il mese scorso (febbraio) aveva portato nelle sale italiane il film “Cattive acque” con Mark Ruffalo. Perché mi sia tornato in mente questo film è presto detto. Credo che questo profetico film d’autore, all’epoca assai sottovalutato, abbia diverse cose in comune e molti punti di contatto con il momento storico che stiamo vivendo, segregati in casa e smaniosi di recuperare una normalità che oggi ci pare straordinaria ed ammantata di nostalgia. Scopri il nuovo numero > Virale Il film “Safe” parla di Carol White (una straordinaria Julianne Moore), signora dell’alta borghesia californiana, che da giorno all’altro si scopre affetta da Sensibilità chimica multipla, una rara malattia che la porta rapidamente a diventare allergica ad ogni composto, prodotto, agente ed oggetto della modernità, così come ai gas di scarico ed all’inquinamento ambientale. La ricca e annoiata Carol, che passava le giornate fra il parrucchiere e lo shopping con le amiche, le sedute di aerobica e l’hobby del giardinaggio, fra le sue manie salutiste e quelle di design che la portavano a variare spesso l’arredamento della sua lussuosa villa, dovrà cambiare radicalmente stile di vita. Per prima cosa si isolerà nel suo appartamento, rendendolo a poco a poco asettico e sterilizzato, poi cambierà dieta ed orari e comincerà a rimpiangere tutto ciò che prima le sembrava scontato e banale, perfino il rapporto con il marito Greg (l’attore Xander Berkeley) ed il figlio di prime nozze di quest’ultimo, Rory, di 10 anni.
Ma l’isolamento forzato non funziona, e, alla ricerca spasmodica di un rimedio, un giorno si imbatte nella pubblicità del Wrenwood Center, un ranch che raccoglie una comunità di 200 individui un po’ asceti ed un po’ hippie, che vivono e ricercano un ideale ritorno alla natura ed alla semplicità. A capo della comunità c’è un tale, Peter Dunning (l’attore Peter Friedman), uno scrittore a sua volta malato di AIDS, che si atteggia a guida spirituale in pieno stile new age. Todd Hayne gira il film prediligendo i campi lunghi, che rendono le composizioni fredde e le atmosfere inquietanti, oltre a creare un ideale distacco dalla protagonista, il che ne accentua ancora di più l’isolamento. Il film è diviso in due parti abbastanza distinte: una prima più narrativa, sperimentale, visionaria nel restituirci la quotidianità dell’alta borghesia americana; la seconda più formale, convenzionale, quasi documentaristica, perfetta nel tratteggiare il calvario della protagonista, che vive su di sè tutte le possibili cure psicologiche e farmacologiche alle quali si sottopone per guarire. Il film, cupo e pessimista, che ricorda per molti aspetti Cronenberg, è una critica aspra e cruda alla società consumistica e materialistica occidentale, ripiegata su se stessa ed incapace di vedere i danni che sta arrecando al pianeta in cui vive. https://youtu.be/MP3kLKLaiTw Todd Hayne, che in seguito si farà apprezzare per film come “Lontano dal Paradiso”, “Carol” e “Io non sono qui”, dirige gli attori con maestria, tirando fuori ottime performance. Fra tutte, è proprio Julianne Moore che ci restituisce un’interpretazione perfetta nel tratteggiare la sfaccettata personalità di Carol con tutte le sue nevrosi, le sue idiosincrasie e le sue fragilità, un personaggio sempre sull’orlo del precipizio, pronto ad esplodere, ma che in realtà interiorizza tutta l’angoscia e le tensioni della sua patologia e del suo male di vivere. Rivedere questo film oggi, in piena emergenza coronavirus, può sembrare ai più un dannoso atto di masochismo, ma sono profondamente convinto che in realtà rappresenti un essenziale esercizio ginnico per allenare la nostra memoria, così spesso incapace di fissare i ricordi importanti, le esperienze significative e le emozioni più profonde. Quando usci, “Safe” era un film potente, crudo e visionario, quasi di fantascienza, che anticipava sul
finire del secolo scorso un mondo che ancora doveva venire e che oggi è quello in cui viviamo, ci muoviamo e nel quale ci ammaliamo. E non importa se ci ammaliamo di Sensibilità chimica multipla o a causa del Coronavirus, quello che il film ci racconta è la lenta ed inesorabile parabola di un essere umano che, in un mondo oramai sintetico, per scampare da un male senza forma, peso e consistenza, è costretto a richiudersi nel profondo della propria individualità, scoprendo con sgomento che ciò che chiamava vita era riempita più di cose e di oggetti che di significati ed emozioni. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Gli anni più belli - Il film “È il film più grande che abbia mai realizzato perché i personaggi sono la microstoria nella cornice della grande storia. Sullo sfondo della storia che racconto c’è l’Italia che cambia, dalla fine degli anni di piombo alla caduta del Muro di Berlino, dalla stagione di Mani pulite all’11 settembre. Racconterò anche l’ascesa del Movimento 5 stelle. Non sarà un viaggio nostalgico, o pessimista: tutti i personaggi, con le loro difficoltà, sono spinti dall’idea che domani sarà un giorno migliore”. Gabriele Muccino Che male c’è a rifare un film, sia anche questo una delle pietre miliari del cinema italiano e
mondiale? Nulla, perché le ispirazioni possono diventare imitazioni, le riproposte non mancanze di idee nuove, ma voglia di raccontare il proprio presente. Il regista de Gli anni più belli, Muccino si rifà a modelli accreditati e storicizzati, che hanno dettato, ai loro tempi, evasione, esempio e anche qualità. È vero che i tre protagonisti, Giulio (Favino), Paolo (Rossi Stuart) e Riccardo (Santamaria) li abbiamo già visti e rivisti e certo ricordano i loro omologhi Gianni (Gassman) Antonio (Manfredi) e Nicola (Satta Flores) di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ed è vero che la Gemma che fa Micaela Ramazzotti assomiglia alla Luciana di Stefania Sandrelli di quel film. Ma cosa c’è di male? E potremmo ancora aggiungere che Muccino rifà la scena della fontana di Trevi. Non è lesa maestà come qualcuno ha erroneamente annunciato, ma piuttosto un richiamo di estetica e di sentimento nostalgico e gradevole, ma soprattutto un omaggio pieno d’amore verso i grandi autori della
commedia all’italiana. Potremmo chiuderla dicendo che Muccino ci ha fatto ricordare Scola, così come Sorrentino, per certi versi, ci ricorda Fellini. E ancora, che questo quartetto di incredibile bravura, non ci fa rimpiangere i
Gassman, i Manfredi, i Satta Flores e la Sandrelli, ma rappresentano la naturale evoluzione delle loro storie. Già perché se il film di Scola, racconta attraverso la storia di tre amici ed una ragazza oggetto dei desideri di tutti e tre, trent’anni di Italia, dalla Liberazione alla metà degli anni ’70; il remake di Muccino dai primi anni ’80 arriva ai giorni nostri, seguendo esattamente il filo logico del film del maestro Scola. E così il film di Muccino si erge, in maniera impeccabile come il commovente e amaro ritratto di una generazione, che “credeva di cambiare il mondo, e invece è il mondo che l’ha cambiata”, come profetizzava Manfredi nell’originale. https://youtu.be/X5KHk6SGOEU Andando più nel concreto, il film è sorretto dal quartetto di protagonisti, con la splendida aggiunta e scoperta di una Emma Marrone attrice di livello. Dopo l’entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un’identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un’onestà artistica credibile. Il merito è certamente degli attori, che trovano la loro misura anche all’interno dello stile dominante, ma anche di una regia attenta. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant’anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora nessuno, negli anni 2000, aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una “metamorfosi socioculturale”, umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C’eravamo tanto amati, fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l’ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un’Italia molto diversa dalla nostra, ma ugualmente come gli originali,
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