2020 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Dicembre Novembre - Unità ...
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2020 UNITÀ PASTORALE Barbarano Mossano Villaga Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Dicembre Novembre Claudio Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
II^ DOMENICA DI AVVENTO 06 dicembre 2020 Per quanto non siano prossimi nel testo originale (sebbene entrambi tratti dal libro del profeta Isaia), l’annuncio di oggi sembra la risposta all’invocazione ascoltata nella prima lettura di domenica scorsa, quando si chiedeva a Dio che si mostrasse e tornasse dal suo popolo: «Consolate, consolate il mio popolo!», dice Dio per tramite del profeta a Israele; e ancora: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza!». Il tempo della salvezza. Siamo all’inizio del libro del co- siddetto Deutero-Isaia (cc. 40-55), collocabile storicamente verso la fine dell’esilio babilonese (587-539 a.C.), ma Israele non vede ancora la salvezza a portata di mano. Allora quest’uomo, il “secondo” Isaia (di cui sappiamo ben poco e che non ci racconta la sua vocazione), pienamente solidale col suo popolo e certo che nulla di ciò che sta avvenendo sia fuori della potenza di Dio e che il giudizio di Dio sull’empietà del suo popolo sia giusto, viene chiamato a portare un messaggio sorprendente. Sebbene pieno di scetticismo e di stanchezza, il profeta ode una voce più forte, che lo chiama ad andare e a profetizzare. Il messaggio che ripeterà (in una modalità quasi martellante, dall’inizio alla fine del suo libro) è quello contenuto anche nel brano di oggi: la schiavitù di Israele è finita! Dopo il tempo del giudizio, annunciato da profeti come (il primo) Isaia e verificatosi poi con la caduta di Gerusalemme, è giunto ora il tempo della salvezza! C’è un messaggio finalmente nuovo per questo popolo e questo momento storico: “non temere”, perché Dio ha udito il tuo lamento e continuerà ad agire in tuo favore; la tua richiesta è stata esaudita. Il tempo del pianto e del lamento sono finiti, ed ecco che inizia il tempo della gioia. Arriva, quindi, la consolazione, ma viene anche riaffermata l’appartenenza: Israele, dice Dio, è ‘ammì, il «popolo mio» (40,1): non lo ha dimenticato né lo ha rinnegato, ma si conferma suo Signore. Il popolo ha sopportato tante tribolazioni, addirittura «il doppio per i suoi peccati». Esse non sono state una vendetta di Dio, ma una conseguenza diretta dell’empietà umana; eppure nulla, secondo la mentalità anticotestamentaria, esula dalla decisione e dall’onnipotenza divina: per questo è stata «la mano del Signore» a dispensare questo 1
abbondante contrappasso. Consolazione e conversione. «Consolate, consolate il mio popolo!». Questo grido ripetuto, pressante, deve passare da una parte all’altra e arrivare dovunque, a tutte le città di Giuda, affinché si preparino al Signore che viene. Al popolo in esilio il profeta annuncia la consolazione: Dio in persona è la consolazione del suo popolo, al di là delle vicende concrete che il profeta sa ben leggere! È Dio, dunque, che ritorna! E ritorna con potenza, come il più forte, come colui che ha il dominio e porta il premio, anzi: è egli stesso il premio! La ricompensa annunciata non è una cosa, ma rincontro con la persona stessa di Dio! Prepararsi alla novità. «Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore». Il legame tra la voce e il deserto ha fatto sì che questa profezia venisse facilmente associata (e sarà così nel vangelo di oggi) a Giovanni Battista, «voce di uno che grida nel deserto» (Me 1,3). In realtà è preferibile leggere separatamente: il deserto è il luogo dove preparare la via (non dove la voce grida). Il popolo deve preparare una strada, rendendo pianeggiante un percorso ben tortuoso e accidentato, spianando ogni colle, perché per quella strada verrà il Signore! Al Signore che viene deve essere preparata una sorta di percorso trionfale, perché su quelle antiche e possenti strade del regno di Babilonia, sulle quali un tempo giungevano i re oppressori, adesso arriverà il liberatore di Israele! Tutta l’esortazione, quindi, sembra voler rimettere in moto qualcosa da tempo assopito o inerme (a ciò contribuiscono i ripetuti imperativi): l’annuncio della consolazione non può cadere nel nulla, deve creare esso stesso qualcosa di nuovo, perché è parola uscita dalla bocca di Dio, che «non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11). Da Sion, poi, la «lieta notizia» arriverà a tutte le città di Giuda. Si noti la compresenza di immagini forti e tenere allo stesso tempo per descrivere il Signore: il potente e il pastore premuroso, il braccio che abbatte e la mano che raduna. Il forte per eccellenza è capace di un’infinita tenerezza («porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri», v. 11): se da un lato ci vuole, infatti, la massima forza per guidare la storia, dall’altro il profeta celebra la grande tenerezza di chi porta sul petto le nostre vite e conduce dolcemente le nostre esistenze. Salmo responsoriale Sal. 84(85) L’annuncio della pace per Israele è accolto dal salmista, che sente la prossimità del Signore che viene. L’orante prova ad ascoltare la voce del Signore e lo sente annunciare salvezza per Israele (in risposta alla supplica di intervento presente nei versetti omessi dalla liturgia). Non può, quindi, trattenersi dal proclamare alla sua comunità che è prossimo un nuovo inizio, ben diverso dalle angosce del presente. Anche il Salmo 84 riprende, dunque, l’immagine del cammino, della via tracciata dal passaggio di Dio («giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino», v. 11). Nuovamente si fondono insieme potenza e tenerezza: la verità e l’amore, la giustizia e la pace vengono personificate e presentate in modo dinamico (con una giustizia che fa quasi capolino dalle nuvole). Cielo e terra si incontrano, l’uno proteso verso l’altra. La comunità orante, dunque, non può desiderare altra contemplazione e invoca che questo momento di benedizione giunga il prima possibile: «Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza». 2
La Seconda lettera di Pietro è una specie di omelia in forma epistolare, una sorta di testamento spirituale dell’apostolo Pietro al quale l’autore finale ha voluto dare la forma di lettera, sebbene gli studiosi antichi e moderni non ritengano che tale autore sia stato davvero l’apostolo Pietro, nonostante l’autopresentazione iniziale. Il contesto ricostruibile della lettera è riconducibile alla fine del I secolo: gli apostoli sono personaggi ormai del passato della comunità e anche il tema degli ultimi tempi è affrontato in un modo nuovo rispetto all'urgenza escatologica delle lettere apostoliche più antiche. In questa lettera, infatti, soprattutto nella sua terza parte (corrispondente al terzo capitolo, che leggiamo in parte oggi) viene presentata una visione piuttosto spaventosa della fine del mondo, che sembra portare con sé la distruzione di ogni cosa. Piuttosto che la gioia per rincontro con il Cristo che torna, dunque, subentra adesso l’esortazione alla vigilanza, allo stare in guardia, affinché i credenti non vengano ingannati dagli empi e non vengano colti di sorpresa dagli ultimi eventi. Proprio quest’ultima parte, quindi, è oggetto della seconda lettura di oggi, in particolare nella sua esortazione alla vigilanza. Tuttavia questa vicinanza, anche nei toni, con l’immaginario dei testi apocalittici, non deve farci perdere di vista la vera preoccupazione del discorso della Seconda lettera di Pietro, che non è di spaventare i propri destinatari con la minaccia di un “ultimo giorno” catastrofico, quanto piuttosto di esortarli alla santità, al perseguimento di una vita irreprensibile, nella correttezza della condotta e nelle preghiere. Come, infatti, avviene nella stessa Apocalisse e in profeti come Gioele ed Ezechiele, questo linguaggio e immaginario da cataclisma servono all’autore per parlare della realtà e della severità del giudizio e sottolineare, per ogni cristiano, la necessità di perseguire la santità. I destinatari della lettera sembrano vivere lontano dalla patria, essere nel mondo come in esilio, lontani da Dio, mentre la patria vera è il Signore in persona e la ricompensa piena è stare con lui. Quindi, anche parlare di fine del mondo, di un «giorno di Dio nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno» ricorda semplicemente ai cristiani che tutte le cose sono destinate a dissolversi (anche tutte le nostre opere e le imprese o tensioni che ci affannano), mentre «i nuovi cieli e la terra nuova» che verranno da Dio saranno per sempre una dimora eterna per i suoi figli. «Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia»: perché questo avvenga c’è bisogno della misericordia del Signore e della sua vicinanza. In fondo la comunità alla quale scrive l’autore assomiglia molto a noi, forse più di quanto non ci assomiglino i destinatari del vangelo odierno: siamo ormai tornati alla nostra realtà quotidiana e abbiamo deciso che parlare della seconda venuta del Signore, del “giorno del Signore” forse è soltanto una favola, o addirittura un fallimento. Invece il testo ci ricorda che questa seconda venuta è una promessa, anzi una certezza, ed è proprio la roccia sulla quale la chiesa è stata costruita, ossia la voce di Pietro, a ricordarcelo. La certezza di questo ritorno e di questo incontro può rinvigorire la stanchezza e l’allontanamento di una comunità che ha dimenticato l’urgenza di dire: «Maranathà, vieni, Signore Gesù». 3
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Chiamati alla conversione Il tempo dell’attesa è anche tempo della consolazione, perché fondato sulla certezza che il liberatore di Israele sta tornando, su una via che ciascun uomo, ora come allora, è invitato a preparare e spianare: lo dice nella prima lettura il profeta al popolo in esilio, per rinsaldare i cuori affranti e scettici. Lo grida anche Giovanni Battista nel vangelo, nel primo episodio narrato dall'evangelista Marco, per spianare la strada al protagonista del racconto, il più forte, il detentore del diritto vero: Gesù di Nazaret, Messia e Figlio di Dio. Per questo nel salmo invochiamo la misericordia di Dio, perché ci doni di sperimentare profondamente questa consolazione e contemplare il meraviglioso "nuovo" che sta preparando per noi, e che sarà ben diverso da questo nostro mondo, destinato a passare con tutti i suoi limiti e le sue fragilità. Dio sta creando nuovi cieli e una terra nuova, dove abiterà la giustizia (seconda lettura). Commento al Vangelo: Una metafora domina le letture odierne ed è quella della ‘strada’. Correlativa a quella della via, è l’idea di Chiesa come il nostro essere un popolo che si forma mettendosi in cammino. Isaia si rivolge a un popolo sfiduciato, che deve essere consolato e aiutato a mettersi in marcia; ci servono perciò profeti capaci di parlare al cuore, profeti di fiducia e non di sventura. Di fronte alla devastazione delle nostre coscienze, bombardate da messaggi negativi e nichilistici, per ciascuno di noi diventa perciò importante l’incoraggiamento che ci giunge dal messaggio profetico. Anche le parole del Battista vanno in questa direzione, preparando i nostri cuori alla venuta di colui che battezza nello Spirito. Certo, la sua figura austera e penitente non manca di contestare il nostro stile di vita quando non sentiamo più il bisogno di conversione: una consolazione ‘a buon mercato’ non ci arrecherebbe, però, alcun frutto duraturo. E’ indispensabile soprattutto la nostra testimonianza ispirata a una fede profonda nella salvezza offerta da Dio, il nostro voler essere un popolo che si lascia attrarre dalla promessa del Battista, per essere poi in grado di convincere gli altri che la salvezza è vicina. Peraltro nascerà sempre in noi la domanda degli scettici: ma ne vale la pena? La parola di Dio ci risponde che ne vale la pena. La lettera di Pietro ci ricorda che questo tempo è carico della presenza di Dio, e lo si può capire solo credendoci sul serio e impegnandosi in esso con tutta la propria esistenza: la promessa di «cieli nuovi e terra nuova» genera in chi crede una vita di autentica santità, già essa stessa annuncio e segno tangibile di quel mondo nuovo. Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore. 4
IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA 08 dicembre 2020 I capp. 1-11 della Genesi contengono la cosiddetta “storia delle origini”: come in ogni cultura antica, anche quella biblica ha prodotto dei racconti a carattere mitologico con cui “dare forma” e risposta agli interrogativi sull’origine del mondo, sulla nascita dell’uomo, sul perché della sofferenza e del male, tenendosi in contatto con il divino. Guidati dallo Spirito, gli agiografi antichi hanno così creato delle storie che contengono una verità universale, non solo confinata all’inconoscibile momento originario della creazione: il Signore Dio ha creato il mondo e l'uomo in un atto libero di donazione e di amore, ma l’uomo ha infranto l’alleanza originaria con il suo Creatore respingendone la paternità e portando, così, squilibri anche nel rapporto con gli altri uomini e con il creato tutto. Tuttavia, a questa rottura unilaterale Dio risponde con una promessa di bene, che sarà generata nella storia e vedrà l’umanità vincitrice sul peccato, anche se questo costerà fatica e dolore. Il cap. 3 della Genesi racchiude esattamente questo protovangelo: l’uomo e la donna, che violano il comando divino certi della propria supponente autosufficienza, si ritrovano smarriti e divisi nel luogo che un tempo era stato di gioia e di incontro. L’iniziativa di andare alla ricerca dell’uomo è di Dio, che chiama la sua creatura chiedendole: «Dove sei?». Quella domanda, apparentemente ordinaria (che a Caino sarà nuovamente rivolta dopo il fratricidio, chiedendogli dove sia suo fratello Abele, cfr. Gen 4,9), in realtà interpella la coscienza, chiedendo a ciascuno dove si stia collocando rispetto al progetto di bene di Dio e alla sua offerta di alleanza. Il male e i suoi inizi. L’uomo confessa la propria paura e la consapevolezza di una nudità finora mai problematica, ma adesso cifra di una fragilità profonda. Perché confessi il proprio peccato, però, il cammino è lungo, come sarà lungo l’interrogatorio quasi maieutico che Dio deve avviare (vv. 11-13). La reazione umana immediata è di rilanciare la colpa direttamente a Dio, attraverso il dito puntato verso la creatura da lui affiancataci: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero [...]. Il serpente mi ha ingannata» (vv. 12.13). La responsabilità umana è minimizzata da Adamo ed Eva ad un atto quasi naturale e innocente: «io ho mangiato»; in fondo, cosa c’è di male? Ebbene, nel racconto il “male” viene misurato dalla reazione di Dio, che nella selezione proposta dalla lettura odierna è rivolta solo al serpente, ma nel racconto completo prosegue con la donna e l’uomo, in ordine inverso rispetto al dialogo precedente in cui ciascuno 5
cercava di smarcarsi dalla propria responsabilità. Va sempre sottolineato che l’unica maledizione divina diretta riguarda il serpente tentatore, non l’umanità né la terra. Proprio in questa maledizione, però, è contenuto il “protovangelo”: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (v. 15). Il “seme” della donna, la sua discendenza, schiaccerà la testa del serpente, che pure proverà a morderle il calcagno, ad avvelenarne l’esistenza. La presenza della discendenza del serpente è certa: male e tentazione non scompariranno dalla storia dell’uomo, quindi il conflitto sarà continuo e il peccato e la morte sempre dietro l’angolo; ma la testa di quel serpente, un giorno, sarà schiacciata. Se Adamo ed Eva, progenitori di tutta la stirpe umana, non sono riusciti a credere piuttosto nella parola di Dio che in quella del serpente, proprio da loro, invece, nascerà chi riuscirà a farlo. La solennità di oggi indica in Maria, «piena di grazia», colei che apre la strada all’umanità tutta verso questo giorno glorioso. Salmo responsoriale Sal. 97(98) Il salmo proclamato oggi sarà riproposto nel giorno di Natale, sebbene con un’antifona differente. Prodotto probabilmente in un contesto cultuale (la festa per l’intronizzazione del Signore Re), esso invita tutto il creato a celebrare Dio per le opere compiute, che gli hanno dato la «vittoria» sui suoi avversari, ovvero gli avversari del suo popolo. Nella celebrazione dell’immacolata Concezione di Maria, dunque, possiamo ripetere: «Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie», ricordando che, per opera della sua grazia, l’antica ribellione è stata dominata e l’umanità intera potrà essere riscattata a partire dal grembo di una vergine che ha accolto il Verbo divino. 6
L’esordio della Lettera agli Efesini è una bellissima preghiera di benedizione rivolta a Dio, che riassume a grandi tappe la storia della salvezza e anticipa i temi dello scritto. La lettera (non considerata autentica dagli studiosi, ma as- solutamente affine per temi al corpus paolino) ha uno stile molto solenne, come vediamo dalla sintassi piuttosto complessa di questo esordio. Il v. 3 («Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo») vede per ben tre volte la ricorrenza della radice eulogh- come verbo, aggettivo e sostantivo. Il Signore è riconosciuto e lodato quale fonte di ogni beneficio, come il testo prosegue a narrare, dalla creazione fino all’invio del Figlio e ancora oltre, in attesa del dono della vita senza fine oggetto delle sue promesse escatologiche. In particolare, la selezione operata dalla liturgia odierna evidenzia, tra i benefici per cui lodare Dio, l’elezione (vv. 4-6a) e la chiamata alla fede (vv. 11-12) del “noi” orante; si tratta dei giudei, ma nei versetti omessi non manca un costante dialogo con il “voi” dei pagani, ora pienamente uniti e riconciliati in Cristo Gesù. L’elezione libera di Dio, che si attua in Gesù, rende i cristiani «santi e immacolati nella carità», ossia nell’agápē: questo modo di essere e di agire dei cristiani riflette, dunque, la scelta di Dio e il suo senso profondo, che, per dirlo con i termini di una lettera paolina autentica, è renderli conformi all’immagine del Figlio suo (cfr. Rm 8,28-31). Il noi esprime la consapevolezza di esser stati eletti per asso- migliare a Cristo. Infatti per questo motivo Cristo ha partecipato loro anche la condizione filiale, perché siano sempre più come lui. E come lui, i credenti sono costituiti «eredi», sempre in virtù dell’amorevole e gratuita iniziativa di Dio; erede per eccellenza è il Figlio, ma eredi divengono anche gli eletti, sia i giudei - che “prima” hanno sperato nel Cristo - sia i gentili. Così questo esordio ci ricorda che il progetto di salvezza voluto da Dio e attuatosi in Gesù Cristo responsabilizza tutti i credenti verso un’adesione matura e una somiglianza sempre più radicale e profonda a Cristo nell’amore. 7
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: La Colletta odierna definisce l'immacolata Concezione della Vergine come «degna dimora» per il Figlio di Dio: ciò che il sensus fidelium ha sempre percepito, ossia che l'incarnazione del Verbo di Dio non potesse che avvenire in un grembo umano non toccato da peccato, viene ora celebrato nella solennità dell'immacolata Concezione. Le letture che saranno proclamate oggi (e che ritorneranno, del tutto o in parte, nella 4a domenica di Avvento e nella messa di Natale) contengono, a diverso titolo, un vero "protovangelo": la promessa della vittoria del "seme della donna" sulla testa del serpente, annunciata nella prima lettura, si realizzerà nel Cristo obbediente, Signore della storia. Egli vincerà il male per sempre (vangelo), riscattando ogni uomo dal limite e dalla fragilità. Questo segno di grazia è anticipato nell'immacolata Concezione della Vergine: l'immagine di Maria aiuta ogni cristiano a crescere «santo e immacolato nella carità» (seconda lettura). Commento al Vangelo: Nella festa dell’immacolata, più che parlare di Maria sentiamo il desiderio di stringerci attorno a lei per essere da lei introdotti nel mistero della sua verginità che è un mistero di silenzio; nel mistero della sua innocenza assoluta, che è un mistero di gioia. Maria è già rivestita delle vesti di salvezza, ha l’abito reso candido dal sangue dell’agnello ancor prima della sua nascita. Il Padre l’ha come battezzata in anticipo nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo per presentarla al mondo tota pulchra, tutta bella. Il fascino di Maria sta nell’essere ignara della propria bellezza: è la sua umiltà, la sua trasparenza che la fa vivere rivolta al di fuori di se stessa, tutta donata. Maria, vergine e madre, dà al mistero cristiano il suo aspetto più suggestivo e affascinante, perché è un richiamo nostalgico alla purezza, all’innocenza. Anche l’uomo più sperimentato nel male difficilmente si può sottrarre al fascino dell’innocenza e della verginità. Il nostro amore per la Madonna sostanzialmente si deve concretizzare nel desiderio di vivere profondamente, con tutta verità, il suo mistero; desiderio sempre più vivo, più sofferto, di immergerci nella sua purezza, come un battesimo nella sua innocenza per uscirne purificati, rivestiti delle vesti di salvezza. Per un’anima il contatto con la Vergine santa è un contatto che purifica e salva. E già, infatti, in qualche maniera, un contatto con l’umanità del Signore che ha preso carne in lei. Noi che ci sentiamo così poveri, così fragili, dovremmo riuscire - per fede — a scoprire di momento in momento il miracolo della presenza di Maria in mezzo a noi. O Padre, che nell’immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito. 8
III^ DOMENICA DI AVVENTO 13 dicembre 2020 Il riferimento alla gioia è contenuto nel cuore della prima lettura di oggi: «Io gioisco pienamente nel Signore, l’anima mia esulta nel mio Dio» (Is 61,10). Certamente non tiepida la reazione del nostro profeta! Ma come può «gioire di gioia» (così forse si potrebbe rendere alla lettera l’espressione ebraica) nella condizione in cui si trova? Siamo nuovamente, come già nella la domenica di Avvento, di fronte a un testo tratto dal Trito-Isaia: il contesto in cui opera non è né facile né allegro, segnato dal dolore e dalla fatica della ricostruzione dopo il ritorno dall’esilio. Attorno a quest’uomo, probabilmente, ci sono solo rovine e devastazione. Eppure lui sta guardando oltre e sente la presenza del Signore che lo avvolge come un mantello; addirittura si percepisce rivestito di diademi e gioielli come due sposi nel giorno più bello! Ma facciamo un passo indietro, all’inizio della pericope: il brano (molto noto anche per la sua ripresa neotestamentaria in Lc 4,18-19) esordisce con la proclamazione del profeta che sa di essere inviato da Dio a portare un messaggio di salvezza, ad annunciare notizie belle (il verbo ebraico che rac- chiude questo significato è bisser) a destinatari speciali: gli ‘anawîm, gli afflitti, i poveri del Signore, coloro i quali hanno solo lui come difensore. La consapevolezza della serietà del proprio incarico è così forte che addirittura il profeta dice di essere stato “unto” per questo scopo (sebbene, in senso tecnico, l’unzione fosse ordinata ad un ufficio stabile, riservata storicamente ai re e in seguito ai sacerdoti). Ciò che viene mandato a fare è dettagliato da una serie di infiniti: «fasciare... proclamare... promulgare», azioni che egli compie attraverso la parola che porta, una parola efficace, performativa, che fa ciò che dice, che nel momento stesso in cui viene proclamata, fascia, consola, libera, riscatta. Nei versetti omessi dalla liturgia odierna viene descritta, in dettaglio, la ricostruzione (v. 4: «Riedificheranno le rovine antiche, ricostruiranno i vecchi ruderi, restaureranno le città desolate, i luoghi devastati dalle generazioni passate»), alludendo anche alla grande vergogna che Israele ha vissuto per la conquista violenta di Gerusalemme. Invece, nella pericope proposta, ciò che Dio realizzerà per il suo popolo trova una sintesi nelle immagini della crescita del v. 11: «Come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti», immagini di protezione, di salvezza e benedizione stabile e duratura. A questa azione di Dio il profeta non può che rispondere con la lode e la gioia (v. 10), perché il suo bene più grande si è fatto presente e lo ha abbracciato, rivestendolo con le vesti della salvezza e il mantello della giustizia: il profeta e il popolo che rappresenta, e per il quale parla, sono già riscattati e restaurati nella loro dignità piena, perché Dio è accanto a loro. 9
Salmo responsoriale Lc. 1,46-54 «L’anima mia esulta nel mio Dio», diceva il profeta, e le stesse parole vengono riprese come antifona del salmo responsoriale, sostituito in questa domenica da alcuni versetti del Magnificat. I poveri del Signore sono riscattati e gli arroganti sconfitti: tale era stata l’esperienza di Israele dopo l’esilio (così come dopo l’esodo), tale è la grazia sperimentata da Maria, che fa eco a tutti gli affamati della storia ai quali Dio misericordioso ha portato soccorso. L’esplosione di gioia di Maria, scaturita dall’essersi riconosciuta - nelle parole di Elisabetta - beata perché ha creduto, si effonde su tutta la storia della salvezza, su tutti gli alleati di Dio che hanno tenuto a cuore la sua alleanza e si sono fidati della promessa di un Dio fedele, giusto e misericordioso. La Prima lettera ai Tessalonicesi proposta come seconda lettura di oggi è probabilmente il più antico tra gli scritti del Nuovo Testamento e certamente la prima lettera conservataci di Paolo. L’apostolo ha da poco lasciato la comunità (siamo probabilmente negli anni 51-53 d.C.) quando gli giunge notizia che i cristiani di Tessalonica sono stati oggetto di una persecuzione provocata dai loro stessi connazionali. Allora da Atene, dove si trova, Paolo invia ai Tessalonicesi Timoteo, il compagno di cui ha più fiducia. Al ritorno di Timoteo, ascoltate le notizie che costui reca, l’apostolo manda la propria lettera. Dopo aver ringraziato il Signore e lodato i Tessalonicesi per la loro fede, che fa di loro un modello in tutta la regione, e dopo aver riflettuto sulle sofferenze e le tribolazioni che stanno vivendo, Paolo esorta i suoi interlocutori alla santità, all’amore fraterno e a conservare un atteggiamento di attesa e di vigilanza. La parte proposta dalla liturgia odierna si trova a conclusione della lettera. Paolo insiste esortando a cercare il bene in ogni cosa (5,16- 18), a non disprezzare le manifestazioni dello Spirito e ad evitare ogni tipo di male. Infine ricorda che tutta la persona deve prepararsi alla venuta del Signore, basandosi sulla certezza che lui stesso, che è pistós (fedele e degno di fiducia), si è impegnato a tornare (v. 24). I suggerimenti che Paolo invia ai Tessalonicesi sono molto intensi e fondano quello che potrebbe definirsi l’umanesimo cristiano, ossia lo stile con cui i cristiani stanno al mondo in questo mondo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (vv. 21-22): i cristiani non devono astrarsi dalla realtà che li circonda, ma conoscerla, verificandone attentamente la bontà o la malvagità. La capacità di discernere nascerà in loro dal colloquio continuo con Dio e con i suoi mediatori: «Pregate ininterrottamente [...]. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie». Lo Spirito guiderà il loro discernimento. La garanzia di questo costante supporto deve fondare la gioia e l’allegrezza dei loro cuori, che ovviamente non possono essere intese come l’ingenua e acritica contentezza di chi, superficialmente, passa attraverso gioie o sciagure senza notarne la differenza: il cristiano può essere invitato a “stare sempre lieto” e non sentirsi deriso perché chi gli promette vicinanza è il Fedele per eccellenza. 10
Per contro, ogni credente è chiamato ad andargli incontro rispolverando dalle ceneri e dalla mestizia quel volto somigliante al Padre che spesso dimentica di avere. Perché la vocazione alla santità si fonda su questo: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2). Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Testimoni della gioia La 3^ domenica di Avvento è tradizionalmente nota come domenica Gaudete, o domenica della gioia: dall'antifona d'ingresso alla seconda lettura, infatti, essa è pervasa da un costante invito a rallegrarci nel Signore, sempre! La prima lettura motiva questa gioia piena con l'immagine delle vesti della salvezza con cui il Signore cinge il suo profeta e il suo eletto. È la presenza del Signore, infatti, a fondare una gioia che non può essere turbata dalle incertezze delle nostre storie personali e collettive, giacché in esse, come canteremo nel Magnificat (che nella domenica odierna sostituisce il salmo responsoriale), possiamo vedere all'opera il braccio potente di Dio. Così vide e annunciò anche Giovanni il Battista, che oggi ci viene presentato nel racconto del quarto evangelista. Come leggiamo nel vangelo, egli è testimone della luce, che apertamente confessa il proprio ruolo profetico, per preparare la strada a colui che battezzerà in Spirito Santo e porterà la salvezza nel mondo. Commento al Vangelo: Se la Chiesa è ‘casa della testimonianza’ compren- diamo che la necessità del testimone si pone quando è in atto un processo. Il vangelo di Giovanni ci insegna appunto che nel corso della storia si svolge un immenso processo al centro del quale sta Gesù - la verità di Dio - e durante il quale la comunità dei credenti è costante- mente chiamata ad essere, come testimone, dalla parte di Gesù, dalla parte di Dio, di quel volto di Dio che Gesù ha fatto conoscere. La nostra comunità deve rendere visibile quel volto nelle proprie opere. In questa luce è utile riprendere la prima lettura, dove quello Spirito Santo che è sul profeta e, poi, su Gesù, è ora donato alla Chiesa. Quest’ultima deve stare attenta a «non spegnerlo» (così san Paolo). Lo Spirito riveste la Chiesa del «manto della giustizia», la rende capace di parlare di Dio con le opere, di dire la buona novella ai poveri di oggi. Capace di «fasciare le piaghe dei cuori spezzati»-, dobbiamo quindi impegnarci per operare nei cuori una guarigione che non ha nulla di miracolistico, ma che richiede pazienza come una ferita che si rimargina solo col tempo. Altro nostro compito è «proclamare la libertà degli schiavi e dei prigionieri», ricordando che ci sono schiavitù evidenti e altre latenti, ma non meno gravi, da superare. Infine siamo chiamati a «promulgare un anno di misericordia»', è necessario che comprendiamo come il nostro tempo - spesso sprecato nel male - deve essere invece guardato con rispetto e spirito di discernimento come l’occasione di grazia che il Signore ci offre. Dunque con la comparsa del Messia-sposo rivestito di giustizia nasce in noi la solidarietà, viene attuata la condivisione, esplode quella gioia che non è vera, se non è partecipata. Sappiamo bene che non saremo mai pienamente 11
all’altezza di questo programma di giustizia e di fraternità, ma il continuo rimando a colui che solo è sposo e luce permetterà alla forza della carità di non venir meno in noi. Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza. 12
IV^ DOMENICA DI AVVENTO 20 dicembre 2020 La prima lettura di oggi non è tratta da un testo profetico, come nelle precedenti domeniche, bensì dal Secondo libro di Samuele, uno dei cosiddetti libri “storici” che, insieme al Primo libro di Samuele, racconta il passaggio dalla fase dei Giudici al culmine della monarchia israelitica, rappresentato dal regno di Davide. Un profeta, però, compare nel racconto: si tratta di Natan, profeta e consigliere del re Davide, che in diversi momenti dovrà risvegliare la coscienza del sovrano e reindirizzarlo verso la via del Signore. Ricorderemo tutti, ad esempio, la celebre parabola della pecorella rapita all’uomo buono detta a Davide per fargli capire la gravità del peccato compiuto verso Uria e Betsabea (cfr. 2 Sam 12). In questo caso, invece, la prima lettura contiene un celebre oracolo di Natan, che presenta la dinastia davidica come voluta da Dio e promessa per sempre. Prima di Davide, il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo era costituito dalla celebre tenda della presenza (con un termine posteriore, la sĕkhinah), una tenda mobile atta ad essere spostata insieme ai movimenti del popolo: nomade e pellegrino era il popolo, nomade e pellegrino era anche il Dio che camminava insieme a lui. Stabilitosi a Geru- salemme, ormai capitale del suo regno, e sconfitti i suoi nemici all’intorno, Davide aveva fatto riporre dentro la tenda anche l’arca della Testimonianza. Un giorno, però, espresse a Natan il disagio di avere un palazzo da re mentre il suo Signore abitava ancora sotto una tenda e gli manifestò l’in- tenzione di costruirgli una casa (cfr. 2 Sam 7,1-2). In realtà anche questo desiderio rivela la tentazione, ricorrente nella storia di Israele, di essere come gli altri popoli: far costruire un tempio grandioso in onore della divinità benefattrice era, infatti, tipico dei re cananei. Natan, inizialmente, concorda con Davide, ma il Signore gli compare in sogno e lo invia a correggere l’intenzione di Davide, che non gli è ben accetta; non è, infatti, l’uomo che dà una casa a Dio, risponderà il Signore, ma Dio che costruisce una casa/discendenza a Davide: «Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato [...] io susciterò un tuo discendente dopo di te». Si noti con quanta abilità il discorso di Dio “rimette” Davide al suo posto: «Forse tu? No, io!». Egli manifesta ulteriormente l’assoluta incommensurabilità dei suoi progetti con le intenzioni del re: a chi voleva dargli una 13
casa di cedro, comunque transitoria e destinata alla distruzione, egli promette una casa ben diversa, stabile per sempre (si gioca sulla doppia valenza semantica di “casa” come abitazione e come casato). Dio susciterà per Davide un discendente dopo di lui, uscito dalle sue viscere, e renderà stabile il suo regno. Non avverrà subito - Davide sarà già morto, non vedrà da vivo quel giorno -, ma quella parola si compirà. E noi sappiamo che quella promessa si compirà; mille anni dopo, ma si realizzerà. Al momento giusto, nella “pienezza dei tempi”, che non è l’uomo a scorgere, ma il Signore a scegliere. In quale relazione staranno il Signore e questo misterio- so discendente di Davide? «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio» (v. 14). E avverrà proprio così, in un senso ancora più profondo e pieno di quanto chiunque avrebbe potuto intuire ascoltando quelle promesse. Pensiamo alla Lettera ai Galati. «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Salmo responsoriale Sal 88(89) Se leggessimo integralmente il Salmo 88 scopriremmo che, dopo la parte innica di lode alla potenza di Dio creatore e Signore fedele, c’è anche una sezione di lamento per la situazione di sconfitta e abbandono vissuta dal popolo rispetto alle promesse fatte al re Davide: «Dov’è, Signore, il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?» (v. 50). L’unzione di Davide, infatti, e la promessa a lui di una discendenza stabile per sempre sono al centro del testo: motivo di gioia, per la grandiosità della promessa, motivo di lamento, per l’apparente ritardo o fallimento di essa. L’alleanza, così, sembra farsi fragile e lontana e Dio appare nascosto, ritirato dal mondo. Ma i tempi di Dio, che rimane fedele per sempre, non sono quelli dell’uomo, e nulla a lui è impossibile, ci ricorderà il vangelo. Il suo amore, infatti, secondo la splendida immagine del salmo, è un edificio stabile, fondato nei cieli. La seconda lettura è tratta dal testo - importantissimo per lo studio della teologia paolina - della Lettera ai Romani. Si tratta di una lettera non occasionata da un’urgenza apostolica, ma meditata a lungo dall’apostolo, per chiarire e approfondire il tema (già presentato ai Galati) della giustificazione per fede, cuore, secondo Paolo, del lieto annuncio cristiano. Progettando una visita a Roma, Paolo, mentre è ancora a Corinto (siamo negli anni 57-58), decide di preparare da lontano la formazione della nuova comunità (che non ha fondato personalmente e quindi ancora non conosce) partendo proprio dal kérygma di Gesù Cristo. Il breve brano annunciato oggi è tratto dalle battute finali di questo importante documento: siamo nella cosiddetta dossologia (formula di lode e glorificazione di Dio) finale in cui ritornano una serie di temi e parole-chiave già 14
affrontati nel testo. A giudizio di molti esegeti, però, per motivi di lessico e di stile, i versetti che leggiamo sarebbero una interpolazione post-paolina. Ad ogni modo sono per noi testo canonico a tutti gli effetti. Gesù, il mistero rivelato. Due sono i poli rintracciabili in questo pur breve passaggio: da un lato, la preghiera a Dio che i Romani vengano confermati e fortificati nel vangelo di Paolo, che è il vangelo di Gesù Cristo (genitivo oggettivo, ossia che annuncia Gesù Cristo); dall’altro, la consapevolezza grata che quel Gesù Cristo è «la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede». Mystḗrion è un termine che qui potrebbe essere tradotto con “segreto”, indicando un “segreto divino” che Dio ha mantenuto nel passato fino al “momento giusto” per rivelarlo - idea presente già altrove nei testi paolini, come in 1 Cor 2,7-10 («Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. [...] Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio»). Qual è questo mistero, esattamente? In che modo le Scritture e i profeti lo hanno manifestato? Se “mistero” indica la sapienza divina nascosta, allora questo mistero taciuto per secoli eterni e poi manifestato è il Verbo incarnato, in linguaggio giovanneo, o il vangelo di Gesù Cristo, in termini paolini. La rivelazione di questo mistero, ossia l’eliminazione del velo che ne impediva la contemplazione, è ora un dono fatto «a tutte le genti», senza esclusione alcuna. Il senso della proclamazione di questa lettura nella 4a domenica di Avvento, a pochi giorni dalla celebrazione del Natale, è dunque chiaro e si illumina anche in relazione alle altre due letture proposte. Nella profezia a Davide e nell’annuncio a Maria un segreto divino viene trasmesso da un portavoce a un individuo che ha un ruolo da svolgere negli eventi a venire. Ma entrambi i messaggi sono privati e personali. Il messaggio diventa pubblico solo quando tutti i protagonisti che riempiranno i racconti del tempo di Natale (angeli, pastori, magi) e poi gli apostoli e la chiesa tutta annunceranno e celebreranno la nascita di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Con l’incarnazione, ci dice la chiusa della Lettera ai Romani, la partecipazione alla conoscenza del progetto di Dio è donata a tutti i popoli che accoglieranno la sua proposta di vita in Gesù Cristo. 15
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: L'annunciazione, Dio prende dimora La 4a domenica di Avvento ci colloca, ormai, nell'imminenza del Natale. «Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il giusto» risuona l'antifona, richiamando l’invito rivolto a Dio nella 1^domenica di Avvento a squarciare i cieli e a scendere. Anche oggi non sarà proclamato il vangelo di Marco, bensì quello di Luca, giacché, per antica tradizione, in questa domenica viene posta al centro la figura di Maria, della quale Luca ci offre un'ampia caratterizzazione. Nel racconto dell’annunciazione viene prefigurato il regno del Messia che non avrà mai fine. Anche a Davide, come ascolteremo nella prima lettura, Dio aveva promesso un erede per sempre, una discendenza stabile, e tale promessa viene ricordata e cantata dal salmo responsoriale, perché il Signore ha mantenuto la sua parola. L’Avvento ci ricorda la fedeltà e la misericordia di Dio, tanto grandi da svelare per noi « un mistero taciuto per secoli eterni come ci dice la seconda lettura, solo perché noi giungessimo alla fede. Alle soglie del Natale, concludiamo l’Avvento contemplando come Dio abbia scelto sapientemente collaboratori umani, come Davide, i profeti o Maria, per rivelare il suo progetto segreto su ciò che ha in serbo per l'umanità. Commento al Vangelo: La Parola vuole raggiungere il nostro cuore proponendoci il motivo della fedeltà di Dio. Un Dio fedele si- gnifica la roccia capace di dare stabilità alle nostre vite, ma anche un Dio che ci sorprende: Davide deve accettare che non più i progetti suoi, ma quelli di Dio plasmino la sua vita. In tal modo non solo cambia l’architetto, ma deve cambiare anche il senso di tutto il nostro progetto, perché il piano divino svela anche le possibili ambiguità dei nostri progetti umani. E un discorso cui oggi siamo particolarmente sensibili, dal momento che sperimentiamo da una parte la nostra difficoltà ad essere fedeli, soprattutto sui tempi lunghi; d’altra parte ci sentiamo talvolta traditi dagli altri o dalle esperienze che facciamo, perfino da Dio stesso. «Il Signore è con te»: questo saluto dell’angelo a Maria è l’espressione del volto di Dio che oggi si offre anche a noi. Egli è con noi ben prima che noi lo sappiamo. Una vita nuova può nascere prendendo sul serio queste parole, ma non si conosce questa affidabilità di Dio se non ci si mette concretamente a camminare con lui, come Maria. Ognuno di noi, nella sua vita, ha sperimentato il fallimento di qualche progetto, spesso anche di programmi che sembravano molto buoni, cui teneva molto. Talvolta il fallimento è dovuto soprattutto alla propria infedeltà e debolezza nel perseguire lo scopo prefissato. La parola di Dio che oggi ci viene proposta getta luce su questa esperienza, insegnando da una parte a non credersi i padroni della propria vita, dall’altra a vivere anche il fallimento come possibile momento di crescita, dicendo, anche in quelle amare circostanze, un ‘sì’ a quel Dio che non cessa di esserci fedele. Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre, tu, che nell’annunzio dell’angelo ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione. 16
NATALE DEL SIGNORE MESSA DELLA NOTTE 25 dicembre 2020 La profezia contenuta nel capitolo 9 del libro di Isaia è molto nota ed esprime l’attesa di un’azione divina e l’invio di un re che cambierà radicalmente i rapporti politici nel mondo, ridonando per sempre la libertà al popolo oppresso. Che sia stata scritta al tempo del profeta Isaia in relazione alla trascorsa guerra con Efraim o nel periodo del post-esilio, questo oracolo esprime chiaramente una fortissima aspettativa di giustizia, novità, cambiamento e liberazione. Tanto è forte questa aspettativa che il profeta addirittura la vede già in atto: essa, infatti, nei primi versetti è raccontata come già avvenuta attraverso l’immagine del popolo che cammina nelle tenebre (quindi nella dispersione, nella solitudine, nello smarrimento) e all’improvviso viene orientato e illuminato da una grande luce. Vengono quindi ricordate le azioni compiute da Dio attraverso espressioni di carattere (inevi- tabilmente) bellico, in cui il profeta si rivolge direttamente a Dio: «Hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, [...] e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco». (vv. 3-4). Queste espressioni spiegano il cambiamento e la liberazione che Dio opera per il suo popolo: il riferimento al giorno di Madian (v. 3) rimanda alla storia di Gedeone che, secondo quanto narrato nel capitolo 7 del libro dei Giudici, riuscì a sorprendere il nemico con un attacco notturno e, con l’aiuto del Signore, inflisse una grandiosa sconfitta al numeroso esercito madianita, sebbene fosse a capo di una piccolissima schiera di uomini. Menzionare, quindi, il giorno di Madian significa citare, per antonomasia, una vittoria splendida di Dio pur con forze umane scarse o inconsistenti. Il re atteso viene poi definito attraverso quattro titoli («Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace», v. 5) che ne esprimono la saggezza, la capacità di prendere decisioni, il rapporto di paternità rispetto al popolo (ossia il modo in cui si auspica che si prenderà cura del popolo) e infine il suo compito futuro, ovvero essere un principe che realizzerà la pace. Questo oracolo è stato quindi accolto dalla comunità cristiana come profezia della nascita di Cristo in quanto compimento della promessa di una discendenza davidica, affermando così nella nascita e nell’operato di Gesù l’inizio del regno di Dio e l’instaurarsi della salvezza che Dio ha voluto per il suo popolo. 17
Salmo responsoriale Sal 95(96) Il Salmo 95 è un salmo di lode, che coinvolge tutto il creato (cielo, terra e mare) nell’esultanza per il Signore che viene a giudicare la terra. Il medesimo salmo, unito al 105, ritorna anche in 1 Cr 16,23ss. per celebrare il trasporto dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme. Il Signore che sale sul suo trono, nella rilettura cristiana offerta dal ritornello, è il Salvatore Gesù, re giusto e fedele, che viene nel mondo facendosi bambino. La Lettera a Tito è un testo brevissimo, rivolto a un discepolo di Paolo citato in Gal 2,3 che probabilmente fu con lui a Corinto durante il secondo viaggio missionario ed ebbe l’incarico della colletta per Gerusalemme (cfr. 2 Cor 8,6; 12,17-18). Da Paolo gli venne affidata la cura della comunità di Creta per organizzarne il servizio dei presbiteri e affidare incarichi a persone sagge, nonché curarne la crescita morale e spirituale dei membri. Il testo, attribuito come pseudoepigrafo a Paolo e incluso nelle cosiddette “lettere pastorali” (7-2 Tm e Ti), è probabilmente riconducibile ad un momento successivo nella vita delle comunità paoline, quando i cristiani sembrano aver perso lo slancio e la tensione verso la prossima “venuta” del Signore. L’autore, allora, cerca di ricordare che i credenti si trovano tra due “epifanie” della grazia di Dio, quella della prima venuta storica di Gesù e quella del suo ritorno glorioso, e che la loro vita deve trascorrere nell’annuncio e nella testimonianza autentica del Vangelo. I due passaggi proposti nella liturgia del Natale presentano il rapporto tra manifestazione della grazia divina e salvezza degli uomini. «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani» (2,11-12): nella notte di Natale questo versetto è la perfetta sintesi dell’offerta di bene che, attraverso l’incarnazione del Verbo, Dio offre a tutti gli uomini, in una prospettiva universalizzante che apre la proposta di vita a quanti, indipendentemente da ogni provenienza, voglio- no appartenere a Cristo. Adottando uno stile di vita sobrio, solidale, giusto, diventando costruttori di cose buone, la comunità manifesterà di essere il “popolo puro” del Salvatore, mostrando visibilmente che la salvezza ricevuta è diventata carne vissuta anche nelle loro esperienze. 18
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: E il Verbo si fece carne... La liturgia del Natale è talmente ricca da offrirci addirittura tre momenti diversi nella celebrazione del mistero dell'incarnazione: la messa della notte o dei pastori, la messa dell'aurora, la messa del giorno. Nelle prime due celebrazioni vengono annunciati i racconti della nascita di Gesù e della visita dei pastori secondo il vangelo di Luca, mentre nella terza è il prologo di Giovanni a spiegare, attraverso il suo linguaggio poetico, il senso della venuta del Verbo nel mondo. Questa venuta, nel linguaggio della seconda lettura, è «la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11), l'apparizione della « bontà di Dio, salvatore nostro, e [de]l suo amore per gli uomini» (Tt 3,4-7), la parola definitiva ed eterna del Padre «per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose» (Eb 1,1-2). All'umanità viene donato un figlio, adempiendo la promessa pronunciata dal profeta Isaia nella prima lettura, che porta con sé pace, gioia e consolazione per quanti l’hanno atteso. Commento al Vangelo: Per contemplare il mistero del Natale abbiamo bisogno, soprattutto, della semplicità per stupirci davanti al suo messaggio. Stupore e sguardo da bambino sono i mezzi necessari per gustare l’annuncio pieno di gioia di questa notte santa. E la gioia ha una motivazione chiara: la nascita di un bambino, Salvatore universale, che reca motivi di speranza per tutti, che sono pace, giustizia e salvezza. E quali i segni che qualificano questo bambino? La debolezza, la povertà, l’impotenza e l’umiltà, cose che il mondo ha sempre rifiutato e che sono state fatte proprie, invece, dal Figlio di Dio. Con la venuta di Gesù le false certezze degli uomini sono state capovolte, perché Dio ha scelto non i forti, i sapienti, i potenti di questo mondo, ma i deboli, i piccoli, gli stolti, gli ultimi: ha scelto «un bambino adagiato in una mangiatoia» (Le 2,7.12.16; cfr. 1 Cor 1,27; Mt 11,26), povero, emarginato e respinto. È su questa povertà che si apre lo splendore del mondo dello Spirito, mentre noi siamo coinvolti da drammi di coscienza, perché tentati di seguire principi di forza, di potere, di violenza. Il bambino di Betlemme ci dice che il miracolo della pace del Natale è possibile per coloro che accolgono i suoi doni. In questa luce l’evento di questa notte non è solo una data da commemorare, ma evento capace, anche oggi, di contagio e di trasformazione. Quattro sono le notti storiche dell’umanità, secondo un’antica tradizione rabbinica: la notte della creazione (Gen 1,3), quella di Abramo (Gen 15,1- 6), quella dell’esodo (Es 12,1-13) e quella di Betlemme, cioè, questa notte, che è la più importante, perché il Figlio di Dio ha portato la sua pace, che è diversa dalla pax augusta, ed è il fondamento della «civiltà dell’amore» (Paolo VI). Siamo capaci di viverne il mistero? O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo. 19
NATALE DEL SIGNORE MESSA DEL GIORNO 25 dicembre 2020 Il festante inno di giubilo che apre la liturgia della Parola della messa del giorno di Natale proviene dal Deutero-Isaia e sarebbe da noi pienamente apprezzato se lo cantassimo, come forse avveniva anticamente, essendo il responsorio del grande poema contenuto in Is 51,9-52,3. Esso celebra il ritorno degli esuli a Gerusalemme e la ricostruzione della città, manifestando così che il Dio di Israele è re. Per questo il profeta immagina dei messaggeri che portano la buona notizia, esultano, prorompono insieme in canti di gioia! Il tempo del nascondimento di Dio, che ha fatto vacillare la fiducia di Israele, si è concluso: Dio si è manifestato al fianco di Gerusalemme come suo “riscattatore” (è già un’esperienza, non una profezia) «davanti a tutte le nazioni». Per questo i piedi del messaggero sono graziosi (v. 7), perché bello e grazioso è ciò che succede, ciò che viene ad annunciare (pace e salvezza). Prima compare un solo messaggero, poi vengono coinvolte più sentinelle, che alzano la voce perché “vedono” il ritorno del Signore in Sion coi loro occhi! È così che l’esultanza si trasmette addirittura ad oggetti inanimati, come le rovine della città distrutta, che immaginiamo vibrare e risollevarsi all’arrivo del re. L’eccezionale forza immaginifica del Deutero- Isaia trasmette alla Chiesa, raccolta per celebrare la nascita del Signore Gesù, l’esultanza e la commozione di chi può contemplare con i propri occhi l’amore di Dio fattosi visibile dagli uomini (come sottolineerà anche la seconda lettura) fino ai confini della terra. 20
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