2020 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Dicembre Novembre - Unità ...

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2020
 UNITÀ PASTORALE
Barbarano Mossano Villaga
                              Anno
                              B
Commento e letture per i lettori
   del mese di Dicembre

                   Novembre
                              Claudio
                              Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
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II^ DOMENICA DI AVVENTO
                                          06 dicembre 2020

                                                          Per quanto non siano prossimi nel testo originale
                                                          (sebbene entrambi tratti dal libro del profeta Isaia),
                                                          l’annuncio di oggi sembra la risposta
                                                          all’invocazione ascoltata nella prima lettura di
                                                          domenica scorsa, quando si chiedeva a Dio che si
                                                          mostrasse e tornasse dal suo popolo: «Consolate,
                                                          consolate il mio popolo!», dice Dio per tramite del
                                                          profeta a Israele; e ancora: «Ecco il vostro Dio!
                                                          Ecco, il Signore Dio viene con potenza!». Il tempo
                                                          della salvezza. Siamo all’inizio del libro del co-
                                                          siddetto Deutero-Isaia (cc. 40-55), collocabile
                                                          storicamente verso la fine dell’esilio babilonese
                                                          (587-539 a.C.), ma Israele non vede ancora la
                                                          salvezza a portata di mano. Allora quest’uomo, il
                                                          “secondo” Isaia (di cui sappiamo ben poco e che non
                                                          ci racconta la sua vocazione), pienamente solidale
                                                          col suo popolo e certo che nulla di ciò che sta
                                                          avvenendo sia fuori della potenza di Dio e che il
                                                          giudizio di Dio sull’empietà del suo popolo sia
                                                          giusto, viene chiamato a portare un messaggio
                                                          sorprendente. Sebbene pieno di scetticismo e di
                                                          stanchezza, il profeta ode una voce più forte, che lo
                                                          chiama ad andare e a profetizzare. Il messaggio che
                                                          ripeterà (in una modalità quasi martellante,
                                                          dall’inizio alla fine del suo libro) è quello contenuto
                                                          anche nel brano di oggi: la schiavitù di Israele è
finita! Dopo il tempo del giudizio, annunciato da
profeti come (il primo) Isaia e verificatosi poi con
la caduta di Gerusalemme, è giunto ora il tempo
della salvezza! C’è un messaggio finalmente
nuovo per questo popolo e questo momento
storico: “non temere”, perché Dio ha udito il tuo
lamento e continuerà ad agire in tuo favore; la tua
richiesta è stata esaudita. Il tempo del pianto e del
lamento sono finiti, ed ecco che inizia il tempo
della gioia. Arriva, quindi, la consolazione, ma
viene anche riaffermata l’appartenenza: Israele,
dice Dio, è ‘ammì, il «popolo mio» (40,1): non lo
ha dimenticato né lo ha rinnegato, ma si conferma
suo Signore. Il popolo ha sopportato tante
tribolazioni, addirittura «il doppio per i suoi
peccati». Esse non sono state una vendetta di Dio,
ma una conseguenza diretta dell’empietà umana; eppure nulla, secondo la mentalità anticotestamentaria,
esula dalla decisione e dall’onnipotenza divina: per questo è stata «la mano del Signore» a dispensare questo
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abbondante contrappasso. Consolazione e conversione. «Consolate, consolate il mio popolo!». Questo grido
ripetuto, pressante, deve passare da una parte all’altra e arrivare dovunque, a tutte le città di Giuda, affinché
si preparino al Signore che viene. Al popolo in esilio il profeta annuncia la consolazione: Dio in persona è
la consolazione del suo popolo, al di là delle vicende concrete che il profeta sa ben leggere! È Dio, dunque,
che ritorna! E ritorna con potenza, come il più forte, come colui che ha il dominio e porta il premio, anzi: è
egli stesso il premio! La ricompensa annunciata non è una cosa, ma rincontro con la persona stessa di Dio!
Prepararsi alla novità. «Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore». Il legame tra la voce e il
deserto ha fatto sì che questa profezia venisse facilmente associata (e sarà così nel vangelo di oggi) a
Giovanni Battista, «voce di uno che grida nel deserto» (Me 1,3). In realtà è preferibile leggere separatamente:
il deserto è il luogo dove preparare la via (non dove la voce grida). Il popolo deve preparare una strada,
rendendo pianeggiante un percorso ben tortuoso e accidentato, spianando ogni colle, perché per quella strada
verrà il Signore! Al Signore che viene deve essere preparata una sorta di percorso trionfale, perché su quelle
antiche e possenti strade del regno di Babilonia, sulle quali un tempo giungevano i re oppressori, adesso
arriverà il liberatore di Israele! Tutta l’esortazione, quindi, sembra voler rimettere in moto qualcosa da tempo
assopito o inerme (a ciò contribuiscono i ripetuti imperativi): l’annuncio della consolazione non può cadere
nel nulla, deve creare esso stesso qualcosa di nuovo, perché è parola uscita dalla bocca di Dio, che «non
ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho
mandata» (Is 55,11). Da Sion, poi, la «lieta notizia» arriverà a tutte le città di Giuda. Si noti la compresenza
di immagini forti e tenere allo stesso tempo per descrivere il Signore: il potente e il pastore premuroso, il
braccio che abbatte e la mano che raduna. Il forte per eccellenza è capace di un’infinita tenerezza («porta gli
agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri», v. 11): se da un lato ci vuole, infatti, la massima
forza per guidare la storia, dall’altro il profeta celebra la grande tenerezza di chi porta sul petto le nostre vite
e conduce dolcemente le nostre esistenze.

                                                              Salmo responsoriale            Sal.        84(85)

                                                         L’annuncio della pace per Israele è accolto dal
                                                         salmista, che sente la prossimità del Signore che
                                                         viene. L’orante prova ad ascoltare la voce del Signore
                                                         e lo sente annunciare salvezza per Israele (in risposta
                                                         alla supplica di intervento presente nei versetti omessi
                                                         dalla liturgia). Non può, quindi, trattenersi dal
                                                         proclamare alla sua comunità che è prossimo un
                                                         nuovo inizio, ben diverso dalle angosce del presente.
                                                         Anche il Salmo 84 riprende, dunque, l’immagine del
                                                         cammino, della via tracciata dal passaggio di Dio
                                                         («giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi
                                                         tracceranno il cammino», v. 11). Nuovamente si
                                                         fondono insieme potenza e tenerezza: la verità e
                                                         l’amore, la giustizia e la pace vengono personificate e
                                                         presentate in modo dinamico (con una giustizia che fa
                                                         quasi capolino dalle nuvole). Cielo e terra si
                                                         incontrano, l’uno proteso verso l’altra. La comunità
orante, dunque, non può desiderare altra contemplazione e invoca che questo momento di benedizione giunga
il prima possibile: «Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza».

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La Seconda lettera di Pietro è una specie di omelia
in forma epistolare, una sorta di testamento
spirituale dell’apostolo Pietro al quale l’autore
finale ha voluto dare la forma di lettera, sebbene gli
studiosi antichi e moderni non ritengano che tale
autore sia stato davvero l’apostolo Pietro,
nonostante l’autopresentazione iniziale. Il contesto
ricostruibile della lettera è riconducibile alla fine
del I secolo: gli apostoli sono personaggi ormai del
passato della comunità e anche il tema degli ultimi
tempi è affrontato in un modo nuovo rispetto
all'urgenza escatologica delle lettere apostoliche
più antiche. In questa lettera, infatti, soprattutto
nella sua terza parte (corrispondente al terzo
capitolo, che leggiamo in parte oggi) viene
presentata una visione piuttosto spaventosa della
fine del mondo, che sembra portare con sé la
distruzione di ogni cosa. Piuttosto che la gioia per
rincontro con il Cristo che torna, dunque, subentra
adesso l’esortazione alla vigilanza, allo stare in
guardia, affinché i credenti non vengano ingannati
dagli empi e non vengano colti di sorpresa dagli
ultimi eventi. Proprio quest’ultima parte, quindi, è
oggetto della seconda lettura di oggi, in particolare
nella sua esortazione alla vigilanza. Tuttavia questa vicinanza, anche nei toni, con l’immaginario dei testi
apocalittici, non deve farci perdere di vista la vera preoccupazione del discorso della Seconda lettera di Pietro,
che non è di spaventare i propri destinatari con la minaccia di un “ultimo giorno” catastrofico, quanto piuttosto
di esortarli alla santità, al perseguimento di una vita irreprensibile, nella correttezza della condotta e nelle
preghiere. Come, infatti, avviene nella stessa Apocalisse e in profeti come Gioele ed Ezechiele, questo
linguaggio e immaginario da cataclisma servono all’autore per parlare della realtà e della severità del giudizio
e sottolineare, per ogni cristiano, la necessità di perseguire la santità. I destinatari della lettera sembrano vivere
lontano dalla patria, essere nel mondo come in esilio, lontani da Dio, mentre la patria vera è il Signore in
persona e la ricompensa piena è stare con lui. Quindi, anche parlare di fine del mondo, di un «giorno di Dio
nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno» ricorda semplicemente ai
cristiani che tutte le cose sono destinate a dissolversi (anche tutte le nostre opere e le imprese o tensioni che
ci affannano), mentre «i nuovi cieli e la terra nuova» che verranno da Dio saranno per sempre una dimora
eterna per i suoi figli. «Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace,
senza colpa e senza macchia»: perché questo avvenga c’è bisogno della misericordia del Signore e della sua
vicinanza. In fondo la comunità alla quale scrive l’autore assomiglia molto a noi, forse più di quanto non ci
assomiglino i destinatari del vangelo odierno: siamo ormai tornati alla nostra realtà quotidiana e abbiamo
deciso che parlare della seconda venuta del Signore, del “giorno del Signore” forse è soltanto una favola, o
addirittura un fallimento. Invece il testo ci ricorda che questa seconda venuta è una promessa, anzi una
certezza, ed è proprio la roccia sulla quale la chiesa è stata costruita, ossia la voce di Pietro, a ricordarcelo. La
certezza di questo ritorno e di questo incontro può rinvigorire la stanchezza e l’allontanamento di una comunità
che ha dimenticato l’urgenza di dire: «Maranathà, vieni, Signore Gesù».

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:
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                                                            Il tempo dell’attesa è anche tempo della
                                                            consolazione, perché fondato sulla certezza che il
                                                            liberatore di Israele sta tornando, su una via che
                                                            ciascun uomo, ora come allora, è invitato a
                                                            preparare e spianare: lo dice nella prima lettura il
                                                            profeta al popolo in esilio, per rinsaldare i cuori
                                                            affranti e scettici. Lo grida anche Giovanni Battista
                                                            nel vangelo, nel primo episodio narrato
                                                            dall'evangelista Marco, per spianare la strada al
                                                            protagonista del racconto, il più forte, il detentore
                                                            del diritto vero: Gesù di Nazaret, Messia e Figlio
                                                            di Dio. Per questo nel salmo invochiamo la
misericordia di Dio, perché ci doni di sperimentare
profondamente questa consolazione e contemplare
il meraviglioso "nuovo" che sta preparando per noi,
e che sarà ben diverso da questo nostro mondo,
destinato a passare con tutti i suoi limiti e le sue
fragilità. Dio sta creando nuovi cieli e una terra
nuova, dove abiterà la giustizia (seconda lettura).

Commento al Vangelo:

Una metafora domina le letture odierne ed è quella della ‘strada’. Correlativa a quella della via, è l’idea di
Chiesa come il nostro essere un popolo che si forma mettendosi in cammino. Isaia si rivolge a un popolo
sfiduciato, che deve essere consolato e aiutato a mettersi in marcia; ci servono perciò profeti capaci di parlare
al cuore, profeti di fiducia e non di sventura. Di fronte alla devastazione delle nostre coscienze, bombardate
da messaggi negativi e nichilistici, per ciascuno di noi diventa perciò importante l’incoraggiamento che ci
giunge dal messaggio profetico. Anche le parole del Battista vanno in questa direzione, preparando i nostri
cuori alla venuta di colui che battezza nello Spirito. Certo, la sua figura austera e penitente non manca di
contestare il nostro stile di vita quando non sentiamo più il bisogno di conversione: una consolazione ‘a buon
mercato’ non ci arrecherebbe, però, alcun frutto duraturo. E’ indispensabile soprattutto la nostra testimonianza
ispirata a una fede profonda nella salvezza offerta da Dio, il nostro voler essere un popolo che si lascia attrarre
dalla promessa del Battista, per essere poi in grado di convincere gli altri che la salvezza è vicina. Peraltro
nascerà sempre in noi la domanda degli scettici: ma ne vale la pena? La parola di Dio ci risponde che ne vale
la pena. La lettera di Pietro ci ricorda che questo tempo è carico della presenza di Dio, e lo si può capire solo
credendoci sul serio e impegnandosi in esso con tutta la propria esistenza: la promessa di «cieli nuovi e terra
nuova» genera in chi crede una vita di autentica santità, già essa stessa annuncio e segno tangibile di quel
mondo nuovo.

Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il
tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore.

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IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA
    BEATA VERGINE MARIA
                                            08 dicembre 2020

I capp. 1-11 della Genesi contengono la cosiddetta
“storia delle origini”: come in ogni cultura antica,
anche quella biblica ha prodotto dei racconti a
carattere mitologico con cui “dare forma” e risposta
agli interrogativi sull’origine del mondo, sulla
nascita dell’uomo, sul perché della sofferenza e del
male, tenendosi in contatto con il divino. Guidati
dallo Spirito, gli agiografi antichi hanno così creato
delle storie che contengono una verità universale,
non solo confinata all’inconoscibile momento
originario della creazione: il Signore Dio ha creato
il mondo e l'uomo in un atto libero di donazione e di
amore, ma l’uomo ha infranto l’alleanza originaria
con il suo Creatore respingendone la paternità e
portando, così, squilibri anche nel rapporto con gli
altri uomini e con il creato tutto. Tuttavia, a questa
rottura unilaterale Dio risponde con una promessa di
bene, che sarà generata nella storia e vedrà
l’umanità vincitrice sul peccato, anche se questo
costerà fatica e dolore. Il cap. 3 della Genesi
racchiude esattamente questo protovangelo: l’uomo
e la donna, che violano il comando divino certi della
propria supponente autosufficienza, si ritrovano
smarriti e divisi nel luogo che un tempo era stato di
                                                             gioia e di incontro. L’iniziativa di andare alla ricerca
                                                             dell’uomo è di Dio, che chiama la sua creatura
                                                             chiedendole: «Dove sei?». Quella domanda,
                                                             apparentemente ordinaria (che a Caino sarà
                                                             nuovamente rivolta dopo il fratricidio, chiedendogli
                                                             dove sia suo fratello Abele, cfr. Gen 4,9), in realtà
                                                             interpella la coscienza, chiedendo a ciascuno dove si
                                                             stia collocando rispetto al progetto di bene di Dio e
alla sua offerta di alleanza. Il male e i suoi inizi. L’uomo confessa la propria paura e la consapevolezza di una
nudità finora mai problematica, ma adesso cifra di una fragilità profonda. Perché confessi il proprio peccato,
però, il cammino è lungo, come sarà lungo l’interrogatorio quasi maieutico che Dio deve avviare (vv. 11-13).
La reazione umana immediata è di rilanciare la colpa direttamente a Dio, attraverso il dito puntato verso la
creatura da lui affiancataci: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero [...]. Il serpente mi
ha ingannata» (vv. 12.13). La responsabilità umana è minimizzata da Adamo ed Eva ad un atto quasi naturale
e innocente: «io ho mangiato»; in fondo, cosa c’è di male? Ebbene, nel racconto il “male” viene misurato dalla
reazione di Dio, che nella selezione proposta dalla lettura odierna è rivolta solo al serpente, ma nel racconto
completo prosegue con la donna e l’uomo, in ordine inverso rispetto al dialogo precedente in cui ciascuno

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cercava di smarcarsi dalla propria responsabilità. Va sempre sottolineato che l’unica maledizione divina diretta
riguarda il serpente tentatore, non l’umanità né la terra. Proprio in questa maledizione, però, è contenuto il
“protovangelo”: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la
testa e tu le insidierai il calcagno» (v. 15). Il “seme” della donna, la sua discendenza, schiaccerà la testa del
serpente, che pure proverà a morderle il calcagno, ad avvelenarne l’esistenza. La presenza della discendenza
del serpente è certa: male e tentazione non scompariranno dalla storia dell’uomo, quindi il conflitto sarà
continuo e il peccato e la morte sempre dietro l’angolo; ma la testa di quel serpente, un giorno, sarà schiacciata.
Se Adamo ed Eva, progenitori di tutta la stirpe umana, non sono riusciti a credere piuttosto nella parola di Dio
che in quella del serpente, proprio da loro, invece, nascerà chi riuscirà a farlo. La solennità di oggi indica in
Maria, «piena di grazia», colei che apre la strada all’umanità tutta verso questo giorno glorioso.

                                                            Salmo responsoriale                Sal.      97(98)

                                                            Il salmo proclamato oggi sarà riproposto nel giorno
                                                            di Natale, sebbene con un’antifona differente.
                                                            Prodotto probabilmente in un contesto cultuale (la
                                                            festa per l’intronizzazione del Signore Re), esso
                                                            invita tutto il creato a celebrare Dio per le opere
                                                            compiute, che gli hanno dato la «vittoria» sui suoi
                                                            avversari, ovvero gli avversari del suo popolo. Nella
                                                            celebrazione dell’immacolata Concezione di Maria,
                                                            dunque, possiamo ripetere: «Cantate al Signore un
                                                            canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie»,
                                                            ricordando che, per opera della sua grazia, l’antica
                                                            ribellione è stata dominata e l’umanità intera potrà
                                                            essere riscattata a partire dal grembo di una vergine
                                                            che ha accolto il Verbo divino.

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L’esordio della Lettera agli Efesini è una
bellissima preghiera di benedizione rivolta a Dio,
che riassume a grandi tappe la storia della salvezza
e anticipa i temi dello scritto. La lettera (non
considerata autentica dagli studiosi, ma as-
solutamente affine per temi al corpus paolino) ha
uno stile molto solenne, come vediamo dalla
sintassi piuttosto complessa di questo esordio. Il v.
3 («Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione
spirituale nei cieli in Cristo») vede per ben tre volte
la ricorrenza della radice eulogh- come verbo,
aggettivo e sostantivo. Il Signore è riconosciuto e
lodato quale fonte di ogni beneficio, come il testo
prosegue a narrare, dalla creazione fino all’invio
del Figlio e ancora oltre, in attesa del dono della
vita senza fine oggetto delle sue promesse
escatologiche. In particolare, la selezione operata
dalla liturgia odierna evidenzia, tra i benefici per
cui lodare Dio, l’elezione (vv. 4-6a) e la chiamata
alla fede (vv. 11-12) del “noi” orante; si tratta dei
giudei, ma nei versetti omessi non manca un costante dialogo con il “voi” dei pagani, ora pienamente uniti e
riconciliati in Cristo Gesù. L’elezione libera di Dio, che si attua in Gesù, rende i cristiani «santi e immacolati
nella carità», ossia nell’agápē: questo modo di essere e di agire dei cristiani riflette, dunque, la scelta di Dio
e il suo senso profondo, che, per dirlo con i termini di una lettera paolina autentica, è renderli conformi
all’immagine del Figlio suo (cfr. Rm 8,28-31). Il noi esprime la consapevolezza di esser stati eletti per asso-
migliare a Cristo. Infatti per questo motivo Cristo ha partecipato loro anche la condizione filiale, perché siano
sempre più come lui. E come lui, i credenti sono costituiti «eredi», sempre in virtù dell’amorevole e gratuita
iniziativa di Dio; erede per eccellenza è il Figlio, ma eredi divengono anche gli eletti, sia i giudei - che “prima”
hanno sperato nel Cristo - sia i gentili. Così questo esordio ci ricorda che il progetto di salvezza voluto da Dio
e attuatosi in Gesù Cristo responsabilizza tutti i credenti verso un’adesione matura e una somiglianza sempre
più radicale e profonda a Cristo nell’amore.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

                                                              La Colletta odierna definisce l'immacolata
                                                              Concezione della Vergine come «degna dimora»
                                                              per il Figlio di Dio: ciò che il sensus fidelium ha
                                                              sempre percepito, ossia che l'incarnazione del
                                                              Verbo di Dio non potesse che avvenire in un
                                                              grembo umano non toccato da peccato, viene ora
                                                              celebrato     nella    solennità    dell'immacolata
                                                              Concezione. Le letture che saranno proclamate
                                                              oggi (e che ritorneranno, del tutto o in parte, nella
                                                              4a domenica di Avvento e nella messa di Natale)
                                                              contengono, a diverso titolo, un vero
                                                              "protovangelo": la promessa della vittoria del
                                                              "seme della donna" sulla testa del serpente,
annunciata nella prima lettura, si realizzerà nel
Cristo obbediente, Signore della storia. Egli
vincerà il male per sempre (vangelo),
riscattando ogni uomo dal limite e dalla fragilità.
Questo segno di grazia è anticipato
nell'immacolata Concezione della Vergine:
l'immagine di Maria aiuta ogni cristiano a
crescere «santo e immacolato nella carità»
(seconda lettura).
Commento al Vangelo:
Nella festa dell’immacolata, più che parlare di
Maria sentiamo il desiderio di stringerci attorno
a lei per essere da lei introdotti nel mistero della
sua verginità che è un mistero di silenzio; nel
mistero della sua innocenza assoluta, che è un
mistero di gioia. Maria è già rivestita delle vesti di salvezza, ha l’abito reso candido dal sangue dell’agnello
ancor prima della sua nascita. Il Padre l’ha come battezzata in anticipo nel mistero della morte e della
risurrezione di Cristo per presentarla al mondo tota pulchra, tutta bella. Il fascino di Maria sta nell’essere
ignara della propria bellezza: è la sua umiltà, la sua trasparenza che la fa vivere rivolta al di fuori di se stessa,
tutta donata. Maria, vergine e madre, dà al mistero cristiano il suo aspetto più suggestivo e affascinante, perché
è un richiamo nostalgico alla purezza, all’innocenza. Anche l’uomo più sperimentato nel male difficilmente
si può sottrarre al fascino dell’innocenza e della verginità. Il nostro amore per la Madonna sostanzialmente si
deve concretizzare nel desiderio di vivere profondamente, con tutta verità, il suo mistero; desiderio sempre
più vivo, più sofferto, di immergerci nella sua purezza, come un battesimo nella sua innocenza per uscirne
purificati, rivestiti delle vesti di salvezza. Per un’anima il contatto con la Vergine santa è un contatto che
purifica e salva. E già, infatti, in qualche maniera, un contatto con l’umanità del Signore che ha preso carne in
lei. Noi che ci sentiamo così poveri, così fragili, dovremmo riuscire - per fede — a scoprire di momento in
momento il miracolo della presenza di Maria in mezzo a noi.

O Padre, che nell’immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo
Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a
noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito.

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III^ DOMENICA DI AVVENTO
                                             13 dicembre 2020

                                                                Il riferimento alla gioia è contenuto nel cuore
                                                                della prima lettura di oggi: «Io gioisco
                                                                pienamente nel Signore, l’anima mia esulta nel
                                                                mio Dio» (Is 61,10). Certamente non tiepida la
                                                                reazione del nostro profeta! Ma come può «gioire
                                                                di gioia» (così forse si potrebbe rendere alla
                                                                lettera l’espressione ebraica) nella condizione in
                                                                cui si trova? Siamo nuovamente, come già nella
                                                                la domenica di Avvento, di fronte a un testo tratto
                                                                dal Trito-Isaia: il contesto in cui opera non è né
                                                                facile né allegro, segnato dal dolore e dalla fatica
                                                                della ricostruzione dopo il ritorno dall’esilio.
                                                                Attorno a quest’uomo, probabilmente, ci sono
                                                                solo rovine e devastazione. Eppure lui sta
                                                                guardando oltre e sente la presenza del Signore
                                                                che lo avvolge come un mantello; addirittura si
                                                                percepisce rivestito di diademi e gioielli come
                                                                due sposi nel giorno più bello! Ma facciamo un
                                                                passo indietro, all’inizio della pericope: il brano
                                                                (molto noto anche per la sua ripresa
                                                                neotestamentaria in Lc 4,18-19) esordisce con la
                                                                proclamazione del profeta che sa di essere inviato
                                                                da Dio a portare un messaggio di salvezza, ad
                                                                annunciare notizie belle (il verbo ebraico che rac-
                                                                chiude questo significato è bisser) a destinatari
                                                                speciali: gli ‘anawîm, gli afflitti, i poveri del
Signore, coloro i quali hanno solo lui come difensore. La consapevolezza della serietà del proprio incarico è
così forte che addirittura il profeta dice di essere stato “unto” per questo scopo (sebbene, in senso tecnico,
l’unzione fosse ordinata ad un ufficio stabile, riservata storicamente ai re e in seguito ai sacerdoti). Ciò che
viene mandato a fare è dettagliato da una serie di infiniti: «fasciare... proclamare... promulgare», azioni che
egli compie attraverso la parola che porta, una parola efficace, performativa, che fa ciò che dice, che nel
momento stesso in cui viene proclamata, fascia, consola, libera, riscatta. Nei versetti omessi dalla liturgia
odierna viene descritta, in dettaglio, la ricostruzione (v. 4: «Riedificheranno le rovine antiche, ricostruiranno
i vecchi ruderi, restaureranno le città desolate, i luoghi devastati dalle generazioni passate»), alludendo anche
alla grande vergogna che Israele ha vissuto per la conquista violenta di Gerusalemme. Invece, nella pericope
proposta, ciò che Dio realizzerà per il suo popolo trova una sintesi nelle immagini della crescita del v. 11:
«Come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio
farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti», immagini di protezione, di salvezza e
benedizione stabile e duratura. A questa azione di Dio il profeta non può che rispondere con la lode e la gioia
(v. 10), perché il suo bene più grande si è fatto presente e lo ha abbracciato, rivestendolo con le vesti della
salvezza e il mantello della giustizia: il profeta e il popolo che rappresenta, e per il quale parla, sono già
riscattati e restaurati nella loro dignità piena, perché Dio è accanto a loro.

                                                          9
Salmo responsoriale                 Lc. 1,46-54
«L’anima mia esulta nel mio Dio», diceva il profeta,
e le stesse parole vengono riprese come antifona del
salmo responsoriale, sostituito in questa domenica
da alcuni versetti del Magnificat. I poveri del
Signore sono riscattati e gli arroganti sconfitti: tale
era stata l’esperienza di Israele dopo l’esilio (così
come dopo l’esodo), tale è la grazia sperimentata da
Maria, che fa eco a tutti gli affamati della storia ai
quali Dio misericordioso ha portato soccorso.
L’esplosione di gioia di Maria, scaturita dall’essersi
riconosciuta - nelle parole di Elisabetta - beata
perché ha creduto, si effonde su tutta la storia della
salvezza, su tutti gli alleati di Dio che hanno tenuto
a cuore la sua alleanza e si sono fidati della
promessa di un Dio fedele, giusto e misericordioso.

                                                              La Prima lettera ai Tessalonicesi proposta come
                                                              seconda lettura di oggi è probabilmente il più
                                                              antico tra gli scritti del Nuovo Testamento e
                                                              certamente la prima lettera conservataci di Paolo.
                                                              L’apostolo ha da poco lasciato la comunità (siamo
                                                              probabilmente negli anni 51-53 d.C.) quando gli
                                                              giunge notizia che i cristiani di Tessalonica sono
                                                              stati oggetto di una persecuzione provocata dai loro
                                                              stessi connazionali. Allora da Atene, dove si trova,
                                                              Paolo invia ai Tessalonicesi Timoteo, il compagno
                                                              di cui ha più fiducia. Al ritorno di Timoteo,
                                                              ascoltate le notizie che costui reca, l’apostolo
                                                              manda la propria lettera. Dopo aver ringraziato il
                                                              Signore e lodato i Tessalonicesi per la loro fede, che
                                                              fa di loro un modello in tutta la regione, e dopo aver
                                                              riflettuto sulle sofferenze e le tribolazioni che
                                                              stanno vivendo, Paolo esorta i suoi interlocutori alla
santità, all’amore fraterno e a conservare un atteggiamento di attesa e di vigilanza. La parte proposta dalla
liturgia odierna si trova a conclusione della lettera. Paolo insiste esortando a cercare il bene in ogni cosa (5,16-
18), a non disprezzare le manifestazioni dello Spirito e ad evitare ogni tipo di male. Infine ricorda che tutta la
persona deve prepararsi alla venuta del Signore, basandosi sulla certezza che lui stesso, che è pistós (fedele e
degno di fiducia), si è impegnato a tornare (v. 24). I suggerimenti che Paolo invia ai Tessalonicesi sono molto
intensi e fondano quello che potrebbe definirsi l’umanesimo cristiano, ossia lo stile con cui i cristiani stanno
al mondo in questo mondo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male»
(vv. 21-22): i cristiani non devono astrarsi dalla realtà che li circonda, ma conoscerla, verificandone
attentamente la bontà o la malvagità. La capacità di discernere nascerà in loro dal colloquio continuo con Dio
e con i suoi mediatori: «Pregate ininterrottamente [...]. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie».
Lo Spirito guiderà il loro discernimento. La garanzia di questo costante supporto deve fondare la gioia e
l’allegrezza dei loro cuori, che ovviamente non possono essere intese come l’ingenua e acritica contentezza
di chi, superficialmente, passa attraverso gioie o sciagure senza notarne la differenza: il cristiano può essere
invitato a “stare sempre lieto” e non sentirsi deriso perché chi gli promette vicinanza è il Fedele per eccellenza.
                                                          10
Per contro, ogni credente è chiamato ad andargli incontro rispolverando dalle ceneri e dalla mestizia quel volto
somigliante al Padre che spesso dimentica di avere. Perché la vocazione alla santità si fonda su questo: «Siate
santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2).

Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

Testimoni della gioia
La 3^ domenica di Avvento è tradizionalmente nota
come domenica Gaudete, o domenica della gioia:
dall'antifona d'ingresso alla seconda lettura,
infatti, essa è pervasa da un costante invito a
rallegrarci nel Signore, sempre! La prima lettura
motiva questa gioia piena con l'immagine delle
vesti della salvezza con cui il Signore cinge il suo
profeta e il suo eletto. È la presenza del Signore,
infatti, a fondare una gioia che non può essere
turbata dalle incertezze delle nostre storie personali
e collettive, giacché in esse, come canteremo nel
Magnificat (che nella domenica odierna sostituisce
il salmo responsoriale), possiamo vedere all'opera
il braccio potente di Dio. Così vide e annunciò
anche Giovanni il Battista, che oggi ci viene
presentato nel racconto del quarto evangelista.
Come leggiamo nel vangelo, egli è testimone della
luce, che apertamente confessa il proprio ruolo
profetico, per preparare la strada a colui che
battezzerà in Spirito Santo e porterà la salvezza nel
mondo.

                                                            Commento al Vangelo:
                                                            Se la Chiesa è ‘casa della testimonianza’ compren-
                                                            diamo che la necessità del testimone si pone quando
                                                            è in atto un processo. Il vangelo di Giovanni ci
                                                            insegna appunto che nel corso della storia si svolge
                                                            un immenso processo al centro del quale sta Gesù -
la verità di Dio - e durante il quale la comunità dei credenti è costante- mente chiamata ad essere, come
testimone, dalla parte di Gesù, dalla parte di Dio, di quel volto di Dio che Gesù ha fatto conoscere. La nostra
comunità deve rendere visibile quel volto nelle proprie opere. In questa luce è utile riprendere la prima lettura,
dove quello Spirito Santo che è sul profeta e, poi, su Gesù, è ora donato alla Chiesa. Quest’ultima deve stare
attenta a «non spegnerlo» (così san Paolo). Lo Spirito riveste la Chiesa del «manto della giustizia», la rende
capace di parlare di Dio con le opere, di dire la buona novella ai poveri di oggi. Capace di «fasciare le piaghe
dei cuori spezzati»-, dobbiamo quindi impegnarci per operare nei cuori una guarigione che non ha nulla di
miracolistico, ma che richiede pazienza come una ferita che si rimargina solo col tempo. Altro nostro compito
è «proclamare la libertà degli schiavi e dei prigionieri», ricordando che ci sono schiavitù evidenti e altre
latenti, ma non meno gravi, da superare. Infine siamo chiamati a «promulgare un anno di misericordia»', è
necessario che comprendiamo come il nostro tempo - spesso sprecato nel male - deve essere invece guardato
con rispetto e spirito di discernimento come l’occasione di grazia che il Signore ci offre. Dunque con la
comparsa del Messia-sposo rivestito di giustizia nasce in noi la solidarietà, viene attuata la condivisione,
esplode quella gioia che non è vera, se non è partecipata. Sappiamo bene che non saremo mai pienamente
                                                         11
all’altezza di questo programma di giustizia e di fraternità, ma il continuo rimando a colui che solo è sposo e
luce permetterà alla forza della carità di non venir meno in noi.

Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare
con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza.

                                                      12
IV^ DOMENICA DI AVVENTO
                                           20 dicembre 2020

La prima lettura di oggi non è tratta da un testo
profetico, come nelle precedenti domeniche,
bensì dal Secondo libro di Samuele, uno dei
cosiddetti libri “storici” che, insieme al Primo
libro di Samuele, racconta il passaggio dalla fase
dei Giudici al culmine della monarchia israelitica,
rappresentato dal regno di Davide. Un profeta,
però, compare nel racconto: si tratta di Natan,
profeta e consigliere del re Davide, che in diversi
momenti dovrà risvegliare la coscienza del
sovrano e reindirizzarlo verso la via del Signore.
Ricorderemo tutti, ad esempio, la celebre
parabola della pecorella rapita all’uomo buono
detta a Davide per fargli capire la gravità del
peccato compiuto verso Uria e Betsabea (cfr. 2
Sam 12). In questo caso, invece, la prima lettura
contiene un celebre oracolo di Natan, che presenta
la dinastia davidica come voluta da Dio e
promessa per sempre. Prima di Davide, il segno
della presenza di Dio in mezzo al suo popolo era
costituito dalla celebre tenda della presenza (con
un termine posteriore, la sĕkhinah), una tenda
mobile atta ad essere spostata insieme ai
movimenti del popolo: nomade e pellegrino era il
popolo, nomade e pellegrino era anche il Dio che
camminava insieme a lui. Stabilitosi a Geru-
salemme, ormai capitale del suo regno, e sconfitti
                                                             i suoi nemici all’intorno, Davide aveva fatto riporre
                                                             dentro la tenda anche l’arca della Testimonianza.
                                                             Un giorno, però, espresse a Natan il disagio di
                                                             avere un palazzo da re mentre il suo Signore
                                                             abitava ancora sotto una tenda e gli manifestò l’in-
                                                             tenzione di costruirgli una casa (cfr. 2 Sam 7,1-2).
                                                             In realtà anche questo desiderio rivela la
                                                             tentazione, ricorrente nella storia di Israele, di
                                                             essere come gli altri popoli: far costruire un tempio
                                                             grandioso in onore della divinità benefattrice era,
infatti, tipico dei re cananei. Natan, inizialmente, concorda con Davide, ma il Signore gli compare in sogno e
lo invia a correggere l’intenzione di Davide, che non gli è ben accetta; non è, infatti, l’uomo che dà una casa
a Dio, risponderà il Signore, ma Dio che costruisce una casa/discendenza a Davide: «Forse tu mi costruirai
una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio
popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato [...] io susciterò un tuo discendente dopo di te». Si noti
con quanta abilità il discorso di Dio “rimette” Davide al suo posto: «Forse tu? No, io!». Egli manifesta
ulteriormente l’assoluta incommensurabilità dei suoi progetti con le intenzioni del re: a chi voleva dargli una
                                                       13
casa di cedro, comunque transitoria e destinata alla distruzione, egli promette una casa ben diversa, stabile per
sempre (si gioca sulla doppia valenza semantica di “casa” come abitazione e come casato). Dio susciterà per
Davide un discendente dopo di lui, uscito dalle sue viscere, e renderà stabile il suo regno. Non avverrà subito
- Davide sarà già morto, non vedrà da vivo quel giorno -, ma quella parola si compirà. E noi sappiamo che
quella promessa si compirà; mille anni dopo, ma si realizzerà. Al momento giusto, nella “pienezza dei tempi”,
che non è l’uomo a scorgere, ma il Signore a scegliere. In quale relazione staranno il Signore e questo misterio-
so discendente di Davide? «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio» (v. 14). E avverrà proprio così, in
un senso ancora più profondo e pieno di quanto chiunque avrebbe potuto intuire ascoltando quelle promesse.
Pensiamo alla Lettera ai Galati. «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da
donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a
figli» (Gal 4,4-5).

                                                               Salmo responsoriale          Sal    88(89)
                                                              Se leggessimo integralmente il Salmo 88
                                                              scopriremmo che, dopo la parte innica di lode alla
                                                              potenza di Dio creatore e Signore fedele, c’è anche
                                                              una sezione di lamento per la situazione di
                                                              sconfitta e abbandono vissuta dal popolo rispetto
                                                              alle promesse fatte al re Davide: «Dov’è, Signore,
                                                              il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai
                                                              giurato a Davide?» (v. 50). L’unzione di Davide,
                                                              infatti, e la promessa a lui di una discendenza
                                                              stabile per sempre sono al centro del testo: motivo
                                                              di gioia, per la grandiosità della promessa, motivo
                                                              di lamento, per l’apparente ritardo o fallimento di
                                                              essa. L’alleanza, così, sembra farsi fragile e
                                                              lontana e Dio appare nascosto, ritirato dal mondo.
                                                              Ma i tempi di Dio, che rimane fedele per sempre,
non sono quelli dell’uomo, e nulla a lui è impossibile, ci ricorderà il vangelo. Il suo amore, infatti, secondo la
splendida immagine del salmo, è un edificio stabile, fondato nei cieli.

La seconda lettura è tratta dal testo - importantissimo
per lo studio della teologia paolina - della Lettera ai
Romani. Si tratta di una lettera non occasionata da
un’urgenza apostolica, ma meditata a lungo
dall’apostolo, per chiarire e approfondire il tema (già
presentato ai Galati) della giustificazione per fede,
cuore, secondo Paolo, del lieto annuncio cristiano.
Progettando una visita a Roma, Paolo, mentre è
ancora a Corinto (siamo negli anni 57-58), decide di
preparare da lontano la formazione della nuova
comunità (che non ha fondato personalmente e
quindi ancora non conosce) partendo proprio dal
kérygma di Gesù Cristo. Il breve brano annunciato
oggi è tratto dalle battute finali di questo importante
documento: siamo nella cosiddetta dossologia
(formula di lode e glorificazione di Dio) finale in cui
ritornano una serie di temi e parole-chiave già
                                                          14
affrontati nel testo. A giudizio di molti esegeti, però, per motivi di lessico e di stile, i versetti che leggiamo
sarebbero una interpolazione post-paolina. Ad ogni modo sono per noi testo canonico a tutti gli effetti. Gesù,
il mistero rivelato. Due sono i poli rintracciabili in questo pur breve passaggio: da un lato, la preghiera a Dio
che i Romani vengano confermati e fortificati nel vangelo di Paolo, che è il vangelo di Gesù Cristo (genitivo
oggettivo, ossia che annuncia Gesù Cristo); dall’altro, la consapevolezza grata che quel Gesù Cristo è «la
rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei
Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede».
Mystḗrion è un termine che qui potrebbe essere tradotto con “segreto”, indicando un “segreto divino” che Dio
ha mantenuto nel passato fino al “momento giusto” per rivelarlo - idea presente già altrove nei testi paolini,
come in 1 Cor 2,7-10 («Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che
Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. [...] Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non
vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a
noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di
Dio»). Qual è questo mistero, esattamente? In che modo le Scritture e i profeti lo hanno manifestato? Se
“mistero” indica la sapienza divina nascosta, allora questo mistero taciuto per secoli eterni e poi manifestato
è il Verbo incarnato, in linguaggio giovanneo, o il vangelo di Gesù Cristo, in termini paolini. La rivelazione
di questo mistero, ossia l’eliminazione del velo che ne impediva la contemplazione, è ora un dono fatto «a
tutte le genti», senza esclusione alcuna. Il senso della proclamazione di questa lettura nella 4a domenica di
Avvento, a pochi giorni dalla celebrazione del Natale, è dunque chiaro e si illumina anche in relazione alle
altre due letture proposte. Nella profezia a Davide e nell’annuncio a Maria un segreto divino viene trasmesso
da un portavoce a un individuo che ha un ruolo da svolgere negli eventi a venire. Ma entrambi i messaggi
sono privati e personali. Il messaggio diventa pubblico solo quando tutti i protagonisti che riempiranno i
racconti del tempo di Natale (angeli, pastori, magi) e poi gli apostoli e la chiesa tutta annunceranno e
celebreranno la nascita di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Con l’incarnazione, ci dice la chiusa della Lettera ai
Romani, la partecipazione alla conoscenza del progetto di Dio è donata a tutti i popoli che accoglieranno la
sua proposta di vita in Gesù Cristo.

                                                       15
Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

                                                            L'annunciazione, Dio prende dimora
                                                            La 4a domenica di Avvento ci colloca, ormai,
                                                            nell'imminenza del Natale. «Stillate dall’alto, o cieli,
                                                            la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il giusto»
                                                            risuona l'antifona, richiamando l’invito rivolto a Dio
                                                            nella 1^domenica di Avvento a squarciare i cieli e a
                                                            scendere. Anche oggi non sarà proclamato il
                                                            vangelo di Marco, bensì quello di Luca, giacché, per
                                                            antica tradizione, in questa domenica viene posta al
                                                            centro la figura di Maria, della quale Luca ci offre
                                                            un'ampia       caratterizzazione.    Nel     racconto
                                                            dell’annunciazione viene prefigurato il regno del
                                                            Messia che non avrà mai fine. Anche a Davide, come
                                                            ascolteremo nella prima lettura, Dio aveva
                                                            promesso un erede per sempre, una discendenza
                                                            stabile, e tale promessa viene ricordata e cantata dal
                                                            salmo responsoriale, perché il Signore ha mantenuto
                                                            la sua parola. L’Avvento ci ricorda la fedeltà e la
                                                            misericordia di Dio, tanto grandi da svelare per noi
                                                            « un mistero taciuto per secoli eterni come ci dice la
                                                            seconda lettura, solo perché noi giungessimo alla
                                                            fede. Alle soglie del Natale, concludiamo l’Avvento
                                                            contemplando come Dio abbia scelto sapientemente
                                                            collaboratori umani, come Davide, i profeti o Maria,
per rivelare il suo progetto segreto su ciò che ha in serbo per l'umanità.

Commento al Vangelo:
La Parola vuole raggiungere il nostro cuore proponendoci il motivo della fedeltà di Dio. Un Dio fedele si-
gnifica la roccia capace di dare stabilità alle nostre vite, ma anche un Dio che ci sorprende: Davide deve
accettare che non più i progetti suoi, ma quelli di Dio plasmino la sua vita. In tal modo non solo cambia
l’architetto, ma deve cambiare anche il senso di tutto il nostro progetto, perché il piano divino svela anche le
possibili ambiguità dei nostri progetti umani. E un discorso cui oggi siamo particolarmente sensibili, dal
momento che sperimentiamo da una parte la nostra difficoltà ad essere fedeli, soprattutto sui tempi lunghi;
d’altra parte ci sentiamo talvolta traditi dagli altri o dalle esperienze che facciamo, perfino da Dio stesso. «Il
Signore è con te»: questo saluto dell’angelo a Maria è l’espressione del volto di Dio che oggi si offre anche a
noi. Egli è con noi ben prima che noi lo sappiamo. Una vita nuova può nascere prendendo sul serio queste
parole, ma non si conosce questa affidabilità di Dio se non ci si mette concretamente a camminare con lui,
come Maria. Ognuno di noi, nella sua vita, ha sperimentato il fallimento di qualche progetto, spesso anche di
programmi che sembravano molto buoni, cui teneva molto. Talvolta il fallimento è dovuto soprattutto alla
propria infedeltà e debolezza nel perseguire lo scopo prefissato. La parola di Dio che oggi ci viene proposta
getta luce su questa esperienza, insegnando da una parte a non credersi i padroni della propria vita, dall’altra
a vivere anche il fallimento come possibile momento di crescita, dicendo, anche in quelle amare circostanze,
un ‘sì’ a quel Dio che non cessa di esserci fedele.

Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre, tu, che nell’annunzio dell’angelo ci hai rivelato
l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione.

                                                        16
NATALE DEL SIGNORE
                                  MESSA DELLA NOTTE
                                     25 dicembre 2020
                                                            La profezia contenuta nel capitolo 9 del libro di
                                                            Isaia è molto nota ed esprime l’attesa di un’azione
                                                            divina e l’invio di un re che cambierà radicalmente
                                                            i rapporti politici nel mondo, ridonando per sempre
                                                            la libertà al popolo oppresso. Che sia stata scritta al
                                                            tempo del profeta Isaia in relazione alla trascorsa
                                                            guerra con Efraim o nel periodo del post-esilio,
                                                            questo oracolo esprime chiaramente una fortissima
                                                            aspettativa di giustizia, novità, cambiamento e
                                                            liberazione. Tanto è forte questa aspettativa che il
                                                            profeta addirittura la vede già in atto: essa, infatti,
                                                            nei primi versetti è raccontata come già avvenuta
                                                            attraverso l’immagine del popolo che cammina
                                                            nelle tenebre (quindi nella dispersione, nella
                                                            solitudine, nello smarrimento) e all’improvviso
                                                            viene orientato e illuminato da una grande luce.
                                                            Vengono quindi ricordate le azioni compiute da
                                                            Dio attraverso espressioni di carattere (inevi-
                                                            tabilmente) bellico, in cui il profeta si rivolge
                                                            direttamente a Dio: «Hai spezzato il giogo che
                                                            l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone
                                                            del suo aguzzino, [...] e ogni mantello intriso di
                                                            sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco».
                                                            (vv. 3-4). Queste espressioni spiegano il
                                                            cambiamento e la liberazione che Dio opera per il
                                                            suo popolo: il riferimento al giorno di Madian (v.
3) rimanda alla storia di Gedeone che, secondo quanto narrato nel capitolo 7 del libro dei Giudici, riuscì a
sorprendere il nemico con un attacco notturno e,
con l’aiuto del Signore, inflisse una grandiosa
sconfitta al numeroso esercito madianita, sebbene
fosse a capo di una piccolissima schiera di uomini.
Menzionare, quindi, il giorno di Madian significa
citare, per antonomasia, una vittoria splendida di
Dio pur con forze umane scarse o inconsistenti. Il
re atteso viene poi definito attraverso quattro titoli
(«Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per
sempre, Principe della pace», v. 5) che ne
esprimono la saggezza, la capacità di prendere
decisioni, il rapporto di paternità rispetto al popolo
(ossia il modo in cui si auspica che si prenderà cura
del popolo) e infine il suo compito futuro, ovvero essere un principe che realizzerà la pace. Questo oracolo è
stato quindi accolto dalla comunità cristiana come profezia della nascita di Cristo in quanto compimento della
promessa di una discendenza davidica, affermando così nella nascita e nell’operato di Gesù l’inizio del regno
di Dio e l’instaurarsi della salvezza che Dio ha voluto per il suo popolo.
                                                        17
Salmo responsoriale            Sal    95(96)

Il Salmo 95 è un salmo di lode, che coinvolge tutto
il creato (cielo, terra e mare) nell’esultanza per il
Signore che viene a giudicare la terra. Il medesimo
salmo, unito al 105, ritorna anche in 1 Cr 16,23ss.
per celebrare il trasporto dell’arca dell’alleanza a
Gerusalemme. Il Signore che sale sul suo trono,
nella rilettura cristiana offerta dal ritornello, è il
Salvatore Gesù, re giusto e fedele, che viene nel
mondo facendosi bambino.

                                                             La Lettera a Tito è un testo brevissimo, rivolto a un
                                                             discepolo di Paolo citato in Gal 2,3 che
                                                             probabilmente fu con lui a Corinto durante il
                                                             secondo viaggio missionario ed ebbe l’incarico della
                                                             colletta per Gerusalemme (cfr. 2 Cor 8,6; 12,17-18).
                                                             Da Paolo gli venne affidata la cura della comunità di
                                                             Creta per organizzarne il servizio dei presbiteri e
                                                             affidare incarichi a persone sagge, nonché curarne la
                                                             crescita morale e spirituale dei membri. Il testo,
                                                             attribuito come pseudoepigrafo a Paolo e incluso
                                                             nelle cosiddette “lettere pastorali” (7-2 Tm e Ti), è
                                                             probabilmente riconducibile ad un momento
                                                             successivo nella vita delle comunità paoline, quando
                                                             i cristiani sembrano aver perso lo slancio e la
                                                             tensione verso la prossima “venuta” del Signore.
L’autore, allora, cerca di ricordare che i credenti si trovano tra due “epifanie” della grazia di Dio, quella della
prima venuta storica di Gesù e quella del suo ritorno glorioso, e che la loro vita deve trascorrere nell’annuncio
e nella testimonianza autentica del Vangelo. I due passaggi proposti nella liturgia del Natale presentano il
rapporto tra manifestazione della grazia divina e salvezza degli uomini. «È apparsa la grazia di Dio, che porta
salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani» (2,11-12): nella notte di
Natale questo versetto è la perfetta sintesi dell’offerta di bene che, attraverso l’incarnazione del Verbo, Dio
offre a tutti gli uomini, in una prospettiva universalizzante che apre la proposta di vita a quanti,
indipendentemente da ogni provenienza, voglio- no appartenere a Cristo. Adottando uno stile di vita sobrio,
solidale, giusto, diventando costruttori di cose buone, la comunità manifesterà di essere il “popolo puro” del
Salvatore, mostrando visibilmente che la salvezza ricevuta è diventata carne vissuta anche nelle loro
esperienze.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

E il Verbo si fece carne...
La liturgia del Natale è talmente ricca da offrirci
addirittura tre momenti diversi nella celebrazione
del mistero dell'incarnazione: la messa della notte o
dei pastori, la messa dell'aurora, la messa del giorno.
Nelle prime due celebrazioni vengono annunciati i
racconti della nascita di Gesù e della visita dei
pastori secondo il vangelo di Luca, mentre nella
terza è il prologo di Giovanni a spiegare, attraverso
il suo linguaggio poetico, il senso della venuta del
Verbo nel mondo. Questa venuta, nel linguaggio
della seconda lettura, è «la grazia di Dio, che porta
salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11), l'apparizione
della « bontà di Dio, salvatore nostro, e [de]l suo
amore per gli uomini» (Tt 3,4-7), la parola definitiva
ed eterna del Padre «per mezzo del Figlio, che ha
stabilito erede di tutte le cose» (Eb 1,1-2).
All'umanità viene donato un figlio, adempiendo la
promessa pronunciata dal profeta Isaia nella prima
lettura, che porta con sé pace, gioia e consolazione
per quanti l’hanno atteso.

                                                                 Commento al Vangelo:
                                                                   Per contemplare il mistero del Natale abbiamo bisogno,
                                                                   soprattutto, della semplicità per stupirci davanti al suo
                                                                   messaggio. Stupore e sguardo da bambino sono i mezzi
                                                                   necessari per gustare l’annuncio pieno di gioia di questa
                                                                   notte santa. E la gioia ha una motivazione chiara: la
                                                                   nascita di un bambino, Salvatore universale, che reca
                                                                   motivi di speranza per tutti, che sono pace, giustizia e
                                                                   salvezza. E quali i segni che qualificano questo bambino?
La debolezza, la povertà, l’impotenza e l’umiltà, cose che il mondo ha sempre rifiutato e che sono state fatte proprie,
invece, dal Figlio di Dio. Con la venuta di Gesù le false certezze degli uomini sono state capovolte, perché Dio ha scelto
non i forti, i sapienti, i potenti di questo mondo, ma i deboli, i piccoli, gli stolti, gli ultimi: ha scelto «un bambino
adagiato in una mangiatoia» (Le 2,7.12.16; cfr. 1 Cor 1,27; Mt 11,26), povero, emarginato e respinto. È su questa
povertà che si apre lo splendore del mondo dello Spirito, mentre noi siamo coinvolti da drammi di coscienza, perché
tentati di seguire principi di forza, di potere, di violenza. Il bambino di Betlemme ci dice che il miracolo della pace del
Natale è possibile per coloro che accolgono i suoi doni. In questa luce l’evento di questa notte non è solo una data da
commemorare, ma evento capace, anche oggi, di contagio e di trasformazione. Quattro sono le notti storiche
dell’umanità, secondo un’antica tradizione rabbinica: la notte della creazione (Gen 1,3), quella di Abramo (Gen 15,1-
6), quella dell’esodo (Es 12,1-13) e quella di Betlemme, cioè, questa notte, che è la più importante, perché il Figlio di
Dio ha portato la sua pace, che è diversa dalla pax augusta, ed è il fondamento della «civiltà dell’amore» (Paolo VI).
Siamo capaci di viverne il mistero?

O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo,
concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo.

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NATALE DEL SIGNORE
                                MESSA DEL GIORNO
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Il festante inno di giubilo che apre la liturgia della
Parola della messa del giorno di Natale proviene
dal Deutero-Isaia e sarebbe da noi pienamente
apprezzato se lo cantassimo, come forse avveniva
anticamente, essendo il responsorio del grande
poema contenuto in Is 51,9-52,3. Esso celebra il
ritorno degli esuli a Gerusalemme e la
ricostruzione della città, manifestando così che il
Dio di Israele è re. Per questo il profeta immagina
dei messaggeri che portano la buona notizia,
esultano, prorompono insieme in canti di gioia! Il
tempo del nascondimento di Dio, che ha fatto
vacillare la fiducia di Israele, si è concluso: Dio si
è manifestato al fianco di Gerusalemme come suo
“riscattatore” (è già un’esperienza, non una
profezia) «davanti a tutte le nazioni». Per questo i
piedi del messaggero sono graziosi (v. 7), perché
bello e grazioso è ciò che succede, ciò che viene
ad annunciare (pace e salvezza). Prima compare
un solo messaggero, poi vengono coinvolte più
sentinelle, che alzano la voce perché “vedono” il
ritorno del Signore in Sion coi loro occhi! È così
che l’esultanza si trasmette addirittura ad oggetti
inanimati, come le rovine della città distrutta, che
immaginiamo vibrare e risollevarsi all’arrivo del
re. L’eccezionale forza immaginifica del Deutero-
Isaia trasmette alla Chiesa, raccolta per celebrare
la nascita del Signore Gesù, l’esultanza e la
commozione di chi può contemplare con i propri occhi l’amore di Dio fattosi visibile dagli uomini (come
sottolineerà anche la seconda lettura) fino ai confini della terra.

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