Solo l'amore è credibile: il volto comunionale delle nostre Chiese per testimoniare il Risorto e dare speranza alla Calabria
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Solo l’amore è credibile: il volto comunionale delle nostre Chiese per testimoniare il Risorto e dare speranza alla Calabria Relazione teologico-pastorale di S. E. Mons. Antonio Staglianò, Vescovo di Noto, al V° Convegno ecclesiale delle Chiese di Calabria “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi […] Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda […] Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (cfr. Gv 17). Solo l’amore è credibile Solo l’amore è credibile. E’ una verità con molteplici significati, ne ricordiamo solo due tra quelli fondamentali. E’ vero - solo l’amore è credibile -, anzitutto perché l’amore è ciò in cui i cristiani hanno creduto. Inizia così la fede nel suo annuncio originario: “Dio è amore” (Deus caritas est), Dio è dono, Dio è il Padre “ricco in misericordia”. Non è una dottrina, ma l’evento del Crocifisso risorto – il Figlio redentore - che così manifesta e rende vivibile il Dio-amore, per l’effusione dello Spirito santo - l’amore in persona o la persona dell’amore - effuso nei cuori dei credenti (Rm !!). Non è tanto un insegnamento capace di orientare eticamente l’esistenza, ma è la grazia di una rivelazione che trasforma la vita, la cambia, la converte. E’ vero - solo l’amore è credibile - anche perché la fede cristiana accoglie la rivelazione del Dio-agape e in questo Dio riconosce l’amore come la realtà che determina ogni cosa: l’amore è respiro, dimensione profonda, finalità concreta, legge interiore di vita: Dio-amore è tutto, è per tutto, è in tutto. Tocca l’universo cosmico - è « l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso XXXIII, 145)- perché coglie l’uomo: «l’uomo non può vivere senza amore […] La sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis 10) Ora, la verità dell’amore, cioè l’amore nel suo significato vero è donazione-accoglienza-comunione, secondo la recente enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate al n. 3. La comunione appartiene alla verità dell’amore: senza comunione, niente amore vero e, dunque, senza comunione l’amore non è credibile, perché sarebbe amore senza “splendore di verità”. 1
Riportare l’amore alla sua verità significa andare alle sue vere radici, al fondamento assoluto di questa esperienza che riempie di gioia la vita umana e – sola – la realizza e la compie, cioè Dio-amore. Perciò questa rivelazione “cambia” la storia personale e comunitaria, non solo religiosa, ma anche – inevitabilmente e nel rispetto dell’autonomia delle realtà terrestri - quella civile. Sia però chiaro per ogni cristiano: la fede crede “non che l’amore-è- Dio”, ma “che Dio-è-amore”. Il cristiano cioè si lascia istruire dalla rivelazione di Dio sull’amore che-Dio-è e che egli deve vivere, nell’obbedienza al comandamento: “amatevi come io ho amato voi”1. Questo radicamento trinitario “della comunione come speranza” è insistito nelle meditazioni dei nostri padri Vescovi – ecclesia/communio de Trinitate - e non abbisogna qui di ulteriori annotazioni. Basti una affermazione lapidaria del Concilio: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4). La comunità ecclesiale si caratterizza «come comunità di fede, di speranza e di carità» (cf LG 8), come spazio, cioè, dell'accoglienza e dell'esperienza del mistero di Dio2. La riflessione svolta dai Vescovi, infatti, – nell’intenzione 1La mentalità moderna ha non poco invertito i termini della questione: chi afferma che “l’amore è Dio” attinge il significato dell’amore da qualsiasi fonte e poi lo assolutizza, dicendo appunto che è Dio per lui; chi invece e contrariamente – come il cristiano -, sostiene che “Dio è amore” si lascia propriamente dire da Dio cosa è l’amore e non accetta altre definizioni dell’amore se non quella emergente dall’evento in cui l’amore si è dato inequivocabilmente alla vita dell’uomo: è l’evento dell’amore che spinge il dono della vita fino a morire per la persona amata, anche quando questa persona è addirittura il proprio nemico (“amate i vostri nemici per essere perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”). E’ allora il Padre, il suo comportamento, il suo pensiero, la sua volontà ad essere il paradigma di riferimento costante per sapere cosa è l’amore: da qui emerge chiaro che l’amore è persona, non è un cosa, ma una persona, relazione sussistente, tre persone, l’una nell’altra, in comunione perfetta e assoluta, in un dinamismo eterno per cui l’una e dono per l’altro ed è puro dono, in mutua reciprocità (sono aspetti del mistero trinitario che qualunque riflessione teologica mette in evidenza. Per comodità cito A. Staglianò, Il mistero del Dio vivente. Per una teologia dell’Assoluto trinitario, EDB, Bologna 2002; importante però per una rilettura della Trinità in termini esplicitamente comunionali cfr Greshake G., Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000. La sua riflessione non risulta tuttavia senza equivoci teologici (per le mie personali osservazioni critiche cfr A. Staglianò, “Teologia trinitaria”, in G. Canobbio – P. Coda, La teologia del XX secolo. Un bilancio, vol. 2, Città Nuova, Roma 2003, pp. 89-174. 2 L’ecclesiologia del Concilio è teo-logica: la Chiesa si autocomprende come “strumento” affinché il manifestarsi di Dio in Cristo, la Parola incarnata, giunga all’approdo dell’incontro con l’uomo come salvezza di Dio per tutti: poiché Dio salva tutti, è a tutti accessibile. Nell’architettura del Concilio –nota retrospettivamente il Card. Ratzinger -, non è senza significato che il primo testo emanato sia stato la costituzione sulla sacra liturgia: «questo ha un preciso senso: all’inizio sta l’adorazione. E quindi Dio». La costituzione sulla Chiesa la segue a ruota ed è ad essa interiormente collegata: «la Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio»; diventa logico poi «che la terza costituzione parli 2
programmatica del Convegno - è come il fondamento dello sviluppo delle considerazioni qui dedicate al “volto comunionale delle nostre Chiese per testimoniare il Risorto e dare speranza alla Calabria”, che si avvalgono dell’interessante contributo offerto dalle Istituzioni teologiche in Calabria nel Convegno annuale di Vivarium (Rivista di scienze teologiche)3. La tesi da sviluppare è: tutta l'esistenza della Chiesa è plasmata dalla comunione e nella verità della comunione si gioca moltissimo (se non tutto) della credibilità della Chiesa. In realtà, proprio oggi, in un mondo che soffre dentro radicate e disperanti solitudini, l’amore dei cristiani, la loro comunione è realmente speranza: nel deserto dell’immunitas moderna dei rapporti umani deve splendere, concretamente – in forme pratiche ben visibili e identificabili –, la speranza umana della fraternitas cristiana. Le metafore bibliche della luce che non può stare sotto il moggio, ma sopra il lucerniere e del sale della terra che non può diventare insipido, sono ancora “metafore vive” per dire la speranza cristiana nel mondo odierno. Urge però nuova consapevolezza per la missione (= cfr l’insistenza di Giovanni Paolo II per la “nuova evangelizzazione”4. Comunione come speranza per società dominate dalla solitudine Lasciamo sicuramente ai sociologi il compito proprio di offrirci un panorama e una interpretazione della condizione dell’umano nelle nostre società, opulente e secolarizzate. In ordine alla fede e all’esperienza ecclesiale dobbiamo notare che alcune dinamiche sociali e alcune tendenze culturali – piuttosto diffuse anche in Calabria - hanno effetti nocivi e sfavorevoli per tutto ciò che è vita comunitaria della persona (dalla famiglia, alle comunità, della parola di Dio, che convoca la Chiesa e la rinnova in ogni tempo. La quarta costituzione mostra come la glorificazione di Dio ripropone nella vita attiva, come la luce ricevuta da Dio viene portata nel mondo e solo così diviene totalmente glorificazione di Dio» (J. Ratzinger, «L’ecclesiologia della costituzione “Lumen Gentium”», in R. Fisichella [a cura di], Il Concilio Vaticano II¸ Recezione e attualità alla luce del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000¸ pp. 67-68). 3 Le Istituzioni teologiche della Calabria, volendo contribuire all’approfondimento filosofico e teologico del tema di questa riflessione, hanno giustamente puntato - nel Convegno annuale di Vivarium. Rivista di scienze teologiche – sulla relazione “centro e cuore” della persona e sulle relazioni personali da riscoprire nella loro realtà ontologica prima che funzionale, allo scopo di vivificare la stessa convivenza civile e sociale, rischiosamente inoltrata su vie di depauperamento delle umano nelle tante forme della progressiva desolidarizzazione di una società consumistica e mercantile, competitiva e conflittuale. Rispetto a questo, le comunità cristiane devono riscoprire il “roveto ardente” della loro testimonianza di fede proprio nel recupero della centralità della persona umana, la quale non è solo un soggetto individuo, ma una trama di relazioni comunitarie, improntate alla carità, alla giustizia, alla prossimità, alla cura, alla vicinanza. 4Cfr A. Staglianò, «Nel cuore della “nuova evangelizzazione”», in Id., La teologia che serve la Chiesa. Sul compito scientifico-ecclesiale del teologo per la nuova evangelizzazione, SEI, Torino 1996, pp. 18-51. 3
alle associazionismo, alla scuola, alla Diocesi). La mentalità mercantile e consumistica invade le coscienze di tutti, specie dei più giovani, portando a consumare e vendere non solo i beni materiali (=le cose), ma anche quelli immateriali (esperienze, emozioni, intelligenza, cuore e corpi) in un dinamismo retto dall’utilitarismo che porta tendenzialmente a strumentalizzare tutti e a mercificare tutto. Lo spirito egocentrico (e spesso egotico), poi, spinge seguire il principio del piacere e l’onnipotenza del desiderio per la propria autorealizzazione, dando ampio sfogo al soggettivismo libertario che vuole scegliere per scegliere senza alcun riferimento al bene e alla verità (si potrebbe allora scegliere l’orientamento sessuale, il suicidio assistito etc.): e d’altronde perché ci si dovrebbe riferire ad alcunché di oggettivo (a una presunta legge naturale) se il relativismo etico stabilisce che non esiste e non può esistere? Quale rimedio alla solitudine? E’ vero non c’è solo tenebra in questo mondo: qui però si vuole evocare (ben identificandolo) ciò che – in una ampia lettura culturale- potrebbe spiegare il perché, nonostante il grande sviluppo tecnologico e scientifico dell’Occidente (nel quale anche la Calabria è ovviamente inserita, respirandone l’aria più o meno pulita), l’umanità di oggi soffre per troppa solitudine, per progressiva desolidarizzazione nei rapporti di base, per ciò che finora è stato considerato un sacro legame, degno d’essere onorato nell’amore, “fino alla morte” (genitori-figli, sposo-sposa, fratelli-amici): la coppia è in crisi, è in crisi la natalità, è in crisi l’educazione. Non dobbiamo dimenticare soprattutto il carattere di radicale mobilità della vita nelle nostre stesse società meridionali: anche da noi, sempre più, nulla è stabile, con un forte contraccolpo sulle relazioni umane che risultano non più omogenee: ne risulta una frammentazione o parcellazione della vita, per le quali il luogo di residenza è diverso dal luogo di studio, così come il luogo del lavoro è diverso da quello dello svago, mentre non esistono più orari familiari (tanto per fare una esempio), le persone della stessa famiglia rischiano di “stare sotto lo stesso tetto” e non incontrarsi mai, per non parlare della pluralità delle appartenenze. Tutto questo – e altro ancora che si potrebbe aggiungere – comporta un “divisione/dicotomia” nella vita, di cui si percepisce con progressiva consistenza la fatica e la difficoltà. A tal punto che le categorie più deboli (come gli anziani e i malati) non la sopportano e – come trend culturale – ci si incammina verso la richiesta di una “buona morte”. Non mi soffermo sulla solitudine creata dalla svolta multimediale nell’era di inter-net: tutti nella rete, tutti connessi, ma senza comunicazione, 4
senza comunione, soli o in contatto con “maschere virtuali” di cui non è possibile scorgere l’identità del cuore della persona5. Giovanni Paolo II in Ecclesia in Europa (28 giugno 2003): a fronte dei tanti segnali di offuscamento della speranza nella vita delle odierne società – la paura di affrontare il futuro, mentre la vita perde di significato e l’angoscia avanza; la frammentazione dell’esistenza che porta solitudini sempre più acutizzate; il crescente affievolirsi della solidarietà interpersonale, motivato da certo individualismo imperante -, presenta la parrocchia come speranza per l’uomo e per l’umano: poiché «rimane in grado di offrire ai fedeli lo spazio per un reale esercizio della vita cristiana, come pure di essere luogo di autentica umanizzazione e socializzazione sia in un contesto di dispersione e anonimato proprio delle grandi città moderne, sia in zone rurali con poca popolazione» (n. 15). La comunione è speranza, dunque: la comunione messa in pratica nelle relazioni umane sviluppate nelle comunità parrocchiali. I Vescovi italiani opportunamente ribadiscono – nella Nota pastorale su “Il volto missionario delle parrocchie” del 2004 - il loro “si” deciso alla parrocchia: «il futuro della Chiesa italiana, e non solo, ha bisogno della parrocchia». La parrocchia rappresenta «un bene prezioso per la vitalità dell’annuncio e della trasmissione del Vangelo», permettendo la concretizzazione del modello di «una Chiesa radicata in un luogo, diffusa tra la gente e dal carattere popolare» (n.5). Essa «figura di Chiesa semplice e umile», «Chiesa di popolo», vicina alla gente, capace di abitare i territori sui quali si gioca la vicenda umana (n. 4). Per la sua idoneità a permettere la tessitura di «rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini» (n. 10), la parrocchia incarna la possibilità del Vangelo di farmi prossimo a ogni uomo, con una “nuova fantasia della carità” (NMI, n. 50), interloquendo con tutti gli altri soggetti sociali del territorio e mirando alla creazione di una mentalità ispirata evangelicamente, di un ethos cristiano che alimenti la cultura diffusa. Insomma, la parrocchia dà futuro all’umano dell’uomo, perché in essa si vive la comunione tra i fratelli e si impara a vivere in comunione con tutti gli uomini di buona volontà. La fraternitas cristiana è allora speranza contro l’immunitas cui spingono le società moderne e secolarizzate dell’occidente. 5Esistono anche belle esperienze di comunicazione-comunione attraverso internet che lasciano bene sperare sulla possibilità umana di “governare” questo prezioso e, oggi, indispensabile, strumento. Tuttavia la tendenza alla visualizzazione dei rapporti incide drasticamente sulla “corposità” delle relazioni (uniche nel dar soddisfazione alla ricerca umana di affetto e di solidarietà). Su questa problematica si veda A. Staglianò, Vangelo e comunicazione. Radicare la fede nel terzo millennio, EDB, Bologna 2002. 5
Fraternitas contro l’immunitas La modernità si è costruita sulla presunzione di un io senza Padre, con la convinzione che il sapere è la premessa del fare come dominio, che a sua volta si è condensato nella tecnica. Quest’io si è quindi affrancato da ogni legame con l’altro, da ogni debito, coltivando un’immunizzazione che ci fa oscillare tra “deserto” e “fortezza”: deserto di rapporti, fortezza nei confronti dell’altro e del resto del mondo. Nota Roberto Esposito: «in un mondo - in cui individui naturalmente a rischio si affrontano in una competizione che ha per posta il potere e il prestigio, l’unico modo di evitare un esito catastrofico è quello di istituire tra di essi una distanza sufficiente a immunizzare ognuno nei confronti di ogni altro. Contro ogni tentazione comunitaria, la sfera pubblica è quel luogo in cui gli uomini entrano in relazione nella forma della loro dissociazione. Da qui la necessità di strategie e apparati di controllo che consentano agli uomini di “viversi accanto” senza toccarsi; e cioè di ampliare la sfera dell’autosufficienza individuale attraverso l’uso di “maschere” o “armature” che li difendano da un contatto indesiderato e insidioso con l’altro»6. Tutt’altro è la fraternitas cristiana, forma corposa della comunione. Essa sola è speranza, perché antidoto efficace alla solitudine dell’essere l’uno accanto all’altro: comunione è essere l’uno nell’altro, come ha intuito e felicemente proclamato Karol Wojtyla. «”Adamo” dove sei?»: è la domanda posta dal Creatore all’uomo uscito dalle sue mani che con Eva si nascose tra gli alberi, udendo che il Signore Dio «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (Gn 3,9). Adamo ha appena peccato, mangiando dell’albero della conoscenza del bene e del male e dell’albero della vita: ha paura, si nasconde perché “è nudo” (Gn 3,10)]. La perdita della relazione con Dio è una ferita profonda, intacca la sua realtà di persona. A causa della disobbedienza al comando “creaturale” - inscritto cioè nel limite ontologico della creatura -, si è attivato nella storia un processo a catena di imbarbarimento dell’io umano, un impoverimento della capacità relazionale di Adamo: con la donna, con il creato, con se stesso. Adamo si trova “scacciato” da sé, benché resti l’intimo compito di indagare sulla propria identità nella prospettiva di un recupero autentico della conoscenza di sé, di una nuova scoperta di sé, sempre possibile oltre l’alienazione, oltre l’essere diventato “altro da sé”, in una condizione di estrema solitudine. L’io è strutturalmente relazionato, è interiormente 6R. Esposito, Immunitas, in “Micromega” 4/1999, p. 57. Così: «gli individui moderni divengono tali - e cioè perfettamente in-dividui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che al tempo stesso li isola e li protegge - solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione» (R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998, p. XXXIV). 6
apertura un tu: «chi lo ha tagliato fuori dagli altri uomini, chi lo ha reso solo in mezzo a tutti loro? In fondo è lui che ha scelto di diventare solo, per innestare negli altri la solitudine. E chi dirà che questa non sia una colpa?»7. Solitudine è vivere l’un con l’altro, fianco a fianco, ma come “due cani smarriti”, senza immedesimazione reciproca, senza vitalità dell’io, che è appunto l’essere “l’uno nell’altro”. E’ l’interazione che genera: in essa sboccia creativamente la vita8. L’amore è “virus unitiva” (S.Th. I-II q.26,a2 ad 2; I-II q.28, a 1 sed contra e ad 2): autotrascendimento di sé verso l’altro, altro-da-me-per-me, per il conseguimento libero e umano della personale mia identità. Gaudium et Spes 24: l’uomo non può “ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. L’amore se perde qualcosa è per ritrovarlo nella pienezza: “chi cercherà di salvare la propria vita la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva” (Lc 17,33; cfr. pure Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24; Gv 12,25). Vale per le persone, e vale anche per le comunità. Espressivo è il modo con cui Giovanni Paolo II, in un incontro quaresimale con i parroci di Roma, declinò questa verità per la parrocchia: «La parrocchia deve trovare se stessa fuori di se stessa». Comunione e missione sono allora due facce della stessa medaglia, o meglio i due fuochi dell’unica ellisse, o ancor più significativamente i due estremi di un pendolo che non è statico, ma in continua indefessa attività. La comunione cristiana, realtà teologale nella carne umana prima che un opera degli uomini nella comunità cristiana La comunione nella Chiesa e tra le Chiese non è anzitutto un’opera che si possa (debba) realizzare o qualcosa da costruire /edificare: è piuttosto realtà da manifestare /rivelare. L’iniziativa pastorale delle Chiese non si dovrebbe impegnare tanto a “fare la comunione”, ma a renderla visibile, a permetterne l’epifania. Seguendo il suggerimento di Benedetto XVI, potremmo dire che non solo la carità ha la “sua” verità, ma c’è anche una verità della comunione. La verità della comunione è già data nell’evento di Cristo crocifisso: in questa verità ogni muro di separazione è abbattuto e tutti veniamo riconciliati con il Padre, per essere un solo corpo, nella fede della rigenerazione. Quanto il papa sostiene della carità - «solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta […]Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, 7 K. Wojtyla, «Considerazioni sulla paternità», in Id., Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, p. 954. 8 Cfr. A. Staglianò, Ecce homo. La persona (l’idea di cultura e la questione antropologica) in Papa Wojtyla, Cantagalli, Siena 2008. 7
in momenti difficili come quelli attuali […] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrari» - si può affermare della comunione, perché la comunione è una specificazione di significato della carità cristiana: «la verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione» (Caritas in Veritate, n. 3). Nella verità della comunione contempliamo certamente il volto vero e ultimo di Dio-agape, eterna comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito, la cui realtà si comunica in eventi sopratutto e, solo dopo, è registrata in dottrine. Questo significa che la realtà del Dio amore viene appresa dagli uomini di oggi attraverso lo stesso linguaggio con il quale si è comunicato: la testimonianza di una vita che spinge il dono di sé fino alla morte per amore (=la croce gloriosa del Cristo morto e risorto). D’altronde è questa la via stessa e il modo stesso con cui l’appresero i credenti della prima comunità cristiana: attraverso nuovi eventi, nuovi fatti, nuovi stili di vita, nuovi gesti, caratterizzati (segnati profondamente) dall’amore. La vita della comunità cristiana è allora coinvolta nell’evento del manifestarsi del Dio comunione: è esistenza teologica = “parola di Dio”, sua epifania. La prima comunità apostolica si sa radicata nella vitalità rinnovatrice e trasformante di una particolare presenza di Jhwh attraverso il Risorto per il dono dello Spirito. Il comportamento nuovo suscitato da questa esperienza è una conseguenza della novità divina confessata nella passione-morte e risurrezione di Gesù. Globalmente parlando, allora, il vissuto della comunità simbolizza i tratti profondi del volto di Dio manifestatosi in Gesù: dalla vita cristiana alla vita di Dio, se è propriamente la vita di Dio il fondamento della vita cristiana. Di fatto i nuovi credenti ricevono un battesimo «nuovo». Non più semplicemente il battesimo di conversione di Giovanni , il quale «ha battezzato con acqua». I seguaci di Gesù saranno «battezzati in Spirito Santo» (At. 1,5). E’ un nuovo inizio che non può non rimandare ad una rivelazione divina nuova, ad un nuovo modo di sentire, di percepire e vivere Dio stesso. In Gesù Jhwh appare «diverso»; perciò, conseguenzialmente, si sente il bisogno di un nuovo culto, di un nuovo tempio, di una nuova adorazione, di un nuovo popolo. L’esperienza del Risorto nel dono dello Spirito permette un annuncio «franco» della parola di Dio che non conosce compromessi o paure, coinvolgendo la vita in radicalità. L’adorazione del nuovo volto di Dio richiede non una obbedienza formale ai precetti religiosi, ma una trasformazione 8
concreta della propria storia individuale e comunitaria. L’individuo è portato fuori dall’egoismo dei suoi possessi, messo in crisi nel suo attaccamento ai beni terreni, provocato a una libertà di spirito piena, che comporta anche la «spoliazione» senza riserve. L’idillio comunitario dell’essere «un cuor solo e un’anima sola», al di là di ogni valutazione politica ed economicistica, resta il segno più chiaro di una tensione ineludibile, derivata dalla scoperta della realtà nuova di Dio in Gesù. Quelli che erano venuti alla fede esprimevano una nuova appartenenza. La loro storia cambia, la loro vita si trasforma. Non in banalità o semplicemente in alcuni settori del quotidiano esistere, ma globalmente e profondamente, fino a manifestare l’amore radicale nella capacità di donare la vita nel martirio (cfr il martirio di Stefano in At 6) Il martirio è una testimonianza a Cristo, alla verità teologica della sua storia di passione-morte e risurrezione. Questa testimonianza è resa possibile dall’opera dello Spirito e punta allo svelamento pieno del volto del Padre. In questo «vissuto trinitario» è fondata l’ekklesia theou, il nuovo popolo di Dio, la nuova quahal Jhwh che si organizza ritualmente (battesimo ed eucarestia), dottrinalmente (il monoteismo cristiano del Padre, del Figlio e dello Spirito santo) ed eticamente (il nuovo comandamento dell’amore). Così la vita della Chiesa è linguaggio che media la realtà di Dio. Da questo vissuto ecclesiale veniamo a sapere che la rivelazione del Dio-amore in Cristo è vera: perché “originariamente” degli uomini mostrarono di amare nella “differenza” (teologica) dell’amore umano e mostrarono come incarnato e vivibile un amore-comunione reso possibile agli uomini per la presenza stessa di Dio con loro, in mezzo a loro, dentro di loro. Agere sequitur esse. Perciò, l’agire va verificato sull’essere, potendolo manifestare o anche tradire: l’essere è la realtà, la verità. La verità della comunione svela anche la realtà/essere del credente: la comunione, infatti, è “forma” del suo essere. Per la presenza dello Spirito nel suo cuore, egli è deiformato o, meglio, triniforme (A. Rosmini). E’ l’uomo nuovo, che si è rivestito di Cristo, sua “forma”, cioè presenza dinamizzante la sua esistenza nell’amore e nel dono, nella partecipazione e nell’offerta, nell’apertura e nella comunione, nella solidarietà e nell’accoglienza. Prima di avere un valore etico, la comunione ha un valore ontologico. Così, socievolezza, affiatamento, il mettersi insieme e fare comunità tra persone, il lavorare per vincere la chiusura egoistica in se stessi, resistere al degrado dell’anonimato e superare la solitudine, sono tutti aspetti belli e interessanti dell’essere umano che porta l’imago trinitatis (e non solo le vestigia trinitatis, come le altre creature). La comunione è qualcosa di molto più profondo, non si esaurisce in questi aspetti, benché li integri tutti. Rispetto al suo essere-comunione, il credente è homo faber nella misura in cui è homo contemplativus: il suo atteggiamento accogliente e non dominante. Mentre il dominio del potere rende tutto e tutti “uno strumento”, diversamente, l’opera della comunione - fondata sulla recezione/accoglienza 9
della comunione - “risignifica” la comunione stessa. Qui la comunione ha significati propri che la mondanità del mondo non può/vuole accettare: implica conversione, la grazia di una presenza ablativa, il primato del Dio- amore, del Dio-comunione. Comunione cristiana e gli ambiti di Verona: un decalogo per apprezzarne i significati esistenziali ed ecclesiali La “spiritualità di comunione” non può mai essere un optional decorativo dell’agire ecclesiale, ma un comandamento di vita, il cuore pulsante di ogni forma storico-pratica nella quale la Chiesa si media e con la quale la Chiesa svolge il proprio mandato missionario. La spiritualità di comunione - nel n. 43 della Novo millennio ineunte- è presentata da Giovanni Paolo II come modalità d’essere che fonda ogni possibile e doveroso fare nella Chiesa. Contemplando la Gloria dell’agape che Dio è dall’eterno, l’impegno per maturare una più radicata spiritualità di comunione, può articolarsi intorno alle seguenti dieci parole, costruite sul comune decalogo: 1. Riconosci nel Dio-Amore, l’unico Dio redentore della storia Comunione non è qui il solo “reciproco riconoscersi” tra persone, quanto piuttosto immedesimazione nella vittoria contro il mondo, operata dalla Trinità nei luoghi e nei tempi della sua manifestazione storica: la comunione trinitaria si fa allora comune (insieme, degli uomini e di Dio) progetto per spezzare le catene della violenza che costringe tanta umanità in condizioni di miseria spirituale e materiale, perché l’esodo dalla schiavitù dell’Egitto, attraverso il deserto, alla terra promessa della libertà, ancora si compia e spinga tante più persone a chiedersi: “Chi è come te Signore, maestoso in santità?”. La storia dell’uomo è storia da redimere e solo Dio è il redentore. Il fatto che le società odierne – specie quelle del Nord opulento – più che alla salvezza puntino alla sicurezza (per il futuro pensino solo all’assicurazione) induce ad apprezzare l’urgenza del primo comandamento di una spiritualità di comunione: il riconoscimento di aver bisogno di Dio e della sua liberazione. “Questa” liberazione accade nella comunione – ecclesialmente – qualificata, sicché la Chiesa ne è “segno e strumento” come un sacramento in questo mondo. 2. Predica il suo nome trinitario nei fatti e in verità Comunione è sapersi convertiti dall’amore di Dio che è presenza e forza vitale nell’esistenza dei singoli e delle comunità: fin quando Dio continua a restare un “sentimento vago d’infinito” o un “pio desiderio del cuore” o anche solo il “concetto più nobile del pensiero” la sua pericoresi trinitaria non sprigionerà nulla di partecipativo e di comunionale in mezzo agli uomini. Ma 10
Dio non è un gingillo interessante da esibire, alla ricerca di stranezze intellettuali (il rebus irrisolvibile dell’unitrino), è Trinità, cioè “verbo che di declina”, vicinanza solidale: “quando si è sentito che un popolo abbia un Dio così vicino?”. Trinitaria è questa presenza comunionale e personale, sicché Dio è un Tu con cui dialogare e un Noi da cui non si è esclusi, piuttosto coinvolti, per essere trasparenza e veicolo del fiume d’amore dilagante dentro i vicoli della storia. Comunione è confessare nei fatti e nella verità la Trinità di Dio, cioè fare abitare la Trinità non nello sfogo dalle labbra, ma nelle opere della carità (e non si tratta tanto di un generico altruismo o di consolante filantropia), le cui forme autenticamente trinitarie portano la traccia del Crocifisso di Dio e pertanto sfuggono al magismo perché sono evento della libertà donata, fino all’estremo della morte, fino a fare della morte un dono: “donare la morte è il luogo della vita risorta, la comunione trinitaria”. Questo si celebra per la vita nella celebrazione eucaristica, fonte e culmine dell’agire ecclesiale. 3. Manifesta nella comunità cristiana la sua santità come segreto della festa Comunione è condivisione della festa, del tempo del riposo, nel segreto che la anima dal di dentro: questa santità del Dio/agape riempie di eterno la caducità esistenziale dei nostri giorni che passano, dando senso al nostro passare nel tempo (al nostro declinare temporale). Santo è il separato e Dio è “tre volte santo”, ab-solutus, sciolto dalla mondanità del mondo, ma non dall’uomo, dall’eterno pensato e amato come suo libero partner. Comunione è rivitalizzare, nella gioia della festa, il sentimento dell’appartenenza a Dio come cuore pulsante della vita: essere sua proprietà (segullah), avendo un Dio Go’el, redentore, significa interpretare la propria esistenza come “sacrificio di soave odore”, perché in quel sacrificio viene a galla il motivo ultimo, l’essere in comunione con Dio al modo dei figli con il proprio Padre, figli nel Figlio prediletto, nella condizione della divinizzazione causata dalla presenza dello Spirito che permette di gridare un gemito inesprimibile, ma chiaro e compreso dall’orecchio di Dio: tu sei il mio Abbà. Comunione nella festa è allora celebrazione della propria liberazione, quella della partecipazione alla filialità di Gesù, per la quale i figli non sopportano di essere più servi o schiavi, perché adorano in festa l’unico Signore e non sono più soggetti e sottoposti ad altri Signori. La comunione nella comunità cristiana rende consapevoli e rafforza questa coscienza di filialità, fonte della vera conversione salvifica (del riconoscimento che “Dio” è il Padre di Gesù). 4. Onora la sacralità degli affetti con legami coinvolgenti che durano una vita Comunione è essere piantati sulla roccia della Signore di Dio, sulla definitività del suo patto di perdono e di misericordia, sull’indistruttibilità 11
dell’alleanza d’amore con l’uomo, della eternità del suo affetto che ha generato nel Crocifisso risorto un legame indissolubile tra Dio e l’uomo: “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito. Questo mistero è grande lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”. Comunione è la comunità degli uomini che onorano questo legame fondato su questo affetto e lo esprimono nelle relazioni umane, di generazione in generazione, rendendo i propri affetti “sacri” degni di legami che durano una vita. Il “sempre” della comunione eterna di Dio in Dio si è manifestato nel “una volta per tutte” del dono del Figlio: ora si declina nel riscatto degli affetti umani dalla provvisorietà dell’immediata fruizione, nella redenzione dei legami dalla banalità di chi li vuole vivere senza responsabilità e coinvolgimento stabile, “eterno”. La Chiesa è scuola e casa di comunione perché è spazio nel quale questi affetti vengono onorati e diventano ethos, cultura, mentalità. 5. Spingi il dono di te fino a morire perché gli altri vivano in pienezza Comunione è legame duraturo, psicologicamente intenso, ma niente affatto “psicologico” o emotivo: essa è frutto di una coltivazione della propria libertà a riscoprire la sorgente della potenza umana, cioè il dono di sé all’altro, nella determinatezza cristiana del dono, per cui la giustizia degli scribi e dei farisei è infranta e il “detto del passato” (la Legge della tradizione ebraica) viene ora compiuto (inverato, non abolito) dal comandamento nuovo dell’amore: “amatevi come io vi ho amati”. Non semplicemente amando gli altri come se stessi, ma più di se stessi, spingendo il dono della vita fino a morire per amore, perché gli altri abbiano la vita in abbondanza, sul modello della Trinità, che in Gesù ha donato l’esempio e nello Spirito personalmente donato costituisce in noi la forza/causa della possibilità di amarci come il Padre vuole. Grandezza adorabile del Dio Trinità che è così trinitario da chiederci di amare come ha insegnato il Crocifisso (dovere dell’amore cristiano) e da mettersi dentro la vita delle persone per abilitarle a farlo (potere cristiano dell’amore) in assoluta libertà (esercizio cristiano dell’amore). La Chiesa è la forma storica che questo esercizio libero dell’amore assume: essa è il costato da cui sgorga lo Spirito dell’amore. 6. Cura la giustizia, la purezza e la trasparenza nei nostri rapporti umani Comunione non è questione di un attimo, nel quale gioco tutto come per azzardo. E’ piuttosto un impegno permanente che dura per la vita ed è cura della giustizia, della purezza e della trasparenza nei nostri rapporti umani. Riconoscere la dignità della persona umana, sempre fine e mai mezzo, significa impedire di prendere il sopravvento alla tentazione – sempre purtroppo latente -, di reificare l’altro (di renderlo oggetto del proprio piacimento) o anche di deificarlo (di renderlo oggetto della mia idolatria). Comunione è comunicazione, impossibile senza veracità che tende a 12
riconoscere l’altro come altro: un valore oggettivo rispetto alla forza del desiderio, un valore cui convertire le potenze soggettivizzanti e strumentalizzanti che sono quasi inevitabili nelle dinamiche dei rapporti esistenziali. L’altro è sempre degno del mio dono, questa è la giustizia del rapporto con lui: la comunione/chiesa è lo spazio in cui questa giustizia viene onorata, comunque e senza equivoci. 7. Esercitati a donare sempre, per essere libero dall’attaccamento al denaro Comunione è condivisione di tutto. L’idillio della prima comunità cristiana (che per quanto idilliaca resta sempre parola di Dio alla vita della Chiesa) prevedeva una “messa in comune” dei tanti beni: insegnamento degli Apostoli, il pane della cena, ma anche i beni materiali. Una spiritualità di comunione implica la disponibilità a non fare del dono di sè un astrattismo della mente o un pio desiderio del cuore, senza la verità dei fatti. La povertà è la base della comunione: come decisione di condividere per essere liberi dall’attaccamento del denaro, quale “ segno” di ben altri ripiegamenti su di sé, per svuotare di senso la logica mondana secondo la quale l’uomo vale perché ha, perché possiede. La ricchezza della persona è il cuore scavato dall’amore misericordioso di Dio: chi ne è convinto apre generosamente la propria esistenza alla partecipazione solidale con gli altri, a tutti i livelli, anche quello economico, facendo della comunione una esperienza che lascia tracce profonde, nella mentalità dell’individuo e dei gruppi, ma anche nella società (se è possibile immaginare addirittura una “economia di comunione”). 8. Fai la verità della comunione nel sacrificio del tuo individualismo Comunione necessita la scoperta della verità di sé stessi. Le affermazioni neotestamentarie sintetizzabili nella seguente- “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”-, non dovrebbero spingere al moralismo della “carità genericamente altruistica”: quella che viene esercitata per superare (consolandosi) i tanti complessi di colpa di fronte alla vastità della miseria umana. E’ piuttosto raggiungere la verità di sé: si è persona e non individui. L’individualità è condizione relazionale, ma non è la verità dell’essenza ultima dell’uomo, della sua effettiva identità. Questa è detta bene dalla frase: “io sono tu”, che non dall’altra: “io sono io”. La prima apre al dono, perché lo esige; la seconda chiude, come in una monade senza porte e senza finestre, e diventa spesso – per naturale istinto –“individualismo egoistico” che vanta diritti e non riconosce doveri, che trasforma tutta la realtà in una grande specchiera, nella quale il proprio ego contempla narcisisticamente solo se stesso. L’uomo è persona, un essere comunitario, l’immagine del Dio Trinità, in quale garantisce che la sua felicità sta solo nel donarsi e nel donare, nell’accogliere l’altro come dono (soprattutto quando ha il volto del povero, di 13
colui che manca di un bene essenziale alla vita) che è anch’esso una forma per donarsi. Sacrificare l’individualismo è mettersi nella condizione di fare della comunione il luogo dell’epifania della verità di sé. Sulla valenza antropologica dell’essere chiesa non si insisterà mai abbastanza. 9. Ama la ricchezza dei doni di Dio negli altri perché nulla vada perduto Lo svuotamento del proprio egocentrismo è condizione solo negativa per la costruzione della comunione. Occorre, in positivo, qualcosa di molto difficile da raggiungere, eppure indispensabile: amare la ricchezza dei doni di Dio negli altri perché nulla vada perduto. La comunione esige che si veda lo Spirito operare nel volto del fratelli, nei tanti carismi e ministeri sparsi nella compagine ecclesiale e nei tanti “semi dello Spirito” diffusi nel mondo intero: “chi non è contro di noi è per noi”. Si tratta della docilità a scrutare i segni della presenza dello Spirito, senza gelosia, ma apprezzandone la bontà. Ogni fratello è occasione nella quale Dio mi parla: la sua vitalità spirituale e umana è un modo con cui Dio parla alla vita di tutti. La Chiesa nasce dal riconoscimento autorevole dei tanti doni di cui membra del corpo sono dotate e dallo scrutare il disegno di Dio per l’unificazione attraverso il pluralismo dei servizi. Comunione è qui identità di sé e apertura all’altro, sfuggendo al prurito delle conflittualità e delle contrapposizioni: “la ricchezza del fratello diventa il mio vanto” e anche motivo di lode al Signore che compie le sue meraviglie attraverso gli umili suoi servi. 10. Spendi tempo ed energie generosamente nella costruzione della comunità Per tutto questo, la costruzione della comunità cristiana, nell’offerta generosa del proprio tempo e delle proprie energie, può diventare lo scopo principale del proprio essere cristiani, come impegno per tutti, ognuno secondo il proprio dono e a partire dalle proprie specifiche angolature (riferibili per esempio agli stati di vita). Essere comunità vivendo la comunione ecclesiale non è un optional: è il modo concreto e vero con il quale si diventa santi, accogliendo la vocazione di Dio, nella realizzazione del suo progetto su ciascuno e sull’intero popolo. La spiritualità diocesana - quale spiritualità di comunione vissuta in un particolare tempo storico e in un ambiente geografico e umano, con valori specifici e peculiari identità culturali -, può diventare l’occupazione permanente del cristiano, benché essa trovi nell’esercizio sacramentale del ministero ordinato la sua espressione più piena: questo aiuterebbe a superare certe visioni sacrali del sacerdozio ministeriale, forse ancora troppo spesso concepito alla maniera veterostestamentaria, come “ponte” tra Dio e l’uomo. Con l’incarnazione del Figlio di Dio e con il dono personale dello Spirito (cioè con le missioni trinitarie del Figlio e dello Spirito) il “ponte” è stato abbattuto una volta per tutte. Gli uomini che hanno lo Spirito dell’amore di Dio possono chiamarlo 14
“Abbà/Padre” senza mediazioni particolari. Tuttavia, possono farlo non senza la “mediazione dell’immediatezza”, cioè la mediazione di Cristo, quella per cui essi devono convincersi che Dio li ha amato fino a questo punto, fino a donarsi trinitariamente alla vita dell’uomo (=sacerdozio comune dei fedeli): il sacerdozio ministeriale è, appunto, “ministeriale” perché totalmente dedicato alla edificazione della comunità, alla costruzione di quella comunione che accade oggettivamente quando, inseriti nella Chiesa, i fedeli cristiani sanno la verità su se stessi (=sono figli del Padre, amati definitivamente nello Spirito del Figlio) e sul mondo: il suo destino è accogliere il Regno di Dio e la sua giustizia, di cui la Chiesa è come un sacramento, segno e strumento tra gli uomini. Comunione è-speranza: la comunicazione che crea futuro e libertà (perfino dalla morte) Questa comunione è-speranza: nel nostro logo la “è” assomiglia alla famosa “chiocciola” di un indirizzo Email. L’intenzione è chiara, la speranza è concreta quando la comunione dei cristiani si travasa, si diffonde – dilatentur spatia caritatis -, si comunica e si fa nuovo modo di comunicare. La comunione /comunicazione dei cristiani si lascia normare dalla comunione/comunicazione di Gesù, la cui prassi comunicativa assurge a figura di valore per ogni agire comunionale orientato a superare le difficoltà di una comunicazione libera dal dominio e dalla violenza. La logica cainica della soppressione dell’altro per l’affermazione di sé - che perpetua nella storia dell’uomo l’inimicizia, la guerra, il dominio, la distruzione, la tragedia e la paura della morte -, può essere infranta solo dalla logica nuova dell’amore di Dio nel Crocifisso, la logica del perdersi totalmente e radicalmente per la vita dell’altro. Alla visione dei fratelli che non comunicano tra loro a causa del peccato – o comunicano solo strategicamente per organizzare la lotta per il predominio – si oppone la visione di fratelli che cercano una comunicazione nuova, attraverso il superamento del peccato, nel reciproco servizio e nel mutuo dono, perché risplenda l’unità originaria del disegno del Creatore, condizione fondante per ogni comunicazione/comunione. Quale altra risposta concreta si potrebbe dare “all’interrogativo del male”? O per quale altra via si potrebbe svolgere un “ruolo di critica oggettiva verso il potere”, senza il timore di venire emarginati (tanto per richiamare alcuni quesiti posti dal discernimento di alcune chiese locali nel cammino di preparazione)? La comunione/comunicazione dei fratelli nella comunità cristiana è la forza di una predicazione recuperata nel suo significato proprio di locutio Dei attestans che dona alla Parola di Dio il suo carattere di evento: istituisce cioè il legame tra la sapienza della parola e le sofferenze della storia, attraverso una lettura della realtà storica della Calabria e del suo attuale presente per 15
sviluppare una teologia dei “segni dei tempi”, capace di aiutare il cammino comune della stessa convivenza civile. Cosa c’è da dire? Cosa si deve annunciare? Il Vangelo di sempre: l’evento incarnato, l’approssimarsi di un Dio della speranza oltre la morte. E’ la vicinanza di un Dio che libera dalla morte e dalla sua paura perché è il Dio che salva anche nel morire, rendendo giustizia dei deboli e degli indifesi, delle vittime innocenti, del destino tragico di quelli che hanno vissuto la loro esistenza nella costrizione di tante povertà e miserie, ai margini della società, esclusi dal potere costituito, o “nel rovescio della storia” a causa delle diffuse strutture di peccato nel mondo. Questo Dio, predicato dal cristianesimo, si impegna e impegna tutti in un’opera di trasformazione della società nell’obbedienza al comandamento dell’amore, la cui figura concreta è quella manifestata dal Crocifisso, l’amore che spinge il dono di sé incondizionatamente e unilateralmente (cioè eucaristicamente) fino alla morte. La donazione libera nella morte sprigiona attraverso la risurrezione una potente forza di solidarietà universale che lega in un rapporto di comunione tutti gli uomini, oltre gli stessi limiti temporali, mentre garantisce una comunicazione interumana improntata alla giustizia e alla misericordia, nella disponibilità a sacrificare la propria vita pur di rispettare nell’amore la libertà dell’altro, anche qualora questa libertà si autoimponesse contraddittoriamente nel peccato come ripiegata e ostile, addirittura pericolosamente nemica. Tutte le esperienze religiose genuine - quelle in cui il riferimento a Dio è fatto funzionare nella vita e nei rapporti sociali-, testimoniano la realtà della riconciliazione umana e del riscatto dalla miseria: Dio è vindice dei poveri e degli afflitti della terra. Egli sta dalla parte degli asserviti e dei dominati iniquamente e pretende emancipazione, uguaglianza, libertà, come è ben detto nel cantico di lode e di esultanza di Maria, la madre di Gesù, riferendosi all’intervento liberante del Dio che ha fatto in Lei grandi cose: «ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51- 53). La sua opera liberatrice è escatologica, nel senso proprio che non si misura soltanto a partire dalle risultanze storiche intramondane, potendo Dio stabilire la sua giustizia anche oltre la storia nel giorno ultimo del giudizio universale, quando i morti risusciteranno (ritorneranno a vivere per l’eternità) e potranno ricevere la ricompensa divina, la vita di beatitudine e di pace che la definitiva vicinanza con Dio offre all’uomo. L’avventura religiosa implica un rapporto vitale con Dio tale da orientare una precisa prassi comunicativa per tutti: quella dell’impegno ad esporre la propria stessa vita al rischio della morte per salvare l’altro, garantendolo nella sua libertà. Perciò, giustamente è stato notato: «la conoscenza di Dio 16
implica la convinzione che sia possibile vivere insieme un’esistenza non dominata dai meccanismi di accrescimento del potere»9. La possibilità è giustificata concretamente dal martirio di Gesù Cristo, dalla sua pro- esistenza terrena, dalla morte sulla croce nella libertà dell’amore per altro: qui si rivela propriamente la sua sconfinata dedizione all’uomo, la quale nessuno esclude e tutti sa integrare/riconciliare nella misericordia, persino il nemico. In Gesù accade una rivoluzione nell’intersoggettività umana: la figura del nemico scompare, nel gesto sconvolgente del darsi a lui fino alla morte. Con l’offerta della vita del Figlio per amore, il Padre afferma la sua signoria, quale pura oblatività a favore dell’altro, che è abbattimento radicale (=alla radice) della logica del potere di altri signori della terra, i dominatori di questo mondo. E tutto questo, come non dovrebbe interessare le nostre celebrazioni eucaristiche, le nostre feste religiose e le tante forme della nostra testimonianza della carità, ma anche la maturazione di un ethos accogliente, di una cultura della condivisione e della solidarietà. La testimonianza della verità si fa cristianamente vita nella carità, sul presupposto che la carità porta le stigmate del Crocifisso, di Colui che liberamente assume la morte di croce per rifare (redimendola dal di dentro) la comunione/comunicazione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro. La via dolorosa del sacrificio di sé appare inevitabile per il rispetto realistico della tragicità della comunione/comunicazione, la quale soffre sotto la legge del dominio e dell’ambizione dell’uomo interiormente dissociato. Secondo l’illuminante insegnamento di Giacomo: «bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra» (Gc 4,2). Per la comunicazione, dunque, il principio risolutore è la conversione del cuore resa possibile dalla sapienza del Crocifisso: «chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; poiché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3,13-18). 9Infatti, Dio «è la potenza salvifica la cui possibilità d’intervento non si esaurisce sulla soglia della morte, ma può richiamare anche i morti alla vita e risarcire le ingiustizie subite» (H. Peukert, «Agire comunicativo, sistemi di accrescimento del potere, e illuminismo e teologia come progetti incompiuti», in E.Arens (ed), Habermas e la teologia, Queriniana, Brescia 1992, p. 77). 17
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