When They See Us, un errore giudiziario che ha fatto storia

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When They See Us, un errore giudiziario che ha fatto storia
When They See Us, un errore
giudiziario che ha fatto storia
written by Francesca Conti
Alle 9 di sera del 19 aprile 1989, un gruppo di adolescenti latini e neri,
provenienti dalle zone più povere di Harlem, entrò in Central Park e si divertì a
infastidire ciclisti, passanti, finanche i senzatetto che dormivano nel parco.
Sollecitata dalle numerose chiamate, la polizia intervenne: alcuni ragazzi
riuscirono a scappare, altri furono presi e portati al più vicino distretto, giusto per
spaventarli per qualche ora. Ma intorno all’una di notte, quando stavano per
tornare a casa, arrivò la notizia che una giovane jogger era stata stuprata e
ridotta in fin di vita dentro il parco.

                                        Tre di quei ragazzi furono trattenuti e,
                                        insieme ad altri due fermati il giorno
                                        successivo, furono costretti a confessare
                                        uno stupro mai commesso, durante 48 ore
                                        di interrogatorio fatto di botte e minacce,
                                        48 ore senza vedere un avvocato, né le
                                        loro famiglie, senza cibo e privati del
                                        sonno. Antron McCray, Kevin Richardson,
                                        Yusef Salaam e Raymond Santana, tutti tra
i 14 e i 15 anni, entrarono nella stazione di polizia e tornarono a casa soltanto 6
anni dopo. Korey Wise, processato come un adulto anche se all’epoca aveva 16
anni, uscì dalla prigione nel 2002, dopo 13 anni. Proprio quell’anno era successo
che uno stupratore seriale di nome Matias Reyes aveva confessato lo stupro di
Central Park e le evidenze scientifiche confermarono la sua colpevolezza. A quel
punto i cinque ragazzi, conosciuti come i famigerati Central Park Five, iniziarono
una battaglia legale per vedersi riconosciuto il torto subito. Solo nel 2014, grazie
al sindaco Bill de Blasio, i cinque ricevettero un risarcimento monstre di un
milione di dollari per ogni anno di galera, per un totale di 41 milioni di dollari. La
vicenda, già raccontata nel documentario Central Park Five dal regista Ken
Burns insieme alla figlia Sarah, che aveva lavorato al caso come assistente legale,
è stata portata nuovamente al grande pubblico da Ava DuVernay, regista e
sceneggiatrice afroamericana, autrice di film come Selma e di documentari come
The 13th.
La vicenda ebbe una grande risonanza
all’epoca grazie ai media, in una New York
scossa dalle tensioni razziali; basti
ricordare che il 1989 è l’anno di uscita di
Fa’ la cosa giusta di Spike Lee e
dell’album di esordio dei Public Enemy
Fight the power, che del film di Lee era
la colonna sonora. Tra la popolazione bianca si diffuse il panico, mentre le
comunità nere e latine si sentirono come sempre al centro del mirino,
colpevolizzati e disumanizzati.

I personaggi coinvolti nella vicenda non esitarono a utilizzare termini razzisti e
dispregiativi nei confronti di questi cinque ragazzi: il sostituto procuratore Linda
Fairstein li definì tra le altre cose “animals”, “turds” (letteralmente stronzi) e
definì il branco ‘wolfpack’ (branco di lupi). Per la nottata al parco si parlò di
wilding up, come se fossero stati degli animali selvaggi. Anche i media non si
tirarono indietro, furono colpevolizzate le famiglie e l’ambiente dal quale
provenivano, la povertà e la scarsa cultura.

Durante il processo, cominciò a venire fuori in maniera netta il fatto che i ragazzi
erano probabilmente innocenti: non c’erano prove, i tempi non tornavano ma il
sostituto procuratore che rappresentò la pubblica accusa in tribunale aveva, come
unica arma, le confessioni. Confessioni estorte sia in forma scritta che su video,
assolutamente contraddittorie ma che bastarono alla giuria per condannarli.

Potremmo chiederci che necessità ci fosse di tornare su una vicenda già
raccontata e tanto nota, ma la DuVernay fornisce una lettura completamente
diversa e, fin dal titolo, dichiara di voler mostrare la vicenda attraverso gli occhi
di quei ragazzi, delle loro famiglie e delle comunità da cui provenivano. When
they see us racconta il bisogno di essere visti per quello che si è e non per i
pregiudizi di una società spaventata, ci mette davanti a fatti tragici e ci costringe
a restare inchiodati allo schermo, nonostante la rabbia e la sofferenza. Rabbia per
le ingiustizie, per cinque innocenze spezzate, per cinque vite che avrebbero
potuto essere ma che non sono state e sofferenza per i ragazzi e per i loro
familiari che non hanno i mezzi economici né culturali per difendersi. Raymond
Santana era solo durante l’interrogatorio perché il padre era di turno e non si
poteva assentare dal lavoro, Antron McKay fu costretto dal padre, terrorizzato
dalla polizia, a confessare, la madre di Youssef riuscì a portarlo via prima che
firmasse la confessione, ma era comunque troppo tardi.

Dopo aver visto gli interrogatori nella prima puntata, i due processi nella seconda,
la terza è dedicata alla vita dei ragazzi dopo la prigione, perché, dopo aver
scontato anni di detenzione senza aver commesso alcun crimine, una volta tornati
a casa per loro non c’era più posto. Segnati per sempre come criminali sessuali,
come i Central Park Five, non gli fu data neppure la possibilità di trovare un
lavoro. L’ultima puntata, invece, ci racconta le vicende di Korey Wise che,
all’epoca sedicenne, scontò tredici anni in varie prigioni per adulti, per la maggior
parte del tempo in isolamento per sfuggire alle violenze dei compagni e delle
guardie.

Il lavoro della DuVernay ha portato a conoscenza delle nuove generazioni la
vicenda dei cinque ragazzi e ha messo in moto, grazie all’indignazione e alla
consapevolezza, una mobilitazione tramite i social contro le due procuratrici
coinvolte nel caso. Grazie all’hashtag #CancelLindaFairstein, la ex-
procuratrice, ora scrittrice di libri gialli e di libri per bambini, è stata licenziata
dal suo editore, mentre Elizabeth Lederer è stata costretta a dimettersi dalla
Columbia University dove era docente della Law School. Questa vicenda ci mostra
la potenza della cultura popolare: il documentario di Ken Burns non era stato in
grado di suscitare tanta indignazione popolare come invece ha fatto la serie tv.
Forse anche perché i tempi non erano maturi, mentre oggi grazie ai movimenti
come Black lives Matter e ad autori e registi provenienti dalla comunità
afroamericana lo sono. Inoltre, la serie sa toccare con forza anche le corde delle
emozioni come un documentario spesso non riesce a fare. Per la stessa regista, le
dimissioni delle due procuratrici sono un risultato politicamente importantissimo,
ma riduttivo. Queste due donne, secondo DuVernay, erano parte di un sistema che
“pretendeva” che i ragazzi fossero colpevoli: erano coinvolte tutte le istituzioni,
dal sindaco di New York alla polizia che costruì una tesi accusatoria
completamente falsa insieme alla procura. C’erano poi i media che all’epoca
furono fondamentali per diffondere un clima d’odio e fortemente intriso di
razzismo.
Di tutto questo sistema all’epoca faceva parte anche
l’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump;
l’uomo che oggi governa il paese, nel 1989, pagò 85.000
dollari per ogni pagina su quattro quotidiani newyorkesi
tra i quali il New York Post e il Daily News per chiedere il
ritorno della pena di morte nello stato di New York,
apposta per questi cinque ragazzi, che all’epoca erano
poco più che bambini. ‘BRING BACK THE DEATH
PENALTY. BRING BACK OUR POLICE!” recitava la
pagina. Se questo fosse accaduto, se Donald Trump fosse
stato ascoltato, oggi questi cinque adolescenti sarebbero dei martiri, come quel
George Stinney che ispirò Il miglio verde di Stephen King, giustiziato a 16
anni per non aver commesso l’assassinio di due bambine bianche. Molti, a partire
da Ken Burns, sostengono che questo intervento di Trump fu fondamentale nella
condanna dei cinque, servì ad avvelenare le menti di molti e ad alimentare l’odio
razziale. Per mostrarci il vero volto del presidente americano, semmai ce ne fosse
ancora bisogno, la regista manda in onda una famosa intervista di Trump alla
CNN mentre la madre di Youssef sta guardando la televisione. Il tycoon non solo
dice di odiare i cinque, ma anche che oggi vorrebbe essere un ragazzo nero per
tutti i vantaggi che vengono loro concessi.

Ava DuVernay ha realizzato When they see us dopo il documentario The 13th
dedicato al tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: le due
opere, infatti, sono molto legate tra di loro e la serie televisiva è una conseguenza
delle riflessioni che partono dal documentario.
Il tredicesimo emendamento degli Stati Uniti recita ‘La schiavitù o altra forma di
costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo
alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il
quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.’ Oggi,
nell’epoca della carcerazione di massa negli Stati Uniti, con più di 2 milioni di
persone private della libertà, gli uomini neri – che rappresentano il 6,5% della
popolazione – rappresentano invece il 40,3% della popolazione carceraria. Angela
Davis, storica attivista dei diritti civili, che sulla propria pelle ha vissuto
l’esperienza del carcere dice che “ci sono più uomini neri in carcere oggi che
schiavi nell’America dell’Ottocento”. Per lei il sistema carcerario americano si
basa sulla schiavitù e di fatto i prigionieri non sono altro che schiavi di Stato.
Basti pensare che aziende come Microsoft, Boeing e Victoria’s Secret realizzano
parte della loro produzione nelle carceri, utilizzando manodopera a costo zero. La
carcerazione di massa è l’ennesimo tentacolo del capitalismo, le carceri fanno
guadagnare i privati che le costruiscono e che poi le gestiscono, i privati che
producono e distribuiscono il cibo ai prigionieri, i privati che costruiscono i GPS
per chi è agli arresti domiciliari, i privati che gestiscono le linee telefoniche con
telefonate a carico del destinatario. Anche nella serie tv i genitori non si possono
permettere di ricevere le telefonate dei propri figli dalla prigione, né di andarli a
trovare perché sono a centinaia di chilometri di distanza: un capitalismo
disumano che fa soldi sulla pelle degli ultimi.

Tra i lavori della DuVernay non si può dimenticare Selma, il film dedicato a
Martin Luther King, oggi molto celebrato ma che all’epoca era considerato un
criminale dalla polizia e dall’FBI. Eppure, nel 2015, a cinquant’anni dagli eventi di
Selma in Alabama, quando Obama e la moglie attraversarono mano nella mano
insieme a molti attivisti il ponte come MLK, in quell’esatto momento il 30% della
popolazione maschile nera dell’Alabama era privata dei propri diritti civili, non
poteva votare perché aveva commesso un crimine o ne era stato accusato. È
importante ricordare che, come i Central Park Five, la maggior parte degli
afroamericani in prigione non ha realmente commesso un crimine, ma ha
preferito confessarlo e patteggiare che pagare le spese legali di un processo,
spesso convinti che affrontare un processo sarebbe molto peggio: meglio scontare
due anni subito che rischiare di prenderne venti.

Oltre ai meriti politici di questa serie televisiva e del lavoro della DuVernay in
generale, non si può mettere in secondo piano la bellezza formale del lavoro
artistico della regista e dei suoi collaboratori. Il manierismo dello stile di regia è
talvolta eccessivo ma efficace. La serie ha anche il merito di portare in scena un
cast eccezionale, composto da giovani esordienti e da veterani. E una citazione
particolare va fatta per il direttore della fotografia, Bradford Young, che aveva
già lavorato in Selma, ed è stato candidato agli Oscar per l’uso innovativo
dell’illuminazione del film Arrival.

When They see us è un lavoro televisivo realizzato con qualità cinematografica,
ma il formato della di miniserie ha permesso un’ampiezza di racconto che un film
non avrebbe mai avuto.
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