Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
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SOMMARIO novembre- EDITORIALE dicembre 3 Un Natale più vero Maria Grazia Luise 2020 DAL VIETNAM edizione italiana 6 “Non voglio più perdermi” Anno XLV n. 5 Marina Azzola novembre-dicembre 2020 direzione e spedizione: DAL BRASILE Missionarie Secolari Scalabriniane 11 Pandemia e migrazione Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D) Rita Bonassi e Thamiris Morgado Tel. +49/711/541055 redazione: M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli SPIRITUALITÀ M. Guidotti, A. Aprigliano 16 Il piccolo rifugiato grafica e realizzazione tecnica: in mano a Dio M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti, Thomas Söding M.G. Luise, L. Bortolamai disegni e fotografie: Copertina e p. 11, 15, 22: migrants-refu- CONDIVISIONE gees.va; p. 3, 5, 13-14, 25-28, 32-33: Pixa- 18 Quattro donne, bay; p. 5: archivio Missionari Scalabrinia- un lockdown e un giardino ni; p. 4, 6-10, 18-20, 28, 30, 34-35: archivio Missionarie Secolari Scalabriniane; p. 12: Giulia Cacciatori Wikimedia Commons; p. 16: Vassil; p. 21, 23: Annalisa Vandelli/Nexus; p. 22: jesu- DOCUMENTI DELLA CHIESA it-refugee-service; p. 32: Rafael Alvarado Fernández. 21 Le sfide odierne della comunità ecclesiale Per sostenere le alla luce di “Fratelli Tutti” spese di stampa e spedizione contiamo sul vostro P. Fabio Baggio c.s. libero contributo annuale a: Missionarie Secolari Scalabriniane EMIGRAZIONE * c.c.p. n° 23259203 Milano -I- 28 Una coperta per Yusuf o conti bancari: *CH25 8097 6000 0121 7008 9 Intervista a Don Carmelo Raiffeisenbank Solothurn -CH- Parroco di Lampedusa Swift-Code: RAIFCH22 a cura di Mariella Guidotti *DE30 6009 0100 0548 4000 08 Volksbank Stuttgart -D- BIC: VOBADESS GIOVANI Le Missionarie Secolari 32 La mia promessa Scalabriniane, Istituto Secolare a Scalabrini nella Famiglia Scalabriniana, Rafael Alvarado Fernández sono donne consacrate chia mate a condividere l‘esodo dei migranti. Pubblicano questo periodico in quattro 34 PROSSIMAMENTE lingue come strumento di dialogo e di incontro tra le diversità. 2
uanti Natali abbiamo già vissuto, ma viene l’ora, forse proprio quella che stiamo attraversando, in cui le realtà più vere, quelle che continuano oltre la morte, possono emergere in una luce tale da diventare le più importanti e decisive per la vita e per la nostra gioia. Come la luce che ad un tratto mette in fuga le tenebre, così la fede dona volto e nome ad ogni realtà, rivelandone il profondo valore, rimasto forse nella penombra o nel buio. Infatti, la fede vissuta attraverso gli avveni- menti e le prove della vita - come l’attuale pandemia - ci libera dalle illusioni e distrazioni superficiali, che ci possono distogliere da una visione più ampia e profon- da che dà senso a tutte le cose. Il dolore, la povertà, la malattia, se da una parte metto- no in evidenza il nostro essere limitati, per cui nessuno può bastare a se stesso, dall’altra rimandano alla no- stra verità più profonda, capace di aprirci alla speranza nell’attesa di un bene più grande, che ci può realizzare pienamente: un bene che consiste nell’Amore vero e duraturo, ricevuto gratuitamente e donato. Adeguandoci ai criteri del mondo, senza rendercene conto ci potremmo trovare fuo- ri-strada, ma la fede in Gesù ci riporta sempre sulla via della misericordia divina, per riprendere sempre con Lui “via, verità e vita” (Gv 14,6a) il nostro cammino. Egli, infatti, nel suo infinito Amore non cessa di farsi prossimo a ciascuno di noi, per par- teciparci la sua vita di comunione. 3
Il Natale ci raggiunge con una grazia immensa, sempre sorprendente, quella dell’A- more folle di Dio Padre, che per la nostra salvezza ha voluto donare ad ognuno e a tutti il suo stesso Figlio Gesù. Così, il credere a questo dono ci apre ad accogliere, nella nostra esistenza, il Figlio di Dio fatto uomo in Gesù. Egli per salvarci da ogni male e saziare la sete inesauribi- le di felicità, iscritta nel cuore di ogni uomo, è entrato totalmente nella nostra natura umana per donarci sé stesso: la sua vita, la sua storia, la sua morte e risurrezione, l’Amore del Padre, l’eternità. Con la fede in Gesù ogni uomo - creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (cfr. Gen 1, 26-27) - può ritrovare la propria dignità e grandezza originale. Anzi, mentre spe- rimentiamo in noi stessi l’insufficienza, la fragilità e la povertà, possiamo accogliere ancora più profondamente la vita nuova e filiale di Gesù - come figli nel Figlio - su- perando le frontiere e i confronti orizzontali che umiliano, lasciandoci riscattare dallo Spirito di Gesù per una vita sovrabbondante di amore e di comunione. Infatti la nostra esistenza terrena, aprendosi, può lasciarsi colmare dalla vita e dall’A- more universale di Dio, che con la nostra partecipazione vuole trasformare il mondo in una famiglia di famiglie e fare dei popoli più diversi un solo popolo. Questo era il sogno che aveva nel cuore il beato G.B.Sca- labrini nella sua visione profetica, estremamente attuale. Su questa via, finalmen- te, nel mondo non ci saranno più bisognosi1, per ché la comunione dei beni e la condivisio- ne diventeranno il frutto di una vera fraternità aperta a tutti. A questo obiettivo ci sta orientan- do Papa Francesco con la sua enciclica: “Fratelli tutti”. Un’utopia? No, una stra- da di accoglienza inclu- siva che può attraversa- re la nostra vita e di conseguenza le nostre città e i quartieri là dove viviamo, se ci lasciamo cambiare gli occhi per cambiare il mondo. Mentre la povertà, secondo i criteri mondani, resta solo un’umiliazione che può su- scitare confronti e contese, ogni povertà, vissuta secondo la Parola di Dio come spazio al suo Amore, può diventare la via per ricevere dal Padre una vita nuova di 1 Cfr. Atti 4, 32-34: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Nessuno infatti tra loro era bisognoso”. 4
comunione, dono prezioso per chi non vuole vivere solo per se stesso, ma si lascia trasportare dall’io al noi, dall’egocentrismo al dono, dal privato alla solidarietà. Gesù ci ha aperto questa via con l’immenso Amore della sua vita, nascendo povero per farci ricchi di Dio. Infatti ci ha rivelato il Padre suo, Padre di ciascuno e di tutti, attraverso il mistero della sua incarnazione. Abbiamo ereditato un’umanità nuova e filiale in Gesù, capace di crescere in un rapporto di fede e di fiducia nell’amore dell’u- nico Padre. Essa può dilatarsi all’accoglienza di ciascuno e di tutti gli uomini come fratelli. Una via per sperimentarci insieme membra dell’unico Corpo di Gesù Cristo. Infatti in questo unico Corpo possiamo diventare tutti membra diverse e preziose, che si possono completare a vicenda, attraverso la stima e l’amore reciproco, anche e attraverso i propri limiti. Nel corpo mistico di Gesù, che ci salva tutti, possiamo vivere l’accoglienza di ogni altro ricevendo dal Padre il suo stesso Amore universale, l’unico che ci rende capaci di amarci tutti come figli di Dio e fratelli. La via è l’humilitas2, che diven- ta grandezza universale, come ci ha testimoniato il beato G.B. Scalabrini. Una grandezza di amore che ci fa ritrovare ovunque “a casa” come figli nel Figlio e fratelli, proprio mentre ci accogliamo con le nostre povertà e diver- sità nell’unico Amore ricevuto: membra diverse e vivificate dal Sangue umano-divino del Figlio di Dio, fatto uomo. Il Natale, così, può diventare per ciascuno di noi un evento decisivo nella nostra storia personale e sociale, grazie anche a quella prospettiva che coinvolge ogni responsabilità per il futuro del mondo, suscitando in noi una semplice e ardente preghiera: “Vieni, Signore Gesù, vieni presto ad abitare ancora la nostra terra e la nostra esi- stenza - ora più consapevole di essere povera e mortale - vieni con il dono della tua Vita eterna di comunione fra le diversità, Vita di amore per ciascuno e per tutti”. Maria Grazia 2 Humilitas: motto affidato dal beato G.B. Scalabrini ai suoi Missionari e Suore, che raggiunge anche noi Missionarie Secolari Scalabriniane e la stessa Famiglia Scalabriniana, che ci riunisce nelle nostre diversità mentre ci apre al mondo e agli innumerevoli collaboratori. 5
a poco più di un anno le missiona- rie che sono in Vietnam hanno avviato, con la collaborazione di giovani vietna- miti, una piccola scuola di quartiere per bambini figli di migranti interni o stranieri, che non hanno accesso all’istruzione. La scuola è ripresa il 21 settembre. Gli alunni han no un’età che varia dai cin- que ai sedici anni, con livelli di conoscenza e apprendi mento diversi. Nguyệt, la nuova insegnan- te, ogni settimana elabora programmi personalizzati per ciascuno. Alcuni stu- denti universitari, nel tempo che si ritagliano dallo studio, collabora- no nell’accompagnamento di questi bambini: Hoa Mai il lunedì, Văn, quando le è possibile, il martedì, Đạt il mercoledì, Nga il venerdì. Ognuno dà il suo apporto a seconda delle attitudini e della propria preparazione. Văn, per esempio, studentessa di psicologia dell’e- 6
ducazione, è contenta di poter mettere a servizio il suo studio, con una particolare attenzione alla crescita globale degli alunni. Alla vigilia della festa lunare di mezzo autunno, che quest’anno cadeva il 1° ottobre, ha prepa- rato con i bambini i banh trung thu, dolci tipici di questa ricorren- za, mentre Nguyệt ha insegnato loro a fabbricare le tipiche lan- terne. Văn ha anche scritto due preghiere da recitare all’inizio e al termine delle lezioni, tenendo conto che solo due sono cristiani, gli altri sono buddisti o non hanno un’appartenenza religiosa. Semplici preghiere per dire gra- zie della vita, della possibilità di imparare e per affidare a Dio tutte le persone care, gli amici e tutti i bambini che nel mondo non hanno accesso all’istruzione. I bambini stanno impa- rando anche a condividere il cibo o le merende che portano con sé. Tiên ieri non è venuta a scuola. Il padre ci ha raggiunto raccontandoci dell’inci- dente che le ha procurato la frattura della tibia e del perone. Appena fuori casa è stata investita da una motociclista che, pur avendo causato l’incidente, non se ne è assunta la responsabilità. Il padre non ha l’assicurazione di malattia e in questo tempo di pandemia lavora a singhiozzo, ogni giorno attende che il datore di lavo- ro lo chiami in cantiere. Mentre Đạt fa lezione agli scolari, Nguyệt ed io andiamo a trovare la bambina. Ritornando in classe, ci viene incontro Thường, l’in segnante che nei mesi di maggio e giugno, termi- nato il lockdown, ha seguito i bambini riuscendo a fare in modo che tre di loro potessero entrare nel- la scuola pubblica. Li abbiamo aiutati a registrarsi presso le autorità locali e a procurare la documen- tazione necessaria per l’iscrizione. Thường ci presenta un nuovo scolaro, Toan, un bambino di otto anni, accompagnato dalla sua mamma. Lo accogliamo facendogli festa ma il bam- bino, appena ripartita la sua mamma, si appiccica al vetro della porta. Vuole andare a casa. I vari tentati- vi di inserirlo sembrano non avere presa su lui, che si è accovacciato con le spalle al muro e la testa appoggiata sulle gambe. Lo lasciamo in questo suo spazio. Più tardi Nguyệt gli si avvicina e Toan accet- ta di sedersi accanto agli altri bambini. Alle 10:30 la mamma viene a riprenderlo. Piove a dirotto. Invitiamo la donna, minuta e dimessa, a se- 7
dersi. Con la mediazione di Đạt, che si è fermato oltre il tempo della le- zione, possiamo sapere di più della sua storia e della situazione del suo bambino. Sono originari di una provincia che confina con la Cambogia. Due fi- gli vivono ancora là. Toan e la sua mamma abitano a Saigon da due anni. Il marito si è ora ricongiunto a loro dopo tanti mesi a bordo di una nave nell’Oceano Pacifico. Un controllo della polizia ha comportato l’arresto dei membri dell’equipag- gio1. Appena rilasciato è ritornato in questa periferia. La famiglia vive in una piccola stanza. Per sbarcare il lunario la donna vende i biglietti del- la lotteria e lava erbe aromatiche, utilizzate nella cucina vietnamita, per conto di alcuni piccoli ristoran- ti di strada. Per ogni grande fascio di spinaci d’acqua guadagna 3’000 VND (1 Euro = 25’000 VND). Il co- mitato di quartiere fornisce loro un po’ di riso. Mangiano per lo più ve- getali, non si possono permettere la carne. Cercano di non spendere più di 13’000 VND per pasto per tre persone. La donna ci racconta che Toan dice di non voler fare la vita di stenti dei suoi geni- tori. Stamattina svegliandosi alle cinque, il bambino le ha detto: “Voglio andare a scuola, non voglio più perdermi”. In effetti, andando in giro per le strade a vendere i biglietti della lotteria, varie volte non ha più trovato la strada di casa. La settima- na scorsa gli sono stati rubati 200 biglietti e siccome ognuno ha il valore di 10’000 VND, ora hanno un debito di 2 milioni di VND. Dal suo sacchetto di plastica la mamma estrae i biglietti della lotteria ancora in- venduti, alcune banconote di piccolo taglio e poi una del valore di 500’000 VND2. Si è fatta prestare questo denaro pensando di dover pagare l’iscrizione alle lezio- ni. Tira un sospiro di sollievo e sorride grata quando apprende che la frequenza è gratuita. Raccolgo alcuni generi alimentari in una borsa. Saranno per Toan, dice la donna, perché è debole e deve nutrirsi. A distanza di alcuni giorni Toan, al termine delle lezioni, non vorrebbe più andare a casa. È sorprendente costatare i cambiamenti che avvengono nei bambini nel giro di poco tempo. 1 Stanno nascendo sempre più agenzie non riconosciute che offrono impieghi a bordo. Il rischio è altissimo, sia per la salute dei marittimi sia perchè alcuni equipaggi, lavorando su imbarcazioni che praticano pesca illegale o su navi che trasportano merce illegale, finiscono persino in prigione. 2 Il valore si aggira intorno ai 20 Euro. 8
Il primo incontro con un’altra bambina, Chau Vy, è stato casuale, una domenica di metà ottobre. Mi ero messa in cammino con suor Cecile3 per visitare le fami- glie dei bambini del quartiere che per diverse ragioni non possono frequentare la scuola pubblica per informarli dell’inizio delle lezioni della nostra pluriclasse. Dalla strada principale imbocchiamo uno dei tanti vicoli che a loro volta si diramano in stretti corridoi su cui si affacciano le abitazioni di queste famiglie. Un dedalo in cui a volte è difficile orientarsi. Per trovare l’abitazione di una famiglia cambogiana, chiediamo aiuto al proprietario di una rivendita di alimentari. Eravamo già state in precedenza da loro. La volta scorsa, prima di entrare nella stanza, avevamo dovuto attendere per lasciare loro il tempo di arrotolare la stuoia sulla quale stavano dormendo e che impediva l’apertura della porta. Nell’unico vano, forse due metri e mezzo per quattro e una scala ripida con probabile ac- cesso ad un soppalco, avevamo incontrato i genitori, la nonna materna e due dei cinque figli. Quattro di loro: un bambino di sette anni, due ragazzine rispet- tivamente di dodici e tredici anni e un ragazzo adottato di tredici anni, non avevano mai frequentato la scuola. Provengono dalla Cambo- gia e vivono in Vietnam da sei anni. La madre ci ave- va descritto le peripezie da loro vissute, raccontando in particolare che un gior- no Sung, che ora ha tredici anni, mentre percorreva le strade del distretto ven- dendo i biglietti della lotte- ria, era stata fermata dalla polizia. I suoi tratti somatici e il colore scuro della pel- le facilmente la identifica- no come straniera. Non portava nessun documento con sé. Per il timore di una possibile espulsione, alla polizia non aveva fornito alcun dato sulla sua famiglia, tantomeno l’indirizzo. Per questo era stata portata in una casa per bambini ab- bandonati o orfani. Per un anno i genitori l’avevano disperatamente cercata e finalmente, con l’aiuto di amici, erano riusciti a rintracciarla. La ragazza seguiva il racconto con lo sguardo tra lo sperduto e il vissuto senza proferire parola. Nel dialogo avevamo potuto parlare del nostro progetto a favore di bambini che non hanno accesso alla scuola pubblica e i genitori si erano dimostrati favorevoli alla frequenza dei figli. Siamo ritornate per informare i ragazzi dell’inizio delle lezioni, ma la porta è chiu- sa col lucchetto. La vicina ci informa che la famiglia, da un giorno all’altro, si è 3 Sr. Cecile lavora nella “Casa della carità”, che ospita durante il giorno bambini di famiglie disagiate. È lei che spesso ci segnala bambini che non hanno accesso alla scuola. 9
trasferita in un’altra provin- cia del Vietnam, dove i geni- tori e anche i figli adolescen- ti hanno trovato lavoro in un laboratorio di falegnameria. Per i figli il progetto scuola è purtroppo sfumato. Ci ren- diamo conto della precarietà in cui vivono questi migranti cambogiani di cui così poco si parla. Ci intratteniamo con questa donna aperta e vivace. An- che lei è cambogiana. Vive qui con il marito e quattro fi- gli: un bambino di tre anni con seri problemi di salute, una bambina di dieci anni, Chau Vy, e due giovani di diciassette e ventun anni. Chau Vy non sta frequentan- do la scuola, benché lo desideri tanto. E quando parliamo della nostra pluriclasse e della possibilità di accogliere la bambina, subito i genitori accettano la proposta con entusiasmo e gratitudine. Il mattino seguente Chau Vy si è presentata puntualmente, accompagnata in motocicletta dal papà che l’ha seguita con lo sguardo fino a che ha superato la soglia di casa nostra. Chau sa già leggere e scrivere, anche se in modo ancora un po’ stentato. Parla il cambogiano e anche il vietnamita ... come tanti bambini stranieri è già sintonizzata su due canali linguistici e culturali. È molto felice di poter frequentare le lezioni e ar- riva sempre con un anticipo di mezz’ora. Il 22 ottobre abbiamo festeggia- to il primo anniversario di que- sta piccola scuola di quartiere: proprio un anno fa, grazie al coinvolgimento di un gruppo di studenti, iniziavano le lezioni, dapprima tre giorni la settima- na, e poi, con l’aiuto di un’inse- gnante, ogni giorno. Attraverso immagini e brevi filmati abbia- mo rivissuto l’itinerario percorso insieme e anche gioito dei risul- tati: i progressi di ognuno e, so- prattutto, l’amicizia, il senso di famiglia, la gioia di condividere, il ponte lanciato tra i bambini, gli studenti e tanti amici vicini e lontani. Marina 10
a pandemia del coronavirus con il suo altissimo contagio ha raggiunto tutti i paesi del pianeta provocando gravissime perdite e conseguenze disastro- se. In Brasile ha provocato 173.165 morti da marzo a fine novembre, numero che continua a crescere ogni giorno. L’impatto socioeconomico creato dall’isolamento sociale ha fatto emergere tante povertà, ha reso visibili milioni di poveri che vivevano del lavoro informale1: lavo- ratori a giornata, venditori ambulanti, micro-imprenditori... Chi aveva un impiego formale ha potuto ricorrere al sussidio di disoccupazione per un periodo che va dai tre ai cinque mesi, con la seria preoccupazione di tro- vare un nuovo lavoro in questo tempo di crisi. Anche tra i migranti e i rifugiati, quanti sono rimasti disoccupati da un giorno all’al- tro, specialmente chi lavorava nel commercio, nei laboratori di cucito, nei risto- ranti, nelle famiglie come domestiche e badanti e chi viveva di un lavoro informale (il cui guadagno giornaliero, anche se poco, serviva a sfamare la famiglia) sono rimasti sprovvisti di tutto. E così pure milioni di brasiliani si sono ritrovati a non 1 All’inizio della pandemia il tasso di informalità nel mercato del lavoro era del 41,1% (38 milioni di lavoratori informali), il tasso di disoccupazione era dell’11,6% (12 milioni di disoccupati). Fonte: IBGE. 11
poter far fronte alle necessità fondamentali, tra cui la più impellente continua ad essere, dopo nove mesi di pandemia, la mancanza di cibo. Per alleviare questa situazione drammatica e urgente, il governo ha creato un reddito d’emergenza di R$ 600,002 al mese, inizialmente concesso per tre mesi, e, poi, a fine giugno, prolungato per altri due. Per le madri capofamiglia con figli minori di 18 anni a carico, il reddito è stato di R$ 1.200,00 al mese. 67,2 milioni di persone ne hanno usufruito. Constatando che la pandemia continua a dilagare e a crescere in forma espo- nenziale, il governo ha prorogato il reddito per altri quattro mesi, fino a dicembre, concedendo però soltanto R$ 300,00, cioè la metà del valore precedente. Si stima che questa proroga beneficerà 42,4 milioni di persone, dato che non tutti quelli che hanno ricevuto il reddito di emergenza nei primi mesi ne hanno ancora diritto. Ma in ogni caso è molto difficile vivere con un’entrata così bassa. Per di più, fin dall’inizio un gran numero di persone ha incontrato seri problemi nell’accedere a questo beneficio perché il sistema che lo erogava era sempre congestionato a tutte le ore del giorno; poi c’erano forti ritardi nella valutazione delle richieste e difficoltà nel ritirare il denaro persino per le persone la cui doman- da era già stata accettata. Tutti coloro che richiedono il reddito d’emergenza devono presentare il codice fiscale e il documento di identità: RG per i brasiliani e RNM (Registro Nazionale Migratorio) per gli stranieri. Migliaia di cittadini, brasiliani e non, non possedeva- no il codice fiscale in ordine e, così, si sono formate enormi file davanti all’ufficio competente. E il distanziamento era molto difficile! Per i migranti e i rifugiati le barriere poi si sono moltiplicate: o il credito veniva ne- gato a causa di errori di registrazione dei nomi o la valutazione delle richieste pre- sentate durava vari mesi. Oppure in molti casi, il migrante che aveva soddisfatto i requisiti richiesti e aveva ricevuto l’approvazione, non è riuscito a ritirare il valore già depositato nel suo conto digitale creato dalla Caixa Economica Federal, a causa 2 Pari a circa 100 dollari. Il salario minimo attuale è di R$ 1.045,00. Una famiglia che percepisce tre salari minimi è considerata bisognosa. 12
delle difficoltà nell’accettazione dei suoi documenti di identità. Il protocollo, docu- mento provvisorio che molti migranti possiedono, non è stato considerato valido come documento di identità. Inoltre, molti non hanno potuto ritirare il denaro perché il loro documento migratorio era scaduto. La Polizia Federale, che rilascia i documenti degli stranieri, durante la pandemia è rimasta chiusa per mesi (disponibile solo in casi urgenti) e inaccessibile era pure il sito apposito per poter fissare l’appuntamento per il rinnovo del permesso di soggiorno. Per questo motivo molti migranti hanno vissuto nella paura di ricevere una multa elevata o di essere puniti con l’espulsione Anche se in agosto è stato reso disponibile l’accesso al sito, tuttora è quasi impossibile trovare una data di- sponibile per accedere alla regolarizzazione. Una possibile via d’uscita era l’uso di un’applicazione creata dal governo per fare trasferimenti di denaro con il cellulare, evitando così agglomerazioni nelle agen- zie bancarie. In questo modo il migrante poteva trasferire il valore del suo conto digitale al conto di una persona brasiliana affinché questa, con il proprio docu- mento RG, ritirasse il denaro per lui. Ma l’applicazione spesso non funzionava e, comunque, non tutti gli stranieri conoscono una persona brasiliana che possa far- gli questo favore. Così, in questo vai e vieni molti sono rimasti esposti al contagio del Covid 19, nelle ripetute e interminabili file per accedere alle agenzie bancarie. Inoltre, benché il reddito fosse a disposizione per ogni persona residente senza distinzione, si sono verificate da parte della gente azioni discriminatorie e persino violente contro diversi stranieri che si trovavano nelle file per riscuotere i 600,00 R$, come a non voler riconoscere nell’altro, diverso da me, gli stessi miei diritti. Il fatto più grave e deplorevole, condannato dalla società e dalle autorità3, è stato 3 “Spetta alla DPU-Defensoria Pública da União di San Paolo sottolineare con forza che tutte le persone residenti nel paese, che rispondano ai criteri di eleggibilità della Legge n. 13.982/2020 hanno diritto al reddito d’emergenza. Non vi è alcuna distinzione nell’accesso al beneficio tra brasiliani e non brasiliani, indipendentemente dalla loro situazione migratoria. Inoltre, in questo momento di profonda difficoltà per le persone migranti e rifugiate, in Brasile e nel mondo, la DPU/San Paolo rafforza il suo impegno nell’assistenza legale per garantire i loro diritti e combattere in tutti i modi la xenofobia e la discriminazione” (cfr.migramundo.com, 22/05/2020). 13
l’accoltellamento di un migrante angolano, deceduto per le gravi ferite inferte da una persona che, come lui, doveva ricevere il denaro. Dopo questa crisi molti, sia brasiliani che migranti, non dispongono più dei soldi sufficienti per acquistare i prodotti di prima necessità come gli alimentari, la bom- bola del gas, i pannolini per i piccoli, per pagare l’affitto e le rate di alcuni debiti e persino per fare una semplice ricarica del cellulare o viaggiare in autobus. Anche se molti migranti hanno cercato lavoretti per provvedere ai bisogni più immediati, specialmente confezionando mascherine che hanno potuto vendere e spesso of- frire ad amici e parenti, mancavano del necessario e vivevano la preoccupazione e l’ansia per il futuro, l’angoscia di non poter mandare aiuti ai familiari rimasti in patria, che spesso dipendono da quell’aiuto tanto atteso per potersi nutrire. Chi aveva un lavoro formale non poteva essere licenziato durante la pandemia, ma molti licenziamenti sono avvenuti ugualmente. Come è successo a Juan, pe- ruviano che, rimasto in isolamento per il COVID, aveva avvisato la ditta. Al ter- mine della quarantena ha telefonato al direttore del suo reparto dicendo che sarebbe ritornato ma, con sorpresa, si è sentito dire che era stato licenziato e che doveva presentarsi per ritirare i suoi documenti, come diversi altri suoi colleghi. Di fronte a tutti questi problemi, tuttavia, la società non è rimasta passiva; un po’ ovunque, infatti, si è ri- svegliato il dinamismo della solidarietà. Quasi come in una gara per sostenere le necessità urgenti di tanti, si sono moltiplicate le iniziative per raccogliere donazioni di ogni genere da parte della società civi- le, delle imprese, dei supermercati, degli ospedali, delle fabbriche, di tante persone anonime... Anche gli immigrati di più vecchia data, che vivono da tanti anni in Brasile e sono ben integrati, memori dell’ac- coglienza ricevuta in passato, hanno organizzato azioni di solidarietà per i migranti più poveri. Gli abitanti stessi delle favelas, in mancanza della presenza dello Stato, si sono organizzati dimostrando un’incessante operosità. La favela Paraisópolis, per citarne una, la seconda più grande di San Paolo, con i suoi 80-100mila abitanti, è uno dei punti della città che forse meglio illustra la disuguaglianza che affligge il Brasile. Tuttavia, in questo momento, sta vivendo un’esplosione di iniziative di solidarietà. Attraverso le associazioni degli abitanti che s’incaricano di coordinare, la gente ha fatto e continua a fare di tutto per far fronte al dramma delle persone che nel distanziamento sociale, senza il lavoro, si sono trovate sprovviste di tutto. La solidarietà si esprime in vari modi: dalle campagne per raccogliere donazioni all’affitto di un’ambulanza per il trasporto dei malati in ospedale, dalle visite alle famiglie per sensibilizzare sulla pericolosità del contagio del coronavirus, distribuendo mascherine e gel igienizzante, alla preparazione di circa 2000 pasti al giorno grazie alle molte offerte. La Missão Paz di San Paolo, dei Padri Scalabriniani – con cui anche noi mis- sionarie secolari scalabriniane collaboriamo nel settore salute – da metà marzo 14
a fine agosto ha dovuto chiudere l’accoglienza presenziale, secondo le norme dell’isolamento sociale, a causa dell’epidemia che si stava diffondendo sempre più. Il lavoro missionario però non si è fermato, è continuato online mettendo a disposizione un apposito indirizzo e-mail e whatsapp per accogliere richieste di migranti e rifugiati che non avevano più risorse con la perdita del lavoro. In que- sto periodo file di migranti e rifugiati, venuti da ogni parte della città e dalle città vicine, di ogni nazionalità, nonché brasiliani del quartiere, si sono fatti presenti per ricevere alimenti, prodotti di igiene e pulizia, pannolini per i neonati, vestiti, coperte per il freddo invernale di luglio e agosto e aiuti vari per poter far fronte alle spese per le medicine, per l’affitto, per le visite mediche urgenti, per la ricerca del lavoro, ecc. I Missionari sono stati sempre in prima linea con alcuni volontari per distribuire questi aiuti e la fila è continuata fino a settembre, quando la Missão Paz ha riaperto l’accoglienza presenziale. Sono state distribuite da marzo ad oggi più di 6.000 ceste con cibi e prodotti di prima necessità, pervenuti da numerose donazioni di migranti, imprese, supermercati, tante persone sensibili agli appelli di solidarietà. Assieme a questo stendere la mano ai più bisognosi, la Missão Paz lavora senza sosta nella sensibilizzazione politica assieme ad altri organismi non governativi, perché leggi e norme in favore dei migranti possano allargarsi ai vari settori della Municipalità e del Governo. Molte associazioni di sostegno ai migranti e rifugiati, come molte parrocchie, sono state impegnate in questo lavoro di solidarietà, che continua. A questo scopo si è costituita anche una rete nazionale di associazioni legate alla Chiesa cattolica. Tutto questo ci fa constatare come, di fronte al limite e a volte all’improvvisazione e disinteresse dei governanti, ci siano cittadini pronti a denunciare, a proporre e, nello stesso tempo a rispondere alle persone, cercando, per e con loro, soluzioni e risorse per aiutarle ad andare avanti. E ci testimonia una Chiesa che continua a camminare, sulla via del Vangelo, insieme agli uomini e alle donne del nostro tempo: “La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri. […] La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia” (Fratelli tutti, nr. 115-116). Rita e Thamiris 15
ra i testi del vangelo che raccontano le vicende della nascita di Gesù c’è quello della fuga in Egitto: un pericolo, la vigilanza di Giuseppe, la partenza improvvisa, una fuga che pone Gesù in salvo (Mt 2,13-23). Spesso gli studi sottolineano il profondo significato teologico di questo breve racconto, liquidando facilmente però la storicità del fatto e collocandolo tra le “leggende”. In questo modo si rischia di dimenticare che i vangeli sono fondamentalmente “memoria” della vicenda di Gesù e che in quanto tali ci autorizzano a supporre in ogni caso la presenza di un nucleo storico. Di fatto a questo racconto ci siamo abituati, ma se ci pensiamo un po’, ci rendiamo conto che dovrebbe lasciarci a bocca aperta, anzi scandalizzarci: un salvatore bisognoso di essere salvato?! Il Figlio di Dio costretto a fare l’esperienza di chi deve fuggire e chiedere asilo in un paese straniero?! A questo “scandalo” ha dedicato la sua riflessione il noto biblista tedesco Thomas Söding nel primo contributo raccolto in un libro pubblicato insieme a Robert Vorholt: Il piccolo rifugiato in mano a Dio. Attualità del messaggio del Natale. Ne traduciamo la conclusione per i nostri lettori1. 1 Thomas Söding – Robert Vorholt, Das Flüchtlingskind in Gottes Hand. Die Aktualität der Weihnachtsbotschaft, Patmos Verlag, Ostfildern 2016, 26-28. Traduzione di Anna Fumagalli. 16
“Appartiene ai momenti più spettacolari della cristologia neotestamentaria il fatto che, contrariamente a tutte le aspettative, fuga ed espulsione non vengano tenute lontane da Gesù, ma entrino nella sua storia e questo senza venir timidamente difese o nascoste come qualcosa di cui ci si deve vergognare, ma presentate volutamente e apertamente. In questo modo viene in risalto la profonda umanità della cristologia ed appare chiaramente anche il messaggio politico ad essa collegato fin dall’inizio: Gesù sta – insieme al Padre – dalla parte di coloro che hanno perso la loro patria e che l’hanno dovuta lasciare. L’emigrazione viene vista da molti come luogo delle tenebre di Dio. Coloro che la vivono e soffrono in prima persona pensano non di rado di essere stati abbandonati o dimenticati da Dio; coloro che la causano pensano a volte di fare un servizio a Dio; coloro che la osservano da fuori corrono il rischio di dare ai rifugiati la colpa per la loro condizione miserevole e di chiudere loro la porta in faccia. La storia di Natale segue un’altra logica. Non copre le difficoltà legate all’esperienza della fuga e dell’emigrazione forzata. Ma mostra che in quel grande travaglio si può incontrare Dio – perché Egli prende a cuore la miseria degli uomini ed è sempre con loro. Già da piccolo Gesù ha fatto l’esperienza di chi deve fuggire per cercare protezione – e Dio era dalla sua parte, non dalla parte di Erode o dei suoi sgherri. Questo Dio era già stato presente in Egitto e, allo stesso modo, era rimasto vicino al popolo durante il terrore provocato da Erode. Questa cristologia, che riconosce la presenza di Dio nell’esperienza dell’emigrazione, ha radici profonde nella storia di Israele. Il popolo di Dio si è creduto perduto e abbandonato da Dio in Egitto e più tardi a Babilonia. Ma proprio in questa situazione il popolo ha sperimentato la presenza di Dio in una intensità tale da non poter venir superata. Questa esperienza ha dato il coraggio di un inizio nuovo, la forza di impegnarsi sul posto, la speranza di un felice ritorno in patria, in una terra dove tutto era cambiato e che tuttavia era rimasta luogo di Dio. Fare cristologia in emigrazione: ciò risponde alla storia della prima chiesa. Per questo essa è venuta in risalto con tanta chiarezza. Più volte i cristiani di quel tempo sono stati costretti ad emigrare a causa della loro fede. Hanno dovuto lasciare la loro terra; sono stati emarginati e disprezzati. Molti hanno visto in questo solo una grande ingiustizia – e indubbiamente lo era. Altri però hanno riconosciuto la presenza di Dio in terra straniera e negli stranieri. Secondo la I Lettera di Pietro una caratteristica dei credenti è quella di vivere da stranieri in questo mondo, perché il loro stile di vita si distacca da ciò che fanno tutti; questo loro “essere stranieri” non deve condurli all’isolamento, ma ispirare in loro il desiderio di trasformare il mondo – con i mezzi deboli che i credenti hanno a disposizione (1Pt 1,1). La Lettera agli Ebrei ha visto nell’esperienza di coloro che nel mondo non hanno una città permanente un segnale per indicare che il meglio deve ancora venire: la pace di un sabato eterno, dal quale nessuno più viene cacciato, perché è la meta voluta da Dio per l’intera storia dell’umanità (Ebr 11). Senza l’esperienza dei primi cristiani – di essere stranieri e senza una casa come Gesù e come Maria e Giuseppe – i racconti della nascita di Gesù non sarebbero stati tramandati così come ora li troviamo nel Nuovo Testamento. Senza che Gesù avesse fatto lui stesso l’esperienza del profugo, l’amore per lo straniero non sarebbe stato “programmato” in modo così forte nel codice teologico della chiesa”. Thomas Söding 17
a un anno Giulia si è inserita come volontaria nel nostro ormai trenten- nale corso di tedesco per migranti e rifugiati a Stoccarda. Da ottobre, a causa del virus, non è più stato possibile incontrarsi nelle sale della parrocchia di St. Rupert e il corso è stato sospeso. Ciononostante, il desiderio di incontrarsi e di imparare insieme un po’ di tedesco è rima- sto molto vivo e la creatività ha portato a cercare soluzioni alternative: Deutschkurs all’aperto! Parlare di ‘cultura dell’incontro’ significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti. Il soggetto di tale cultura è il popolo. (Fratelli Tutti n. 216) 18
Stoccarda, fine novembre. Tre donne (una siriana, una etiope-eritrea, una italiana), un lockdown e circa zero gradi. “Yalla! Arrahakì!” (andiamo!). Ci piace camminare, il tempo ci assiste con un bel sole, ma… “Mamma mia, che freddo!”. “Ah, mia figlia mi ha chiesto ieri dove ho imparato ‘mamma mia!’…Le ho detto che l’ho imparato al Deutschkurs (corso di tedesco) dalla mia insegnante!!”. Non possiamo più stare sedute all’aperto, ma la voglia di incontrarsi è tanta! Un po’ di movimen- to, un tè caldo, tra una frase e l’altra, la coniugazione itinerante dei verbi, una battuta, un racconto… “Mi piace camminare, incontrare persone e stare all’a- ria aperta! Quando sono a casa ricevo continuamente notizie dal mio Paese e il cuore non ha pace: un pezzo è qua, un pezzo è là. E fa male”. Stoccarda, metà novembre. Tre donne (una curda dall’Iraq, una etiope–eritrea, una italiana), un lock- down e un giardino. “È buono imparare un po’ di tedesco! Ho dimenticato tutto! Alcuni dei miei figli parlano quasi solo tedesco e poco curdo… non li capisco”. “Anche con i miei figli è stato un po’ così. All’inizio quando sono arrivata in Germania non capivo una parola. Una volta sono andata al super- mercato e invece di comprare l’olio… ho comprato un detersivo …poi profu- mava tutto e faceva le bolle!!”. “Che belle queste foglie…come si chiamano?” “Weintraubenblätter – foglie di vite.” “Ecco, con queste noi in Iraq cuciniamo dei piatti buonissimi, con carne e riso. Me ne prendo qualcuna!”. Stoccarda, inizio di novembre. Tre donne (una siriana, una etiope-eritrea, una italiana), un lockdown e un giardino. Tra i rami che timidamente regalano ancora qualche fiorellino bianco e le foglie multiformi dalle mille sfumature calde, passa un raggio di sole tra i palazzi e si poggia su un piccolo pezzo di terreno. “Lo coltivava 19
un signore che abita proprio qui, di fron- te: pomodori, uva,... ma poi è arrivato il mal di schiena!”. “Anch’io sin da bambina quando ero in Siria lavoravo nei campi! Aiutavo la mia famiglia a curare un am- pio terreno e mio zio aveva anche anima- li… come si chiamano? Quelli che fanno ‘bee’ e ‘muu’!!”. Scoppia una bella risata! “E coltivavamo tante cose diverse! – con- tinua – Poi andavamo alla città vicina e passavamo il pomeriggio tutti insieme. Le persone uscivano dalle loro case e le donne insieme impastavano il pane e be- vevamo e mangiavamo qualcosa insieme con le amiche! Parlavamo, parlavamo… Adesso sono molto preoccupata per i miei parenti là: non trovano pace.” “oh…anch’io non riesco a stare tranquilla con quello che sta succedendo in Etiopia e in Eritrea. Non ho più contatto con i pa- renti, perché hanno tagliato le comunicazioni con l’esterno! Vedo solo appelli disperati su internet e ricevo telefonate da parenti e conoscenti che sono in Europa e che mi ricordano tutto il tempo cosa sta succedendo… ho mezzo cuore qua, perché ho i figli, ma mezzo è là…”. Per qualche minuto parlano in arabo tra loro. Beviamo un po’ di tè caldo, perché l’aria è pungente e mangia- mo qualche grissino con il sesamo. “Come si chiama in tedesco? (indicano i semi)” “non lo so… in italiano ‘sesamo’.” “ah, anche in tigrinya! ‘Ssm’ (suona- va più o meno così)”, “Anche in arabo è così! Ne coltivavamo tanto!”. Un altro sorso e inizia un intermezzo tra le signore che discorrono del tè e del caffè. “In Etiopia e in Eritrea si beve più caffè o tè?”. “Tutt’e due. Ma quando ero piccola non si poteva bere il tè! Lo bevevo di nascosto. Il tè arriva dall’In- dia, tè nero. E il caffè cresce da noi: quando è pronto, si raccolgono i chicchi e si lasciano essiccare al sole. Quando sono arrivata in Germania con i miei figli mi mancava così tanto il caffè! Mi ero portata dietro tutto il kit necessario per prepararlo come lo facciamo noi. Ma non sapevo neanche una parola di tedesco! Cercavo, cercavo, ma non trovavo quello che faceva per me. Ero incinta, avevo sempre un gran mal di testa: erano mesi che non bevevo caf- fè. Poi sono arrivate delle signore, volontarie, al nostro alloggio per rifugiati a Karlsruhe e hanno iniziato a insegnarci qualche parola, ad aiutarci con la burocrazia, con la scuola dei bambini, ad imparare a orientarci… Un giorno, al supermercato, finalmente con le signore abbiamo trovato il caffè!”. “Provia- mo a fare qualche esercizio su quello che abbiamo visto insieme all’inizio? Vi va?”. “Sì!”. In un attimo, l’esercizio è fatto… e con ottimi risultati! Ore 13,20: “Ma… non dovete andare a casa voi?” “ah… ma no, non c’è pro- blema! C’è ancora qualcosa da leggere?”. “Ah! Ok!”. Giulia 20
l 15 novembre scorso si è svolto presso il Vicariato della Diocesi di Roma l’incontro dal titolo: “Fratelli tutti. Una lettura dell’enciclica di Papa France- sco sulla fraternità e l’amicizia sociale”, introdotto dal cardinale vicario An- gelo De Donatis e al quale hanno partecipato Stefania Falasca, giornalista di Avvenire, il cardinale Gianfranco Ravasi e padre Fabio Baggio, missionario scalabriniano e sottosegretario della Sezione Migranti e Rifugiati del Dicaste- ro per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Riportiamo l’intervento di p. Baggio, che ringraziamo per la condivisione del testo. Come recita lo stesso titolo dell’Enciclica, “Fratelli tutti” è un documento sulla fra- ternità e l’amicizia sociale, un binomio oserei dire inedito nel panorama del Magi- stero Universale. Il Santo Padre, dal suo osservatorio privilegiato, legge la realtà del mondo contemporaneo evidenziando una serie di tendenze che «ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (FT, 9). Esse si pongono come sfide comuni, che interpellano le comunità ecclesiali. Il Santo Padre si riferisce alla drammatica frantumazione dei sogni di unità, alla colpevole mancanza di un progetto per tutti gli esseri umani, alla palese assenza di una rotta comune nei processi di globalizzazione e sviluppo, alla violazione si- 21
stematica dei diritti umani sulle frontiere e alle nuove forme di sottomissione dei poveri e dei vulnerabili. Nonostante ciò, Papa Francesco nella realtà odierna vede anche semi di bene e percorsi di speranza, che possono ridare brillantezza ai grandi ideali (cfr. FT, 10-55). In considerazione della missione affidata dal Santo Padre alla Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ho scelto di approfondire le sfide sopra elencate da una prospettiva peculiare: quella della pastorale della mobilità umana. L’arrivo e la presenza di tanti migranti e rifugiati e le diverse reazioni delle comunità che li accolgono ci permettono di esemplifi- care la pericolosità della cultura dello scarto, alla quale il Santo Padre oppone perentoriamente, come antidoto, la cultura dell’incontro. La cultura dello scarto, alla quale il Santo Padre aveva già fatto riferimento nella sua Lettera Enciclica “Laudato si’”(cfr. LS, 16, 22 e 43), trova in “Fratelli tutti” una diversa caratterizzazione, che ne sottolinea i nefasti effetti sulle relazioni umane. Certe parti dell’umanità sembrano sacrifica- bili a vantaggio di una selezione che favori- sce un settore umano degno di vivere senza limiti. In fondo, le persone non sono più sen- tite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo di- ventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili. (FT, 18). La cultura dello scarto trova facile appli- cazione nei processi migratori, lì dove, a causa delle innegabili diversità, diventa più 22
semplice distinguere tra “noi” e gli “altri”, giu- stificandone l’esclusione. I migranti vengono considerati non abba- stanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che pos- siedono la stessa intrinseca dignità di qua- lunque persona. [...] Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisio- ni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi at- teggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’o- rigine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno. (FT, 39). La cultura dello scarto, che contrabbanda l’il- lusione di poter essere onnipotenti e membri di un’élite mondiale, conduce ineso- rabilmente alla chiusura nei propri interessi, all’isolamento e alla morte della frater- nità. Per salvare l’umanità e i suoi ideali, perché questa possa realizzare il progetto creativo di Dio, Papa Francesco invita tutti a promuovere la cultura dell’incontro. La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita. Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché il tutto è superiore alla parte. (FT, 215). L’incontro con l’altro costituisce una dimensione essenzia- le dell’esistenza umana; la qualità delle relazioni umane determina il processo di crescita e il raggiungimento della felicità di ogni persona. «Gli altri sono costitutivamente ne- cessari per la costruzione di una vita piena» (FT, 150). Un essere umano - aggiunge il Santo Padre - «non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (FT, 87). Tutti gli incontri con gli altri sono potenzialmente arricchen- ti, e tale potenzialità è direttamente proporzionale all’alterità della persona incontrata. Tanto più essa è diversa, “altra”, quanto più permette a chi la incontra di arricchirsi in cono- scenza ed umanità. È in quest’ottica che va compreso l’invito di Papa Francesco a privilegiare l’incontro con chi abita le periferie esistenziali, il quale «ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti» (FT, 215). Le periferie esisten- 23
ziali - spiegava il Santo Padre nel luglio 2019 - «sono densamente popolate di persone scartate, emarginate, oppresse, discriminate, abusate, sfruttate, abban- donate, povere e sofferenti» (Omelia, 8 luglio 2019). Tra gli abitanti delle periferie esistenziali troviamo tanti migranti, rifugiati, sfollati e vittime della tratta, che sono diventati «emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali» (Messaggio per la 105a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato). Rinunciare all’incontro con loro significa privarsi del «dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo» (FT, 90); significa perdere «una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti» (FT, 133). L’incontro cui si riferisce il Santo Padre non è casuale o estemporaneo, ma è uno stile di vita, che è fortemente voluto perché appassiona, un impegno costante a «cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti» (FT, 216). Si tratta di un incontro che fa crescere in umanità tutte le persone coin- volte, come bene spiega Papa Francesco in un discorso del 2016: «Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità» (Di- scorso nella Moschea “Heydar Aliyev” di Baku, Azerbaijan, 2 ottobre 2016). In questo contesto è interessante notare come il Santo Padre scelga la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37) per illustrare le dinamiche dell’incontro che arricchisce in umanità. Si tratta, infatti, di un incontro molto particolare, che nel contesto evangelico viene usato per spiegare il significato di “prossimo”, quale destinatario di un amore che è metro di giudizio per ottenere la vita eterna. Papa Francesco legge in questa parabola un significato diverso: «La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclu- sione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (FT, 67). L’incontro descritto nella Parabola può essere riassunto in quattro verbi, stretta- mente legati tra loro: riconoscere, avere compassione, farsi prossimo, prendersi cura. Il primo passo è “riconoscere” un fratello o una sorella in difficoltà. Ma per rico- noscerli bisogna innanzitutto “accorgersi” della loro presenza. Chi è ripiegato su sé stesso, disinteressato degli altri, indifferente, non riesce a rendersi conto del prossimo malmenato e abbandonato sulla strada (cfr. FT, 73). Riconoscere poi il fratello e la sorella nel prossimo richiede un ulteriore sforzo, specie se non «fa parte della propria cerchia di appartenenza» (FT, 81). Oltre a questa dimensione immanente di fraternità, ve n’è pure una trascendente, che si fonda su una ine- quivocabile rivelazione di Gesù Cristo: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Il cristiano è chiamato, quindi, a «riconoscere Cristo stesso in ogni fratello ab- bandonato o escluso» (FT, 85). In quest’ottica la cultura dell’incontro si trasforma in “teologia” dell’incontro e, parimenti, in “teofania” dell’incontro. Il secondo passo è “provare compassione”. Anche qui possiamo considerare una dimensione immanente, che considera la capacità del samaritano di comprende- 24
re la sofferenza del povero viandante, di commuoversi e provare empatia. «Vive- re indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana» (FT, 68). Esiste, però anche una dimensione trascendente, che eleva a modello la compas- sione divina. Come spiegava Papa Francesco nel 2015, «la compassione di Dio è mettersi nel problema, mettersi nella situazione dell’altro, con il suo cuore di Padre» (Meditazione mattutina, 30 ottobre 2015). Il terzo passo è “farsi prossimi”. Il Santo Padre sottolinea come il samaritano sia stato «colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche” (FT, 81). Nel suo Messaggio per la 106a Giornata Mondiale del Migrante e Rifugiato, Papa Francesco spiega che tali barriere sono solite generare paure e pregiudizi che «ci fanno mantenere le distanze dagli altri e spesso ci impediscono di “farci prossimi” a loro e di servirli con amore.» Farsi prossimi significa coinvolgersi personalmente, regalando all’altro ciò che abbiamo di più prezioso: il tempo! Il samaritano sicuramente «aveva i suoi pro- grammi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo» (FT, 63). Farsi prossimi signi- fica essere disposti a ‘sporcarsi le mani’. E «l’esempio più grande ce lo ha lasciato Gesù quando ha lavato i piedi dei suoi discepoli: si è spogliato, si è inginocchiato e si è sporcato le mani» (Messaggio per la 106a Giornata Mondiale del Migrante e Rifugiato). Il quarto passo è prendersi cura. Sull’esempio del samaritano, il Santo Padre ci in- vita a “fasciare le ferite” di ogni “forestiero esistenziale” (97) e “esiliato occulto” (98), versandovi “olio e vino”. L’olio, il vino e le fasce rappresentano idealmente tutti que- gli strumenti che siamo chiamati ad utilizzare per lenire e curare, dall’ascolto attento alla parola opportuna, dall’assistenza medica a quella psicologica, dalla restituzione della fiducia alla restaurazione della dignità personale. Prendersi cura significa far- si carico della sofferenza dell’altro. Si tratta di un impegno a lungo termine che ci trasforma in “compagni di viaggio”, in amici che condividono il cammino verso una 25
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