Il blocco israeliano infiamma la COVID-19 a Gaza
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Il blocco israeliano infiamma la crisi di COVID-19 a Gaza: Rapporto 3 febbraio 2021 – Al Jazeera Uno studio afferma che il perdurante blocco aereo, terrestre e marittimo imposto da Israele è ‘il fattore principale’ nel peggioramento della situazione umanitaria. Un nuovo studio avverte che il devastante assedio israeliano contro la Striscia di Gaza che dura da 13 anni sta inasprendo la crisi da coronavirus nell’enclave palestinese, minacciando la vita dei suoi quasi due milioni di abitanti. In un rapporto diffuso mercoledì un gruppo di ricercatori internazionali ha descritto “le minacce all’accesso alla sanità e ad altre risorse essenziali, come anche il prezzo economico che il virus ha imposto alle persone e alle loro famiglie”, come afferma un comunicato. Lo studio si è incentrato sulla diffusione dell’informazione sanitaria relativa al COVID-19, sulle misure prese per ridurne la diffusione e sull’impatto economico della pandemia. Mohammed al-Ruzzi, un ricercatore dell’università di Bath [in Gran Bretagna, ndtr.] e membro del gruppo di ricerca, ha detto a Al Jazeera che più di 70 persone di differenti località di Gaza hanno preso parte allo studio. Mentre il rapporto indica che la consapevolezza dei rischi e la comprensione delle misure di salute pubblica tese a ridurre il numero dei contagi sono garantite, ha però rilevato che vi è stato spesso “un insufficiente supporto nel dare la possibilità alle persone di mettersi in isolamento.” Il risultato è che molti considerano le misure di sanità pubblica “più difficili da accettare della malattia stessa”, afferma la dichiarazione.
Tali minacce sono state esacerbate dall’incessante blocco aereo, terrestre e marittimo imposto da Israele, descritto nel rapporto come “il principale fattore del peggioramento della situazione umanitaria…(che si manifesta) nell’inadeguatezza del sistema sanitario locale, dell’economia e delle comunità a far fronte alla situazione.” “Il blocco israeliano ha devastato l’economia di Gaza e questo ha un forte impatto sulla possibilità della gente di rispettare le misure di isolamento, quando ciò significa perdere le proprie già scarse fonti di reddito”, dice la ricercatrice capo Caitlin Procter dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze. “Molti non si fanno curare per altri problemi di salute per paura di essere contagiati dal COVID e della grave perdita di reddito che comporterebbe se venisse loro diagnosticato [il COVID, ndtr.]. Per lo stesso motivo alcuni operatori sanitari sono restii a curare pazienti COVID e molte persone con sintomi non si sottopongono ai test.” Oltre al perdurante blocco, anche l’alto tasso di disoccupazione, i tagli dei finanziamenti ONU e le divisioni politiche tra palestinesi sono fattori che contribuiscono alla condizione agonizzante dell’economia di Gaza “Tutti questi fattori hanno inciso sulla situazione economica della popolazione. Lo scoppio della pandemia e le regole dello “stare in casa” pongono molti, compresi i lavoratori a giornata, nell’impossibilità di provvedere alle proprie famiglie”, dice al-Ruzzi. Casi in aumento Il sistema sanitario di Gaza è nel caos e i suoi abitanti martoriati dalla guerra sono particolarmente vulnerabili in quanto vivono sotto un blocco israeliano-egiziano dal 2007. L’assedio aereo, terrestre e marittimo ha limitato l’ingresso di risorse essenziali come, tra gli altri, attrezzature mediche, materiali
per la sanità e le costruzioni. Le dure misure di distanziamento sociale e le procedure di quarantena si sono rivelate molto difficili da applicare, affermano i ricercatori. Secondo le ultime stime dell’OMS del 31 gennaio, da quando sono iniziate le rilevazioni nel luglio 2020, a Gaza ci sono stati 51.312 casi confermati e 522 morti per COVID-19. Con l’aumento del numero dei casi, le autorità sanitarie di Gaza hanno avvertito che non possono più condurre i test del coronavirus per mancanza di kit. Il mese scorso hanno auspicato un’azione urgente per procurare l’attrezzatura necessaria all’unico laboratorio dell’enclave in grado di analizzare i campioni dei test di coronavirus. L’Agenzia ONU per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) ha ammonito che il sistema sanitario della Striscia di Gaza potrebbe collassare se il numero dei casi continuerà ad aumentare. Israele ha ricevuto una crescente pressione mondiale, anche dall’ONU, perché aiuti i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana in Cisgiordania e Striscia di Gaza ad avere accesso ai vaccini. Mentre molti Paesi in tutto il mondo hanno iniziato le campagne vaccinali – con Israele in prima linea nel mondo – i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania occupata stanno ancora aspettando il proprio turno. Fonti ufficiali hanno detto che questa settimana l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha iniziato le vaccinazioni per il COVID in Cisgiordania, dopo aver ricevuto 2.000 dosi da Israele. I vaccini Moderna sono la prima tranche dei 5.000 promessi forniti da Israele per vaccinare gli operatori sanitari. Ma a Gaza e in Cisgiordania ci sono più di 4 milioni e mezzo di palestinesi che non hanno accesso al vaccino. Istituzioni internazionali e l’OMS condurranno campagne per
rendere accessibile il vaccino ai palestinesi e sviluppare programmi per aumentare la capacità del settore sanitario a Gaza, dice al- Ruzzi. “ La pandemia ci mostra chiaramente quanto sia vulnerabile il sistema sanitario pubblico. Il lavoro dei soggetti locali e internazionali qui è cruciale”, dice. (Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna) Con la grazia, la fede e una macchina fotografica Noor Abdo 24 gennaio 2021- Wearenotnumbers Nato durante la prima Intifada, Momen aveva solo una settimana di vita quando l’occupazione israeliana gli uccise il padre lasciandolo orfano nella Palestina occupata. Da quando è nato niente gli è stato facile. Lottando contro il dolore emotivo e fisico per tutta la vita, Momen ha tracciato un sentiero tutto suo. Fotografo in divenire Momen Faiz ha scoperto la sua passione per la fotografia da ragazzo quando viveva ad Al Shejayeh, un’area di confine nella zona est di Gaza. È un posto strategico per fotografare le rivolte e l’oppressione che avvenivano nell’area. Ha fatto i primi tentativi con una macchina fotografica che gli avevano prestato perché non ne aveva una sua. Questo gli ha offerto l’opportunità di stringere rapporti con un gruppo di fotografi e giornalisti. Ha ascoltato i loro consigli su dove mettersi per scattare le foto ed è così diventato un esperto a trovare l’angolazione giusta da cui catturare le immagini.
Momen ha cercato di comprarsi l’equipaggiamento, ma era troppo caro. Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance per agenzie internazionali, la prima è stata Domtex. Momen si è sempre trovato vicino alle zone dove di solito avvenivano gli attacchi perché casa sua è nei pressi del confine. Da teenager, Momen aveva grandi sogni e visioni: diventare famoso e andarsene da Gaza, la più grande prigione a cielo aperto mai esistita, e riuscire a mostrare il suo talento al mondo. Tutto quello che sapeva del mondo esterno gli veniva dalla TV e dalla radio. Voleva girare il mondo. Ma il blocco aveva altri piani. “Adesso non posso andare” Una fredda mattina di settembre, Momen stava digiunando in occasione del Giorno di Arafah, il giorno prima di Eid- Al-Adha [importanti festività religiose islamiche, ndtr.], mentre andava in missione per riprendere la lotta dei commercianti palestinesi. A loro non restava altra scelta che scavare dei tunnel per poter svolgere una normale attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana nelle zone di confine. Per Momen fare delle foto era solo un’altra sfida e stava gironzolando per trovare l’angolatura perfetta da cui scattare le immagini. In un attimo Momen venne gettato a terra da un missile proveniente da un aereo da ricognizione israeliano che l’ha preso di mira direttamente e intenzionalmente. Il ventunenne perse conoscenza e sentì che l’anima stava abbandonando il suo corpo. Ma, mentre la vita gli stava passando davanti agli occhi, sentì una voce che lo implorava di andare avanti e di mettersi di nuovo in piedi. In quel momento, tutto quello che Momen disse a se stesso fu: “Non posso andarmene ora …. Non ho ancora fatto niente per la Palestina.” L’inizio di una nuova vita L’incidente capitato a Momen avvenne nel novembre 2008, durante un altro attacco israeliano contro Gaza durante l’operazione “Caldo Inverno” [dal 29 febbraio al 3 marzo 2008], durante la quale vennero usate contro civili inermi armi bandite a livello internazionale come le bombe al fosforo, e si lasciò dietro distruzioni massicce e un alto numero di morti.
Fuori dalla sua finestra tutto stava crollando, ma Momen era sotto anestesia e non sentiva nulla. Non sapeva dove si trovasse o cosa gli fosse successo. Quando riprese conoscenza, gli dissero che era nell’ospedale Al-Shifa. Tutto cominciò a essere più chiaro, ma continuava a non sentire nulla. Allungando la mano per toccare le ferite sulle sue gambe, Momen non le trovò, non c’erano più! I chirurghi avevano dovuto amputare entrambe le gambe sopra il ginocchio dato che la loro condizione continuava a peggiorare a causa della scarsità di attrezzature mediche dell’ospedale. La cancrena si era sviluppata e si era estesa a entrambe le gambe. Momen sarà confinato su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per lui la possibilità di ottenere delle protesi è ridottissima a causa della continuazione del blocco e del peggioramento della situazione economica della Striscia. Ha passato 25 giorni nell’ospedale Al-Shifa prima di essere trasferito in Arabia Saudita per la riabilitazione. La macchina fotografica, la mia migliore amica Appena fuori dall’unità di terapia intensiva, la prima cosa che Momen ha cercato è stata la sua migliore amica, la macchina fotografica. Era l’ultimo raggio di speranza che aveva. La strinse al cuore sussurrandole: “e adesso non abbandonarmi.” Momen parla della sua macchina fotografica: “Mi ha confessato che si sentiva frustrata perché scattava immagini di crimini di guerra contro civili disarmati, donne e bambini, sapendo di non poter cambiare la realtà di quello che stava succedendo …Poteva solo scattare immagini e aiutarmi silenziosamente a condividerle con il mondo e così non essere altro che una testimone.” Un raggio di speranza Dopo otto mesi di cure in Arabia Saudita, il destino aveva un piano per cambiare la vita di Momen, che aveva attirato una grande attenzione mediatica perché il suo percorso era eroico: sopravvissuto a un attacco brutale, entrambe le gambe amputate e ora determinato a ricostruirsi una vita, sempre sorridendo! In mezzo a tutto quello che gli stava succedendo notò un reporter che spiccava fra gli altri. Una rifugiata palestinese che aveva passato tutta la sua vita in Arabia Saudita ed era molto interessata a raccontare la storia di Momen. La passione di Dima, la sua fiducia in sé e il suo coraggio hanno fatto innamorare follemente Momen. E lei non ha avuto alcun dubbio quando Momen le ha chiesto di sposarla,
pur sapendo molto bene che sarebbe stato difficile lasciare la famiglia e iniziare una nuova vita a Gaza. E adesso? Consolato dall’amore, Momen adesso aveva una ragione per andare avanti. Dima l’ha motivato a non arrendersi, lei è stata la sua luce al fondo del tunnel che l’ha spinto, insistendo che sarebbe ritornato ancora più forte. Con la sua sedia a rotelle e la macchina fotografica Momen ha dato un significato nuovo alla parola perseveranza. Si è rifiutato di stare a letto e ogni giorno si è alzato e ha affrontato la vita. Momen ha scelto di vivere. Ha attraversato paesaggi urbani diversi per scattare foto e non ha avuto paura di salire su auto, edifici, bulldozer, qualsiasi cosa che si frapponesse fra lui e la migliore inquadratura. La sua sedia a rotelle e la macchina fotografica sono diventate parti integranti del suo corpo. La prima mostra internazionale di Momen è stata in Italia nel 2016. Ovviamente non ha potuto essere presente perché non gli è stato concesso un visto di viaggio. Ha partecipato via Skype e tenuto un discorso per suscitare interesse a favore della lotta palestinese. La macchina fotografica di Momen era fiera di lui. Avevano ancora una lunga strada da percorrere insieme, ma questo era un primo passo importante nel mondo delle esposizioni internazionali. Dopo quella mostra, è stato conosciuto a livello internazionale ed è riuscito a pubblicare su varie piattaforme altri lavori che documentano la lotta quotidiana dei palestinesi. In giro per il mondo in sedia a rotelle Dopo che la sua richiesta di visto era stata respinta varie volte e a causa delle chiusure dei confini, Momen finalmente è riuscito a lasciare Gaza per partecipare alla sua prima mostra in Malesia. Il viaggio fino all’aeroporto internazionale del Cairo è stato movimentato e arrivato là non è stato facile muoversi nell’aeroporto con una sedia a rotelle. Ha dovuto aspettare otto giorni dentro l’aeroporto fino a quando il visto è stato accettato. La famiglia di Momen è rimasta a Istanbul mentre lui era presente per la prima volta in Malesia alla sua mostra nel 2018.
Al suo ritorno a Istanbul, alla ricerca di una nuova opportunità, ha deciso di restare là. Sfortunatamente nel 2019, ha perso il lavoro e non ha più percepito lo stipendio. Si trattava di un salario speciale conferito a chi era stato ferito durante la guerra e impossibilitato a lavorare. Questa perdita ha messo in pericolo lui, sua moglie e i loro quattro bambini. Perché stava succedendo a loro? Tutte le difficoltà che Momen si era trovato davanti non erano colpa sua. Ogni peso che lo opprimeva dipendeva dal fatto che era un palestinese che voleva vivere libero. A Momen e alla sua famiglia non è rimasta altra scelta che cercare un posto che li avrebbe accolti. All’inizio del 2020 hanno fatto domanda di visto per visitare l’Arabia Saudita e partecipare al pellegrinaggio della Umrah. Ovviamente non sapeva che il Covid-19 avrebbe colpito il mondo, bloccandolo là. Dato che il loro visto stava per scadere, hanno cercato un modo per ritornare in qualsiasi posto li accettasse. Data l’estrema difficoltà di ottenere un visto in un simile momento non trovavano altro che porte chiuse. Catturare la verità a Gaza Oggi, dopo sette difficili mesi, Momen e la sua famiglia sono finalmente nella Striscia di Gaza con i loro cari. La fotografia per Momen, non è solo un hobby, è il suo modo di evadere, uno strumento che gli ha dato le ali per volar via dal blocco di Gaza. La macchina fotografica è dedita a fare il suo dovere, documentare in modo trasparente l’occupazione della Palestina. E, sebbene qualche volta sia stanca, non si arrende mai. Come Momen. Insieme sono una coppia perfetta, nessuno lascia mai l’altro e insieme trasmettono un messaggio di determinazione, resilienza e patriottismo. Non smetteranno mai di lottare per far sentire la voce della Palestina. Nonostante le difficoltà quotidiane, con i suoi obiettivi, sulla sua sedia a rotelle e con un sorriso sul volto capace di ispirare chiunque lo veda, Momen continua a catturare la verità. (tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)
Signor Blinken, noi condividiamo storie familiari simili Mona AlMsaddar 20 gennaio 2021 – We Are Not Numbers Gaza Una lettera aperta ad Antony Blinken, che sta per essere designato Segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quando ha accettato la sua nomina, Blinken ha ricordato il suo patrigno Samuel Pisar, che era uno dei 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia, ma l’unico [fra loro] sopravvissuto all’Olocausto dopo quattro anni [trascorsi] nei campi di concentramento. Ha continuato col ricordare la fuga di Pisar da una marcia della morte [si riferisce ai movimenti forzati di decine di migliaia dei prigionieri dai campi di concentramento polacchi che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania, ndtr.] nella Germania controllata dai nazisti, dopo di che il ragazzo fu salvato da un soldato afro-americano. Poco prima di essere trasportato su un carro armato, Pisar “cadde in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che conosceva, che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: “God bless America” [Dio benedica l’America, ndtr.]. (Questa storia rivela perché non sorprende che Blinken, nel corso della sua audizione di conferma, abbia detto ai senatori che non è sua intenzione riportare l’ambasciata degli Stati Uniti da Gerusalemme a Tel Aviv e abbia affermato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.) Caro signor Blinken, credo che le persone rinascano mediante le loro sofferenze. Esse apprezzano meglio ciò che è utile per sopravvivere e imparano a trovare la felicità anche nei momenti più banali perché sanno quanto essa valga. Seguo le notizie e quando lei è stato nominato ho voluto approfondire la mia conoscenza riguardo al suo passato e al perché lei la pensi in questo modo, in quanto, se sarà confermato dal Senato degli Stati Uniti, lei avrà molta influenza sulla mia vita. Lei, più di quasi ogni altro
politico americano, guiderà le relazioni del suo Paese sia con Israele, che controlla la mia patria, sia con i palestinesi, che vivono sotto il suo tallone. Sono rimasta commossa e rattristata da quanto è successo al suo patrigno durante la seconda guerra mondiale. Sono profondamente dispiaciuta per il terrore e la perdita che ha vissuto come unico sopravvissuto tra i 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia. E poi fuggire da una delle famigerate “marce della morte” di Hitler! Rabbrividisco al pensiero. Ogni tragedia è unica. Ma leggere dell’esilio forzato del suo patrigno mi fa venire in mente i miei nonni materni e il loro trasferimento forzato in seguito alla fondazione di Israele nel 1948. Noi la chiamiamo Nakba (catastrofe). Come il suo patrigno i miei nonni sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa della loro razza e religione. Il padre di mia madre, Ahmad, all’epoca aveva solo 12 anni. Suo fratello, Ibrahim, ne aveva 15 e sua sorella solo 7. La loro famiglia viveva a Faja, un piccolo villaggio vicino a Giaffa, nell’attuale Israele. Oggi non c’è più. È stato inglobato nella città israeliana di Petah Tikva, che non mi è permesso visitare. L’assedio israeliano mi impedisce di lasciare Gaza, tanto più di entrare nella terra che la famiglia dei miei nonni ha chiamato patria per secoli. Il mio bisnonno, Mohammad, era un uomo molto alto con gli occhi verdi come un limone non ancora maturo. Aveva una parte calva al centro della testa, quindi si pettinava i capelli in maniera tale da coprirla, ma in modo gradevole da vedere. Era l’unico a Faja ad avere una bicicletta. Vi pedalava con la sua amata moglie, Fatima, seduta in braccio. Sono cresciuti in una società tradizionalista, ma lui si è innamorato di lei da distante. Erano cugini e lui l’aspettava quando lei andava a prendere l’acqua, guardandola da lontano. Più tardi, quando si sono fidanzati e poi sposati, hanno lavorato la terra insieme negli aranceti. Quella serena esistenza cessò nel 1947, quando le bande israeliane aprirono il fuoco contro il caffè del villaggio e le persone sedute all’interno. Erano tutti preoccupati per quello che avrebbe potuto accadere in seguito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero stati costretti a fuggire dal loro amato villaggio e che non vi sarebbero più tornati! La notte, nei miei sogni, posso ricostruire la loro fuga forzata, sulla base delle storie che mi raccontano i miei nonni. Loro erano solo dei bambini, come il suo patrigno, Signor Blinken. Correvano sotto la minaccia dei bombardamenti e camminavano a fatica per lunghe distanze da un villaggio all’altro, dormendo in tenda, incerti su cosa avrebbero mangiato o bevuto il giorno successivo. I miei bisnonni erano convinti che il loro esilio sarebbe stato solo temporaneo, ma mio nonno e i suoi fratelli ebbero nostalgia di casa sin dal primo giorno. Ancora oggi, quando li guardo negli occhi, riesco quasi a vedere Faja, lì che aspetta con i suoi aranci.
Il mio bisnonno amava giocare a seega (un gioco da tavolo egiziano simile agli scacchi) con i suoi amici sotto l’albero di eucalipto camaldulensis (noto anche come eucalipto rosso). Più tardi, come rifugiato nella città di Rafah, a Gaza, lui e uno dei suoi amici hanno continuato a giocare insieme fino alla morte del suo vecchio compagno di giochi. Quello era il loro modo di ricordare il loro villaggio. Nel 1977 il mio bisnonno riuscì a visitare Faja, o meglio le sue rovine, con i suoi nipoti, compresa mia madre! La scuola frequentata da suo figlio Ahmad (mio nonno) non c’era più. E così il parco giochi del luogo. L’unica cosa che ritrovarono della Faja che conoscevano fu il solitario albero di eucalipto, che immaginavano sarebbe riuscito a sopravvivere, nell’attesa che i suoi giovani amici tornassero a giocare a seega sotto la sua chioma. Mia madre, Aysha, mi ha detto che quando suo padre vide l’albero si sedette sotto di esso e pianse! Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma non poteva perché il suo permesso di permanenza rilasciato dagli israeliani stava per scadere. Il permesso di tornare nella terra di proprietà della sua famiglia era valido solo per una volta e per poche ore! Posso chiederle di mettersi nei nostri panni? Chiuda gli occhi e immagini di voler tornare a casa dei suoi nonni. Ma l’ufficiale dell’aeroporto non glielo permetterà. Oppure, nella migliore delle ipotesi, può entrare in città solo per poche ore. Se rimanesse di più, verrebbe punito, probabilmente sbattuto in prigione. Come si sentirebbe, ci pensa? Definirlo crepacuore non è sufficiente a descrivere quello che provo ogni giorno. Sono una ragazza palestinese di 25 anni per metà rifugiata (la famiglia di mio padre è nata qui), a cui non è mai stato permesso di lasciare il campo di concentramento di Gaza. Potrebbe pensare che sia eccessivo chiamarlo così, ma consideri: non siamo autorizzati a gestire un porto o un aeroporto e possiamo partire solo via terra se ci viene concesso un raro permesso. Tutto quello che so degli aeroplani riguarda i droni e i caccia a reazione. Conosco persino la differenza tra un F16 e un F35. Mentre scrivo questo il suono dei bombardamenti è tanto forte nel mio cuore. Non ci è permesso guadagnarci da vivere con le esportazioni. Abbiamo l’elettricità solo dalle quattro alle otto ore al giorno a causa della scarsità di carburante e la maggior parte della nostra acqua non è potabile perché non possiamo ricostruire i nostri impianti di trattamento delle acque reflue. La nostra Nakba non è rimasta limitata al 1948. Continua ogni giorno che siamo costretti a vivere in queste condizioni. Quindi, per favore, signor Blinken, quando nei prossimi mesi prenderà decisioni sulla politica riguardante Israele e i palestinesi si ricordi della mia famiglia. Stiamo cercando in ogni modo di vivere e sopravvivere. Venga a trovarci per vedere di persona. Sarà mio ospite. Forse potremmo persino insegnarle il seega.
Fiduciosi saluti, Mona AlMsaddar Un’altra sopravvissuta alla guerra (traduzione dall’inglese di Aldo Lotta) A Gaza viene ristrutturata una scuola di 800 anni fa Entsar Abu Jahal 18 gennaio 2021 – Al-Monitor Il ministero del Turismo e delle Antichità, il Comune e il Centro Iwan per il Patrimonio Culturale di Gaza hanno lanciato un’iniziativa con alcuni attivisti per ristrutturare un’antica scuola nel centro storico di Gaza City, con lo scopo di preservare il patrimonio culturale dell’enclave e rendere consapevoli i palestinesi dell’importanza della cultura. Gaza City, Striscia di Gaza – All’inizio di dicembre un gruppo di giovani artisti ed attivisti della Striscia di Gaza, insieme al ministero del Turismo e delle Antichità, al Comune di Gaza e al Centro Iwan per il Patrimonio Culturale, ha avviato un’iniziativa per ristrutturare la scuola Kamalaia nel centro storico di Gaza City. L’iniziativa, denominata “Baytkom Amer” (approssimativamente traducibile con “la nostra casa sarà sempre felice”) è parte del progetto per la Cultura, l’Arte e la Partecipazione della Comunità, che promuove la conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, con particolare riguardo al potenziamento del dialogo comunitario e della sensibilizzazione sull’importanza della cultura che contribuisce a questo dialogo. Il progetto è finanziato dalla Fondazione Abdul Mohsin al-Qattan [Ong palestinese
con sede a Londra, ndtr.] e dall’Agenzia Svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione. Il coordinatore dell’iniziativa, Abdullah al-Razi, ha detto ad Al-Monitor che la scuola Kamalaia, che si trova nel cuore della Città Vecchia ed è stata chiusa negli anni ’70, ha circa 800 anni, in quanto risalente all’epoca dei Mamelucchi. È stata costruita con antiche pietre calcaree su un’area di 800 m 2. Ha spiegato che la scuola è stata abbandonata per molto tempo e trasformata in discarica per il quartiere, mentre, data la sua collocazione strategica, da molte parti si voleva sfruttare l’edificio e trasformarlo in complesso residenziale o commerciale. Razi ha affermato che l’iniziativa si inserisce nel quadro della conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, ricca di reperti antichi e di testimonianze storiche, allo scopo di attivare il dibattito nella comunità, adottare un edificio del patrimonio culturale e rafforzare i legami comunitari. Aggiunge che l’iniziativa coinvolge un gruppo di artisti e di attivisti competenti, così come vari volontari della zona. “La scuola Kamalaia è considerata parte del lavoro sul patrimonio architettonico abbandonato, come una fondamentale questione nazionale, e parte della responsabilità individuale e collettiva, intesa a sensibilizzare riguardo all’importanza della conservazione del patrimonio del centro storico,” ha notato. Razi ha aggiunto che la prima fase dell’iniziativa è stata ripulire il cortile della scuola, le sue stanze e corridoi, oltre a qualche lavoro di restauro di tre aule fatiscenti e dei muri perimetrali per garantire la sicurezza dell’edificio e dei suoi futuri inquilini. Questa prima fase è praticamente completata e sarà seguita dall’avvio di attività culturali e artistiche nell’edificio della scuola. “Abbiamo ricevuto un finanziamento di 20.000 dollari, che non sono sufficienti per ristrutturare tutta la scuola. Questa cifra è destinata a lavori di restauro e alle attività,” dice Razi. Ha spiegato che gli interventi previsti dall’iniziativa includono incontri, laboratori tecnici, riunioni serali, mostre e campagne sul campo, nel tentativo di sensibilizzare i palestinesi riguardo al patrimonio culturale e ad edifici antichi nella Striscia di Gaza e di coinvolgerli nei processi di salvaguardia di tali monumenti.
Commentando le difficoltà del progetto, Razi ha affermato che si è trattato di una duplice sfida – una relativa ai problemi con la proprietà dell’edificio e un’altra riguardante i problemi della comunità. “Abbiamo un lungo cammino da fare per arrivare a un cambiamento culturale, artistico e storico, che può essere fatto dalla comunità attraverso questa iniziativa.” Razi spera che il progetto, in base all’arrivo dei fondi della durata prevista di 10 mesi, sarà sostenibile dopo questo periodo grazie al patrocinio da parte di organizzazioni non governative locali e internazionali. Hussein Odeh, capo dell’ufficio del Comune di Gaza per le pubbliche relazioni, ha detto ad Al-Monitor che riguardo alla proprietà della scuola c’è stata una discussione tra il Comune, il ministero del Turismo e delle Antichità e il ministero del Patrimonio. “Senza citare il fatto che anche alcuni abitanti ne rivendicano la proprietà. Questi problemi hanno portato all’abbandono della scuola, che è diventata una discarica di quartiere. L’iniziativa giocherà un ruolo nel mettere insieme i vari punti di vista, in quanto tutte le parti promuovono l’interesse pubblico attraverso investimenti a favore dei servizi alla comunità,” ha affermato, alludendo ai problemi di proprietà che devono ancora essere risolti. “Come parte dell’iniziativa è stato firmato un protocollo d’intesa con la municipalità, in cui provvediamo ad ogni servizio necessario come la pulizia, lo sgombero della spazzatura, l’allacciamento al servizio idrico e il coordinamento con la compagnia elettrica per fornire energia alla scuola,” ha affermato Odeh. “Il gruppo di lavoro ha un piano per il riciclaggio dei rifiuti ambientali, per cui abbiamo aperto loro i depositi comunali.” Jamal Abu Raida, direttore del Dipartimento delle Antichità e del Patrimonio storico del ministero del Turismo e delle Antichità a Gaza, ha detto ad Al-Monitor che il gruppo di lavoro ha firmato un protocollo d’intesa con il ministero per tenere laboratori e seminari educativi e artistici nella scuola, nel tentativo di sensibilizzare i cittadini sull’importanza delle antichità come parte del patrimonio culturale dei palestinesi. “Il ministero accoglie positivamente ogni iniziativa della comunità riguardante il restauro di monumenti e resti storici, sempre che ciò venga fatto con la supervisione del ministero e non pregiudichi le caratteristiche del monumento,” ha affermato.
Abu Raida ha sottolineato che il blocco israeliano contro la Striscia di Gaza, in atto dal 2006, ha influenzato negativamente i progetti di restauro e la conservazione di luoghi archeologici nell’enclave costiera, soprattutto perché questi lavori richiedono notevoli somme di denaro che il governo non può fornire. Ha spiegato che per simili progetti il ministero si basa su finanziamenti internazionali. “Il governo non può destinare un bilancio stimato a milioni di dollari per il restauro di siti archeologici, in quanto per ora questa non è una priorità a causa della difficile situazione finanziaria,” ha aggiunto Abu Raida. Ahmad al-Astal, direttore del Centro Iwan, ha detto ad Al-Monitor di aver realizzato lavori di restauro solo nelle parti pericolanti della scuola per poter ricevere in sicurezza visitatori e tenervi eventi. Ha affermato che l’iniziativa intende far rivivere questo antico monumento per ottenere finalmente il finanziamento necessario per restaurarlo interamente, notando che a questo scopo è stato preparato un progetto da presentare a donatori internazionali. “Il finanziamento è la parte più complessa dell’iniziativa, in quanto è difficile convincere i donatori a causa della divisione tra i palestinesi. Per non parlare delle sfide per educare la comunità riguardo all’importanza di preservare il patrimonio culturale. Stiamo lavorando con le autorità coinvolte e competenti per distribuire istruzioni e regolamenti sulla protezione di reperti antichi a Gaza,” ha sottolineato. (traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi) Rapporto OCHA del periodo 5 gennaio – 18 gennaio 2021 Secondo quanto riferito, in due distinti episodi, due palestinesi che avevano aggredito israeliani, sono stati successivamente colpiti con armi da fuoco; uno è morto e l’altro è rimasto ferito [seguono dettagli].
Secondo fonti israeliane, il 5 gennaio, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), un palestinese 25enne si è avvicinato al coordinatore della sicurezza di un insediamento israeliano e gli ha lanciato un coltello, il coordinatore ha sparato, uccidendolo. Il 13 gennaio, ad un posto di blocco nella città vecchia di Hebron, un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un ufficiale della polizia di frontiera ed è stato colpito e ferito dalle forze israeliane. Il giorno prima, al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), un uomo palestinese avrebbe aggredito, con un cacciavite, una guardia di sicurezza israeliana, venendo successivamente arrestato. In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane sono rimasti feriti 79 palestinesi, inclusi 14 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei ferimenti (59) sono avvenuti vicino ai villaggi di Al Mughayyir e Deir Jarir (Ramallah), durante le proteste contro la realizzazione di due insediamenti avamposti, o vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante proteste contro le attività di insediamento colonico. Negli scontri di Al Mughayyir è rimasto ferito anche un soldato israeliano; per oltre una settimana, l’ingresso principale del villaggio è stato interdetto alla circolazione dei veicoli. Otto palestinesi sono stati colpiti e feriti vicino a Tulkarm, nel tentativo di entrare in Israele attraverso una breccia nella Barriera. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel corso di due proteste: ad Ar Rakeez, nel sud di Hebron, dopo che le forze israeliane avevano sparato ad un uomo durante una confisca avvenuta il 1° gennaio; a Deir Ballut (Salfit) contro lo sradicamento di alberi. I rimanenti feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Qabatiya (Jenin), Tammun (Tubas), Aqbet Jaber (Gerico) e Ad Duheisheh (Betlemme), o in scontri presso vari checkpoint. Cinquantacinque dei 79 feriti, sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 14 sono stati colpiti con proiettili di armi da fuoco, otto sono stati colpiti da proiettili di gomma e gli altri sono stati aggrediti fisicamente. In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 161 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 157 palestinesi. Il governatorato di Gerusalemme ha continuato a registrare il maggior numero di operazioni (33), effettuate prevalentemente a Gerusalemme Est. Nel governatorato di Hebron, in due distinti episodi, due palestinesi hanno riportato ferite gravi nell’esplosione di residuati bellici che essi stavano maneggiando. Uno era al lavoro sul proprio terreno, vicino al villaggio di As Samu, nei pressi della Barriera; l’altro, un 17enne, stava pascolando il
bestiame vicino a Mirkez, in un’area destinata dalle autorità israeliane all’addestramento militare. L’esercito israeliano ha trasportato il ragazzo in un ospedale israeliano per cure mediche. Il 18 gennaio, da Gaza sono stati lanciati verso Israele due razzi, a seguito dei quali le forze israeliane hanno effettuato attacchi aerei su Gaza. A quanto riferito, i razzi palestinesi si erano attivati automaticamente a causa delle condizioni meteorologiche e sono caduti in mare vicino alla costa israeliana. Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno colpito obiettivi militari, ed hanno danneggiato un terreno coltivato a Khan Younis. [Sul lato interno della] Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 47 occasioni, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso. Inoltre, in due occasioni, le forze israeliane [sono entrate nella Striscia e] hanno spianato terreni in prossimità della recinzione. In Area C, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 24 strutture di proprietà palestinese, sfollando 34 persone e creando ripercussioni su circa 70 [seguono dettagli]. Dieci delle strutture prese di mira (case, ricoveri per animali e latrine mobili) si trovavano nella Comunità beduina di Beit Iksa (Gerusalemme), dove sono state sfollate 27 persone, metà delle quali minori. Quattro di queste strutture erano state fornite come aiuto umanitario. A Khirbet Fraseen (Jenin), una famiglia di sette persone che viveva in un antico edificio (secondo le autorità israeliane, collocato su un sito archeologico) è stata sfollata dopo che erano state rimosse o demolite finestre, porte, condutture dell’acqua, cavi elettrici e un bagno che essi avevano aggiunto alla loro casa. A Umm Qussa (Hebron), una scuola di recente costruzione ha ricevuto un “avviso di rimozione” ai sensi del “Ordine Militare 1797”, che ne consente la demolizione entro 96 ore. Nessuna demolizione è stata registrata a Gerusalemme Est. Le autorità israeliane hanno sradicato circa 1.370 alberi di proprietà palestinese, sulla base del fatto che la terra era stata dichiarata [da Israele] “terra di stato”, ed hanno confiscato 237 pecore sostenendo che stavano pascolando in un’area dichiarata “riserva naturale”. Lo sradicamento degli alberi è avvenuto a Deir Ballut (Salfit) e Beit Ummar (Hebron). Si stima che, nel 2020, le autorità israeliane abbiano sradicato 4.164
alberi palestinesi, quasi il 60% in più rispetto al 2019. La confisca delle pecore è avvenuta vicino a Wadi Fuqin (Betlemme), dove al pastore è stata inflitta una multa di 50.000 shekel israeliani (15.200 $). Otto palestinesi sono rimasti feriti e decine di alberi e veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da persone, note o ritenute, coloni israeliani [seguono dettagli]. A Madama (Nablus), una ragazza 11enne è stata ferita con pietre vicino alla propria abitazione; vicino ad Aqraba (Nablus) e Kafr Malik (Ramallah), in separati episodi, sei uomini sono stati aggrediti fisicamente mentre lavoravano la loro terra; nella zona di Ramallah, un uomo è stato ferito dal lancio di pietre contro veicoli palestinesi. Almeno sei veicoli palestinesi sono stati danneggiati in episodi di lancio di pietre; altre auto sono state vandalizzate a Gerusalemme Est, ad opera di coloni che protestavano per la morte di un ragazzo israeliano, avvenuta su un’auto inseguita dalla polizia israeliana. Oltre 230 ulivi e alberelli sono stati danneggiati vicino ai villaggi di Beit Ummar a Hebron e Jalud a Nablus. In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, in 26 episodi, una donna israeliana è rimasta ferita e 27 veicoli israeliani sono stati danneggiati da autori ritenuti palestinesi. In 23 casi sono state lanciate pietre, in 3 casi bottiglie incendiarie. 290 nota 1: I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti. nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre] sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori
dei Rapporti a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese. Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it Una Palestina post-Trump Ahmed Abu Artema Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace. 17 gennaio 2021 – Al Jazeera I palestinesi dovrebbero smettere di sperare in un cambio di politica a Washington e andare avanti con la loro lotta per la libertà. Per decenni i palestinesi hanno sofferto sotto l’occupazione coloniale israeliana sostenuta e consentita dall’appoggio politico, finanziario e militare degli USA. Ciò ha permesso ad Israele di espandere progressivamente la sua occupazione e colonizzazione della Palestina, al punto che oggi solo circa il 5% della terra della Palestina storica è realmente controllato dai palestinesi. Questo processo è proseguito per anni, pressoché indisturbato da un controllo internazionale, con la copertura del “processo di pace” di Washington e della sua autoproclamata posizione di mediatore tra le parti palestinese ed israeliana. Tuttavia quando Donald Trump è diventato presidente USA nel 2017 ha interrotto questo processo di graduale colonizzazione accuratamente costruito. Ha adottato il programma israeliano più razzista ed estremista e ha cancellato la pratica consolidata di onorare formalmente i diritti dei palestinesi.
Al governo di destra israeliano è stato dato il via libera per fare ciò che voleva, mentre il presidente americano ha continuato a legittimare le sue azioni illegali e criminali. Questo ha di fatto accelerato la prassi di creare “fatti sul terreno” – cioè l’usurpazione della terra palestinese e la sovversione di ogni autorità politica palestinese, al punto che è diventato impossibile soddisfare le richieste dei palestinesi ed i loro diritti sono diventati irrilevanti. Quindi che cosa significa per i palestinesi l’eredità di Trump? Quattro anni di Trump Anche se il Congresso USA nel 1995 approvò un disegno di legge che riconosceva Gerusalemme come capitale di Israele, le successive amministrazioni USA ne hanno rinviato l’applicazione a causa della mancanza di un accordo tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele sullo status della città santa. Il 6 dicembre 2017 Trump ha trasformato in realtà ciò che era già sulla carta, emanando un ordine esecutivo di trasferimento dell’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Ciò è avvenuto il 14 maggio dell’anno seguente, che coincideva con il 70^ anniversario della Nakba e che Israele ha segnato con il massacro di decine di palestinesi a Gaza. Qualche mese dopo Trump ha annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA). Questa non è stata solo una catastrofe per milioni di palestinesi che dipendono dall’agenzia per il cibo, l’istruzione e la sanità, ma è stato un tentativo di cancellare lo status di rifugiati dei palestinesi e, di conseguenza, il loro diritto al ritorno. Cercando di distruggere l’UNRWA, Trump stava eseguendo gli ordini del governo israeliano che per decenni ha fatto il possibile per impedire ai palestinesi colpiti dalla pulizia etnica di ritornare e rivendicare la propria terra. Il diritto al ritorno è stato ulteriormente compromesso anche dall’ “accordo del secolo” proposto da Trump e da suo genero Jared Kushner. Mutuando il linguaggio delle precedenti “iniziative di pace” USA, la proposta prometteva “pace” e “prosperità” per i palestinesi, ma respingeva la maggior parte delle loro richieste, compresa l’autodeterminazione attraverso uno Stato palestinese sovrano. Intanto il 18 novembre 2019 il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che il governo USA non considerava la costruzione delle colonie israeliane in Cisgiordania una violazione del diritto internazionale.
Nei suoi ultimi mesi da presidente, Trump non ha mancato di fare un altro generoso regalo ad Israele: la normalizzazione con gli Stati arabi. È stato un altro duro colpo per la causa palestinese. In seguito alla seconda Intifada la Lega Araba – su iniziativa del defunto re saudita Abdullah – si era impegnata a normalizzare le relazioni con Israele solo in cambio della creazione di uno Stato palestinese sui confini del 1967, del ritorno dei rifugiati e del ritiro di Israele dalle Alture del Golan. In agosto [2020] gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele, sotto l’egida dell’amministrazione Trump, senza pretendere alcuna concessione sulla questione palestinese del ritorno: il Marocco e il Sudan poco dopo hanno fatto altrettanto. E’stata una palese rottura con l’accordo arabo su “terra in cambio di pace”. Così, alla fine della presidenza Trump, i palestinesi appaiono spogliati di tutto ciò di cui potevano esserlo. Una Palestina post-Trump La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali USA di novembre sembra aver portato un certo ottimismo in alcuni ambienti palestinesi rispetto al fatto che gli USA modificheranno la propria politica verso i palestinesi. Non dimentichiamo che la politica di Trump non è mai stata in contraddizione con la tradizionale posizione di Washington sulla Palestina, che mostrava pieno e incondizionato appoggio allo Stato di Israele. Aspettarsi che Biden cambierà qualcosa o rimedierà ai danni del suo predecessore è una follia. Di fatto lui e la sua squadra hanno ampiamente chiarito che non ribalteranno le decisioni di Trump, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. La sua amministrazione non appoggerà la lotta dei palestinesi per la giustizia; non si adopererà per la loro liberazione, per la fine dell’occupazione israeliana, per lo smantellamento del regime di apartheid israeliano o per il ritorno dei rifugiati palestinesi nella loro patria. La lezione che i palestinesi dovrebbero imparare dai quattro lunghi anni della presidenza Trump non deve poggiare sul fatto che un’amministrazione USA possa mai sostenere i loro interessi e diritti o diventare un arbitro obiettivo. L’élite
politica americana è fautrice dell’occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina, tale è sempre stata e tale rimarrà in futuro. E, proprio come Trump, continuerà a concedere a Israele tutto quel che vuole, che sia la legittimazione dei suoi illegali furti di terra o un’illimitata fornitura di sofisticati armamenti da usare contro i palestinesi. Appoggiato in pieno dagli USA, Israele continua a creare “fatti sul terreno”, a stabilire un dominio assoluto su tutta la Palestina storica e a rendere impossibile uno Stato palestinese. Ma c’è una cosa che Israele non è assolutamente in grado di fare, nonostante la sua potenza militare, le sue risorse finanziarie e l’illimitato sostegno da parte di una superpotenza: non può cancellare i palestinesi. Sei milioni di palestinesi – privati della loro libertà e della loro patria – continuano a vivere nella Palestina storica. Milioni di altri palestinesi vivono nei vicini Paesi arabi e nella diaspora. La loro identità, la loro mera esistenza erodono giorno dopo giorno l’inganno che Israele ha usato per mascherare il proprio apartheid e presentarsi al mondo come un “modello di democrazia”. Più importante ancora, la vita e lo spirito dei palestinesi minano attivamente l’occupazione e l’apartheid israeliani. I palestinesi subiscono terribili deprivazioni e soprusi da parte degli israeliani, ma sono tenaci. La loro stessa esistenza è diventata resistenza. E il tempo non è dalla parte del loro aguzzino. In questo momento Israele può sembrare un colonizzatore vittorioso, avendo eliminato quasi tutti gli ostacoli all’annessione della Cisgiordania. Ma la lotta palestinese sta facendo progressi. In un futuro non troppo lontano la giustizia prevarrà e i palestinesi otterranno la loro libertà. Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera. Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace. È autore del libro “Caos organizzato” e di numerosi articoli ed è uno dei promotori della Grande Marcia del Ritorno. È un rifugiato del villaggio di Al Ramla in Palestina. (Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)
Le difficoltà di diventare medico a Gaza Fouad Jaber 11 gennaio 2021 – We are not numbers “Cosa hai detto? Cosa è successo? Perché nessuno me l’ha detto” chiedevo ansiosamente. “Non volevamo che ti preoccupassi,” replicò mia madre. Mio padre aveva avuto un infarto e la mia famiglia non me l’aveva detto per risparmiarmi paura e tristezza. Fortunatamente i dottori erano intervenuti appena in tempo e dio l’aveva salvato. Solo dopo mia madre mi chiamò per dirmi: “Negli ultimi giorni tuo padre è stato in un reparto di terapia intensiva.” In questo periodo l’assedio ha limitato enormemente i miei movimenti dentro e fuori dalla Striscia di Gaza e per me è stato difficile. Durante i sette anni in cui ho studiato medicina in Egitto, mi è stato impedito di ritornare, eccetto alcune volte. A un certo punto non ho potuto viaggiare per quattro anni di fila. Mi sono perso il matrimonio del mio miglior amico Abdullah. È stata dura guardarlo sullo schermo di un computer e fare le mie congratulazioni solo virtualmente. Finalmente nel 2015 il confine si è aperto e ho colto l’occasione di ritornare a Gaza. Ero felicissimo di essere vicino ai miei cari e alla mia comunità. Sono stati giorni felici, era bellissimo stare con i miei genitori e i miei fratelli. Abbiamo visto vecchi amici e mangiato cibo tradizionale. Finalmente potevo mangiare di nuovo falafel e shawarma. Il confine si chiude Gaza è un posto dove la felicità dura solo un attimo. Sono rimasto bloccato a Gaza perché le autorità militari, senza alcun preavviso, hanno chiuso il confine. La nostra università in Egitto ha riaperto i cancelli, ma noi non siamo potuti ritornare per completare i nostri studi. Immagina l’interruzione senza speranza dei nostri sogni. In quei giorni mi sembrava di camminare in una foresta e di aver smarrito la via. Il mio amico mi ha detto: “Non possiamo fare niente e possiamo perdere l’anno. E se restiamo bloccati qui svanirà il sogno che stiamo inseguendo.”
Allora io ho suggerito: “Ragazzi, perché non creiamo una pagina Facebook per far arrivare le nostre voci ai responsabili?” Ci siamo resi conto che avremmo dovuto fare tutto quello che potevamo e che non avevamo nulla da perdere, ma tutto da guadagnare. Almeno avremmo avuto una possibilità di salvare futuri dottori, pensavo fra me e me. Così abbiamo lanciato una pagina per farci sentire e ottenere i nostri diritti elementari come altri studenti in giro per il mondo. Abbiamo invitato tutti gli studenti “bloccati” a una riunione pacifica per reclamare i nostri diritti all’educazione. Più di 100 studenti si sono riuniti a Al-Jondi Al-Majhol, una piazza molto conosciuta nel centro di Gaza. Abbiamo portato molti manifesti e cartelli sulla nostra catastrofe. Quel giorno molti canali televisivi hanno trasmesso l’evento. Personalmente ho rilasciato due interviste, una a una stazione locale e l’altra a un canale internazionale. Dopo una lotta di quattro mesi, nonostante i rischi, siamo riusciti a viaggiare. Carenza di opportunità Nel 2019, sono andato a Gaza per passare il Ramadan con la mia famiglia: per molti anni non avevo potuto condividere questo momento spirituale con loro. L’altro scopo di questa visita era di valutare le opportunità di fare il tirocinio medico a Gaza. Quello che ho scoperto è stato uno shock. La carenza di risorse mediche mi avrebbe impedito di imparare quello che volevo nei nostri ospedali locali e di guadagnare uno stipendio soddisfacente. I miei sogni erano svaniti. Mi sentivo come sprofondare negli abissi dell’oceano senza riuscire a respirare. Ihab, uno dei miei amici, faceva turni di 8 ore e guadagnava $300 al mese. Sebbene il suo sia un impiego temporaneo per sei mesi, l’esempio mi ha rivelato la dura realtà che i neo-laureati devono affrontare se vivono a Gaza. “Questo stipendio basta appena per coprire i costi del trasporto,” mi ha detto Ihab. Anche il mio fratello maggiore Ahmed stava facendo tirocinio all’Ospedale Europeo di Gaza, nel sud della Striscia, e aveva lo stesso basso salario di Ihab. Dolore per Gaza e determinazione Dopo aver scoperto tutte queste difficoltà, ho deciso che avrei sepolto le mie aspirazioni di fare il tirocinio nella Striscia di Gaza. Sono invece stato stimolato ad andare negli USA nella speranza di trovare opportunità di studio. Fortunatamente, alla fine di gennaio 2020, sono stato ammesso a un tirocinio di due mesi alla Cleveland Clinic in Ohio. Ero elettrizzato dal sistema prestigioso che offrivano. Questo sentimento, ovviamente, era in contraddizione con la tristezza suscitata dal nostro sistema sanitario. Israele controlla le risorse mediche che entrano a Gaza e questa
enorme carenza di equipaggiamento si nota molto chiaramente (per esempio, la carenza di un numero sufficiente di ventilatori durante la pandemia da COVID). Dopo due mesi di intenso tirocinio mi sono trasferito in California. Ora faccio parte di un progetto di ricerca con un professore molto famoso. Sono negli USA da nove mesi e il sogno di aiutare gli altri e di sviluppare le mie potenzialità è appena cominciato. Io credo al fatto di non porre limiti alle sfide, ma piuttosto nello sfidare i tuoi limiti. Il mio sogno di lavorare e vivere a Gaza un giorno si realizzerà. Mi sforzo di essere un buon esempio e un modello di riferimento per chi verrà dopo di me, voglio mostrare loro che perseveranza e fiducia possono portare lontano. Il mio obiettivo finale è di passare la mia competenza clinica e le mie capacità alle generazioni future e di aiutare i meno privilegiati nella mia comunità. Voglio essere in grado di aiutare i pazienti là con la mia abilità di medico e questo sogno finalmente sembra a portata di mano. (traduzione dall’inglese di Mirella Alessio) Il rivale di Abbas, Dahlan, coordina l’aiuto degli EAU a Gaza mentre si avvicinano le elezioni palestinesi Rasha Abou Jalal 15 gennaio 2021 – Al-Monitor Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato un nuovo carico di aiuti sanitari alla Striscia di Gaza, il secondo in un mese, per aiutare ad affrontare la crisi da coronavirus, sollevando interrogativi sul ruolo di Mohammede Dahlan, leader espulso da Fatah e acerrimo nemico del presidente Mahmoud Abbas. Gaza City, Striscia di Gaza – Il 10 gennaio un impianto per la produzione di
ossigeno liquido per curare casi gravi che soffrono di problemi respiratori a causa del coronavirus ha raggiunto la Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. L’impianto per la produzione di ossigeno, il più grande di Gaza, è giunto come parte di un invio di medicinali offerti al ministero della Sanità dell’enclave assediata. Il convoglio ha raggiunto Gaza grazie all’impegno della Corrente Democratica Riformista, guidata da Mohammed Dahlan, espulso da Fatah, che vive negli Emirati Arabi Uniti (EAU). Dahlan è il principale avversario politico del presidente palestinese Mahmoud Abbas. L’arrivo del convoglio nella Striscia di Gaza coincide con l’imminente annuncio di un decreto presidenziale di Abbas per fissare la data delle elezioni politiche palestinesi. L’aiuto sembra essere parte dei tentativi di Dahlan di rafforzare la sua popolarità in vista delle elezioni. Il convoglio degli EAU comprendeva una grande quantità di equipaggiamenti sanitari per affrontare la crisi da coronavirus, tra cui 30 ventilatori, 2.000 tamponi, 12.000 camici e 10 bombole d’ossigeno. Ghazi Hamad, dirigente di Hamas e sottosegretario del ministero per gli Affari Sociali, ha accolto il convoglio al valico di Rafah alla presenza di vari dirigenti della Corrente Democratica Riformista. In una conferenza stampa tenutasi per accogliere il convoglio, Hamad ha ringraziato gli EAU per la loro assistenza medica di supporto alle autorità sanitarie nell’affrontare l’epidemia da coronavirus nella Striscia di Gaza, una delle aree più popolate al mondo, con più di 2 milioni di persone che vivono in una zona di 365 km2. Ha anche ringraziato la Corrente Democratica Riformista del suo contributo per l’arrivo degli aiuti alla Striscia di Gaza. Il 25 novembre 2020 il ministero della Sanità di Gaza ha avvertito che nell’Ospedale Europeo del sud di Gaza l’ossigeno liquido stava finendo. Secondo le ultime statistiche del ministero della Sanità pubblicate il 12 gennaio a Gaza i morti per coronavirus hanno raggiunto i 453, e 211 casi hanno richiesto l’ospedalizzazione, di cui 112 pazienti hanno bisogno di respirazione forzata.
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