Sigaretta elettronica: vietata ai minori

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Sigaretta elettronica: vietata ai minori

Sulla Gazzetta Ufficiale del 5 ottobre 2011, numero 232, è stata pubblicata
un'Ordinanza del Ministero della Salute che vieta la vendita delle sigarette
elettroniche ai minori di 16 anni. La motivazione dell'Ordinanza sta nel fatto che la
quantità di nicotina che queste sigarette contengono, pur minima e in
concentrazioni diversificate, potrebbe indurre dipendenza ed assuefazione con il
conseguente possibile passaggio alle sigarette tradizionali da parte dei minori.
Nelle sigarette elettroniche non si verifica la combustione, quindi viene eliminato il
rischio cancerogeno. Per questa ragione finora sono state considerate non solo
una valida e più sana alternativa per i fumatori, ma anche un efficace metodo per
allontanarsi da questa dipendenza. Il fatto, però, che nel composto che viene
inalato sia comunque contenuta nicotina ha evidenziato questo tipo di problematica
in relazione alla salute dei minori. L'Ordinanza si basa su un parere del Consiglio
Superiore di Sanità secondo cui, oltre al problema dell'assenza di una
regolamentazione, non ci sono sufficienti conoscenze riguardo i possibili effetti sulla
salute dei composti contenuti nelle sigarette elettroniche e gli studi finora effettuati
non dimostrano in modo certo che questi dispositivi possano portare ad una
eliminazione della dipendenza da fumo, ma che, anzi, mancano evidenze che
possano dimostrare esattamente il contrario. Sulla base di tutto ciò è stato deciso,
a tutela della salute dei ragazzi, di estendere il divieto di vendita (che già era in atto
per quanto riguarda le sigarette tradizionali) anche alle sigarette elettroniche per un
periodo che sarà di 12 mesi, durante il quale, tenendo conto di quelli che potranno
essere i risultati di altri studi scientifici, si provvederà a realizzare una
regolamentazione vera e propria.

(15/10/2011 10:00 - Autore: N.R.)

    Le modalità del trattenimento dello straniero presso il centro di
     identificazione ed espulsione (C.I.E.). Analisi dell'art. 14 t.u.
                          sull'immigrazione.

Il trattenimento presso i centri di identificazione ed espulsione rappresenta una
modalità esecutiva dell'espulsione disposta dal Prefetto cui consegue una
significativa limitazione della libertà personale dello straniero espulso. Il secondo
comma dell'art. 14 chiarisce che la limitazione della libertà personale deve avvenire
con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della
dignità. Praticamente la norma vuole ribadire che le esigenze politico-legislative,
sottese alla disciplina dell'espulsione amministrativa, anche se pregiudicano
provvisoriamente la sfera della libertà personale dello straniero, non pregiudicano
la sua integrità fisica, psichica e morale, tutto ciò in armonia con le disposizioni del
comma 3, dell'art. 13 Cost., diretto a punire qualsiasi violenza fisica o morale sulle
persone, a prescindere dalla natura penale o amministrativa della misura o della
sua durata, sottoposte a restrizioni di libertà. La disposizione in esame pare in linea
anche con il dettato del comma 2, dell'art 27 Cost., ai sensi del quale le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Per quel che
concerne il profilo dell'assistenza, il comma 2 dell'art. 14 t.u., trova il proprio
riscontro nell'art. 32 Cost., comma 1, secondo cui la Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. E' opportuno in
questa sede richiamare l'art. 21 del d.P.R. n. 394 del 1999, regolamento di
attuazione del testo unico. Il 1 comma dell'art 21 stabilisce che le modalità del
trattenimento devono garantire i diritti fondamentali della persona. Da una prima
lettura di quanto finora scritto sembrerebbe che all'interno del percorso legislativo
disciplinante il trattenimento dei cittadini stranieri presso i C.I.E. non vi siano
contraddizioni, almeno sul piano teorico-normativo. Sono garantite l'assistenza, il
regolare svolgimento della vita in comune, gli interventi di socializzazione e la
libertà di culto, naturalmente entro i limiti previsti dalla Costituzione. Io credo che
bisognerebbe chiedere ai cittadini stranieri se in concreto tali garanzie siano
effettivamente soddisfatte. Non si spiegherebbe diversamente l'intervento della
Corte Costituzionale che con la sentenza n. 105 del 10 aprile 2001 ha chiarito che il
trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e
assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata
fuori delle garanzie dell'art. 13 della Cost. Ma appunto di garanzie stiamo parlando,
ed affrontando il principio da un punto di vista contrattualistico o civilistico che dir si
voglia, non sempre la garanzia è indice di soddisfazione di determinati interessi.
Lascio ai lettori una riflessione sull'argomento trattato, anche alla luce dei fatti di cui
non di rado veniamo a conoscenza attraverso la cronaca giornalistica e televisiva.

(14/10/2011 10:30 - Autore: Marco Spena)

       Il reato di favoreggiamento e sfruttamento di immigrazione
                              clandestina.

Il testo sulla sicurezza del luglio 2009 estende l'aggravante di cui all'art, 416 del c.p.
(reclusione da 5 a 15 anni per i promotori dell'associazione, e da 4 a 9 anni per i
meri partecipanti) all'associazione per delinquere diretta al favoreggiamento
dell'immigrazione clandestina aggravata, ai sensi dell'art. 12 comma 3 bis del testo
unico sull'immigrazione. L'art. 12 comma 3, come novellato dal nuovo testo della
sicurezza del luglio 2009, sanziona con la reclusione da 5 a 15 anni e con la multa
di €. 15.000 il compimento di atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel
territorio dello Stato, o in altro Stato del quale la persona non è cittadina, nonché
chiunque promuova attraverso determinate condotte analiticamente descritte, il
trasporto di stranieri nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni dello
stesso Testo unico dell'immigrazione. La formulazione della fattispecie è alquanto
generica in quanto delinea una tipica ipotesi di reato a forma libera: vengono colpiti
dalla sanzione tutti coloro che pongano in essere un'attività lato sensu riconducibile
al concetto di aiuto. La Corte Costituzionale è intervenuta affermando che bisogna
prendere in considerazione anche le condotte immediatamente successive
all'ingresso illegale, comprese quelle operazioni di fiancheggiamento e
cooperazione con le attività direttamente ed indirettamente collegabili all'ingresso
dei clandestini. A mio avviso sarebbe opportuno fare delle distinzioni sull'animus di
coloro che prestano aiuto nella fase successiva dell'ingresso. E' noto come la
criminalità organizzata tragga beneficio economico dallo status di clandestinità
degli stranieri. Tante sono le ipotesi di cittadini stranieri ricattati dietro la minaccia di
denuncia alle Autorità di Pubblica sicurezza nel caso di rifiuto di assoggettamento
alle regole della criminalità stessa. Si pensi allo sfruttamento della prostituzione, al
fenomeno del caporalato ed allo sfruttamento dei minori. Tutte realtà vive e ben
assestate specialmente nelle regioni meridionali. Parlo del Sud perché in palese
contraddizione a quello che è lo spirito della norma supra richiamata, le Autorità
preposte al controllo ed alla repressione dei fenomeni delittuosi descritti, con
difficoltà riescono a contrastare l'operato dei Clan. E tutto ciò non sempre è
riconducibile all'inadeguatezza del potere che lo Stato conferisce alle Forze
dell'Ordine o alla mancanza di personale da destinare a tali controlli. Detto questo è
paradossale che il termine di favoreggiamento possa essere applicato
indifferentemente sia ai membri della criminalità organizzata come a quanti, spinti
da fini caritatevoli e di buon senso, prestano aiuto agli stranieri clandestini. Non è
certamente questa la sede per muovere delle critiche all'operato del Legislatore, sia
esso Ordinario che Costituzionale, ma sono molteplici le disposizioni che lasciano
adito a dubbi ed incertezze, e queste incertezze a volte colpiscono coloro che
agiscono nella legalità anche se contrariamente a ciò che la legge dello Stato
dispone in modo generico.

13/10/2011 10:40 - Autore: Marco Spena)

      Cassazione: si al permesso di soggiorno anche se straniero è
                  pregiudicato e amico di malavitosi.

In tema rinnovo del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, (l.
30.07.2002, n. 189, in particolare, art. 4), con la sentenza n. 20719, depositata il 7
ottobre 2011, la Corte di Cassazione ha stabilito che per negare il permesso di
soggiorno non è sufficiente che lo straniero sia pregiudicato e amico di malavitosi.
Serve, secondo il giudizio della sesta sezione civile del Palazzaccio, la verifica
dell'attualità di una minaccia all'ordine pubblico da parte dello straniero. Dopo che il
Questore di Pisa, nel 2009, aveva rigettato la richiesta di ricongiungimento familiare
del cittadino marocchino a causa delle precedenti condanne penali dell'uomo e in
seguito alle frequentazioni di pregiudicati, il cittadino marocchino proponeva
opposizione avverso detto provvedimento al Tribunale di Pisa che lo rigettava così
come veniva rigettato il reclamo proposto davanti alla Corte di appello di Firenze.
Investita della questione, la Corte però, in tre pagine di motivazione, rigettando le
precedenti decisioni dei giudici di merito, e accogliendo il ricorso dello straniero, ha
spiegato che nell'ipotesi di domanda di ricongiungimento familiare dello straniero,
così come in quella di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari,
l'ostatività al provvedimento è correlata alla circostanza che lo straniero possa
rappresentare una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello stato in tal
guisa apparendo palese che in tali casi, per effetto di un intervento operato sull'art.
4 c. 3 del d.lgs. 286 del 1998 (già modificato dall'art. 4 della legge 189 dei 2002)
dall'art. 2 c. 1 lett. A del d.lgs. 5 del 2007 (attuativo della Direttiva 2003/86/CE);
detta ostatività, dunque, non è rappresentata affatto dalla mera irrogazione di
condanne penali ma da quella valutazione che da esse, e da elementi ulteriori, sia
lecito trarre in ordine alla sussistenza di grave e attuale esposizione a pericolo per
l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

(11/10/2011 10:00 - Autore: Luisa Foti)
Cassazione: rischia la condanna per truffa il datore di lavoro che con
              false dichiarazioni induce in errore l'INPS

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 36539 dell'11 ottobre 2011, ha ribadito
che l'elemento discretivo tra le condotte descritte nell'art. 37, L. n. 689 del 1981
(che richiede nel soggetto agente la sola finalizzazione della condotta all'evasione,
ossia esige che il fatto sia commesso con il dolo specifico consistente nel fine di
non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza
e assistenza obbligatoria) e quelle previste nell'art. 640 c.p. (che prevede l'ipotesi in
cui il soggetto abbia agito non con il fine di non versare i contributi di legge, bensì
con quello di conseguire, attraverso il mezzo fraudolento consistente nell'esporre
fatti non corrispondenti al vero, l'ingiusto profitto rappresentato dalle somme
indicate come corrisposte, ottenuto mediante il conguaglio di dette somme, in realtà
non corrisposte, con i contributi effettivamente dovuti all'ente) è costituito dalla
diversa finalizzazione dell'azione del datore di lavoro. Nel caso di specie un datore
di lavoro aveva dichiarato falsamente, nelle denunce contributive inviate all'INPS, di
aver corrisposto a una dipendente, a titolo di indennità di maternità, una somma
maggiore rispetto a quella effettivamente erogata, realizzando così un ingiusto
profitto ottenuto in seguito al conguaglio calcolato dallo stesso ente previdenziale
sulla base dei falsi valori esposti nelle denunce pervenute. Inoltre, sempre lo stesso
datore aveva dichiarato falsamente di aver sospeso l'attività produttiva ed aver
anticipato per conto dell'INPS il trattamento CIG per un certo numero di dipendenti,
mentre in realtà questi ultimi avevano proseguito ininterrottamente il loro lavoro. Il
datore di lavoro veniva quindi condannato dai giudici d'appello per truffa aggravata
finalizzata al conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) e avverso
tale decisione il datore ricorreva in Cassazione. Per la Suprema Corte il ricorso va
rigettato, precisando che sono proprio le false indicazioni presenti nella denunce
mensili inviate all'INPS e la presenza di un imponente artificio rappresentato
dall'aver allegato alla dichiarazione relativa alla CIG anche un verbale di
consultazione sindacale, a costituire l'artificio attraverso cui il datore di lavoro
induce in errore l'Istituto previdenziale nel calcolare il conguaglio di somme di fatto
mai corrisposte, con i contributi effettivamente dovuti. Corretta quindi, secondo i
giudici di legittimità, la decisione della Corte d'Appello che ha ravvisato nella
condotta del datore di lavoro tutti i requisiti del reato di truffa, quali dolo, artificio e
raggiro, ingiusto profitto.

(15/10/2011 08:15 - Autore: L.S.)

   Cassazione: in tema di demansionamento incombe sul lavoratore
                 l'onere della prova del danno subito

 La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20663 del 7 ottobre 2011 ha affermato
che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto
del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel
ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio
medesimo". In particolare la Suprema Corte precisa che, mentre il risarcimento del
danno biologico è subordinato ad una lesione dell'integrità psico-fisica
medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i
mezzi consentiti dall'ordinamento, per cui dalla complessiva valutazione di precisi
elementi dedotti si possa coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza
del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali
derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella
valutazione delle prove. Accolto, dunque, il motivo di ricorso del datore di lavoro
(avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello riconosceva la sussistenza del
danno da demansionamento anche in mancanza di uno specifico pregiudizio di
natura patrimoniale) con cui lamentava la violazione della più recente
giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui dalla lesione della
professionalità non consegue automaticamente un danno, incombendo comunque
al lavoratore l'onere della prova del danno subito. Nel caso in esame - evidenziano i
giudici di legittimità - difetta l'allegazione della prova del verificarsi dei danni
denunziati dal lavoratore e della loro dipendenza causale dalla condotta datoriale in
quanto, come prova del danno, si indicano la perdita di chanche e danni alla
carriere senza indicare quali effettivamente sono.

(12/10/2011 10:00 - Autore: L.S.)

                       INPS: Successione di CGIS e CIG

Nel caso in cui un'azienda abbia usufruito di 52 settimane di cassa integrazione
straordinaria a zero ore non è ammissibile la richiesta di un nuovo periodo di cig
ordinaria prima che sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di attività
lavorativa. E' quanto precisato dall'Inps che, con messaggio n. 19350 dell'11
ottobre 2011, ha ritenuto di dover fare un'importante precisazione circa la
condizione che deve ricorrere per consentire che dopo un periodo di cigo, seguito
da uno di cigs, venga ammesso senza soluzione di continuità un ulteriore periodo
di cigo. L'Istituto, richiamando il suo precedente messaggio n. 25623 del 2010 - con
il quale chiariva che è ammissibile che un'azienda dopo un periodo di cassa
integrazione ordinaria e uno successivamente di straordinaria, possa chiedere un
ulteriore periodo di Cig ordinaria senza soluzione di continuità, a condizione che
sussistano tutti i presupposti previsti dalla legge e vengano rispettati i limiti
temporali previsti dalla normativa vigente -, e l'articolo 6 della legge 164/1975 - che
stabilisce che se l'impresa ha fruito di 12 mesi consecutivi di integrazione salariale,
una nuova domanda può essere proposta per la medesima unità produttiva quando
sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di attività lavorativa - giunge alla
conclusione dell'inammissibilità della richiesta di nuova Cig, a meno che l'anno di
cassa integrazione straordinaria possa essere considerato al pari di una ripresa di
attività lavorativa, cioè solo nel caso in cui non ci sia stata sospensione a zero ore.

(14/10/2011 09:00 - Autore: L.S.)
Cassazione: no al peculato continuato se sindaco non produce
               tempestivamente documenti sulle spese.

In tema di reati contro la pubblica amministrazione e, in particolare, di peculato, con
la sentenza n. 36718, depositata l'11 ottobre 2011, la Corte di Cassazione ha
stabilito che il pubblico ufficiale non può essere condannato per peculato se non ha
tempestivamente prodotto i documenti relativi agli esborsi. La Corte ha precisato
che per l'integrazione del reato rileva l'uso personale del danaro e non l'omessa
tempestiva produzione dei documenti. In seguito al ricorso del sindaco di un
comune del meridione d'Italia, ritenuto colpevole, sia in primo che in secondo
grado, del reato di peculato continuato in relazione ad una serie di pagamenti, da
costui effettuati con carta di credito intestata al Comune (datagli in uso per spese
connesse allo svolgimento di funzioni istituzionali), la sesta sezione penale,
ribaltando il verdetto dei giudici di merito ha spiegato che il meccanismo
dell'apertura di credito con concessione della carta credito al pubblico ufficiale da
parte dell'ente di appartenenza presuppone che all'atto di compimento della spesa
sia emessa una doppia nota contabile: una rilasciata immediatamente all'esibitore
della carta e l'altra, che inviata all'istituto bancario emittente, sarà inclusa in un
estratto-conto e sottoposta alla verifica del debitore, cioè l'ente stesso. È evidente -
ha continuato la Corte - che in tal modo la spesa risulta di per sé valutabile - e
immediatamente - dall'organo di controllo amministrativo. La Corte ha così
dichiarato illegittima la sentenza di condanna impugnata in quanto il giudice del
merito non ha analizzato il rendiconto specifico delle spese e non ha verificare
l'eventuale canalizzazione di denaro pubblico verso fini privati.

(13/10/2011 09:30 - Autore: Luisa Foti)

Cassazione: va riconosciuto asilo politico a chi è figlio di un esponente
                      del partito d'opposizione

In tema di riconoscimento dello "status" di rifugiato (d.lgs. 416/89, art.1), con la
sentenza n. 20912, depositata l'11 ottobre 2011, la Corte di Cassazione ha stabilito
che l'autorità amministrativa e il giudice, nel valutare la domanda di asilo politico, ex
art. 10 Cost, devono acquisire tutte le informazioni e la documentazione necessaria
per valutare la domanda dello straniero. In primo grado veniva riconosciuto
all'opponente, figlio di un noto esponente del partito di opposizione del suo stato
d'origine, il diritto di asilo ex art. 10 della Costituzione. Avverso della decisione,
proponeva appello il Ministero dell'Interno. La Corte di Appello, respingendo quello
incidentale del cittadino del Togo, accoglieva il ricorso del Ministero dell'Interno. La
Cassazione, investita della questione su ricorso dello straniero, accogliendo alcuni
dei motivi proposti del richiedente asilo per la cassazione della sentenza, dopo aver
evidenziato che erroneamente la Corte di merito non ha attribuito rilevanza
all'appartenza del padre del richiedente al partito di opposizione e il fatto che per
tale motivo aveva subito violenze nel suo paese. Inoltre, la Corte ha avuto modo di
dichiarare che i principi che regolano l'onere della prova, incombente sul
richiedente, devono essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario,
nonostante l'inapplicabilità diretta "ratione temporis" delle disposizioni comunitarie,
in quanto non ancora scaduto il termine di recepimento al momento della pronuncia
della sentenza di secondo grado. Secondo il legislatore comunitario, l'autorità
amministrativa esaminante e il giudice devono svolgere un ruolo attivo
nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del
giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che
fondato sulla possibilità di assumere informazioni e acquisire tutta la
documentazione necessaria.

(14/10/2011 10:00 - Autore: Luisa Foti)

Censimento e disservizi: Codacons, risarcimento danni di 50 euro per
                             gli utenti

Un risarcimento danni di cinquanta euro per ogni utente che, nella giornata di
lunedì, ha cercato, invano, di compilare il modulo del quindicesimo "Censimento
Italiano delle Persone e delle Abitazioni" promosso dall'Istat. E' quanto chiesto dal
Codacons Nazionale a parziale rimborso per i disagi e i disservizi subiti dagli utenti
a causa del black out informatico che ha colpito il sito internet dell'istituto nazionale
di statistica. Disservizi e disagi vissuti anche da quanti si erano, invece, solo recati
presso gli uffici postali per consegnare i moduli già compilati e che sono stati
rimandati a casa a causa di un blocco nel sistema. Per facilitare le operazioni di
rimborso da parte degli utenti danneggiati, l'associazione dei consumatori ha già
aperto un'apposita pagina web a cui collegarsi per chiedere il risarcimento. Un atto
dovuto, secondo il presidente nazionale del Codacons Carlo Rienzi, per rispetto di
tutti quegli utenti che sono stati danneggiati dal tali falle nel meccanismo. "Il sito
internet per la compilazione del censimento online è andato in tilt, mentre altri
disagi si sono registrati presso alcuni uffici postali, dove gli utenti che si erano
presentati per la consegna dei moduli, sono stati rimandati a casa - spiega il
presidente Rienzi - Disservizi che hanno creato un danno evidente ai cittadini."
Cittadini che, anzichè uscire, hanno perso l'intera giornata a compilare i moduli del
censimento o si sono recati, inutilmente, agli uffici postali senza riuscire a
consegnare il modello. "Chi non è riuscito a compilare il censimento per problemi
del sito o degli uffici postali può rivolgersi al Codacons - spiega Rienzi - e avanzare
la richiesta di indennizzo. Provvederemo noi a girarla all'Istat e in caso di risposta
negativa ci rivolgeremo alle autorità competenti per far valere i diritti dei
consumatori".

(17/10/2011 09:18 - Autore: N.R.)
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