My London Calling Marta Gaggini - Vademecum minimo per sopravvivere a Londra

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My London Calling Marta Gaggini - Vademecum minimo per sopravvivere a Londra
Marta Gaggini

My London Calling
 Vademecum minimo per sopravvivere a Londra

                  Parte 6

                  EdiKiT
My London Calling Marta Gaggini - Vademecum minimo per sopravvivere a Londra
MY LONDON CALLING
                           - parte 6 -

NUOVO CENTRO, PROFONDO SUD

Ancora una volta nascosto sotto le arcate di un ponte, un altro
mercato animava l’Embankment. Era un corteo composto di co-
pertine, distribuite sui banchi come una raccolta di vecchie foto-
grafie, o allineate sui bordi come in un sinuoso domino di titoli.
Gli scaffali accoglievano le pagine più antiche, rilegate in pelle,
o finta tale, come i libri della nostra vecchia collezione raccolta
con qualche giornale, e adesso dimenticata sul retro della libre-
ria nelle seconde file. C’era quel profumo di carta invecchiata
che mentre si legge Shakespeare si dovrebbe sempre annusare.
C’erano prodotti editoriali che spaziavano da un angolo all’altro
di quello che è considerato l’universo letterario: la biografia di
Van Gogh e l’opera magna di un certo dottor Spock sulla cura
del bambino, tomi sull’Italia del Rinascimento e ‘How to eat’ di
Nigella lì accanto, a riprova del fatto che il destino ha un senso
dell’umorismo beffardo. C’erano i miei eroi, Clive Cussler e Bill
Bryson. C’era un volume ingiallito, con in copertina un cupolone
a metà fra la fotografia e il quadro, che raccontava le memorie di
un Grand Tour italiano. E soprattutto c’era London, che però non
era un diario di viaggio ma un romanzo. C’era ‘The best of life’,
quindi non credo di dover aggiungere altro.
Passeggiando sotto il ponte di Waterloo, tra i banchi di questo
mercatino di libri dall’atmosfera bohemienne che dà un tocco
My London Calling Marta Gaggini - Vademecum minimo per sopravvivere a Londra
di Senna parigina al Tamigi della domenica mattina, ho scoperto
il mio punto di equilibrio. Perché non Piccadilly, Westminster o
Soho, ma il ponte di Waterloo, affacciato sul Big Ben e in vista di
Saint Paul e della sua cupola, è il vero centro di Londra. Un centro
da cui mi sarei allontanata di lì a poco a dismisura per raggiun-
gere quella che sarebbe diventata la mia nuova casa. Un centro
che, per quanto fuori asse rispetto alla proposta ufficiale di ogni
guida, dalla zona tre sembra un’irraggiungibile meta. Toooooting
Broooooadway: il profondo Sud mi aspettava. Il fatto che i car-
telli stradali, da quelle parti, non indicassero come centro città
né Waterloo né Piccadilly o Soho, ma l’anima pulsante di Tooting
all’incrocio davanti alla metro, mi ha quantomeno destabilizzato.
Ma la prima cosa che vedi, uscendo dopo ore nell’underground a
rivedere il sole, è Primark, e questo ti convince a restare.
Il fatto è che arrivando attraverso il sottosuolo, tra questo mon-
do e il centro città quello vero c’è una sorta di incolmabile buco
nero, e Tooting, con le sue case a un piano, i comignoli che svetta-
no sullo sfondo grigio, i bovindo che come in un gioco di specchi
sembrano susseguirsi all’infinito, il sole basso e la sensazione che
ci sia sempre troppo cielo, sembra un’isola dispersa nello spazio,
una carota di terreno appollaiata nel vuoto cosmico. Volendo-
si spingere oltre, l’immagine del mondo dantesco. Ma innamo-
rarsi di Tooting è stato incredibilmente facile. Non solo per via
delle decorazioni di un Natale multiculturale, raffiguranti, oltre
alle solite palle, portacandele ebraici e palme lussureggianti, che
probabilmente erano lì da sempre e che nessuno sembra inten-
zionato a rimuovere una volta passate le feste, ma soprattutto
perché qui tutto è multiculturale. Oltrepassata la via dei barbieri
che mi conduce a casa, affacciandosi sulla strada principale, che
si disperde fino ai confini di questa realtà all’apparenza circonda-
My London Calling Marta Gaggini - Vademecum minimo per sopravvivere a Londra
ta dal niente, come in un Truman Show della provincia londinese,
e insinuandosi nel souk un po’ scomposto che a questa realtà fa
da mercato coperto, si scopre una dimensione completamente
estranea alla nostra sonnolenta periferia italiana. Posso compra-
re le verdure dagli arabi in un negozio esposto alle intemperie
che in un attimo mi riporta sulle strade giordane, posso sceglie-
re i trucchi e selezionare gli smalti sotto una parete di bracciali
indiani, posso comprare lo stendino per i panni dai pakistani, e
all’occorrenza farmi fare le sopracciglia in un minuscolo salone di
bellezza gestito da caraibiche afro-americane. Pakistano è anche

il mio nuovo taglio di capelli, selezionato da una rivista datata ai
primi anni Novanta, il mio nuovo medico di famiglia, che analiz-
za gli anfratti delle cavità orali da una distanza abissale e con il
solo ausilio di una torcia da campeggio, con ogni probabilità è del
Bangladesh e ho deciso che il mio prossimo abito da cerimonia
sarà un salwar kameez made in London.
E fra kajal e zucchine orientali, passando dai negozi di alimentari
affacciati sulla strada, a quelli di articoli per la casa unica alter-
nativa possibile all’Ikea, da quelli di telefonia mobile che ti sbloc-
cano gratuitamente il cellulare, anche se non penso capirò mai
cosa voglia dire, a quelli che vendono in combinata stuzzichini al
cioccolato e giornali, ancora annaspo nel tentativo affannoso di
distinguere un arabo da un indiano. Tooting forse mi ha aiutato
a trovare la risposta che cercavo: né arabi né indiani, sono tutti
pakistani. Come la mia parrucchiera di fiducia. Una delle tante
sfumature di questo mondo multi cromatico, fatto di incontri,
commistioni, scambi, dove di fatto non esistono confini. E an-
che se i confini ci fossero, Londra, e Tooting, ci costringerebbero
a oltrepassarli, in un bazar vivace e un po’ confuso dove le In-
die orientali e occidentali confinano e dove tutte le differenze
si sommano in un codice genetico unico, probabilmente quello
pakistano.

•      L’intermezzo è la mia ombra sul prato del parco, scoiattoli
che si rincorrono, chiome dorate nella luce morbida dell’autun-
no, una foschia che non si sa se sia quella dell’alba o del tra-
monto e raggi che all’improvviso la trafiggono. L’intermezzo è
la malinconia che precede ogni viaggio, grandi abbracci e foto
davanti allo specchio. L’intermezzo è un Tower Bridge notturno
mangiando patatine da asporto.

PER RITROVARE L’ORIENTE

La mia vacanza così perfettamente calibrata prima della parten-
za, traslocando tutti i miei beni in metropolitana da Queensway
a Tooting Broadway, che sarebbe diventata la mia nuova casa, e
salutando King’s Road prima di trasferirmi nel negozio di Oxford
al mio ritorno, si sfracellava quando, dopo aver pagato tutto il
pacchetto del viaggio connettendomi alla WiFi di ‘Pret a man-
ger’ durante le pause pranzo, perdevo miseramente l’aereo per
il Marocco.
Tornata a Londra miseramente, per superare la crisi c’era un solo
rimedio: il mare. Andare al mare proprio quando l’estate era or-
mai diventata un ricordo, ai più potrebbe sembrare assurdo, ma
a me è sempre piaciuto il mare d’inverno. Soprattutto se quel

mare è oceano. Oceano Mare. E allora dopo indagini accurate e
dopo la lunga trascrizione manoscritta di quelle memorabili pri-
me pagine, sono partita per Brighton alla ricerca dell’equilibrio
che avevo smarrito, ripartendo da quell’angolo di perfezione in-
completo, da quella strada dispersa lungo il cammino, dall’assen-
za di colore di quel quadro. Ripartendo da me. Dal mare e dal
suo orizzonte aperto, dal mio bisogno di dare voce al racconto, e
perché no, anche da Baricco, con quella prosa, fatta poesia, fat-
ta musica, che fin dal primo momento avevo riconosciuto come
mia, trovando qualcosa che non credevo di cercare, trovando,
messe su carta da qualcun altro, le sensazioni che provavo e che
se fossi riuscita a spiegare avrei espresso con la stessa melodia e
le stesse parole. Sceglievo di ripartire.
“Perché l’uomo è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rien-
trano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe
essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a
migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà”
E il mio modo di rimettermi in viaggio è stato questo, scendere
dal treno a Brighton, insinuarmi nei vicoletti che si tuffavano ver-
so il mare, attraversare le lussuose strade commerciali e i viali
turistici e trascurati a ridosso della stazione, a cercare, prima del
mare, il mio ‘Oceano Mare’, Waterstone e la curiosità di scoprire
come suonava Baricco in inglese. Così, con il mio nuovo libro fra
le mani, ho raggiunto la spiaggia, allargando lo sguardo fra le luci
del Brighton Pier e i resti del vecchio pontile vittoriano, e seduta
lì, sulla spiaggia, nascosta dal rumore del vento, ho dato a questo
nuovo ‘Ocean Sea’ il suo spazio. Poi, irresistibilmente attratta dai
ritornelli ossessivi delle giostre sul molo, che accompagnavano
col loro ritmo incalzante il fruscio riposante delle onde a riva,
mi sono diretta a quel parco divertimenti affacciato sulla costa,
già immaginandomi eclissata da un gigantesco lecca-lecca. Ma
l’atmosfera non era quella festosa e animata di una domenica
estiva. Quella che si respirava, in quel parco giochi arroccato su
un pontile circondato dal mare, in quella giornata grigia dal clima
già invernale, era l’aria pesante dell’abbandono. Un abbandono
che si sentiva tangibile, concreto, che calava su quell’angolo di-
menticato come una nuvola bassa, cancellando i colori e renden-
do più distanti i suoni. Le note acute di quelle melodie insistenti
assumevano toni più gravi, come se il ritmo, sconfitto, si fosse
rallentato, e le luci stridevano contro lo sfondo omogeneo del
cielo. Come sempre, in un parco giochi, c’era la sensazione che
tutto potesse succedere, ma stavolta era qualcosa di piccolo, di
immobile. O qualcosa di altamente catastrofico, visto che era
l’ambientazione ideale per quel ‘Luna Park’ romanzo giallo che
tanto mi aveva appassionato da bambina, con montagne russe
che deragliavano e case stregate trasformate in trappole mortali.
Malinconia e terrore: il clown e le sue facce oscure.

Ma c’era un altro elemento che, appena sbarcata in questo nuo-
vo inizio tanto diverso da come l’avevo programmato, mi aveva
spinto a Brighton, ed era la possibilità di vedere un po’ di quell’O-
riente che era andato perduto. Così, lasciandomi il mare alle spal-
le, mi sono diretta al Royal Pavilion. Quelle cupole a cipolla, che
da ‘Le mille e una notte’ si erano ritrovate per sbaglio sulla costa
britannica, erano come un tentativo di copia un po’ azzardato del
Taj Mahal, ancora più contrastanti con Brighton di quanto non lo
fosse con Granada l’Alhambra in stile moresco. Varcate le soglie,
si raggiungeva il Levante. Se non avessi saputo con certezza e con
un certo fastidio che ero ancora in Inghilterra, avrei potuto tran-
quillamente credere di essere in Cina, o in Persia, o nella terra
di Sandokan, di potermi affacciare e vedere la Grande Muraglia.
Ma le tende erano tutte chiuse, il volo che avevo preso mi aveva
riportato a Londra, e l’Oriente che vedevo era solo una ricostru-
zione meticolosa, un’ambientazione così curata da dare a tratti
l’impressione di essere davvero artefatta e costruita. E allora l’O-
riente vero si allontanava, lasciandosi alle spalle solo una faccia-
ta e la sensazione strana che il Royal Pavilion fosse quello che in
effetti era: non un mondo esotico ma la sua gradevole messa in
scena. Diciamolo, John Nash ha fatto qui quello che io ho tentato
di fare con la mia camera giapponese. E sarà anche poco reali-
stico, o troppo elaborato, ma io un palazzo reale cinese non l’ho
mai visto, e questo risponde perfettamente al mio immaginario,
quindi dimentichiamo Brighton, fingiamo che dietro tutto questo
non ci sia l’ego di un architetto, e lasciamo invece che samurai e
shogun tornino a popolarlo.
John Nash ha certo raggiunto il suo obiettivo di ricreare l’esotico
nello stridente clima britannico, e in tutta sincerità, con un po’
di fondi in più, anch’io con la mia camera giapponese avrei vo-
luto fare esattamente lo stesso. Cupolone a cipolla compreso. Il
salone è un tripudio di draghi e fiori di loto, c’è un’araba fenice
a reggere il lampadario e le cupole sono ricoperte di foglie che,
come me, anche il decoratore doveva aver visto solo nelle serre.
La cucina, oltre a essere invasa da gigantesche pentole di rame
in quantità che nemmeno il magazzino della Mondial Casa si può
vantare di possedere, era una sorta di palmizio verdeggiante.
Lungo i corridoi le porte erano incorniciate da tendine grondanti
campanelle e draghi avvolti intorno alle colonne. La sala da ballo
chiariva che se un ospite d’onore fosse comparso all’improvviso
sarebbe stata Mulan, non certo Giorgio IV. E tornando indietro
ho capito che l’ingresso, con le lanterne, i mobiletti addossati
alle pareti e la scala effetto bamboo in legno, era identico alla
‘Casa del giunco’.
Mentre mi aggiravo rapita fra quei saloni inseguendo il fascino
del mondo, sono tornata al tempo che tutto questo aveva con-
cepito, un tempo in cui le donne indossavano gonne vaporose
e corsetti soffocanti e gli uomini erano tutti un po’ dandy. Oscar
Wilde avrebbe potuto passeggiare per quei corridoi, discutendo
la sua visione del mondo con altri suoi contemporanei a noi al-
trettanto vicini, James Joyce o Arthur Conan Doyle. E quindi ho
capito che già sotto gli abiti di allora, in quell’Oriente che anche
allora attraeva il viaggiatore e non ha mai smesso di affascinare,
nonostante l’evolversi della storia, e l’inevitabile scorrere della
cronologia, si affermava prepotente la modernità del pensiero, o
anzi l’evidenza che il pensiero è sempre stato fuori dal tempo, e
con lui la natura dell’uomo.

SILENZIO CHE RACCONTA

Dopo aver risalito il canale, da Camden alla stazione di King’s
Cross, immersa tra chiatte, chiuse e fronde d’alberi che si sporge-
vano per raggiungere le acque del fiume, in quella pace agreste
dove giungevano smorzati i rumori della città attuale e l’eco dei
suoni della Rivoluzione industriale, sono riemersa per tuffarmi in
un altro silenzio, un altro buco nero sulla mappa della città che
lasciava fuori il caos e metteva tregua alla frenesia: la British Li-
brary. La stessa traccia audio, dall’arcadico campestre all’essenza
del letterario. Ora. Qualcuno potrebbe rimproverarmi a ragione
di non aver mai messo piede alla nostra Biblioteca Nazionale.
Magari vedendo le prime copie delle opere di Dante avrei reagito
come quel famoso viaggiatore romantico che ha quasi avuto un
collasso alla vista di Santa Croce, tramutandomi in una sindrome
di Stendhal vivente. Ma a parer mio quel concentrato di filoso-
fia, scienza, religione, arte e musica, in forma di parola scritta,
tutta quella storia, dell’uomo e con lui della cultura, in forma di
letteratura, anche se Dante non c’era, meritava comunque un
po’ d’ammirazione. Così ho dato un valore nuovo al gesto sem-
plice dello scrivere passeggiando fra i manoscritti di Jane Austen,
Wordsworth e Conan Doyle, e di un’altra scrittrice di cui ora, tan-
to per mantenere un sano legame con l’ignoranza primordiale,
non mi sovviene il nome. Ho incontrato le mode di oggi e di ieri,
spostando il mio stupore da una copia di Chaucer al First Folio
di Shakespeare alla prima stesura di ‘Yesterday’ dietro una car-
tolina d’auguri. Ho guardato da vicino la storia, schiacciando il
naso contro la teca che conteneva le lettere autografe di Maria
Stuarda e Elisabetta I. Ho vissuto l’evolversi della scoperta, con
una Bibbia di Gutenberg e gli appunti di Leonardo sulla meccani-
ca. Ho visto la Magna Charta. La Magna Charta. Rimasta intatta
dal tredicesimo secolo, scampata a ottocento anni di delirio, una
vera pagina di storia.
Ecco, la storia. Tra queste mura si fa protagonista, e si fa piccola:
la grande storia dell’umanità raccolta tutta nello spazio di una
pagina, nella sintesi di una parola. I nomi altisonanti dei libri di
scuola, eco di una realtà ormai lontana, i personaggi quasi mitici
di una realtà che potrebbe quasi non essere mai esistita, attra-
verso l’impronta, il marchio della loro grafia, diventano azione
concreta. Diventano gesto: nero su bianco. La scrittura li ha resi
reali, e con loro ha reso reale la storia, che ancora una volta torna
a una dimensione che troppo spesso le è sconosciuta, più uma-

na, e con uno spessore più tangibile, quello della pergamena. Il
viaggio nella parola passata inevitabilmente diventa un salto in
tutto ciò che è cultura, un volo radente sull’umanità intera, sem-
pre diversa e in fondo sempre uguale a se stessa, che si evolve a
poco a poco nella storia e sfuma da un angolo all’altro della carta
geografica. Non ci sono mutamenti improvvisi, è una questione
di genetica, il cambiamento lentamente degrada, e questo rende
il confine una divisione troppo netta e forzata, perché il mondo
non ha i colori definiti che gli impone la cartina politica. La storia
è una linea continua, e a loro modo anche i margini della terra
emersa, in una sorta di antica Pangea.
In tutto questo la parola si fa stampa, si fa miniatura, si fa imma-
gine sacra, e i colori e le forme scivolano senza interruzione dai
testi bizantini a quelli arabi e persiani, da quelli indiani a quelli
cinesi e giapponesi, raggiungendo le pendici orientali di questa
umanità che in fondo non conosce distinzioni. Ed è proprio la
parola, che all’apparenza ci distingue, a tradire la radice della no-
stra comune origine. Perché parlando di radice, non è curioso
che present e presente abbiano, in inglese e in italiano, lo stesso
duplice significato? Da brava italiana quale sono, in fondo legata
ancora all’auge dell’impero romano, riconducevo tutto all’ine-
sauribile influsso del latino, ma il latino stavolta non c’entra, e
per quanto l’italiano sia una lingua romanza e l’inglese una ger-
manica pura, entrambe hanno la stessa, lontana provenienza: la
Pangea della lingua. E anche se una delle domande più frequenti
che ti potrebbero rivolgere a Londra è “Di dov’è il tuo accento?”,
che è evidentemente un modo carino per chiedere “Da dov’è
che vieni per parlare l’inglese in questo modo ridicolo?”, in real-
tà non parliamo altro che dialetti diversi di una lingua unica, la
lingua del mondo. Tutta messa per iscritto qui, nelle piccole sale
di una biblioteca, racchiusa in un enorme cilindro di vetro che
custodisce il silenzio della letteratura nel centro assordante di
questa Babele moderna.

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