Realtà immigratoria fra conoscenze, competenze, criticità: il contributo dell'Etnopsicologia - Ordine Psicologi Marche
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Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Realtà immigratoria fra conoscenze, competenze, criticità: il contributo dell’Etnopsicologia 1
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia La psicologia si è affacciata alla etnopsicologia negli spazi istituzionali, solo recentemente, tali spazi hanno invece sempre visto favorito un approccio etnopsichiatrico. Possiamo dire che parte di questo ritardo sia stato causato dalla incapacità di cogliere immediatamente i mutamenti della società, difficoltà che caratterizza molte delle professioni sociali e sanitarie. La definizione di etnopsicologia e la relativa ricerca, risalgono addirittura alla seconda metà dell’800, ma solo oggi il nostro ruolo ha acquisito rilievo. Siamo colpiti costantemente dai mass media con notizie che riguardano l’immigrazione e le varie problematiche connesse: flussi migratori, integrazione e razzismo, solo per citarne alcuni. È nostro compito, come professionisti psicologi e psicoterapeuti, seguire queste dinamiche. Dobbiamo dare il nostro contributo sia a livello scientifico sia a livello di intervento clinico, sociale e civico. E’ necessario essere in grado di far recepire e concepire un nuovo pensiero e una nuova cultura che include la realtà migratoria; essa pur presentando nuove difficoltà, bisogni e patologie rappresenta sempre un elemento evolutivo di crescita e riflessione. Questa ricerca del “Gruppo di lavoro di Entnopsicologia” costituito dall’Ordine Psicologi Marche, vuole essere un contributo di riflessione, e non solo, sull’importanza, mai come oggi così urgente, di una cultura entopsicologica. Dr. Luca Pierucci Presidente Ordine Psicologi Regione Marche 2
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia PREMESSA Riflettere, confrontarsi, capire l’attuale condizione migrante presso un contesto istituzionale quale l’Ordine professionale degli Psicologi rappresenta un’azione di forte valenza culturale e civica, poiché come afferma Tobie Nathan la cultura è “il sistema che contribuisce alla nostra costruzione del mondo e non può esistere respiro psichico, senza filtro culturale che ordini, governi e fornisca i principali strumenti di interazione con la realtà”. I colleghi e le colleghe che compongono il gruppo di lavoro di etnopsicologia presso l’Ordine Psicologi Marche hanno pertanto profuso impegno, tempo ed energia per la valorizzazione di una cultura etnopsicologica che rispetti innanzitutto la dimensione del diritto (per noi psicologi è sancito dall’articolo 3 del codice deontologico) e che sia all’insegna di un approccio psicologico profondamente connesso alla potenza delle relazioni piuttosto che a rigide categorie nosografiche; uno sguardo alla migrazione tale da poter riaffermare il senso della Storia della persona. La cultura etnopsicologica rappresenta in tal senso una ricchezza perché parte dalle relazioni, dal rispetto per gli esseri invisibili, per la lingua, per gli oggetti simbolici e per il corpo. È necessario però valorizzare le informazioni per poter leggere le condizioni contestuali dove si muovono attualmente i destini di moltissime persone migranti. Da qui l’elaborazione di un documento che rappresenti un viaggio, auspicabilmente esaustivo, nella condizione migratoria, con la speranza che sia un contributo per vivere più tra uomini piuttosto che tra avversari. Silvana Zechini 3
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia INTRODUZIONE Il presente documento si offre come fotografia e analisi dell’attuale condizione migratoria, come realtà in continua evoluzione, con l’intento di offrire dati e approfondimenti utili a conoscere le connotazioni di tale fenomeno e promuovere contemporaneamente la cultura etnopsicologica. Il Gruppo di lavoro di Etnopsicologia dell'Ordine degli Psicologi delle Marche ha cominciato a operare sulla stesura di questo contributo a inizio 2018, ma negli ultimi mesi la situazione, per quanto riguarda il settore dell'accoglienza dei migranti e dell'integrazione sociale, è profondamente cambiata. Notizie e informazioni distorte hanno trovato terreno fertile proprio nella mancanza di ciò per cui questo documento era stato pensato: un’informazione diffusa e concreta sullo stato dell'arte e sugli strumenti esistenti. Pertanto si vuole offrire a tutti coloro che sono motivati a conoscere la realtà migratoria, o per lavoro o per interesse personale, le informazioni su le problematiche più diffuse nella presa in carico dei migranti, le prassi in uso e le istituzioni attive in quest’ambito. In questo periodo anche il sistema SPRAR, che era considerato un modello di riferimento europeo e che puntava sull’integrazione fra le realtà ospitanti e le persone accolte è stato accantonato, con inevitabili ripercussioni rispetto agli ingressi dei migranti nel Paese, che in passato potevano usufruire di strutture d’accoglienza e protezione per richiedenti asilo e per titolari di protezione internazionale e umanitaria in attesa di verifica dei requisiti. La gravità dell'attuale situazione invece di frenarci ci ha motivati ancora di più, perché è proprio quando la confusione si fa grande che bisogna impegnarsi a fare chiarezza, così come quando arriva il buio che bisogna accendere le luci. Speriamo quindi che il presente documento possa offrire testimonianza del nostro lavoro e del lavoro dei tanti che da anni si impegnano nell'ambito dell'integrazione in senso lato e dell'etnopsicologia nello specifico, diventando allo stesso tempo uno strumento di confronto e di informazione. Per concludere, questo documento non vuole essere un punto di arrivo, ma l'inizio di un viaggio condiviso con chiunque operi nel settore o si senta interessato e intenda partecipare allo stesso con osservazioni e scambi. 4
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia 1. SETTORE GENERALE 1.1 COS’E’ L’ETNOPSICOLOGIA Da una semplice analisi etimologica appare immediatamente chiaro che l'etnopsicologia si occupa della psicologia applicata alle differenze etniche. Ma cosa, in concreto, si intende con ciò? Per approfondire la questione proviamo a concentrarci sui concetti di salute e cura. Per molti anni si è cercato di distinguere la salute fisica da quella psicologica, dimenticando che la salute è un meccanismo sfaccettato, in cui i processi emotivi condizionano il benessere fisico, e viceversa. È difficile perciò ottenere buoni risultati di cura focalizzandosi solo su uno dei due aspetti che, complessivamente, chiamiamo salute. Lo stesso approccio va però applicato anche in ambito psicologico. Quando si parla di psicologia ci si riferisce, solitamente, alla realtà interiore dell'individuo: personalità, emozioni, traumi, focalizzando l'attenzione sull'esperienza del singolo rispetto al mondo, dimenticando il sottile condizionamento che quest’ultimo opera sulle persone. La "realtà", o meglio il modo in cui ci rappresentiamo la realtà, si costruisce in base ai modelli imposti o proposti dalla cultura. Le diverse culture plasmano gli individui e il loro modo di essere attraverso usanze, regole esplicite e implicite. E se per un occidentale è buona norma stringere la mano a uno sconosciuto, per un latino americano sarà considerato più cortese un contatto maggiore, come un abbraccio, mentre per un orientale l'inchino appare come la forma di massima educazione verso l'altro. Apparentemente si tratta solo di semplici consuetudini, ma in realtà definiscono un modo di vivere ed esprimere la propria parte affettiva ed emotiva, condizionando quindi la vita psichica dell'individuo. Alla luce di tale consapevolezza, appare chiaro che la psicologia non può essere considerata come un corpus di conoscenze e di metodologie monolitico e perfettamente delineato, valido per ogni occasione, ma deve variare in base al substrato culturale in cui l'individuo è cresciuto o vive. Ed è qui che entra in gioco l'etnopsicologia! L'etnopsicologia può quindi essere definita come un approccio di intervento psicologico focalizzato sui tratti distintivi del contesto socio-culturale di appartenenza del soggetto preso in carico. Come approfondiremo in seguito, la sfida per l’etnopsicologia è quindi quella di costituire un impianto multidisciplinare e interculturale che utilizzi la lingua del paziente e che permetta di conferire significato al vissuto del migrante. Pertanto l'etnopsicologo è il professionista dell'intervento psicologico dotato di competenze e, soprattutto, di una particolare sensibilità alle dinamiche psico-emotive dell'individuo, derivate dalle diverse culture di 5
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia appartenenza. Parliamo di sensibilità, perché sarebbe impensabile riuscire a raggiungere una competenza approfondita di tutti i modelli culturali esistenti. Meglio costruire, invece, un approccio "fluido" libero da preconcetti e, al tempo stesso, una specifica attenzione alla differenza, al dettaglio dietro cui si nascondono i diversi modi di costruire e vivere le relazioni, di rappresentarsi la realtà, di raccontarsi il corpo e le emozioni. Enfatizzando le risorse del paziente, l’etnopsicologo si pone come obiettivo quello di offrire un intervento di sostegno psicologico meta-culturale, creato ad hoc, in grado di ristabilire l’involucro culturale, lacerato in seguito l’esperienza migratoria. Questo perché è proprio nello sradicamento (ovvero l’allontanamento dal proprio mondo verso un altro) che esplode il disagio psicofisico, una condizione che diventa difficile da comunicare con un linguaggio o con sintomi comprensibili per la cultura ospite. Un esempio di questa difficoltà sta nel lavoro dei medici che operano con pazienti stranieri, spesso provenienti da culture molto lontane, con i quali non è possibile utilizzare gli stessi modelli di descrizione sintomatologica. Ciò che cambia, chiaramente non è l’anatomia, ma il modo di rappresentare e descrivere il corretto funzionamento dell'organismo; per cui ciò che nella nostra cultura può essere definibile come fitte al fegato o dolore alle giunture, in Africa sub-sahariana può essere spiegato come uno squilibrio energetico tra la parte destra e quella sinistra del corpo, mentre in medicina tradizionale cinese può essere raccontato come una presenza eccessiva o insufficiente di vento o di fuoco nelle varie aree dell’organismo. Un’altra questione alquanto spinosa da comprendere sta nel differente “rapporto con l’invisibile”, un problema che si rende evidente nel lavoro con le donne vittime di tratta. La questione riguarda donne, perlopiù nigeriane, reclutate nel loro villaggio o città d’origine, spesso con la falsa promessa di una nuova vita in Europa e di un lavoro sicuro e onesto, vincolate mediante l’impegno alla restituzione di una certa somma di denaro. Questo patto viene suggellato da un rito magico (vudù o juju) fatto allo scopo di assoggettare le vittime da un punto di vista morale e spirituale, oltre che con la costrizione fisica, se necessario, anche mediante minacce alla loro incolumità o a quella dei loro familiari rimasti nel Paese di origine. I riti prevedono inoltre un vincolo di segretezza, che vieta loro di fare il nome dei propri sfruttatori. Il timore di ritorsioni fisiche e spirituali, in seguito alla trasgressione del patto, rende la loro liberazione alquanto ardua. Per fare al meglio questo lavoro di continua ricerca di comprensione e rispetto delle differenze socio-cultuali, si rende necessaria la collaborazione con un mediatore culturale. Il mediatore linguistico culturale è un ponte, una passerella tra due universi linguistici. Riguardo al ruolo del mediatore esiste ancora molta confusione. Se da un lato alcuni operatori considerano i mediatori come figure di passaggio e semplici traduttori da utilizzare solo in caso di emergenza, dall’altro ci sono operatori con grandi aspettative che considerano i mediatori dei dispositivi passe-partout, dei tecnici in grado di risolvere qualsiasi questione legata all’intercultura e all’integrazione dei cittadini stranieri. 6
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Le funzioni del mediatore dovrebbero invece essere delineate e costruite di volta in volta dagli stessi operatori e mediatori in un preciso progetto di intervento. Entrambi dovrebbero collaborare ed essere coinvolti nelle attività di promozione e personalizzazione degli interventi al fine di renderli più vicini all’utenza straniera ed ai suoi bisogni. Poiché esiste una differenziazione di funzioni del mediatore, è difficile fare un discorso generalizzato che non tenga conto del contesto. Tuttavia si possono individuare alcune principali “funzioni base”, presenti in tutte le figure della mediazione, quali: Funzione di orientamento e di informazione agli utenti Funzione di accoglienza degli utenti nei servizi Funzione di traduzione, interpretariato, mediazione linguistico-culturale Funzione di sensibilizzazione, promozione e pubblicizzazione relative al servizio specifico in cui si è inseriti. 1.2 PARTE STORICA E RIFERIMENTI TEORICI La collaborazione interdisciplinare tra psicologi, antropologi, filosofi, storici, sociologi è stata fondamentale nei secoli per sviluppare la ricerca nell’ambito della dimensione psichica nelle diverse popolazioni. I primi accenni al termine di etnopsicologia si ebbero grazie a Heymann Steinthal, filosofo del linguaggio e psicologo tedesco, cofondatore nel 1860 della Rivista per l'etnopsicologia e la linguistica e autore di numerosi scritti sull'origine del linguaggio. Nella sua opera (1851) Steinthal sostiene un orientamento volto a porre in relazione l'analisi strutturale delle lingue e la psicologia dei popoli. Successivamente Wilhelm Wundt, psicologo e filosofo tedesco del XIX secolo, parlò nelle sue ricerche di “psicologia dei popoli” o etnopsicologia, ovvero dello studio del ruolo della cultura nella costruzione delle funzioni psicologiche superiori (memoria volontaria, ragionamento, linguaggio, apprendimento). Il concetto venne poi riutilizzato da Wundt nello studio dello sviluppo mentale generale dell'essere umano, ovvero dei fattori costitutivi della cultura di un'etnia o di un popolo (lingua, religione, miti, morale, costumi ecc.) tramite metodi psicologici, filologici, storici e antropologici. Una vera e propria indagine integrata che oggi viene invece sviluppata da diverse discipline come la psicologia culturale, la psicologia trans-culturale o cross-culturale, l'antropologia psicologica e l'etnopsicologia. Gli studi di etnopsicologia hanno successivamente contribuito ad approfondire l’argomento. L'etnopsichiatria può essere fatta risalire allo psichiatra Emil Kraepelin che, all'inizio del XX secolo, ha delineato una nuova disciplina chiamata psichiatria comparata. Kraepelin era convinto che i fattori socioculturali svolgano un ruolo 7
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia fondamentale nella genesi di diverse psicopatologie e perciò si preoccupò di identificare e spiegare il legame che esiste tra disturbi mentali e caratteristiche etniche e culturali dei diversi popoli. Con l'etnopsicologia e l'etnopsichiatria, etnia e cultura diventano così fattori centrali anche per le discipline che si occupano della salute mentale. L’etnopsichiatria mirava al confronto tra diverse realtà cliniche al fine di convalidare le categorie nosografiche della psichiatria classica occidentale, che rimanevano il termine di riferimento certo e indiscutibile. Il metodo era appunto quello comparativo e da qui nasceva la definizione di psichiatria trans-culturale, cross-culturale o comparativa. L’orientamento della prima etnopsichiatria era di considerare le sindromi psichiatriche esotiche come una variante più semplice e povera di quelle riscontrate in Occidente: in esse i fattori culturali costituivano dei meri ostacoli all’efficace riconoscimento delle patologie secondo la nosografia psichiatrica occidentale. L’elemento culturale veniva preso in considerazione e studiato solo in vista di una sua rimozione al fine di svelare i modi universali della sofferenza umana. La prima etnopsichiatria riteneva infatti che, sebbene i contenuti del disagio psichico differissero in diverse aree geografiche del mondo, essi sottintendessero una uguale forma, universale, di disturbo mentale. Un altro pioniere degli studi etnopsicologici e della etnopsicanalisi è Georges Devereux, che ha effettuato studi sul campo fra le popolazioni indigene in California, Australia, Nuova Zelanda, Nuova Guinea e Vietnam, studiandone le formazioni culturali al fine di individuare le varianti strutturali comuni ad ogni cultura. L’etnopsichiatria viene da lui considerata come una disciplina complementarista, in cui è necessario un dialogo incessante e comparativo tra epistemologie psicoanalitiche, antropologiche, sociologiche, ma anche biomediche, perché nessun punto di vista è esaustivo nello studio dell’uomo. Gli orientamenti attuali hanno maturato una visione più critica del compiere azioni di cura. L’esigenza di farsi carico di disagi "altri", ha suggerito la necessità di ripensare gli strumenti e i quadri teorici, riconoscendo la loro inevitabilità culturale, cioè il loro essere localizzati, costruiti in spazi storici e geografici specifici. E infatti gli etnostudiosi contemporanei si differenziano da quelli del passato per la consapevolezza della necessità di storicizzare anche i propri riferimenti culturali e strumenti operativi. Un ulteriore passo avanti, soprattutto nella direzione della costruzione di dispositivi di cura adeguati alle patologie etniche, è stato più recentemente compiuto da Tobie Nathan. Da lui la psicoterapia viene considerata come “un procedimento d’influenza destinato a modificare radicalmente, profondamente e in modo duraturo una persona, una famiglia o semplicemente una situazione, partendo da un’intenzione terapeutica” (Nathan 1998, p. 20). Non si separa perciò il paziente dalla famiglia o dal clan, per ricondurlo ad un gruppo virtuale, statistico, come quello individuato e descritto dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ma lo si considera parte di un corpo sociale più ampio. Di conseguenza, tutte le pratiche terapeutiche presentano un interesse e non si può discriminare tra pratiche scientifiche e pratiche 8
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia "selvagge". Le terapie tradizionali sono operazioni razionali, efficaci e suscettibili d’indagini approfondite: tutto va ricondotto al sistema culturale e solo all’interno di esso si possono valutare l’efficacia e il senso. Molti sono gli sviluppi, anche divergenti nel pensiero e nella pratica, che hanno origine dal lavoro di Nathan. Ricordiamo soltanto Rose Marie Moro (1994, 1998), che si è concentrata in particolare sulla problematica dell’intervento con i figli dei migranti. Infine, va tenuto conto del fatto che in letteratura le sigle etnopsicoanalisi, etnopsichiatria e psichiatria trans- culturale vengono a volte utilizzate come sinonimi, mentre in realtà corrispondono ad ambiti culturali e applicativi diversi. In genere i primi due si riferiscono a quanto elaborato da George Devereux e da Tobie Nathan, il terzo termine viene utilizzato nell’ambito della ricerca anglosassone. Spostandoci in Italia, anche qui le ricerche e gli interventi in ambito etnopsicologico hanno avuto sviluppi considerevoli. Già a partire dagli anni ‘50, sotto lo stimolo dell'antropologo e filosofo Ernesto De Martino, sono stati effettuati studi e ricerche sul mondo magico e sui rapporti tra l’antropologia e la psiche. Giovanni Jervis collaborò alle ricerche di De Martino sul tarantismo pugliese; Michele Risso e Wolfgang Boker si occuparono di psicopatologia delle migrazioni presso le comunità d’immigrati in Svizzera; l'etnologo Vittorio Lanternari studiò gli stretti legami tra medicina, magia e religione. Un’eccellente attività di ricerca e d’intervento originale e feconda, e d’ispirazione nathaniana, continua ad essere svolta da Piero Coppo che ha compiuto lunghi anni di attività scientifica e terapeutica in Mali; dall'etnopsichiatra Salvatore Inglese, con precisi interventi sulla psicopatologia trans-culturale e sulla psichiatria in tempo di guerra; da Giuseppe Cardamone e dallo psicologo Sergio Zorzetto, con interessanti interventi sulla psichiatria di comunità; e dal gruppo di lavoro che si raccoglie attorno all'Associazione Oriss, che pubblica la rivista I fogli di Oriss. E’ importante anche il contributo di Roberto Beneduce, con considerevoli studi sulla possessione in Africa e sulla patologia delle migrazioni e di Natale Losi. 9
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia 1.3 RIFERIMENTI LEGISLATIVI Premessa: Generalmente con il termine IMMIGRAZIONE si definisce ogni movimento migratorio individuale o di massa originato da motivi economici, di studio, di lavoro o dall'intento di fuggire da situazioni conflittuali del proprio Paese che porta a stabilirsi, in via temporanea o definitiva, in un luogo diverso da quello di origine. L'immigrazione in Italia è un fenomeno abbastanza recente. Per oltre un secolo terra di emigrazione, il nostro Paese si trova di fronte ad un repentino cambiamento di ruolo ed è chiamato a misurarsi, sul piano culturale e politico, con l'afflusso crescente di uomini e donne di culture, usi e religioni assai diverse tra loro così che l'espressione "società multietnica" è diventata una realtà quotidiana. Sul piano storico, l'arrivo dei primi flussi migratori cominciò nei primi anni '70 con l'inizio della crisi del petrolio. L'Italia venne scelta dagli immigrati che non potevano più raggiungere i ricchi paesi dell'Europa centro-settentrionale a causa delle politiche restrittive e della chiusura delle frontiere da parte degli Stati più industrializzati. Dalla seconda metà degli anni ‘80, l'Italia vide aumentare in maniera esponenziale il numero degli ingressi di cittadini stranieri. Da allora l’immigrazione iniziò ad essere percepita dall'opinione pubblica come un problema e gli studiosi intrapresero ricerche più approfondite sulla condizione degli immigrati. L'Italia, a differenza di altri Stati europei solo da pochi anni si è impegnata ad elaborare politiche sull'immigrazione; durante gli anni '70 e la prima metà degli anni '80, lo Stato preferì "non decidere" in materia di immigrazione, lasciando al libero gioco delle forze di mercato il compito di regolamentare i flussi migratori e agli enti locali ed alle organizzazioni assistenziali quello di affrontare, in qualche modo, le emergenze con centri di prima accoglienza, mense, dormitori. Le politiche che vennero adottate non tennero sufficientemente conto dei bisogni e soprattutto dei diritti di chi proveniva da un altro Paese, fornendo prevalentemente assistenza caritatevole in assenza di una legge specifica, in cui l'unica soluzione era spesso individuata nell'espulsione con il ritorno immediato nel Paese di origine. La prima legge in materia di immigrazione risale alla fine del 1986, periodo nel quale si avvertiva la necessità di un intervento da parte dello Stato che esprimesse la volontà di regolarizzare i flussi migratori, tenendo conto anche dei diritti degli stranieri. 10
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Riferimenti legislativi Ripercorrendo l’evoluzione normativa in materia di asilo il punto di partenza si può individuare nel dettato costituzionale: l’articolo 10 comma 3 della Costituzione riguarda i diritti di asilo e prevede che: “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Di seguito verranno riportate altre tappe cruciali di questo processo: Il 28 luglio 1951 l’Italia firmò la Convezione di Ginevra: pilastro del sistema di asilo che affrontò per la prima volta la questione relativa ai rifugiati nel dopoguerra. L’Italia aderì alla Convezione di Ginevra attraverso la legge di autorizzazione alla ratifica n. 722 del 24 luglio 1954. È con la Legge Martelli che ci fu un punto di svolta nel campo del diritto di asilo e sul tema, fino ad allora inedito, dell’accoglienza dei richiedenti asilo, in termini più generali, nella regolamentazione della disciplina della condizione giuridica dello straniero. Legge 28 febbraio 1990 n. 39 fu la prima norma Nazionale in cui venne affrontato il tema del Diritto di Asilo. Nel luglio del 1999 l'esperienza isolata delle comunità virtuose che avevano spontaneamente predisposto forme di accoglienza integrata a favore dei soggetti rimasti esclusi dalle strette maglie del circuito di accoglienza governativo, assunse una dimensione strutturata grazie all'approvazione del progetto “Azione Comune”, avviato con il sostegno dell'Unione Europea e del Ministero dell'Interno in favore degli esuli kosovari. Il progetto venne affidato al Consiglio Italiano per i Rifugiati, che lo realizzò in partenariato con altre associazioni ed enti di tutela attivi sul fronte dell'accoglienza. Il progetto Azione Comune "rappresentò la sperimentazione di una metodologia in base alla quale si sono successivamente costituiti i sistemi di accoglienza istituzionalizzati e più strutturati: il Programma Nazionale Asilo (PNA), poi evolutosi in Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR)". Nel 2002 venne approvato un importante intervento legislativo di modifica della normativa vigente in materia di immigrazione, contenente al suo interno disposizioni concernenti il diritto di asilo. La Legge 30 luglio 2002 n.189, meglio nota come Bossi-Fini, rappresentò un inasprimento della condizione giuridica dello straniero in Italia. Il tema dell'asilo divenne un punto a sé; affrontato in via diretta, seppur non organica, dettando un ordine nella procedura di riconoscimento dello status e gettando le basi per la realizzazione di un sistema di accoglienza a livello nazionale. L'Italia, a partire dalla fine degli anni '80 del secolo scorso, partecipò ai primi trattati intraeuropei incidenti anche sulla materia della protezione politico-umanitaria aderendo tanto all'Accordo di 11
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Schengen del 1985 quanto alla Convenzione di Dublino del 1990. Il primo nacque dal dibattito sorto sul finire degli anni '80 riguardante il concetto di libertà di movimento delle persone all'interno dell'Unione che portò a una graduale eliminazione dei controlli alle frontiere comuni. Con l’entrata in vigore della Convenzione di Schengen nel 1995, di ratifica dell'Accordo del 14 giugno 1985, venne sancita l'abolizione delle frontiere interne degli Stati firmatari, creando un'unica frontiera esterna dove i controlli delle migrazioni sarebbero avvenuti sulla base di regole comuni riguardanti il tema dei visti d'ingresso, soggiorni brevi, controlli alle frontiere e richieste di asilo. Quanto a quest'ultimo aspetto, la Convenzione gettava le basi per la determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di asilo, una questione affrontata specificamente nella Convenzione di Dublino siglata il 15 giugno 1990 ed entrata in vigore nel 1997 per gli Stati firmatari. La Convenzione di Dublino si propose di dare risposta a due fenomeni, conseguenza indiretta del sistema Schengen. Il primo, noto come asylum shopping, consistente nella tendenza dei richiedenti asilo a ricercare lo Stato membro che offra condizioni più permissive per il conferimento dello status. Il secondo volto a risolvere il fenomeno dei 'rifugiati in orbita', imponendo che sussista in capo a un determinato Stato membro l'obbligo di esaminare una domanda di asilo, evitando che la competenza venga rimbalzata di Stato in Stato, senza alcuna presa di responsabilità. Nel 1997 tramite il Trattato di Amsterdam prese avvio la cosiddetta "comunitarizzazione" della materia, ovvero il passaggio della materia dall'area intergovernativa alla competenza comunitaria. La legge 6/03/98 n.40 guarda in modo particolare all'integrazione sociale e ai diritti-doveri degli stranieri, facendo emergere la consapevolezza nella società contemporanea che non è più possibile evitare questa realtà e che bisogna cercare nuovi strumenti per costruire un dialogo con le altre culture. Nella legge sono inserite innovazioni importanti, per quanto concerne le misure d'integrazione, quale, ad esempio, la carta di soggiorno, un documento che permette di rimanere a tempo indeterminato dopo 5 anni di permanenza con regolare permesso di soggiorno. La legge prevede, quindi, che l'espulsione possa essere disposta solo per gravi motivi di ordine pubblico e che lo status di titolare di carta di soggiorno si estenda anche al coniuge e ai figli minori conviventi. Il ricongiungimento familiare viene garantito e si allarga la sfera dei parenti che ne può usufruire. Quanto all'assistenza sanitaria, lo straniero regolarmente soggiornante ha parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani. Ai minori presenti sul territorio, regolari e clandestini, tra le altre forme d tutela è esteso l'obbligo scolastico. Per tutti gli stranieri, infine, è prevista un'azione civile contro qualsiasi atto di discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi. Oltre alle diverse esigenze oggettive di controllo dei flussi migratori, con questa legge 12
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia cambia anche la sensibilità di fronte allo straniero: da lavoratore utile per l'economia del Paese, a persona desiderosa di creare un nuovo progetto di vita nel nostro territorio e che quindi ha bisogno di strutture sociali e culturali. Inoltre, il Dlgs n. 286/1998 stabilisce all’articolo 2 che la tutela dei diritti fondamentali della persona non possa essere limitata al solo cittadino italiano, ma debba essere estesa anche ai cittadini degli altri Stati ed agli apolidi. Nel 1999 si tenne il Consiglio europeo di Tampere da cui scaturirono importanti conclusioni sul tema dell'asilo. In particolare venne introdotto per la prima volta il concetto di Common European Asylum System (CEAS), ovvero l'istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull'applicazione della Convenzione di Ginevra in ogni sua componente, garantendo in tal modo che nessuno venga esposto nuovamente alla persecuzione, ossia mantenendo il principio di non- refoulement. Nell'arco del quinquennio successivo furono adottati atti normativi di fondamentale importanza che gettarono le basi del Sistema Comune di Asilo: il Regolamento di Dublino n. 343/2003, che andò a sostituire la Convenzione di Dublino del 1990, concernente i criteri e i meccanismi volti alla determinazione dello Stato membro competente per l'esame della domanda, la Direttiva 2003/9/CE relativa alle misure minime per l'accoglimento dei richiedenti asilo (Direttiva Accoglienza), la Direttiva 2004/83/CE relativa all'attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale (Direttiva Qualifiche), la Direttiva 2005/85/CE sulle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato (Direttiva Procedure). Rilevante anche le Direttiva 2001/55/CE del 21 luglio 2001 sulle misure di afflusso massiccio di sfollati. Terminato il completamento di questa prima fase di armonizzazione, la Comunità Europea ritenne necessario avviare una riflessione al fine di determinare in quale direzione il CEAS dovesse muoversi. Nel 2007, con l'elaborazione del Green Paper sul futuro regime comune in materia di asilo, prese avvio la seconda fase di implementazione del Sistema Comune. Sulla scorta di questo documento la stessa Commissione Europea approvò un Piano Strategico sull'Asilo, presentato nel Giugno del 2008, in cui vennero individuati i tre pilastri sulla cui base sviluppare il sistema: rafforzare l'armonizzazione degli standard di protezione avvicinando ulteriormente la legislazione in materia di asilo degli Stati membri; garantire e supportare una cooperazione effettiva tra gli stessi; incrementare la solidarietà ed il senso di responsabilità tra gli Stati membri e tra gli Stati Europei ed extra-Europei. La seconda fase del CEAS venne confermata dal Programma di Stoccolma del 2009 e con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nello stesso anno. 13
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Il sistema di accoglienza dei migranti nel territorio italiano è disciplinato dal decreto legislativo n. 142/2015, adottato in attuazione delle direttive europee 2013/32/UE e 2013/33/UE. Successivamente, alcune integrazioni e modifiche sono state apportate dapprima dal D.L. 13/2017, che ha previsto alcuni interventi urgenti in materia di immigrazione, poi dalla L. n. 47/2017 sui minori stranieri non accompagnati e dal D.Lgs. n. 220/2017. Nell'attuale legislatura, il D.L. 113/2018 (ovvero, decreto immigrazione e accoglienza) ha introdotto ulteriori modifiche, che vedremo in seguito, che riformano in parte l'impianto complessivo del sistema. La cornice normativa riflette il modello di accoglienza «diffusa» e basata su regole definite al di fuori di una logica emergenziale, già emerso nell'Intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 10 luglio 2014 da Stato, regioni ed enti locali, nella quale era stato concordato il " Piano operativo nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari". Il sistema di accoglienza dei migranti si fonda, in primo luogo, sul principio della leale collaborazione, secondo forme apposite di coordinamento nazionale e regionale, basate sul Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell'interno con compiti di indirizzo, pianificazione e programmazione in materia di accoglienza, compresi quelli di individuare i criteri di ripartizione regionale dei posti da destinare alle finalità di accoglienza. La primissima fase, antecedente alla accoglienza vera e propria, consiste nel soccorso e prima assistenza, nonché nelle operazioni di identificazione dei migranti, soprattutto nei luoghi di sbarco (art. 8, co. 2, D.Lgs. n. 142 del 2015). In base agli impegni assunti dallo Stato italiano nell'ambito dell'Agenda europea sulla migrazione, adottata nel 2015, tali funzioni sono svolte nelle aree chiamate hotspot (punti di crisi) allestite nei luoghi dello sbarco per consentire le operazioni di prima assistenza, screening sanitario, identificazione e somministrazione di informative in merito alle modalità di richiesta della protezione internazionale o di partecipazione al programma di relocation. Ai sensi del decreto, tale funzione è svolta nei centri di prima accoglienza (CPA) o Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) allestiti all'epoca dell'emergenza sbarchi in Puglia nel 1995 ai sensi del D.L. 30 ottobre 1995, n. 451, conv. da L. n. 563/1995 (legge Puglia). Nell'ambito delle misure di accoglienza, il decreto n. 142/2015 riserva una particolare attenzione ai soggetti "portatori di esigenze particolari" (cosiddette persone vulnerabili, il cui novero è ampliato rispetto al passato), per i quali sono introdotti specifici accorgimenti nella procedura di accoglienza e di assistenza. Così, nell'ambito dei centri governativi sono attivati servizi speciali di accoglienza, assicurati anche in collaborazione con la ASL competente per territorio, che devono garantire misure assistenziali particolari e un adeguato supporto psicologico. Tra tutte le categorie di vulnerabilità, disposizioni particolari sono riservate all'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (MSNA). 14
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Per quanto riguarda le condizioni materiali di accoglienza, il decreto legislativo n. 142 si preoccupa di assicurare livelli di accoglienza uniformi sul territorio nazionale e garantire la trasparenza delle procedure di affidamento dei centri, rinviando ad un decreto ministeriale la definizione di uno schema di capitolato di gara d'appalto per la fornitura dei beni e dei servizi relativi al funzionamento di tutte le strutture di accoglienza. Tale decreto è stato adottato dal Ministero dell'interno con la collaborazione dell'Autorità nazionale anticorruzione - ANAC (D.M. 7 marzo 2017). Gli ultimi sviluppi legislativi in Italia: I dati consuntivati nel DEF 2018 confermano che negli ultimi anni le presenze di migranti nelle strutture di accoglienza italiane hanno visto un andamento crescente, dalle 176 mila unità attestate a fine 2016 alle oltre 183 mila a fine 2017, con picchi fino a oltre 193 mila a settembre 2017. La maggior parte dei rifugiati è ospitata in strutture provvisorie (CAS), poiché i servizi convenzionali a livello centrale e locale hanno capienza limita. Rispetto all’elevato numero dei richiedenti asilo presenti nelle strutture di accoglienza, a fronte della sensibile contrazione dei flussi migratori (fenomeno registrato a partire dal 2017 e consolidato nel 2018) il Governo si è impegnato ad una rivisitazione del sistema di accoglienza, anche mediante la razionalizzazione dei servizi (si v. comunicazioni del Ministro dell’interno sulle linee programmatiche del suo dicastero alle Commissioni congiunte affari costituzionali di Camera e Senato, 25 luglio 2018). In tale direzione si muove la direttiva del Ministero dell’interno del 23 luglio 2018, che ha come oggetto la rivisitazione dei servizi di accoglienza per richiedenti asilo, tra cui: l’individuazione dei servizi prestazionali per gli ospiti delle strutture di prima accoglienza, in coerenza con le dimensioni e le tipologie di struttura (individuali o collettive), definendone il valore di riferimento; l’inclusione, nei servizi di base di accoglienza comuni, oltre all’alloggio e al vitto, della cura dell’igiene, dell’assistenza generica alla persona (mediazione linguistico-culturale, informazione normativa), della tutela sanitaria e di un sussidio per le spese giornaliere; l’esigenza di porre particolare attenzione alla determinazione delle basi d’asta dei servizi, da individuare sulla scorta dei prezzi standard di riferimento stabiliti da centrali di committenza, ovvero indicati dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) nelle proprio delibere, con valenza regolatoria finalizzata al risparmio della spesa. La revisione dei servi di accoglienza è proseguita con alcune disposizioni contenute nel D.L. 113 del 2018 (ovvero, decreto sicurezza e immigrazione) che riservano i servizi di accoglienza integrata sul territorio 15
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia (ovvero, seconda accoglienza) predisposti dagli enti locali e finanziati con il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo (ovvero, Fondo SPRAR) solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati. Possono accedere a tali servizi anche i titolari dei permessi di soggiorno “speciali” per motivi umanitari previsti dal Testo unico in materia di immigrazione, come ridisciplinati dal medesimo decreto legge, a condizione che tali soggetti non accedano a sistemi di protezione specificamente dedicati. Rispetto al quadro normativo previgente, restano invece esclusi dall’ambito di applicazione dei servizi territoriali i richiedenti asilo (ossia gli stranieri che hanno presentato una domanda di protezione internazionale sulla quale non è ancora stata adottata una decisione definitiva). Ulteriori interventi di razionalizzazione sono previsti dalla legge di bilancio per l’anno 2019 (L. 145 del 2018) che demanda al Ministero dell’interno di provvedere sia alla razionalizzazione della spesa per la gestione dei centri per l’immigrazione (tenuto conto della contrazione del fenomeno migratorio), sia alla riduzione del costo giornaliero di accoglienza dei migranti (art. 1, co. 767). Fino alla riforma introdotta dal D.L. 113/2018, l'accoglienza vera e propria dei richiedenti di asilo si articolava a sua volta in due fasi: la fase di prima accoglienza per il completamento delle operazioni di identificazione del richiedente e per la presentazione della domanda di asilo, all'interno dei cosiddetti centri governativi di prima accoglienza (art. 9) ed una fase di seconda accoglienza e di integrazione, assicurata, a livello territoriale, nelle strutture del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), dove erano accolti coloro che avevano già fatto richiesta del riconoscimento della protezione internazionale (e anche coloro ai quali detto status era stato riconosciuto) e che non dispongono di mezzi sufficienti di sostentamento. Sul fronte dell'attuazione, la Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza istituita alla Camera nel corso della XVII legislatura ha evidenziato una non allineata corrispondenza tra il modello teorico stabilito dal D.Lgs. n. 142 del 2015 e la realtà del sistema. L'indagine svolta ha fatto emergere, a 2 anni dall'approvazione del decreto, l'eccessivo ricorso ai centri di accoglienza straordinaria (CAS) ed una ristretta adesione ai progetti SPRAR da parte degli enti locali, nonostante gli interventi normativi ed amministrativi volti ad incentivare i comuni in tal senso. Ciò che ha indotto la Commissione, anche in considerazione di ulteriori fattori di criticità, a suggerire adeguati correttivi per garantire la realizzazione del modello di accoglienza tracciato dal D.Lgs. n. 142/2015 ( Doc. XXII-bis, n. 21). Con le novità introdotte dal citato decreto legge 113 del 2018, la distinzione tra le due fasi è sostanzialmente eliminata, in quanto la riforma riserva i servizi di accoglienza degli enti locali che aderiscono a quello che veniva definito SPRAR ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati, escludendo dalla possibilità di usufruire dei relativi servizi i richiedenti la protezione internazionale. Una disposizione transitoria consente che i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria già presenti nel Sistema di protezione (SPRAR) alla data di entrata in vigore del decreto-legge possono rimanere in 16
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia accoglienza nel Sistema fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso, già finanziato. I minori non accompagnati richiedenti asilo, al compimento della maggiore età, potranno rimanere nel Sistema fino alla definizione della domanda di protezione internazionale. All'esito di tale intervento, i richiedenti protezione internazionale, a meno che non ricorrano le condizioni che necessitino il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR), possono accedere solo alle misure previste nell'ambito dei centri governativi di prima accoglienza, che hanno la funzione di consentire l'identificazione dello straniero (ove non sia stato possibile completare le operazioni negli hotspot), la verbalizzazione e l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportino speciali misure di assistenza. Tale funzione è assicurata dai centri governativi di nuova istituzione, previsti dal decreto legislativo n. 142/2015 sulla base della programmazione dei tavoli di coordinamento nazionale e interregionali (art. 9) e, in prima applicazione, dai centri di accoglienza già esistenti, come i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) e i Centri di accoglienza (CDA). L'invio del richiedente in queste strutture è disposto dal prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno. In caso di esaurimento dei posti nei centri governativi, a causa di massicci afflussi di richiedenti, questi possono essere ospitati in strutture diverse dai centri governativi di accoglienza. La natura di queste strutture, denominate CAS (centri di accoglienza straordinaria), è temporanea e l'individuazione viene effettuata dalle Prefetture, sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura. In totale sono 40 gli articoli che formano il testo del D.L. 113 del 2018 (ovvero, Decreto Sicurezza e Immigrazione). Di seguito verranno elencati i punti fondamentali del testo riguardanti il tema immigrazione: Richiesta di asilo politico: vengono aumentati quel tipo di reati che annullano la sospensione della richiesta di asilo politico, dopo una condanna in primo grado, portando all’espulsione immediata. I reati in questione sono violenza sessuale, spaccio, furto e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. Abolizione protezione umanitaria: al momento la norma può garantire, in caso di situazioni di emergenza umanitaria, un permesso di soggiorno ai cittadini stranieri che ne fanno richiesta. Inizialmente si pensava a una abolizione e a una sostituzione con un permesso di soggiorno della durata di un anno per motivi civili o di calamità naturali nei paesi di origine. Alla fine invece si è optato per un “procedimento immediato innanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale“ Trattenimento nei centri per il rimpatrio: raddoppiati i tempi da un massimo di 90 giorni a 180 giorni. Revoca della cittadinanza: se una persona viene ritenuta un possibile pericolo per lo Stato, potrebbe scattare la revoca della cittadinanza in caso di condanna in via definitiva per reati legati al terrorismo. 17
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia In più, una domanda di cittadinanza potrà essere rigettata anche se presentata da chi ha sposato un cittadino o cittadina italiana. Patrocinio gratuito: niente patrocinio gratuito per un migrante se il suo ricorso contro il diniego della protezione umanitaria viene dichiarato inammissibile. Fondi per i rimpatri: stanziati 500.000 euro per il 2018, 1,5 milioni per il 2019 e 500.000 euro per il 2020. Gli SPRAR ora chiamati SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati): i piccoli centri che ospitano i migranti, sotto l’egida dei Comuni, non potranno più accogliere i richiedenti asilo ma soltanto minori non accompagnati e chi ha già ricevuto la protezione internazionale. Riferimenti legislativi regione Marche Il Servizio regionale delle Politiche sociali è articolato sulla base del modello previsto dalla L. 328/00 e recepito dalla Regione Marche con L.R. 32/2014. La Regione ha funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo in materia di servizi sociali intendendo per essi “gli interventi e le prestazioni coordinati nei diversi settori della vita sociale, aventi come scopo la promozione del benessere della persona con riferimento alla conservazione e allo sviluppo delle capacità di ciascuno a svolgere una vita di relazione in un ambiente idoneo e sicuro. Sono esclusi gli interventi e le prestazioni assicurati dal sistema previdenziale e da quello sanitario nonché quelli assicurati in sede di amministrazione della giustizia” (art. 2 L.R. 32/2014) ; Il sistema è articolato in 23 Ambiti Territoriali Sociali (ATS) che aggregano più Comuni attraverso modalità istituzionali diversificate (aziende, unione dei comuni, Unioni Montane, accordi di programma, convenzioni con istituzione di uffici comuni etc.) ai quali viene affidata la funzione di programmazione in materia di politiche sociali e costituisce il luogo della gestione associata dei servizi sociali. Gli ATS sono governati dai Comitati dei Sindaci composti dai Sindaci dei Comuni aderenti all’ATS. La Regione determina le linee di programmazione sociale attraverso lo strumento del Piano Sociale Regionale il quale, tra le altre cose, prevede anche le modalità di raccordo tra la programmazione sociale specifica di ATS e la programmazione delle altre politiche di welfare. Con riguardo alle politiche di inclusione sociale per i cittadini stranieri immigrati la legge regionale del 26 maggio 2009, n 13 prevede “Disposizioni a sostegno dei diritti e dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati”, nel rispetto della normativa statale e comunitaria, promuove iniziative volte a garantire agli immigrati e alle loro famiglie, condizioni di uguaglianza con i cittadini italiani nel godimento dei diritti civili nonché a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che ne impediscono il pieno inserimento nel territorio marchigiano. Inoltre, ispira la propria azione alla garanzia delle pari opportunità di accesso ai servizi e alla valorizzazione della consapevolezza dei diritti e dei doveri connessi alla condizione di 18
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia cittadino straniero immigrato. In particolare, le politiche regionali promuovono interventi sociali per garantire l’istruzione, la formazione, il lavoro, la salute, l’accesso all’abitazione, la tutela culturale, l’accoglienza, l’accesso ai servizi, l’informazione e la partecipazione, la tutela dell’associazionismo, secondo i principi sanciti dalla Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, dalla Convenzione internazionale di New York sui diritti del fanciullo, dalla Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e loro famiglie, dal Quadro comune per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi (2005), dal Programma “Europa 2020” per la crescita e l’occupazione. In attuazione di tale legge la Giunta regionale stabilisce annualmente, attraverso un Programma, gli obiettivi e i criteri di riparto dei fondi disponibili, da destinare a interventi e servizi sociali per il target specifico di cittadini stranieri provenienti dai Paesi terzi, attivati dagli Enti Locali. Tali interventi, nel corso degli ultimi anni, sono diventati residuali, indirizzandosi soprattutto verso i target vulnerabili, o verso i nuovi ingressi. In particolare, i destinatari degli interventi previsti sono, oltre ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, anche gli apolidi, i richiedenti asilo, i rifugiati e le loro famiglie che risiedono o dimorano regolarmente nel territorio regionale, i soggetti che hanno usufruito del ricongiungimento familiare ai sensi del D.Lgs n 286/1998, nonché i minori stranieri non accompagnati, i giovani immigrati di seconda generazione e le vittime della tratta e della riduzione in schiavitù. Gli elementi più qualificanti contenuti nella normativa regionale attualmente in vigore sono i seguenti: 1. una rivisitazione della composizione della Consulta regionale degli immigrati (art. 3), valorizzando in particolare le rappresentanze degli immigrati, per rendere il suo funzionamento più snello e, quindi, maggiormente operativo; 2. tra i compiti della Consulta (art. 5) viene prevista la collaborazione con l’Osservatorio regionale per le politiche sociali, di cui all’art. 7, al fine di monitorare costantemente il fenomeno migratorio nella Regione con l’obiettivo di utilizzare i dati a supporto della programmazione regionale; 3. la valorizzazione della figura del mediatore interculturale (art. 15), oggi ampiamente utilizzata, prevedendo il sostegno alla realizzazione di appositi corsi di formazione ed aggiornamento rivolti agli operatori degli enti pubblici e delle associazioni operanti nel campo dell’immigrazione. Con la promulgazione della L.R. 1 dicembre 2014, n 32 “Sistema integrato dei servizi sociali e tutela della persona e della famiglia”, gli interventi e i servizi per l’inclusione sociale e culturale dei cittadini stranieri sono confluiti nel complesso dei servizi di welfare ad accesso universalistico. 19
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia 1.4 REALTA’ ATTIVE INTERNAZIONALI, NAZIONALI E REGIONALI In Italia il sistema di accoglienza si svolge essenzialmente su due livelli: prima accoglienza, che comprende gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, che comprende il SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) – che con il decreto Salvini ha sostituito lo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) – e i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) ibrido tra prima e seconda accoglienza. Per poter accedere presso tali centri, i migranti devono far domanda di Asilo Politico, in caso contrario, è previsto il trasferimento presso i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) recentemente sostituiti dai centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR), dove i migranti possono rimanere fino ad un massimo di 180 giorni. Il SIPROIMI, con il nuovo decreto Salvini, si rivolge solo a coloro che hanno già ottenuto una risposta positiva alla domanda di asilo (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e ai minori stranieri non accompagnati, mentre prima potevano accedervi anche i richiedenti asilo e i tiolari di Protezione Umanitaria. Il grafico che segue intende rendere più chiari questi passaggi. 20
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia RICHIESTA ASILO SI NO Centro di Centri di prima Permanenza e Accoglienza Rimpatrio Centro di Accoglienza QUESTURA Straordinaria COMMISSIONI TERRITORIALI TRIBUNALE Sistema di Protezione per titolari di protezione ACCOGLIENZA internazionale e minori APPROVATA O stranieri non RESPINTA accompagnati 21
Gruppo di lavoro di Etnopsicologia Gli enti locali che intendono aderire al SIPROIMI possono fare domanda per accedere ai fondi ministeriali in qualsiasi momento, rispondendo ad un avviso pubblico sempre aperto. Il Ministero dell’Interno vaglia le domande e in caso affermativo, l’ente locale riceve un finanziamento triennale al fine di attivare un progetto SIPROIMI sul proprio territorio. Ricevute le risorse, l’ente locale pubblica una gara d’appalto per l’assegnazione di tali risorse ad un ente gestore che può essere rappresentato da una cooperativa o da un’associazione (purché ente non profit). Ogni progetto dovrà contemplare “l’accoglienza integrata”, ossia la costituzione di una rete locale per permettere e promuovere le attività di inclusione sociale, scolastica, lavorativa e culturale del migrante. I Comuni che aderiscono allo SIPROIMI non sono molti, per tale motivo e per ovviare alle situazioni di emergenza che si presentano, sono stati introdotti i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), concepiti come strutture temporanee da aprire quando non sia possibile l’accoglienza tramite il sistema ordinario. Gli enti gestori dei CAS possono essere sia profit che non profit e vengono stabiliti dalle prefetture dopo apposite gare d’appalto. Particolare tutela viene messa in atto per le situazione che vedono i minori non accompagnati (MSNA). “Per Minore Straniero non accompagnato si intende il minorenne non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell’Unione Europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte di genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili…” (DPCM 535/99 art. 1). In questi casi, l’iter prevede alcuni importanti punti. Ogni minore straniero non accompagnato deve essere segnalato: alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni; al Giudice Tutelare, per l’apertura della tutela; al Comitato per i minori stranieri, nel caso in cui il minore non abbia presentato domanda di asilo. Secondo quanto riportato sul sito di Save the Children, ai minori stranieri non accompagnati si applicano le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori. Si applicano, tra le altre, le norme riguardanti: - il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri è attribuita, come per i minori italiani, all’Ente Locale (in genere il Comune); - l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità; l’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, può essere disposto dai servizi sociali e reso esecutivo 22
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