PRIMI VOLI - POESIE - TONINO MARIO RUBATTU

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PRIMI VOLI - POESIE - TONINO MARIO RUBATTU
TONINO MARIO RUBATTU

PRIMI VOLI
       - POESIE -

  PREMIO INTERNAZIONALE
 “CITTA’ DI CATANZARO 1976”

   EDITORE GABRIELI
        -ROMA-
PRIMI VOLI - POESIE - TONINO MARIO RUBATTU
PRESENTA ZIONE

    Quando si ha l’occasione di presentare un nuovo volume di poesie, accanto ad
una sensazione delicata, si avverte una forte inquietudine, derivante senza dubbio
dalla responsabilità critica di ciascun uomo. Ciò si verifica, specie per gli autori
validi, proprio perché più alto è l’impegno socio-culturale che le loro opere
contengono.
    Questo discorso indubbiamente vale per Tonino Mario Rubattu e, considerando
che la silloge è la prima di questo autore, l’impegno del critico diventa elevato.
    Rubattu non è nuovo ai premi letterari: un poeta che si è imposto per il suo stile
scarno, non alterato da correnti letterarie o da discorsi metrici. Ma anche se le
liriche non sono legate a questi schemi, la musicalità del verso è talmente alta che,
leggendo il volume, ci sembra quasi di essere a contatto con una opera lirica, con
una strofa di pentagramma che, fluidamente, chiama quella successiva.
    Miseria e ricchezza interiore, dolore e monotonia di cose, s’intrecciano e si
congiungono quasi a creare una sottile sinfonia dove “l’armonica” è il fucile di ogni
uomo e non più “al banchetto / del povero / si mangiano speranze. Di speranze non
si vive ormai!
    Il volume, diviso in due parti, non è altro quindi che un inno all’amore, un
ricercare profondo di stati d’animo (quello dei pastori sardi) e di uomini che da
millenni vengono inseguiti come lepri dai cani.
    La seconda parte, più consistente della prima, rierca cose care al poeta e che,
per questo lento interminabile fluire di secoli, non torneranno più.
    Da ogni lirica, da ogni verso traspare una malinconia delicata, una sensazione
sottile di dolore che, a differenza di altri poeti, Rubattu pone come scudo ad ogni
conflitto attuale (sia esso di natura bellica o morale) innalzando l’animo del lettore
verso cieli più sereni, verso l’Eterno, o meglio, verso Dio!

                                                   VINCENZO URSINI
PRIMI VOLI - POESIE - TONINO MARIO RUBATTU
PARTE 1^

MOTIVI DELLA MIA TERRA
SA R D EGN A

Dal tuo cuore di basalto
spicca leggera l’anima antica.

Sento sulla mia pelle
il bacio del tuo mare,
dolci labbra di sposa innamorata
e felice sussul to alle carezze
delle tue onde di smeraldo.

Dai pascoli di fuoco
mille criniere sfidano i venti.

Per l’aria, che odora d’asfodelo,
corre sereno il perenne belato dei monti
cui fa eco la voce dei padri.

Non è notte la tua notte
se ancora sento canti di pastori
innamorati di caverne scavate da stelle.

Non è notte la tua notte
se al fuoco di allegri falò
danzano ancora i baldi puledri
e pudichi intrecciano promesse d’amore.

No, Sardegna, non è notte la tua
se ancora la reggia di stoppie
offri all’amico, se ancora nel vino generoso
affoghi i tuoi silenzi di pietra.

No, io non credo
che all’ombra delle ciminiere
muterà la tua anima
scolpita
su infiniti spazi vuoti
dal lento fluire dei secoli.

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Poesia 1^ classificata- ex aequo al Concorso Nazionale di Poesi a
“POETI DI IE RI, POETI DI OGGI - Roma, 1975
T R U D D O’
(Ragazzo Sardo)

Io conosco il bimbo più strano del mondo.
E’ Truddò.
La notte è l’ultimo a salutare le stelle,
la mattina è lì, sulla soglia di tufo,
a rubare l’alba alle rondini..
Abbraccia sempre un pane scavato
con dentro le ricchezze del povero.
Tutti i bimbi hanno gli occhi di cielo,
Truddò ha gli occhi neri.
I suoi piedi, schiacciati dai ciottoli,
conoscono già le amare stagioni.
Tutti i bimbi sognano delizie,
Truddò sogna pane, pane soltanto.
Io non l’ho mai visto piangere,
io non l’ho mai visto ridere.
Ogni giorno lo saluto,
gli accarezzo i capelli,
lo guardo negli occhi
e attendo il sorri so.
Truddò non ride,
mi fissa gelido
e vince il mio sguardo.

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Poesia vinci trice del 1° Premio al Concorso Nazionale di Poesi a
per Ragazzi “OTTO e TRE NTA” – ABANO TERME (PD) - 1972
AN CO RA!
  (Al tenero fiore reci so in Terra Sarda
   la notte di un tri ste Capodanno)

Hanno ucci so!
I miei fratelli
hanno ucci so ancora
stanotte.

Le stelle stanotte
han chiuso gli occhi
inorridite.

Stanotte
il gre-gre delle rane
è un lamento di morte.

A nenie amorose
non cedono i bimbi
stanotte.

Non s’odon per l’aria
bisbigli d’amanti
stanotte.

Un nilo di sangue
stanotte
illima
Una Terra dissacrata,
la mia!

Sangue!

Sangue innocente di bimbo
sugge la civetta
stanotte.

A macabra cena
m’invitano
ali nere di pipistrello.

Han rapito.
Hanno ucci so, stanotte.
Ancora!
Ancora i miei fratelli
hanno ucci so i fratelli.

Da tanto.
Da troppo.
PERCHE’?

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Lirica, compresa in una Silloge di 5 poesie ( Ansia di voli, Mamma!,
Ed io continuo a sperare, Natale 1973), premiata con il 1° Premio alla
2^ Rassegna “POETI NUOVI”- CAGLIARI- 1974
PA STO R E          SARDO

Catene di sassi
ti legano
alla solitudine
di sempre.

Avverti l’antico dolore
e al vento,
padrone dei monti,
ne affidi lo sfogo.

Il lentischio
ricopre il tuo cuore.

Dai fianchi scarniti
stilla
avaro
il bianco pane dei figli.

Non fendere
l’aria con spari.

Non serve.

E’ l’armonica il tuo fucile.

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4° Premio al 1° Concorso Nazionale di Poesia “Pi ermarini” – FOLIGNO - 1974
VERSO CIELI         AMICI

In questa mia Terra
ricca solo di sa ssi            E vedo i miei pastori
e fichi d’India                 felici
non c’è posto per te,           tra pianure inondate di verde;
speranza.                       le mie pecore
                                sguazzare come fanciulli divertiti
Illusione                       in mille limpidi torrenti;
è ogni passo nel domani;        i miei contadini
certezza                        cogliere festanti
le pietre e i fichi d’India.    il frutto del lavoro.

Già mi assale il profumo        E vedo le mie spose
delle tamerici in fiore…..      a capo scoperto
ma non sento la vita            lavorare intorno a paiuoli
scorrere nelle vene.            grandi come i loro cuori.

Dolore                          E poi….. (oh, incanto!)
è ogni belato d’agnello,        non sento più le nenie
dolore                          struggenti e desolanti
la terra bruciata,              della mia terra,
dolore
la vita stroncata dal piombo.   ma un coro di gente
                                contenta, innamorata,
Dall’alto di una rupe           cantare al Cielo:
vedo però il sorri so           -Gloria a Dio, nostro Padre;
del mio mare di velluto         gloria a questa Terra, nostra Madre;
e sogno…..                      pace e lavoro a noi, figli del loro
                                Amore.
sogno voli arditi
verso cieli amici               -----
ove la speranza                 Poesia finali sta del Concorso Letterario
non è illusione.                Europeo “San Benedetto” – TERNI -1973
IERI COME OGGI, COME DOMANI

Rughe pensose sul sagrato
uomini soli
come larve in trasparenza
a ricordare una vita grama
spesa nei solchi
a rinverdire annate avare
e vino buono.
Sigari e sputi e mosche.
E un dolce suono di campane
tra un rincorrersi beato
di voci e trilli.
Ieri e oggi
come vita e morte
e un senso d’infinito
vago, impalpabile
e pur sempre voluttuoso!
Improvvi sa
la tromba del banditore
sfilaccia la tela dei ricordi
e chiama alle necessità del presente:
-E’ arrivato il pesce fre sco
da Bore, in piazza.
Angurie dolci e peperoni gialli
da Peppe, in Via Parrocchia.-
“Zio Toe’, zio Toe’, la tromba!
Anche a me, zio Toe’… a me…a me!”
e un codazzo di voci
pressanti
inseguono l’omino di fustagno
che, all’angolo, ripete la filastrocca
tra un correre all’uscio
di comari indaffarate.
Impassibile
un vecchio dà fuoco all’ultimo mozzicone
e, con occhi di fumo,
rincorre una rondine
sin sotto la gronda,
che rinnova la vita.
E pensa ai giorni trascorsi
quando, puledro, volava anche lui
tra i campi di grano…
pensa al’oggi
ai figli
ai figli dei figli
e alla sposa lassù, nel camposanto,
in trepida attesa.
Ora le campane annunciano
l’inizio della messa.
Il sagrato si svuota.
E una pace nuova
imperturbabile
rischiara, nel nome di Dio,
l’attesa del domani.
A SCUOLA

Nei vostri occhi
stampata
l’atavica sarda sventura.
Si nasce
si vive
si muore
col tarlo nel cuore
nell’isola del confino.
Ma voi, no!
No!
Voi non potete
ai figli dei figli
ancora
in silenzio
lasciare vischiosi fardelli.
I vostri sguardi
non chiedo:
vogliono!

NURAGHE

Nella notte dei secoli
nella terra più avara
sei nato
gigante di sasso.

Sul tuo stelo
cavo
non è ancora spuntata
la corolla del domani.

Non può
la mia Terra
partorire fiori.
CENT’ANNI… UN’ORA!
              (1871-1971 – Nel centenario della
                nascita di Grazia DE LEDDA)

Cent’anni…
un’ora per questa Terra antica.
Di tanto
resta soltanto il broncio del vento
sull’uscio di casa
e in un mare di pietre infuocate
dolce
resta la melodia
di una voce senza tempo.
Puledri sciolti
desideri e sogni s’impennano
e come piume
leggeri
volano su rocce e querce
oggi… come allora.
Il dolore affoga nella dimenticanza
e ardente prorompe
un desiderio di corsa sfrenata
e corri… corri contento
tra tanche verdi
senza confini,
calpesti incredulo
l’acqua limpida di mille limpidi torrenti
e cun mano soddi sfatta
accarezzi erba e frutti
dappertutto!
sino a quando stanco
felice
ti sdrai all’ombra di un olivastro
e canti di pastori, di cani,
di cinghiali,
canti di una Terra fortunata,
di un popolo antico
fiero e buono,
canti… canti… fino a notte.
Ma crudele
al primo apparir della Luna
la civetta ti spaventa
e l’incanto si di ssolve.

E’ breve la speranza
sotto un cielo senza nuvole
e oggi come allora,
come sempre
amico
riaffora il pianto.
L’INCANTESIMO E’ ROTTO!
                      (Al poeta A. Sini ed ai lavoratori licenziati in lotta
                      del Villaggio “San Camillo” di Sassari)
                      (1° Premio A ssoluto -su 2.500 liriche- al Concorso Nazionale
                      di Poesi a ”Rhegium Julii “ - Reggio Calabria 1974)

Terra avara è la nostra
e dai basalti
antico trasuda il dolore.
Solo serpi ed avvoltoi
danzano al sole
su carogne putrefatte
e rubano il sale al pane.
Provammo a a correre sui monti:
ci scovarono
ci ucci sero
ci cavarono gli occhi
col pungolo dei buoi.
Scendemmo in miniera
oltre le radici:
ci seppellirono
con mille cariche di grisou.
Varcammo il mare
per cieli di speranza:
trovammo porte chiuse
cuori chiusi
pugni chiusi.

Tornammo allora ai nostri monti
con solo lacrime nella valigia.
Ci accol sero braccia straniere
in Terra nostra,
offrendoci corbule di pane
che era nostro, solo nostro!
Ancora una volta credemmo alle fate
ai sortilegi amici
e ci lasciammo aggiogare.

Erano gli Orchi di sempre
venuti dal mare.
E sono gli Orchi di sempre.
………

Ma non canteremo più
“muttos” di dolore!
Il nostro pane non lieviterà più
al canto di “sa disi sperada”!
L’incantesimo è rotto.
Coraggio, fratelli!
Parte 2^ - PRIMI VOLI

PRELUDIO
(L’alba del dolore)
                 (A Gisella e Lina)

Voci lontane
nell’agonia dell sera
mi parlano
di sogni svaniti
di speranze stracciate.
Il cuore si spaventa
urla
e l’angoscia dell’attesa
l’attanaglia
in una morsa di fuoco.
Carboni accesi
gli occhi
scavano lacrime
in un mare di ricordi
e un vento stizzoso
le scaraventa lontano
come fossero foglie secche.
Intanto
le ombre
cedono alla notte
e con esse
lentamente
avanza il dolore
con ali di civette e d’assioli.

E NASCE LA PAURA

Ad ali larghe
cerco la luce
come falena assetata,
ma ogni volo
è un grido di pietra
che trafigge la notte
e spaventa le streghe.
Il cuore ne scolora.
Gli argini sussultano.
E na sce la paura.
PASSI

Annotta.
Gli ultimi lembi di sole
si sbriciolano
sui ciottoli levigati
di questa tri ste sera
e già in alto, sui tetti,
una Luna fredda, anemica,
propone danze di fantasmi
e d’ombre.

Il viale si svuota
e scheletri d’alberi
allungano le braccia
sull’asfalto inerte
quasi ad afferrare il tempo
che cancella le stagioni.

Ora è già notte
e nel silenzio che dilaga
stancamente
si perdono i miei passi
avidi di quiete.

ANSIA DI VOLI

Avverto un fremere d’ali
tra i rami del pesco
come una brezza di mare.
Ansia di voli
nella pace antelucana,
gioia di cielo
d’amore.
Tra poco
il canto del gallo
squarcerà
l’ultimo silenzio
e un altro giorno ancora
dovremo vivere
e altri sogni
e altre illusioni.
E la luce
come ieri
evocherà fantasmi
e gelido
ci parrà finanche il sole.

……..
Vedasi nota della poesia “ANCORA!”
QUESTO SILENZIO

Cos’è questo silenzio
che mi scava dal profondo
che mi tortura l’anima?
Perché una voce
un fremito
un sussulto
non schianta questo supplizio
sensa fine!
E’ dunque spiga vuota
la mia vita?
Lascia sse almeno un segno di sé
quest’infame silenzio
cui, bene o male,
poter ricondurre il perché
di questa mia fobia di vuoto.
Per quanto ancora
dovrò rincorrere fantasmi
tra diste se di sabbie infuocate,
lungo pendii inaccessibili,
tra grovigli inestricabili?
E tu, silenzio senza fondo,
per quanto ancora
continuerai a sorridermi beffardo
e a dare a me, gabbiano assetato,
polvere di sale soltanto?
Albatro instancabile
la mia pena
veleggia al tuo fianco
nell’attesa sempre più vana
di una voce amica
che venga ad infrangere
la tua cappa di morte.

POZZANGHERE

Specchio
di cieli rabbiosi
stinti.
Stracci d’un attimo
lasciati sulla via
che il vento aggrinzisce.
Memorie
di giovanili duelli
in attesa del sole
di giugno.
Ma il sole,
il sole dov’è?
I MIEI SOGNI

Cavalli
senza criniera
sono i miei sogni.
Vento senza polvere
fuoco senza mani tese
pioggia arida
sono i miei sogni
buttati
su tanche brulle
dove restano
solo
lombrichi distratti
a scavare
fosse profonde più della Morte

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Poesia premiata alla 1^ Edizione del Premio
Letterario Internazionale “CAMPELLO” – Spoleto 1974

OMBRE

Spettri d’ombre
semina
la notte dell’uomo.

Ombre nere
ombre dense
ombre lunghe
intri se
di sangue
di fame
di odio.

Piange
la mia chitarra
e scolora
le note.
IL NATAL E DEI POVERI

Dio dei poveri, stanotte verrai ancora
a rischiarare orizzonti perduti,
a scuotere cuori di plastica
neri di catrame e di smog.
Dio dei poveri, quanti occhi smarriti,
gonfi di pianto, anelano i tuoi vagiti!
Quante mani t’invocano su calvari di strade!
Vieni, o Dio dei poveri, vieni ancora
nelle nostre ca se di paglia, tra coltri di ragno,
col tuo pane di speranza, grande più dei sogni
dei bimbi, col tuo cuore grande
più grande del Mondo.
Vedi, o Dio dei poveri, i ricchi stanotte
han calze ricolme nei camini accesi,
hanno mangiatoie dorate, traboccanti
di balocchi, cassette e panettoni.
Noi non abbiamo che stracci di sogni
nelle calze bucate.
Pure, o Dio dei poveri, se stanotte
giocherai con noi, come l’altr’anno,
tra tele di ragno e neve d’agnelli,
saremo felici, felici sai, come gemme
baciate dal sole di maggio.
E salteremo sui nostri letti d’asfalto,
salteremo di gioia, e i nostri quattro stracci,
o Signore, saranno più lucenti dei mille broccati
di tante chiese di Erodi, e le nostre piaghe
ci parranno solchi profondi stanotte,
le nostre lacrime sementa d’amore.
O Dio dei poveri, vieni tra noi,
vieni ancora, quest’anno.

……
2° Premio al Concorso Nazionale di Poesia
 “Rhegium Julii” – Reggio Calabria 1973)

LE CALDARROSTE

Schioccano
al fuoco
le caldarroste
e l’aria ne profuma.
Due fanciulli
sotto il poggiolo
tremando
attendono
avventori generosi.
Grida il fochista
e col lembo
del pastrano scuro
ripara il braciere
da una pioggia leggera
che lentamente
spazza la via.
UOMO DEL MIO TEMPO

Se vuoi
sprofonderò
nel silenzio.
Se vuoi
non suonerò più
cetre di dolore.
Se vuoi,
uomo del mio tempo,
affogherò
nelle mie lacrime.
Se vuoi,
e lo vuoi,
per sempre
piegherò la testa.
Ma non chiedermi
di barattare
la mia morte.
Io non vendo silenzi.
Guardami con occhi di bimbo
e cederò

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Premiata con Menzione d’Onore al 1^ Concorso
“La Ginestra” – Firenze 1974

E SENTO GIA’ L A FINE

Nel mare dei ricordi
scavo
abissi di sale.
Vedo
i miei sogni di bimbo
putre scenti come alghe
che il mare non vuole
e respinge.
Vedo
le illusioni di ragazzo
stracciate
come incerte scialuppe
da mari gonfi di odio.
Vedo
le mie speranze di Uomo,
onde alte,
rovinare
come torri di Babele.
 E sento gia’ la fine.
ALL’ANGOLO DEL MONDO

Ho portato
il mio cuore
all’angolo del mondo.
Sognavo
di raccattare briciole…
e invece
ho mietuto
mani tese
fremiti repressi
urla soffocate.

KAMPALA 1969
 (Per la vi si ta di S. S. Paolo VI)

Al banchetto
del povero
si mangia
speranza.

RITORNO

Già s’appressa la notte.
Ritorna
a scoprire
le angosce celate,
a destare
i sopiti fanta smi.
Ancora
cederò
alla maliarda.
Ancora
dal suo seno
con mani avide
berrò
silenzi d’ombre
lacrime di stelle.

CORRI…
           (A Lorella)

Ciel i di cristallo
sono gli occhi tuoi,
perle di vita
dimora di sogni
grandi e innocenti.
Corri verso il domani
col passo leggero
di chi non avverte
l’andare rapace del tempo
e nel tuo saltellare
di bimba felice
rivedo i giorni passati,
stagioni beate di canti,
di balli, d’amore.
MAMMA
    (A mia madre)

Quando più tetra è la notte
e più stridula aleggia la civetta,
quando la luce di Dio
così incerta e confusa in questo cuore
vacilla al soffio ferale
di mille dèmoni impietosi
e tutto sembra debba crollare
e farsi cenere eterna,
quando con occhi di pece
avanza la Morte e mi adesca
a speranze di pace infinita
è la Tua mano, Mamma,
alta nel silenzio
a ridarmi la fede di cieli migliori.
E corro allora, corro a stringermi
a Te come quando, bambino, sentivo
i passi dell’orco mannaro dietro la schiena.
E Tu, pallida, tremante, mi accogli
al Tuo seno e mi stringi, mi baci…
e son torrenti d’amore le Tue lacrime,
palpiti di cielo i sussulti del cuore.
Ed io che so del Tuo calvario
di sposa e di madre
mi volto allora a vedere le mie
facili pene, i miei facili dolori,
e mentre, intera, sento la mia fragilità
di Uomo, un canto prorompe da me
riconoscente e riparatore
che è una preghiera all’Eterno
un grido dell’anima che vince
le notti del cuore.

I PIDOCCHI DI SEMPRE
       (Il mietitore)

Un diluvio di sole
t’infuoca la fronte.

Friggono le mani tue
rosse di piaghe
stringendo la falce.

Ronzio d’insetti
punture di vespe
gola bruciata
e sudore,
sudore silente
lievito amaro
d’infinita miseria.

Ansima il fido amico
all’ombra della quercia
generosa
e, rabbioso,
addenta i pidocchi di sempre.
FRATELLO VIET                                     rugate da secoli di dolore
                                                  scrivere sui muri sventrati
Mille bocche di drago                             LIBERTA’
sputano fuoco velenoso                            col sangue dei mariti
sul tuo corpo in cancrena.                        sgozzati dai figli!

Mille cani famelici                               Non vedi che un Mondo
cercano le ossa                                   diviso
della tua carcassa                                confuso
per farne mostra                                  testardo
di sanità d’intenti.                              ti guida alla morte
                                                  per saziare appetiti
E Tu, sventurato, che fai?                        falsi appetiti!
Dimmi che fai, fratello Viet?                     di amore e di giustizia.

Non vedi che Tu,                                  Surge, popolo del Viet!
sì Tu,
aizzi quei lupi                                   Abbraccia il fratello del Nord.
a sbranare i tuoi figli?                          Abbraccia il fratello del Sud.
                                                  Né Nord
Tu,                                               è Sud
Tu per primo                                      Tu sei,
dissa cri Te ste sso                              ma Viet.
in nome di una libertà
che Tu solo                                       Su ritrova Te ste sso,
non altri                                         ritrova il Viet
puoi darti.                                       degli anni di gloria.
                                                  Su, novello Sigfrido,
O Dio!                                            affonda la tua lama
Non vedi i tuoi bimbi                             assetata di pace
i tuoi splendidi bimbi                            nel fianco dei draghi
giocare in pozzanghere di sangue!                 nel fianco dei cani
                                                  nel fianco dei lupi.
Non vedi le tue spose

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Menzione d’Onore al Premio Nazionale di Poesi a
“Città di Rom a” 1972
LA BALL ATA DEL GIRAMONDO
                                            (A Joan Baez, menestrella di dolore e di speranza.)

                                            (1° Premio al XII° Concorso Letterario Nazionale
                                            “Eleonora d’Arborea” – Bologna 1975);
                                            Medaglia d’oro al V° Concorso Internazionale di
                                            Poesia “Nepetia” – Amantea 1974)

Per troppo tempo ho amato la bambagia,
per troppo tempo ho preferito non vedere,
ed ora giro il mondo, fratello,
per farti conoscere ciò che non puoi ignorare.

Io giro il mondo
ed ho visto mille volti stanchi
per strade senza nome
battere i denti e piangere per fame.

Io giro il mondo
ed ho visto mille donne incinte
battere lunghi marciapiedi
e allattare i figli con lacrime soltanto.

Ho vi sto bimbi nudi
io che giro il mondo
strappare dalla bocca di luridi maiali
torsoli di mela e bucce di patate.

Ho vi sto vecchi emaciati
succhiati da mosche schifose
ste si sulla polvere piena di sputi
attendere rassegnati la fine.

Io giro il mondo
ed ho visto i ghetti maledetti e le baracche
infami; ho visto padre e figlia
abbracciati sullo ste sso letto di canne.

E tu, tu che non giri il mondo,
tu che hai una casa di mattoni
e il fuoco acceso,
tu che non mostri il petto allattando,
tu padre soddi sfatto, tu sposa felice,
tu giovane in camice e in toga,
tu che non giri il mondo,
tu, fratello dei miei fratelli,
sai cos’è la lebbra?

L’hai mai vista in faccia?
L’hai mai toccata con le tue mani pulite?

Io che giro il mondo
ho gustato il bacio di un bimbo lebbroso.
Io, io che giro il mondo
so cos’è il profumo della lebbra.

Ed ora che fai? Ti alzi! Scappi!
No, fratello, non temere. Nessuno di loro
sfiorerà la tua guancia paffuta,
nessuno di loro ti porterà via le pantofole.
No, non fuggire! Non fuggire anche tu!
Io che giro il mondo
ho vi sto tanta gente scappare lontano
inseguita da braccia senza mani,
da mani senza dita.

Ho vi sto il Mekong piangere
io che giro il mondo,
e triste gettare nel mare braccia di bimbi,
cuori di sposa,
teste mozze ancora con l’elmo.

Ho voltato ad ogni angolo di strada
io che giro il mondo,
ed ho visto mani tese nella preghiera,
volti affranti trattenere il singhiozzo.

Questo il mio mondo. Questo il tuo mondo.

Ed ora, fratello, ora che avverti
il fetore della tua coscienza
schiava di un egoismo imbelle,
ora verrai con me,
sì verrai!
e sarai anche tu un giramondo,
sì, sarai anche tu un giramondo!

Io ti ho dato la chitarra.

Ed ora va’, fratello, va’,
va’ e suona… suona… suona…

AUTUNNO

Dimessamente
avanza
l’autunno
su tappeti
di foglie smunte
tra ghirlande di fiori
che il ricordo
di care memorie
non vuole appassire,
tra lacrime di brina
appena celate
dal sorridere incerto
di un sole dissanguato.
Felice
il contadino
corona le lunghe illusioni;
del suo vino
a tutti racconta
e nell’oblio dell’ebbrezza
affossa
l’incedere triste del tempo.
LA DIMENSIONE DEL TEMPO

Lentamente
quasi non voglia morire
scorre
quest’ultima parte del giorno.
Di ste so sull’arenaria
osservo
il battere discreto dell’onda
su scheletri d’alghe.
In lontananza
una nave bianca
scivola silenziosa
e per un attimo
mi ruba
l’adagiarsi leggero del sole.
Vuota la spiaggia
accoglie già le prime ombre;
solo un gabbiano
s’attarda
in goffi saltelli…
poi
stende le ali
e con inchini lenti e profondi
pare celebri strani riti
all’ultimo lembo di sole.
Furtiva
pudica
la Luna tesse intanto
un tenue velo di silenzio.
Improvvi so
il canto di un grillo
riporta tutto
nella dimensione del tempo.

IL FULMINE

E’ notte.
La Luna
s’affaccia un po’
e svelta dilegua
dietro una nuvolaglia
densa e minacciosa.
Un grillo,
uno solo,
accenna la sua melodia,
ma lesto
desi ste.
Intanto
cadono le prime gocce
sopite appena
dal greve ululare
d’un cane lontano.
Immersa
raccolta
la campagna attende il rovescio.
Improvvi so
un bagliore
scuote
quest’attimo immobile
e, fallace,
imbianca un cielo stanco
fatto di nuvole.

CIELO DI FEBBRAIO

Già i mandorli
annunciano
la bella stagione.
Anche il mio cuore
smette l’abito
del freddo inverno
per nuove speranze.
Ancora non vedo le rondini
inseguire la vita
pure avverto
un lungo battere d’ali
per mari lontani.
Guardo il cielo di febbraio
rincorrere le ultime nuvole
e anch’io
come pervaso da un desiderio
di luce
riprendo ad inseguire
i sogni di sempre.

CAMPANE

Giorno di festa.
Un suono lieve
spandono per l’aria
le mie dolci campane.
Apro l’animo al divino
e come rosa al sole
tendo le braccia al cielo.
Di fuori
tra profumi d’aranci
i passeri
intrecciano
primavere d’amore.
vivo, vivo,
mie dolci campane!
SERA A PLATAMONA

Già il sole si perde
ai confini della sera
e dai poggi
lattea
s’affaccia
la Luna.
Alitano i canneti
quasi a benedire la notte
che incalza.
Improvvi sa
stridula
una beccaccia
spaventa le rane.

LUCCIOL E

Trascinate dal vento
mille e più lucciole
danzano in trasparenza
nel buio della notte.
Ricordi e niente più.

IV NOVEMBRE

Dalle stele cadenti
cui pietosi ricordi
han divelto le ortiche
risuonano
ancora
adagi di morte,
tri sti singhiozzi
di amare stagioni.
Era vita la morte
era letto illibato
la polvere intrisa di sangue
per te, fante,
educato ai fantasmi.
Suonate, fanfare,
suonate per loro
che dal freddo alabastro
ci mostrano il dito.
Suonate,
suonate per noi
che ancora siam sordi
a quel grido.
Maledetta da tutti,
maledetta per sempre
tu sia, o guerra,
sibilla di morte.
…..
Pure
ai tuoi piedi di gelo
anc h’io
oggi
porto una lacrima e un fiore.
NATAL E 1973

….. e tacerà il cannone
al dolce suono delle ciaramelle
come impietrito
a lacrime di bimbo fatto Uomo.

   Su dune arse di sangue
bucaneve fioriranno in una notte
e un fremito conoscerà la Terra
antico e sempre nuovo.

  Esplode l’ansia repressa
in un grido di pace universale
e mille soldati, come agnelli,
correranno incontro a Te, Cristo-Uomo,
  oltre il filo spinato
a deporre moschetti e mitra e bombe
   e odio e sofferenze.

   L’Uomo prevarrà.
   E sarà festa di cuori, d’intenti,
e gioia di fratelli accomunati
nel segno del più giusto e vivo Amore.

  “Gloria a Dio nell’lto dei Cieli
e pace in Terra agli Uomini di buona volontà…

… finché, nel nome Tuo, un nuovo giorno
non spunti, su ali di colomba,
a vincere le tenebre e la morte.

PAVIA – 24 SETTEMBRE 1974

Ho sentito nella notte
l’urlo nero dell’assiolo
squarciare il silenzio
attonito
delle stelle settembrine.
Ho udito il bosco trasalire
come impazzito
madido di sogni di rugiada.
Il latrare d’un cane
da lontano
porta lamenti
di cuccioli dispersi.
E’ morto un amico.
Un suono di campane
mestamente
cadenza ricordi
affossa speranze.
Una lacrima
nel risveglio antelucano
per un attimo
irrora un pianto secco
a stento repre sso.
Al chiarore dell’alba
gli occhi asciutti
rossi
cercano l’ultima rondine estiva
quasi a voler rincorrere
cieli di speranza
per vie nuove
che il cuore sa
di ritorni impossibili.

MASCHERE E CLOWNS
          (A nonna DE NTI)

Vorrei corre,
correre a perdifiato,
correre verso terre senza tramonti
dove la luce non ha confini
e guardare vicino
guardare lontano
e non scorgere ombre.
Vorrei vedere
l’anina mia
nuda come il cristallo
senza i falsi orpelli
tessuti ad arte
dall’avido ragno.
Sì, vorrei saltare
i freddi oceani del cuore,
vorrei spezzar il duro acciaio
che m’attanaglia i polsi,
vorrei sputare
d’un colpo solo
la rabbia del mondo
che mi vuole lupo fra lupi.
Sì, lo potessi, tornerei
ai miei sogni di bimbo
e a te, nonna,
chiederei ancora
le belle favole d’allora.
Ma quando mi dirai
di lupi mannari
di orchi panciuti
di streghe sdentate
non mi vedrai più scolorire
e cercare il tuo abbraccio,
perché riderò, sai!
riderò
sì riderò
perché è buffo il mondo,
tanto buffo!
e noi non siamo
che maschere tragiche
sul vi so di stupidi clowns.
DESIDERO

Quante volte
vorrei poter svanire
come nebbia al sole
e adagiare nel nulla
i miei mille perché!
Uscire senza essere visto,
dissolversi nel vuoto,
inebriarsi d’infinito
e vagare,
vagare leggero
tra silenzi senza ansie
tra aurore senza tramonti.
Chiudere gli occhi
e non vedere,
il cuore
e non sentire
e, come polvere al vento,
abbandonarsi
in dolci sogni d’immenso.

CIELO DI SETTEMBRE

Voli di rondini
nel cielo settembrino,
guizzi di luce
come pensieri folgoranti,
Stemperata di corallo
l’Asinara
ingigantisce la sera
e una brezza di mare
stancamente
spande profumi
di ginepro e mirto.

PURE NON SO…

Ho appeso al muro la chitarra
per meglio ascoltare la voce del vento.
I rami secchi borbattano nel camino.
Tata pettina il bambolotto.
Apro la porta.
Il vento irrompe
violenta le corde della mia chitarra.
Accordi antichi risuonano
ancora più forte
per muri pallidi di calce
quasi a ricomporre perdute sinfonie.
L’agonia è lenta.
……………
Pure non so se morte cerco diversa
o se invece m’è caro il fingere di morir
del male mio.
ED IO CONTINUO A SPERARE

Mani aperte
nella pace della morte
stringono ancora
polvere umida di pianto.
Urla di bimbi affamati
si spengono arcane
nell’avido gracchiare dei corvi.
Mille labbra
spaccate dal gelo della notte
odo ancora
maledire la vita
e cercare la mamma.
E non re si sto più
al tacito battere
di mille singhiozzi
che squa ssano il petto
buttati nella solitudine amara
di chi ha perso ormai la speranza.
……….
Mille storie di dolore
mi porta il tempo malvagio
ed io continuo a sperare
a sognare nuovi mondi
al mio cuore
che il tempo vuole di sasso.
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