Trombino - Introduzione alla tragedia greca - Libreria Filosofica

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Trombino - Introduzione alla tragedia greca
Mario Trombino
Introduzione alla tragedia greca

1. Cultura religiosa e teatro greco, sotto il segno di Dioniso
E' di particolare importanza che ad Atene sia stata dedicata al dio Dioniso una tra le più importanti manifestazioni della cultura
antica, la tragedia. Le origini di questa forma di teatro e della parola stessa sono oscure. Il termine significa etimologicamente canto
per il capro, con riferimento a Dioniso, il dio che per le sue caratteristiche legate al mondo precivilizzato è rappresentato a volte con
la testa di animale.
Il rapporto con la sfera dionisiaca era molto stretto perché le tragedie erano rappresentate in Atene nel corso delle festività in onore
di questa divinità. Erano quindi sentite come parte di un atto di culto, circondate dalla sacra atmosfera di mistero che pervade ogni
forma di manifestazione religiosa che riguardi il dionisiaco.
La messa in scena delle tragedie seguiva precisi rituali ed aveva un carattere competitivo, perché i poeti erano in gara fra loro. Le
rappresentazioni tragiche duravano tre giorni, mentre un quarto giorno era dedicato alla commedia. In ciascuna delle giornate - dal
mattino alla sera - un solo autore portava sulla scena una trilogia - cioè tre tragedie, dapprima di argomento collegato, poi separato -
ed un dramma satiresco, cioè una rappresentazione di carattere burlesco. Alla fine delle quattro giornate si proclamava il poeta
vincitore.
Alle rappresentazioni partecipava tutto il popolo, in un clima di festa che si prolungava per diversi giorni durante i quali erano
sospese le attività lavorative. E questo doveva accentuare quella sorta di sospensione del tempo che è condizione spirituale
necessaria all'immersione in un mondo mitico-religioso, così come richiesto dall'evento teatrale. Poiché l'intera comunità partecipava
alla festa, essa era un momento di unità del popolo, ed una delle fondamentali funzioni della tragedia era quella di determinare un
ampio consenso dei cittadini alla vita unitaria della polis, che tutti sentivano come propria anche in virtù di questi momenti comuni.

"La tragedia non è solamente una forma d'arte; è un'istituzione sociale che, con la fondazione dei concorsi tragici, la città instaura
accanto ai suoi organi politici e giudiziari. Instaurando sotto l'autorità dell'arconte eponimo, nello stesso spazio urbano e secondo le
stesse norme costituzionali delle assemblee e dei tribunali popolari, uno spettacolo aperto a tutti i cittadini, diretto, interpretato e
giudicato dai rappresentanti qualificati delle diverse tribù, la città si fa teatro; in un certo senso essa prende se stessa come oggetto di
rappresentazione e interpreta se stessa davanti al pubblico. Ma se, così, la tragedia appare radicata più di qualsiasi altro genere
letterario nella realtà sociale, ciò non significa che ne sia il riflesso. Essa non riflette questa realtà: la mette in causa. Presentandola
lacerata, in urto con se stessa, la rende tutta quanta problematica. (...) La tragedia (?) nasce quando si comincia a guardare il mito
con l'occhio del cittadino. (...) Il mondo della città (...) si trova messo in causa e, attraverso il dibattito, contestato nei suoi valori
fondamentali"
(J.-P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia)

2. Il poeta e i cittadini
Il poeta aveva la grande responsabilità di istruire il popolo - proseguendo con questo la tradizione dei poeti omerici, "maestri del
popolo" - perché attraverso la rappresentazione teatrale l'antica tradizione veniva riproposta, dando ai cittadini il senso della
appartenenza ad una comune cultura. I problemi politici e culturali del momento trovavano un'eco sulla scena, ed il poeta poteva
influire sulla formazione della "opinione pubblica" richiamando i cittadini alla meditazione sui valori su cui si reggeva la città antica.
Anche per questi motivi l'organizzazione delle rappresentazioni tragiche era a carico dello Stato, che ne curava tutti gli aspetti.
I poeti agivano quindi al servizio della polis. Essi riflettono con spirito razionale sugli antichi miti, nella compiuta consapevolezza
della autonomia razionale e morale dell'uomo. Eppure l'uomo (sempre al centro con gli dèi della scena teatrale) percepisce se stesso
in balìa di potenze superiori insondabili, la cui forza sperimenta non solo negli eventi oggettivi del mondo, ma anche nella propria
vita interiore, sotto forma di passioni, ansie, ambizioni, conflitti emotivi: ne avverte la potenza e vive il conflitto tra la sua libera
personalità e le incomprensibili e superiori forze da cui si sente dominato.

"Ciò che forse definisce [la tragedia] nella sua essenza è il fatto che il dramma portato sulla scena si svolge contemporaneamente a
livello dell'esistenza quotidiana, in un tempo umano, opaco, fatto di presenti successivi e limitati, e in un aldilà della vita terrestre, in
un tempo divino, onnipresente, che abbraccia ad ogni istante la totalità degli eventi, ora per celarli, ora per scoprirli, ma senza che

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nulla mai gli sfugga né si perda nell'oblio. (...)
Tentare la sorte: nei tragici, l'azione umana non ha in sé abbastanza forza per fare a meno degli dèi, non ha abbastanza autonomia
per pensarsi completamente al di fuori di essi. (...) In questo gioco, che non è lui a condurre, l'uomo rischia sempre di essere preso
nella trappola delle proprie decisioni. Gli dèi gli sono incomprensibili. Quando li interroga per precauzione, prima di agire, ed essi
accettano di parlare, la loro risposta è equivoca e ambigua come la situazione sulla quale si sollecitava il loro consiglio"
(J.-P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia)

Come cittadino, ormai affermatasi la democrazia, l'uomo greco si considera padrone del proprio destino dal punto di vista politico: la
tragedia fiorisce infatti ad Atene nel momento di massimo vigore della democrazia ateniese, tra la vittoria di Salamina e la sconfitta
ateniese nella guerra del Peloponneso. Ma a quale giustizia riferirsi per il governo della città? Che ne è delle antiche tradizioni che
collegavano le leggi tradizionali ad una origine divina, in un mondo in cui sono i soggetti politici individuali, i cittadini in
assemblea, a decidere? Nell'Antigone Sofocle fa dire queste parole ad Antigone, che ha dato sepoltura al corpo del fratello ucciso,
contravvenendo così ad un esplicito ordine del re Creonte:

?Io non credevo che i tuoi divieti fossero
tanto forti di permettere ad un mortale
di sovvertire le leggi non scritte,
inalterabili, fisse degli dèi: quelle che non da oggi
non da ieri vivono, ma eterne:
quelle che nessuno sa quando comparvero.
Potevo io, per paura di un uomo,
dell'arroganza di un uomo, venir meno
a queste leggi davanti agli dèi?
(Sofocle, Antigone, vv. 455 ss.)

3. Eschilo e Sofocle: l'uomo e gli dèi
Nei poeti tragici la ricerca umana dell'essenza del divino nel mondo torna sulla scena della riflessione poetica in stretta connessione
con la impietosa visione del destino dell'uomo e del dolore come condizione propria del vivere. Di fronte alla divinità si pone la
domanda: perché il male vince nel mondo? perché il giusto va in rovina e l'ingiusto vive una vita piena e felice? come può un dio
permettere questo ed essere chiamato giusto? Così ad esempio Eschilo, per il quale la norma morale di origine divina è comunque
(per imperscrutabile che sia) al centro di ogni concezione umana di giustizia, in un mondo in cui sapere è soffrire, si rivolge a Zeus
con queste parole:

Zeus, quale mai sia il tuo nome,
se con questo ti piace essere chiamato,
con questo ti invoco. (?)
Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali,
facendo valere la legge che sapere è soffrire.
Geme anche nel sonno, dinanzi al memore cuore,
rimorso di colpe, e così agli uomini
anche loro malgrado giunge saggezza;
e questo è beneficio dei numi che saldamente
siedono al sacro timone del mondo?
(Eschilo, Agamennone, vv. 160-162, 174-183)

I tragici trattano questi temi non attraverso argomentazioni filosofiche, ma portando sulla scena gli antichi miti, facendo dialogare
uomini e dèi di fronte al pubblico su questioni morali gravissime, indecidibili., ponendo sulle labbra del coro meditazioni poetiche:
esprimono con tono grave ed elevato la percezione che di sé ha l'uomo greco, che sente di essere coscienza libera, come canta

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Sofocle in uno dei passi forse più celebri dell'intera produzione dei tragici greci:

?L'esistere del mondo è uno stupore
Infinito, ma nulla è più dell'uomo
Stupendo. Anche di là dal grigio mare,
tra i venti tempestosi, quando s'apre
a lui sul capo l'onda alta di strepiti,
l'uomo passa; e la Terra, santa Madre,
con l'aratro affatica d'anno in anno
e con la stirpe equina la rovescia.

La tenue prole degli uccelli o quella
Selvaggia delle fiere o la progenie
Abitatrice dei marini abissi
Con intrico di reti a sé trascina
Insidioso l'uomo; e doma scaltro
I liberi animali: piega al giogo
Il crinito cavallo e placa l'impeto
Del toro irresistibile sui monti

La parola, il pensiero come il vento
Veloce, l'indole civile apprese
Da solo e a ripararsi dalla pioggia
E dai freddi sereni della notte;
fatto esperto di tutti, audace corre
al rischio del futuro: ma riparo
non avrà dalla morte, pur vincendo
l'assalto d'ogni morbo inaspettato

Fornito oltre misura di sapere
D'ingegno e d'arte, ora si volge al male,
ora al bene; e se accorda la giustizia
divina con le leggi della terra
farà grande la patria. Ma se il male
abita in lui superbo, senza patria
e misero vivrà: ignoto allora
sia costui alla mia casa e al mio pensiero?
(Sofocle, Antigone, vv. 332 ss.)

Poiché la cultura del mito riflette su un piano eroico e divino l'esperienza dell'umanità, lo spettatore è portato ad immedesimarsi, a
meditare anch'egli sul messaggio del poeta, guidato dalla suggestione fortissima del teatro, della sceneggiatura, dell'atmosfera
magica che la rappresentazione greca sa creare nella cornice quasi incantata dello spazio scenico. Che la tragedia produca i suoi
effetti attraverso una sorta di incantesimo della parola è riflessione già antica: come sappiamo, la fa propria il sofista Gorgia:

?Fiorì allora la tragedia e fu celebrata dai contemporanei come audizione e spettacolo mirabile, poiché creava con le sue finzioni e
passioni un inganno ? dice Gorgia ? per il quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi
non è ingannato?
(Il frammento è riportato da Plutarco)

Accanto al rapporto tra l'uomo e la divinità, i tragici hanno poi portato sulla scena il conflitto che insorge nell'uomo tra la propria

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libertà - carattere irrinunciabile della persona, senza la quale l'uomo non è uomo - e l'impersonale destino che sovrasta ogni cosa e
guida ogni evento.
L'uomo vive in un mondo dominato dalla Moira, l'impersonale fato, eppure è libero. Quanto ci accade intorno - le condizioni nelle
quali l'uomo si trova a vivere e che lo costringono a prendere decisioni a volte estremamente gravi - non è opera del singolo. L'uomo
si trova in una determinata situazione, a volte vi nasce, come accade per le famiglie in cui le colpe dei padri ricadono sui figli. E'
responsabile delle sue scelte? O il dominio del fato grava anche sull'uomo, sulle sue passioni e sulla sua stessa mente, rendendolo,
mentre crede di essere libero, strumento "oggettivo" del fato? O al contrario la libertà dell'uomo è tanto ampia da permettergli di
combattere contro il destino? Proprio questo, infatti, accade sulla scena: l'eroe tragico combatte come persona contro il destino,
anche se ciò spesso lo conduce alla morte. Ma questa è la sua dignità, il suo onore.

"Nella prospettiva tragica, agire (...) [significa] entrare nel gioco di forze soprannaturali delle quali non si sa se preparino,
collaborando con voi, il vostro successo o la vostra rovina. (...) Perché vi sia azione tragica occorre che si sia già sviluppata la
nozione di una natura umana avente caratteri suoi propri, e che di conseguenza i piani umano e divino siano abbastanza distinti per
contrapporsi; ma bisogna anche che non cessino di apparire inseparabili. Il senso tragico della responsabilità sorge allorché l'azione
umana forma l'oggetto di una riflessione, di un dibattito, ma non ha acquisito uno statuto sufficientemente autonomo per bastare
compiutamente a se stessa. La sfera propria della tragedia si colloca in questa zona di confine, ove gli atti umani vengono ad
articolarsi con le potenze divine e rivelano il loro vero senso, ignorato da coloro stessi che ne hanno preso l'iniziativa e ne portano la
responsabilità, inserendosi in un ordine che oltrepassa l'uomo e gli sfugge"
(J.-P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia)

Nelle Eumenidi Eschilo rappresenta la vicenda di Oreste, che ha ucciso la madre Clitennestra, colpevole di avere a sua volta ucciso
il marito, Agamennone. E' colpevole Oreste? Se non lo è, canta il coro delle Erinni, divinità che puniscono i delitti familiari,

?Vedrete voi ora a quali rovine porteranno
Le nuove leggi se la causa ? il delitto ?
Di questo matricida dovrà prevalere.
Agli uomini sarà facile ogni audacia
Dai propri figli i genitori ferite e morti
Si dovranno d'ora innanzi aspettare. (?)
La casa di Giustizia è crollata?
(Eschilo, Eumenidi, vv. 490 ss.)

Eppure Oreste ha agito spinto dall'oracolo di Apollo; così si difende:

?Ritornato poi io, dopo il lungo esilio, a casa
uccisi mia madre. Non nego questo:
morte con morte a vendetta del padre amato.
Di ciò che feci fu mio complice Apollo:
pungoli erano al mio cuore le sue profezie
che mi predicevano dolori atroci
se non avessi eseguito i suoi ordini
contro i colpevoli. Era giusto?
Non era giusto? Tu giudica.
(Eschilo, Eumenidi, vv. 480 ss.)

Oreste si difende esponendo le sue ragioni e richiamandosi al responso di Apollo, che coincide con la sua scelta. Due "giustizie"
sono poste a confronto, e la soluzione del caso sembra comunque portare a una frattura nell'ordinamento morale del mondo: se
Oreste verrà assolto, un matricidio rimarrà impunito e questo implica una frattura nell'ordine morale del mondo, una infrazione alla
dike; se Oreste verrà condannato e ucciso, altro sangue sarà versato e quindi la catena delle vendette e del sangue non avrà termine.
Libertà dell'uomo e destino si confrontano.

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La soluzione è opera di Atena, che prende su di sé la decisione di assolvere Oreste, dopo che il tribunale ateniese (l'Areopago) ha
emesso un verdetto di parità. Oreste è assolto, ma le dee della vendetta, le Erinni, saranno onorate dalla città di Atene, dove avranno
santuario e culto. Saranno così placate e restaurate nei loro diritti, infranti per non aver potuto vendicarsi di Oreste. Esse si
trasformano da Erinni in Eumenidi, cioè da vendicatrici in benevole. Giustizia divina e giustizia umana possono armonizzarsi, il
conflitto dell'uomo col suo destino non è insanabile. Oreste può così ottenere la conciliazione con il suo destino. Allo stesso tempo
Eschilo esalta il ruolo della città, con le sue leggi che si armonizzano con quelle del cosmo:
"La comunità è esaltata nell'atto in cui coraggiosamente si assume la responsabilità di giudicare; e tuttavia la verità ultima le si
sottrae. (...) La decisione attiene alla teologia; deve intervenire la divinità. (...) A questo punto sarà la divinità a identificarsi con la
giustizia: gli dèi non sono che nomi, Zeus conveniamo di chiamare la legge suprema che regola l'universo. Di fronte a questa legge
la ragione e la volontà umane si annullano; e sapienza massima è farle coincidere con essa" (D. Del Corno).
"La civiltà greca ha svolto un ruolo decisivo nel determinare nell'uomo la presa di coscienza della propria dignità. Negli Stati più
antichi, gli uomini sono, fondamentalmente, i servitori del capo dello Stato, e la dignità che si riconoscono è semplicemente la
partecipazione al prestigio del capo. Il cittadino degli Stati greci, al contrario, è cosciente di possedere una dignità in quanto membro
di un gruppo organizzato, retto da determinate leggi, valide per tutti gli «uomini liberi», a esclusione degli schiavi. Egli non è più
servo di un uomo, ma viene a essere sottomesso a una legge.
Tuttavia l'uomo greco attribuisce alle leggi un valore assoluto, sacro: le considera non come creazioni dell'uomo, ma come
manifestazioni di una volontà divina o come delle norme naturali. E fino a quando la vita economica e sociale ha conservato le sue
forme tradizionali, il cittadino ha potuto sentirsi libero, pur mantenendo la sua fede nel valore assoluto delle leggi, proprio perché gli
sembrava che queste ordinassero ciò che l'uomo stesso, nella sua libertà, doveva volere: il bene della città indissolubilmente legato al
bene dei cittadini. (...)
Tuttavia verso la metà del VII secolo, in un simile mondo si è introdotto l'uso del denaro. Nuove fortune si sono formate con il
commercio, e le basi della vita sociale ne sono rimaste sconvolte. Da questo momento l'individuo si pone domande sul valore delle
leggi.
I grandi autori tragici del V secolo scelgono, a soggetto delle proprie opere, la vita di antichi eroi, che hanno dovuto affrontare
situazioni terribili, in cui le leggi impartivano loro ordini contraddittori. Così in Eschilo, per esempio, Oreste deve uccidere la madre
per vendicare il padre. (...) Alla fine Pallade, dea protettrice di Atene, istituisce un tribunale che giudica Oreste. Questi è assolto, ma
i voti a suo favore controbilanciano esattamente quelli che lo condannano. Non si potrebbe esprimere meglio il dramma irresolubile
dell'uomo, costretto ad agire liberamente in un mondo in cui, ormai, le leggi non indicano più, in maniera sempre indiscutibile, dove
sia il bene" (H. Denis).

4. Sofocle e la meditazione sulla sofferenza umana
Sofocle, il secondo grande poeta della tragedia greca, nasce nel demo ateniese di Colono nel 496 a.C., e muore nel 406. Con la sua
lunga vita egli ha attraversato tutto il V secolo, dalla vittoria contro i Persiani alla sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso.
Della sua vastissima produzione ci sono pervenute soltanto sette tragedie.
Anche nell'opera di Sofocle, come in quella di Eschilo, è posto al centro l'interrogativo del rapporto tra l'uomo e il destino, ma la sua
concezione dell'uomo e della divinità non è definibile con tratti precisi e filosoficamente definiti. Più che enunciare tesi e mettere a
fuoco idee nuove e messaggi etico-religiosi, Sofocle porta sulla scena l'agire ed il soffrire degli uomini, e ne fa oggetto di
meditazione.
La sofferenza umana, soprattutto se immotivata, pone da sempre all'uomo interrogativi di natura filosofica e religiosa: perché gli dèi
la consentono? Come possono essere chiamati giusti se a soffrire è un innocente? Perché nel mondo ci sono il male ed il dolore? La
fede di Eschilo in un superiore ordinamento morale dell'universo, in Sofocle non è altrettanto chiara. Ma anche per Sofocle
l'universo non è insensato, benché la vita dell'uomo possa andare incontro a un crudele destino: lo splendore e la miseria del mondo
sono contemplate con sguardo lucido, attento. Il mistero del mondo nasconde comunque una legge superiore, una legge non scritta,
eterna, al di sopra delle mutevoli vicende della vita e della morte.
E' soprattutto sulla figura dell'uomo che si concentra l'attenzione del poeta. L'umanità è fragile, caduca, soggetta al divenire delle
cose, in balìa di forze tremende. Ma l'uomo che gioisce e che soffre ha in sé forza e coraggio, dignità: l'uomo può combattere contro
il destino in nome di una forza interiore profonda, perché "nulla è più dell'uomo stupendo", come canta il celebre primo stàsimo
dell'Antigone.
"C'è in tutte le tragedie un identico pilastro drammatico: l'immagine sempre bifronte dell'uomo. In essa, al chiaro talento eroico
s'oppone la disarmata fragilità alla rete degli eventi. (...) Sofocle pare ossessionato dal bisogno di dimostrare con certezza che lo

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spirito umano, nella sua fibra profonda, detiene dignità e valore: l'uomo ha in sé la potenza del coraggio, della sagacia, dell'energia
morale, insomma dell'umanità (...): la dote eminente è la capacità di fronteggiare la sofferenza con un conscio resistere, non con quel
genuflettersi ottuso che è proprio dell'animale. La presenza del «male» nel mondo non è dimostrazione che quei caratteri positivi non
esistano, o che il loro valore si possa annientare: traduciamo con «male», in mancanza di espressione più esatta, il tò kakòn greco,
che è insieme malasorte, dolore, vizio. Questo polo negativo è sempre riconosciuto dal poeta come una faccia reale del mondo quale
è: impastate con la sua idoneità ad elevarsi a grandi altezza, l'uomo ha in sé disperazione e mortale pochezza. Può dunque essere
«divino» nei talenti naturali e nell'eccellenza degli esiti: ma è anche preda di un'immensa ragnatela di circostanze esterne che
sfuggono al suo dominio, imprigionato dal fattore tempo, dall'ignoranza del passato, del presente e del futuro, accecato dalle passioni
che ne offuscano l'intelletto e ne minano la volontà, sempre sul filo del rasoio di devastare se stesso o chi gli sta vicino con la sua
incapacità - o riluttanza ostinata - a comprendere" (P.E. Easterling).

5. Euripide e l'abisso tenebroso dell'anima umana
Il tema della lotta umana contro il cieco e necessario corso degli eventi è universale, così come universale è l'interrogarsi sul senso
del male e del dolore, in una natura che l'uomo sente vivificata dalla presenza del divino. I Greci guardano a questi temi
dall'angolazione particolare della loro cultura, ma la forza dei personaggi tragici sta proprio nel fatto che essi incarnano modelli che
sono attuali in ogni tempo. L'uomo domina la sua vita? domina la storia? o ne è dominato, nonostante la sua libertà?
L'età aurea della tragedia greca si prolungò fin nell'età della Sofistica, e la riflessione dei poeti si intrecciava con le tensioni culturali
che questo movimento andava provocando (questo può dirsi per tutto il teatro greco: si pensi alla rappresentazione duramente
caricaturale che Aristofane fa dei Sofisti nelle Nuvole).
Fu l'ultimo dei grandi poeti tragici, Euripide, a dare spazio nella tragedia alla visione del mondo di questa tormentata età della
cultura greca. Del resto era del tutto naturale che la sofistica avesse un forte impatto sulla tragedia perché il teatro greco
rappresentava il mito e poneva in scena le domande centrali dell'uomo sul bene e sul male, sul divino e sull'umano, sul destino e la
colpa: tutti temi su cui il razionalismo della sofistica aveva incrinato il sapere tradizionale. Così Euripide introdusse nel teatro la
voce del razionalismo. Sofocle, ancora nel pieno dell'età della sofistica, conservò la sua fede nell'uomo e nella divinità, sia pure
attraverso un profondo travaglio critico di cui i suoi drammi sono testimonianza.
Euripide accolse, invece, alcune delle nuove idee, ma scrisse da poeta, non da filosofo. Euripide è figlio di un'età di crisi, e questa
crisi egli riflette nei suoi drammi, per la grande razionalità con cui guarda all'umano e al divino ed allo stesso tempo per la grande
attenzione agli aspetti irrazionali e "demonici" presenti nell'uomo. Il divino è per lui l'oggetto di una ricerca resa acuta dalla gravità
dei tempi: tempi segnati dalla perdita dei valori tradizionali, dalla guerra e dagli eccidi che ne conseguono e che sconvolgono
l'immagine che l'uomo greco ha di se stesso, dalla crisi politica che accompagna le convulsioni dell'ultimo periodo della guerra del
Peloponneso.
Euripide tratta la materia del mito con grande libertà, rielaborando le antiche narrazioni, adattando i contenuti mitici alle esigenze
della sua ricerca artistica e "razionale". Fa infatti dialogare i suoi personaggi sulla scena avendo presenti diverse suggestioni
"razionaliste" della sofistica del suo tempo, modellando la ricerca sull'uomo e su Dio, propria di tutta la tragedia greca, attraverso il
contrapporsi di posizioni, ragionamenti, contrasti dialogici che richiamano quanto sappiamo dell'insegnamento dei sofisti e delle loro
tecniche.
Allo stesso tempo, tuttavia, in Euripide trova ampio spazio la rappresentazione sulla scena degli aspetti violenti ed irrazionali
dell'uomo, analizzati con grande acume, e anche con spietata lucidità. L'uomo non è pura mente razionale, ma groviglio inestricabile
di passione e di ragione, di dominio e di libertà. Nelle Baccanti, una tragedia in cui la forza del dionisiaco sull'uomo è rappresentata
con estrema efficacia, la potenza insondabile del dio è assoluta e del tutto incomprensibile, fino ad accecare la mente. Così il coro
canta la potenza di Dioniso:

"O Tebe che hai cresciuto Semele,
incorònati d'edera il capo:
fiorisci, fiorisci di verde
smilace nel fulgore dei frutti,
danza nei riti di Bacco
con rami di quercia e di abete.
Adorna la tua veste, la pelle maculata del cerbiatto,
con fiocchi di candida lana.

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Impugna il tirso violento,
pegno di santità: presto danzerà tutta la terra
e sarà Bromio chiunque guidi i tiasi
al monte, al monte dove attende
la turba delle donne
strappata ai telai e alle spole
dalla sferza di Dioniso
(Euripide, Le baccanti, vv. 105 ss.).

Euripide ha rappresentato con grandissima concretezza ed efficacia il culto dionisiaco: le Baccanti narrano la vicenda di un uomo
"preda dell'ossessione dionisiaca, portata sulla scena di un teatro: ma il tutto affonda anche le radici nella visione euripidea
dell'abisso tenebroso dell'anima umana" (B.M.W. Knox).
Eppure, non è forse vero che il dio, nella sua crudeltà, dà consistenza religiosa ad un istinto irrazionale e distruttivo dell'uomo? Non
è forse vero che questo dio è, qualunque sia la pietà religiosa del poeta, il riflesso delle potenze nascoste nel cuore dell'uomo? Il
contrasto, davvero tragico, che il poeta contempla e rappresenta è tutto interno all'uomo: nella persona umana c'è la volontà, ferma,
di tenere saldo il dominio della razionalità, ma anche il traboccante mondo dell'irrazionalità. Se misteriosa è la natura degli dèi e
delle cose, un mistero ancora più grande si nasconde nell'uomo stesso e nel significato della sua vita.

Nota sulle tragedie citate
Le Eumenidi di Eschilo
E' questo il nome che assumono le Erinni - terribili e antichissime divinità che presiedono alla punizione di chi si è macchiato di
delitti contro i familiari - quando alla fine della tragedia si riconciliano con la città di Atene, che edifica in loro onore un tempio. Il
conflitto era sorto perché Oreste (il figlio di Agamennone e di Clitennestra, aveva ucciso la madre per vendicare la morte del padre,
ucciso da Clitennestra) inseguito dalle Erinni si era rifugiato ad Atene. Nel corso di un processo Oreste dice di aver agito spinto da
Apollo e quindi di non essere colpevole, pur avendo consapevolmente e assumendosene la responsabilità ucciso la madre: ha agito
secondo giustizia. I giudici del Tribunale di Atene non riescono a decidere perché votano metà a favore e metà contro. E' l'intervento
diretto della dea Atena a risolvere la situazione: assolve Oreste, istituisce il Tribunale ateniese dell'Areopago, riconcilia le Erinni, ora
Euimenidi (cioè le benevolenti) con la città.

L'Antigone di Sofocle
Antigone è figlia di Edipo, il re di Tebe che inconsapevolmente ha ucciso il padre e sposato la madre, da cui ha avuto diversi figli.
Eteocle e Polinice, due figli maschi, combattono tra loro e si uccidono a vicenda. Il re di Tebe, Creonte, dà ordina, pena la morte, di
non seppellire il cadavere di Polinice, perché è lui ad avere preso le armi contro il fratello e la città. Ma Antigone seppellisce il
cadavere del fratello e sfida la condanna di Creonte, in nome delle leggi eterne degli dèi. La tragedia ha un esito terribile: Antigone,
rinchiusa in una grotta lontano dalla città, si uccide e alla notizia il suo fidanzato Emone, figlio di Creonte, si uccide anch'egli sul
cadavere di lei. La madre di Emone e moglie di Creonte si uccide anch'essa. La tragedia si chiude con lo strazio di Creonte che
piange la rovina della famiglia.

Le Baccanti di Euripide
Di questa tragedia è protagonista il dio Dioniso che, sotto sembianze umane, è venuto a Tebe per istituirvi il suo culto e qui incontra
l'entusiastica adesione della popolazione. Gli è invece nemico il re, Penteo, che ostacola con ogni mezzo la nuova religione e fa
imprigionare, senza riconoscerlo, lo stesso Dioniso. Ma un terremoto scuote la terra, e miracolosamente il dio torna libero e medita
la sua vendetta. Mentre è in corso un'orgia dionisiaca e gli uomini e le donne sono preda dell'estasi, il dio sconvolge la mente di
Penteo. Le donne, al colmo dell'ebbrezza, lo uccidono e fanno a pezzi il suo corpo. Inconsapevolmente è la stessa madre, Agave, ad
uccidere il figlio. Quando ritorna in sé si rende conto di ciò che ha fatto e piange disperata. E' il trionfo di Dioniso.

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