CON IL VANGELO NELLE PERIFERIE ESISTENZIALI SEGUENDO L'INSEGNAMENTO DI PAPA FRANCESCO
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CON IL VANGELO NELLE PERIFERIE ESISTENZIALI SEGUENDO L’INSEGNAMENTO DI PAPA FRANCESCO Convegno Caritas Catania 22 marzo 2014 1. Una Chiesa in uscita Già il 18 maggio dell’anno scorso parlando ai movimenti e alle comunità ecclesiali in piazza San Pietro Papa Francesco aveva lanciato il suo appello accorato ad andare incontro agli altri, soprattutto ai più poveri: In questo momento di crisi non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento, nel senso di impotenza di fronte ai problemi. Non chiudersi, per favore! Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose… ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice: “Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (cfr Mc 16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite! Ma è nella Esortazione Apostolica Evangelii gaudium che il Papa formula la definizione completa di una “Chiesa in uscita”. La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. (n. 24). Il motore di questa uscita fuori da se stessa della comunità cristiana è, dunque, la misericordia che essa ha sperimentato, l’infinita misericordia le Padre. Lo scopo, dunque, è la missione, perché il bisogno più grande che c’è nel mondo è conoscere la verità su Dio rivelata a noi in Gesù Cristo. Quell’impensabile verità da parte dell’uomo che si riassume nella parola misericordia. Questo è il cuore dell’annuncio cristiano, l’essenziale che deve oggi più che mai essere detto e ridetto al mondo. Non c’è nulla di volontaristico nella missione: essa è la forza diffusiva della misericordia di Dio. È solo questa che commuove i cuori e non i ragionamenti astratti, anche se logicamente perfetti. Il papa di questo è profondamente convinto.
2 La preoccupazione è, dunque, squisitamente missionaria e la ragione di questa uscita verso le periferie esistenziali non è culturale, sociologica o politica; essa è squisitamente teologica, più propriamente cristologica: Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa». Questa opzione – insegnava Benedetto XVI– «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà». Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro (n. 198). Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. «Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente». Il povero, quando è amato, «è considerato di grande valore», e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?». Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone» (199). Forse tutto questo può essere esemplificato da una esperienza recente che ho fatto nel carcere di Piazza Lanza in cui esercito il mio ministero sacerdotale, di cui ho parlato anche su “L’Osservatore Romano”. Un detenuto, dopo ventisette anni di fedele convivenza, dalla quale sono nati figli e nipoti, ha espresso il desiderio di sposarsi. Lo doveva alla sua donna – mi ha detto – per darle la dignità di sposa; lo doveva ai suoi figli per dar loro la coscienza di appartenere ad una vera famiglia; lo doveva a se stesso e alla sua coscienza di cristiano Non aveva però la possibilità di comprarsi neanche la cravatta, figuriamoci poi gli anelli nuziali e tutto il resto. Attorno a questa richiesta si è creata tra gli altri
3 detenuti una grande attesa della risposta che avrebbe dato la Chiesa. Nei quartieri poveri, infatti, della nostra città è invalsa l’opinione che si sposano in chiesa soltanto coloro che se lo possono permettere, perché per sposarsi bisogna affrontare una spesa considerevole. Ebbene le amicizie che ho avuto l’opportunità di crearmi nei miei lunghi anni di ministero sacerdotale mi hanno messo in grado di provvedere nel miglior modo possibile a tutto l’occorrente. Uno degli orafi più noti della città ha regalato le fedi nuziali ed ha aggiunto anche una somma in denaro per i bisogni degli sposi; un notaio mi ha dato uno dei suoi migliori vestiti da cerimonia; altre persone hanno pensato alla sposa, ai dolci e ai confetti e perfino ai fiori con i quali addobbare l’altare, costruito all’interno di una splendida sala del carcere destinata ai colloqui dei detenuti con i familiari. Ogni volta che veniva fuori un bisogno leggevo negli occhi del futuro sposo come una sfida alla carità della Chiesa. Il rito del matrimonio si è svolto alla presenza dei familiari, dei testimoni, della direzione della casa circondariale, del comandante e di tanti agenti della polizia carceraria ed è stato anche allietato da un coro improvvisato dai volontari impegnati in collaborazione col cappellano Al momento delle promesse coniugali gli sposi sono stati afferrati da una commozione grande e a stento sono riusciti a pronunziare le parole della formula; come raramente oggi accade anche tra i giovani che iniziano la loro convivenza coniugale. Avevano compreso che con il sacramento il loro amore si inseriva in quello di Cristo per la sua Chiesa e richiedeva, pertanto, altrettanta fedeltà e gratuità, una donazione assoluta, fino alla morte. Il contesto creato dalla carità ecclesiale rendeva loro più credibile quello che professavano con le loro parole. Quel matrimonio ha reso più glorioso il volto di Cristo in quell’ambiente; quel volto di misericordia che papa Francesco non smette mai di suggerirci e che rende più umana la vita in qualunque situazione. È la ricchezza più grande che è stata donata agli sposi e ai carcerati tutti. Adesso le domande di matrimonio religioso si sono moltiplicate. Ecco, la carità e la misericordia rendono credibile l’annuncio cristiano che i poveri spesso hanno la capacità di accogliere più degli altri, mostrando a noi e a tutto il mondo quanto sia efficace nei loro cuori l’azione della grazia e l’esperienza dell’amore di Cristo. 2. Le periferie esistenziali a) I poveri e le nuove forme di povertà e di fragilità È da dire che la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (n. 200).
4 Viene riaffermato qui che il bisogno più grande dell’uomo è Dio, la sua verità e la sua grazia. Da qui segue l’impegno per una più grande giustizia sociale ineludibile da parte della comunità cristiana: Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti (n. 207). Particolare attenzione meritano le nuove forme di povertà: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, la tratta delle persone specialmente delle donne e dei bambini. Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in sé stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, « ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo» (n. 213). b). I giovani La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei cambiamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Per questa stessa ragione le proposte educative non producono i frutti sperati. La proliferazione e la crescita di associazioni e movimenti prevalentemente giovanili si possono interpretare come un’azione dello Spirito che apre strade nuove in sintonia con le loro aspettative e con la ricerca di spiritualità profonda e di un senso di appartenenza più concreto. È necessario, tuttavia, rendere più stabile la partecipazione di queste aggregazioni all’interno della pastorale d’insieme della Chiesa (105). c). Le famiglie La famiglia attraversa una crisi culturale profonda: Il matrimonio tende ad essere visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno (66).
5 L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari (67). Da qui segue imperioso “il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo” (69). Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città (74). Ma va riaffermato il modo di affrontare queste grandi questioni. È quanto Papa Francesco ha detto lo scorso 20 febbraio, aprendo i lavori del Concistoro straordinario sulla famiglia: La famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata, e quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità. Ci viene chiesto di mettere in evidenza il luminoso piano di Dio sulla famiglia e aiutare i coniugi a viverlo con gioia nella loro esistenza, accompagnandoli in tante difficoltà, con una pastorale intelligente, coraggiosa e piena d’amore. La sfida, dunque, è sulla bellezza: aiutare l’uomo di oggi a riconoscere “quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi” e il metodo è quello di offrirgli una compagnia misericordiosa, cioè “intelligente, coraggiosa e piena d’amore”. Credo che l’intenzione che ha mosso il nuovo Papa fin dall’inizio del suo ministero petrino, dichiarata poi nell’intervista rilasciata al direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, è stata quella di mostrare una Chiesa capace di “riscaldare il cuore” della gente con la sua misericordia. Nella misericordia splende, infatti, in modo particolare l’amore di Dio: è quella bellezza che commuove e convince, che ha la capacità di attrarci attraverso il visibile all’invisibile. E’ il misterioso scopo e metodo dell’Incarnazione. La bellezza – denunciava von Balthasar – «non è più amata e custodita nemmeno dalla religione. Se essa viene strappata come una maschera al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini». Il papa vuol farci capire a quali condizioni certe riaffermazioni dottrinali possono essere efficaci, cioè risultino comprensibili e accettabili, oggi. Infatti, se è vero che certi valori cristiani per la loro ragionevolezza sarebbero riconoscibili anche da una intelligenza non credente, purché sia lealmente aperta a quelle evidenze originarie che la propria coscienza può suggerire a ogni uomo, è altrettanto vero che essi, pur avendo una loro intrinseca ‘naturalezza’, sono divenuti visibili allo sguardo dell’uomo così come storicamente è fatto e accettabili dalla sua volontà solo nel contesto culturale aperto dal cristianesimo e rivitalizzato continuamente dalla presenza della Chiesa. Quando questa viene meno o si affievolisce, come sta accadendo soprattutto nella nostra vecchia Europa, si esaurisce quell’alimento essenziale del quale i valori umanistici si
6 sono nutriti. Papa Francesco dimostra di aver compreso profondamente questa verità e questo nesso essenziale tra fede e ragione e, a partire da tale presupposto, imposta le sue priorità nella evangelizzazione. «La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. – diceva Papa Francesco nell’intervista rilasciata al direttore de “La Civiltà Cattolica” lo scorso 19 agosto – La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia». E ancora: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali». 3. Il linguaggio dei gesti o della fisicità “Come ha detto papa Francesco...” è un ritornello che accompagna spesso le confessioni dei penitenti del Duomo di Catania, dove trascorro parecchie ore settimanali ad esercitare il ministero della riconciliazione, e i miei colloqui con i detenuti. Anzi devo dire che l’avere lo stesso nome del Santo Padre, cioè Francesco, mi ha dato una carta di credito in più presso di loro, quasi che l’omonimia garantisca anche una somiglianza spirituale. Sono fenomeni questi che raramente mi erano stati offerti prima, sebbene io abbia circa sessant’anni di sacerdozio. Quest’uomo è riuscito ad avvicinarsi alla loro vita e alla loro umanità in modo talmente significativo e determinante che, per esprimere se stessi, essi usano le sue parole nelle quali si sentono perfettamente compresi” Mi sono chiesto a che siano dovuti e ritengo di avere individuato nei contenuti del magistero e nella modalità di comunicazione dell’attuale pontefice la loro spiegazione. Il contenuto, come abbiamo visto, è semplice, direi elementare: i cristiani sono chiamati a far fare agli uomini del nostro tempo l’esperienza della misericordia del Signore. La misericordia, infatti, è ciò di cui l’uomo ha più bisogno per riconciliarsi con se stesso e con Dio.
7 Quando ho letto ai miei detenuti le parole che il papa aveva loro inviato attraverso i cappellani delle carceri, con le quali si ricorda che «nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto» e che finiscono con quell’interrogativo audace ed inquietante che ha confidato sopraggiungere nel suo cuore sempre dopo le telefonate che fa ancora ai carcerati di Buenos Aires: «perché lui è lì e non io che ho tanti e più motivi per stare lì […] poiché le debolezze che abbiamo sono le stesse, perché lui è caduto e non sono caduto io?», ho visto prima i loro occhi segnarsi di lacrime e alla fine sono stato coinvolto nel loro applauso caloroso e grato. Quegli uomini in quel momento hanno ritrovato il senso vero della loro dignità, quella che nessuna colpa potrà mai cancellare. C’è anche una elementarità ed efficacia particolare nel modo di comunicare di papa Francesco. Parole chiave che sintetizzano dottrina e conseguenze etiche, immagini che si imprimono nella mente e aiutano la memoria e soprattutto gesti. È quella “fisicità” di cui ha bisogno l’uomo e che egli concede attraverso la sua persona a tutti. Vale più un suo bacio dato ad un bambino che un lungo e articolato discorso sul valore della vita umana. Tommaso d’Aquino ha affermato che «al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo» (Summa theologiae, III, 9, 2, c.) e per questo «la grazia prima ha colmato la sua umanità e da lì è derivata a noi» (Ibid., I-II, 108, 1, c.). «Non è il ragionamento astratto che convince l’uomo, – ha scritto il mio grande amico don Luigi Giussani verso la fine della sua vita, quasi per svelare il segreto della sua fecondità sacerdotale – ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2001, p. VI). I miei detenuti mi hanno fatto scoprire il valore di questo suggerimento. Prima di qualunque iniziativa nei loro confronti è stata la mia presenza nei bracci e nelle celle. Essi sono molto sensibili alla fedeltà con cui vado a trovarli, all’affetto con cui li abbraccio. Si può dire che attraverso questa fisicità loro percepiscono il senso che tu hai della loro dignità e quando la sentono riconosciuta si arrendono nel rapporto con te e a tutto ciò che tu loro proponi. Ciò mi ha fatto ricordare quanto ha detto ancora Papa Francesco il 18 maggio scorso ai movimenti e alle comunità ecclesiali durante la veglia di Pentecoste: Quando io andavo a confessare nella diocesi precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda: “Ma, lei dà l’elemosina?” – “Sì, padre!”. “Ah, bene, bene”. E gliene facevo due in più: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?” – “Ah, non so, non me ne sono accorto”. Seconda domanda: “E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”. Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una
8 Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà, la povertà del Signore. E questo non è facile. Per Natale un amico mi ha regalato cento panettoni per i miei detenuti. Ho chiesto alla direzione del carcere di poterne portare uno per ogni cella. Ho preteso, però, che mi si aprissero le celle in modo da poterli consegnare personalmente entrando quasi a casa loro. È stato più questo gesto di contatto fisico amicale che il panettone portato a commuoverli. Non vi dico poi dei mussulmani: non finivano mai di baciarmi. Questo episodio mi ha fatto pensare. Io ero piuttosto abituato ad avere prevalentemente un rapporto concettuale e verbale con gli altri. Il discorso e la parola erano il mezzo privilegiato di comunicazione. Il povero, colui che è povero in ogni senso, capisce solo attraverso la fisicità dei gesti. Il Signore ha lasciato i sacramenti come strumenti di santificazione: essi sono dei gesti fisici carichi di un effetto spirituale. Allora ho cominciato a mettermi alla fine della Messa in fondo alla chiesa per salutarli e abbracciarli uno per uno. Sapeste quanta intensità di rapporto si esprime in quel momento e quanta maturità affettiva richiede questo esprimersi attraverso la carne! Essa è pari a quella che si richiede nella vita coniugale, che poi è il sacramento del rapporto tra Cristo e la sua Chiesa, come dice Paolo agli Efesini. Conclusione La gioia dell’incontro con Gesù è la genesi dell’evangelizzazione. Gioia che si rinnova e si comunica quando, superando la tristezza individualistica, ci si apre verso gli altri. L’evangelizzazione non è un programma o un progetto, ma è l’inevitabile comunicarsi della bellezza della vita cristiana vissuta. Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene. […] Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: «Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo». Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, «la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […] Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» (Evangelii gaudium, 9-10).
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