Preghiera è fare silenzio interiore per accogliere la parola del Signore
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preghiera è fare silenzio interiore per accogliere la parola del Signore nel silenzio il mistero della tua Presenza da Altranarrazione eccomi in preghiera. In perfetta solitudine, in perfetta intimità, questo momento è solo per il Signore Taci scoraggiamento per i peccati commessi. Ascolta la Misericordia di Dio che risolleva da qualsiasi abisso. Taci distrazione. Ascolta il silenzio di Dio che ti insegna a percepire nel profondo.
Taci programmazione di attività. Ascolta la creatività di Dio che sa aprire strade nel deserto. Taci esigenza di utilità. Ascolta la gratuità di Dio che ti invita a trovare nel dono di se stessi il senso dell’esistere. Taci abitudine. Ascolta la novità di Dio che rinnova il mistero della sua presenza. Taci legalismo. Ascolta la Giustizia di Dio che conosce e compatisce le nostre fragilità. e adesso in perfetto silenzio per accogliere il Signore La Parola di Dio è delicatezza, non si sovrappone ad altre voci. È pazienza, sa attendere il suo turno. È mitezza, pacifica l’anima, sollecita lo sguardo ad allargarsi e ad andare oltre i motivi razionali di conflitto e contrarietà. È profezia, non consente di soprassedere alla pratica della giustizia. È consolazione, dona la forza per non soccombere davanti alla sofferenza. È speranza, propone alternative di senso al vuoto scavato dalla superbia dell’uomo. È guarigione, riesce a sanare le ferite che resistono ai rimedi umani. È contraddizione, smaschera le falsità degli idoli. Ti adoro, ti amo, Signore ed esulto perché capovolgi le logiche del
mondo E. Bianchi invita alla insurrezione contro la cattiveria e la barbarie “è tempo di un insurrezione delle coscienze” intervista a Enzo Bianchi di Maria Laura Giovagnini pubblicato su “Io Donna” 14 settembre 2019 Sopra una quercia c’era un vecchio gufo. Più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva».
Scolpita sulla pietra, la frase accoglie chi arriva a Bose, la comunità di monaci e monache di chiese cristiane diverse in provincia di Biella diventata un centro di spiritualità di livello internazionale. «Parole di saggezza popolare che ho scoperto in Puglia – in una casa abbandonata in mezzo alla campagna – e ho fatto copiare: è nel silenzio che la parola diviene autorevole e intelligente, sennò è chiacchiera» spiega Enzo Bianchi, che ha fondato il monastero nel 1965. Però ai nostri tempi si addice di più una presa di posizione. «È l’ora di un’insurrezione delle coscienze. Dobbiamo assumerci responsabilità, impegnarci in una concreta resistenza alla cattiveria, al disprezzo, altrimenti la barbarie andrà al potere. La storia ci insegna che la violenza verbale può diventare violenza fisica» spiega lui, che aggiunge: «Qui mi chiamano Enzo, in giro c’è chi mi chiama fratel Enzo o padre Enzo… Dipende da cosa sentono in me». E certo non si sottrae, come dimostrano i suoi impegni pubblici di settembre , dove parlerà di umanità, di luce e tenebre… Già, che significa “restare umani” oggi? Significa coltivare la fraternità, la mitezza, l’accettazione della diversità, la cura e l’aiuto, il perdono e la misericordia. Ogni persona – di qualunque sesso, etnia, religione – è davvero mio fratello o mia sorella. Abbiamo la stessa dignità e gli stessi diritti, dobbiamo esser rispettati nella rispettiva unicità. All’interno della visione cristiana, l’uomo per eccellenza è proprio Gesù: la sua figura è lo specifico della nostra religione rispetto alle altre. “Dio” è una parola assolutamente insufficiente, si presta a connotazioni molto differenti. Da cosa ha origine questo rischio di barbarie? La crisi economica ha portato a un’invidia, a una guerra fra poveri, che ha fatto aumentare la diffidenza. Poi la paura è stata fomentata anche per ragioni politiche, utilitaristiche e ha incattivito tanta gente che fino a qualche anno fa si sarebbe vergognata di certe espressioni, di certi atteggiamenti.
Lei invoca spesso la “sapienza del cuore”. In epoche storiche tanto complesse, non sarà assolutamente insufficiente? Il cuore deve sempre essere accompagnato dalla ragione, che ci dà la possibilità di discernere, pesare il bene e il male e deve quindi avere il primato: cosa sarebbe la religione senza l’uso della ragione? Solo emozione che potrebbe infiammarsi fino all’intolleranza, al fanatismo . Come si spiega che tanti cattolici siano attratti da politici razzisti o ultra nazionalisti? Con la schizofrenia tra religiosità e Vangelo, assai più attestata di quanto si possa immaginare. Una volta c’erano da una parte gli atei e da una parte i religiosi. Oggi fra i religiosi ci sono quelli che seguono il Vangelo e quelli che chiamo “cristiani del campanile”. Il Vangelo divide, non unisce affatto. I peccati commessi per debolezza vengono perdonati (bisogna accoglierli senza disprezzare se stessi o essere coperti di imbarazzo), ma non quelli per malvagità. Magari si sarebbe più convincenti suggerendo qualche vantaggio egoistico del “restare umani”… Una certa gioia, serenità di fondo. Da anziano (ormai ho 76 anni), guardando al mio passato, capisco che ciò che conta è l’aver amato e l’essere stato amato. Tutto il resto sfiorisce. Ecco, il vero senso della vita è: amare ed essere amati. L’unica cosa che ci salva. Sta venendo meno la speranza nell’aiuto divino, non le pare? Sì, ma perché c’è meno speranza nell’aiuto umano. Se non si riesce ad aver fiducia, a credere in chi si vede, come si può sperare in un Dio invisibile? Però, se manca la speranza, l’esistenza diventa solo un duro mestiere senza possibilità di felicità. Mestiere durissimo, pensando a tutto il dolore che ci tocca. Il dolore resta un enigma pure per il cristiano, che può limitarsi a dire: finché siamo qui su questa terra insieme, cerchiamo di vivere quella gioia e quella pienezza che ci è consentita pur con le contraddizioni della malattia, del male e della morte. Non si tratta di dare un significato alla sofferenza, bensì di dare significato alla vita persino quando si soffre. A proposito di terra, a Bose c’è un’altra iscrizione che colpisce: «Dio perdona sempre, gli uomini talvolta
perdonano, la terra si vendica e non perdona mai… …e conclude: «Ama la terra come te stesso». È nostra madre, da cui Dio ci ha creati, dobbiamo rispettarla e renderla addirittura più bella. Non a caso lei è fedele da sempre all’orto fuori dalla sua cella. Un orto fu persino il regalo (originalissimo) chiesto a 11 anni per l’ammissione alle scuole medie… Non solo l’orto… Amo il bosco (sono nato nel verde del Monferrato), amo la tavola, gli amici, la compagnia e tutto questo lo vivo nella mia fede cristiana ma senza dissociazione tra le due cose, anzi: l’una potenzia l’altra. Sovente la spiritualità oppone anima a carne, cielo a terra… Noi siamo l’insieme, non possiamo dimenticare una delle dimensioni. Da dove le arriva questa visione “concreta”? Sono per carattere aderente alla realtà e, probabilmente, per vicende personali: mia madre è morta quando avevo otto anni, sono rimasto con mio padre in una condizione di povertà e precarietà… Quel che mi ha sempre sorretto è stato sentire il Vangelo come una stella polare che poteva guidarmi. La fede cristiana è stata il dono più grande di mamma, molto religiosa. Però non si è mai identificato nella chiesa di Roma, ha mantenuto apertura e curiosità Credo sia il risultato di aver avuto una madre cattolica e un padre comunista che mi ripeteva: «Enzo resta libero, gira, ascolta tutti, incontra tutti. Fa’ la fame ma compra libri!» Non ho mai considerato nessuno nemico o avversario. Ho avuto la fortuna di conoscere, giovanissimo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora. Sono stato segnato dall’incontro con Frère Roger, il priore di Taizé. Ho passato mesi alla periferia di Rouen con l’abbé Pierre, facendomi straccione con lui e con i suoi ultimi… Mi considero privilegiato. E adesso, lo stato d’animo? Fondamentalmente sereno, benché la vecchiaia spaventi. Proprio stamattina ho visitato un coetaneo con l’Alzheimer e sono rimasto turbato: perdere l’autosufficienza è il timore più profondo. E poi c’è la paura della morte, parte integrante della nostra identità umana. Ci sembra ingiusta, ci interroghiamo sul dopo… Questo rende fragili. In compenso, dalla vecchiaia sto imparando la pazienza. Con me stesso e con
gli altri. Qualche rimpianto? Il rimpianto è una tentazione, ma non ne soffro. Se arriva, so spegnerlo presto. i tanti oppositori a papa Francesco perchè dà fastidio Francesco un papa che dà fastidio di: Victor Codina […] Attualmente vi è un forte gruppo che si oppone alla Chiesa di Francesco. Laici, teologi, vescovi e cardinali, che vorrebbero le dimissioni del papa o quantomeno che egli scompaia presto dalla scena della Chiesa in attesa di un nuovo Conclave a cui spetterebbe il compito di cambiare l’attuale corso della Chiesa. Non voglio fare un’indagine storico-sociologica in questa
sede, né condurre un programma televisivo stile western contrapponendo i buoni ai cattivi. Quindi preferisco non nominare gli oppositori che stanno spennando vivo Francesco. Piuttosto, vorrei discutere lo sfondo teologico di questa opposizione sistematica a Francesco, per comprendere in fin dei conti di cosa ne va con questa controversia. Le critiche mosse a Francesco hanno due dimensioni: una teologica e l’altra più di carattere socio-politico; sebbene, come vedremo in seguito, queste due linee spesso convergono tra di loro. La critica teologica La critica teologica prende le mosse dalla convinzione che Francesco non sia un teologo, ma viene dal sud globale, dalla fine del mondo. Questa mancanza di professionalità teologica, in forte contrasto con l’acume di Giovanni Paolo II e ovviamente di Benedetto XVI, sarebbe la spiegazione di quelli che i suoi oppositori considerano essere le imprecisioni o addirittura gli errori dottrinali di Francesco. Secondo questa visione, la mancanza di competenza teologica di Francesco spiegherebbe la pericolosa posizione sulla misericordia di Dio nella sua bolla Misericordiae Vultus del 2015, la sua tendenza filo-comunista a supportare il popolo e i movimenti popolari, e la sua nozione di pietà popolare come luogo teologico nella sua esortazione apostolica Evangelii
Gaudium del 2013. La sua inadeguatezza in ambito della teologia morale si rende manifesta nel suo aprire le porte di accesso ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, in alcuni casi (dopo un discernimento personale ed ecclesiale), a cattolici separati e risposati – secondo l’esortazione post-sinodale Amoris Laetita del 2016. La sua enciclica Laudato Si’, sempre del 2016, «sulla cura della nostra casa comune», palesa una mancanza di competenza scientifica ed ecologica. E la sua enfasi eccessiva sulla misericordia divina in Misericordiae Vultus è scandalosa poiché diminuisce la grazia e la croce di Gesù. Davanti a queste accuse vorrei ricordare l’affermazione classica di s. Tommaso che distingue tra la sede magisteriale, propria dei teologi e dei professori universitari, e la sede pastorale assegnata ai vescovi e pastori della Chiesa. Il cardinal J. H. Newman riprese questa tradizione, affermando che sebbene talvolta ci possano essere tensioni fra queste due sedi, alla fine vi è convergenza fra di loro. Questa distinzione si applica a Francesco. Sebbene egli abbia studiato e insegnato teologia pastorale presso il San Miguel di Buenos Aires come Jorge Mario Bergoglio, ora le sue parole appartengono alla sede pastorale del vescovo di Roma. Non aspira a ricoprire il compito che gli è stato assegnato come teologo, ma come pastore. Come si è detto con un certo umorismo di lui, bisogna passare dal Bergoglio della storia al Francesco della fede. Quello che veramente infastidisce i suoi detrattori è che la sua teologia deriva dalla vita reale: dalla realtà dell’ingiustizia, povertà e distruzione della natura; e dalla realtà del clericalismo ecclesiale. Va bene se abbraccia bambini e persone malate; ma diventa del tutto insopportabile se va a Lampedusa, se si aggira tra i rifugiati e migranti in campi profughi come quello di Lesbo.
Dà fastidio alla gente quando dice che non dovremmo costruire muri contro i rifugiati, ma ponti di dialogo e ospitalità. Dà fastidio quando, seguendo i passi di Giovanni XXIII, dice che la Chiesa deve essere povera ed esistere per i poveri; che i pastori devono puzzare come le pecore; che la Chiesa si deve smuovere e uscire da se stessa per raggiungere le periferie del mondo; e dà molto fastidio quando dice che i poveri sono un luogo teologico, una fonte della rivelazione. Dà fastidio quando afferma che il clericalismo è la lebbra della Chiesa, e quando enumera le quattordici tentazioni della Curia vaticana – che vanno dalla pretesa di essere indispensabili e necessari alla brama di ricchezza, fino a vivere doppie vite e soffrire di un Alzheimer spirituale. E aumenta l’irritazione quando aggiunge che queste sono anche le tentazioni delle diocesi, delle parrocchie e delle comunità religiose. Dà fastidio sentire che la Chiesa dovrebbe essere concepita come una piramide inversa, con i laici al di sopra e il papa e i vescovi di sotto; come disturba sentirlo dire che la Chiesa è un poliedro e sinodale. Questo significa che noi tutti dobbiamo percorrere lo stesso sentiero insieme, che dobbiamo ascoltarci gli uni gli altri e dialogare tra di noi […]. Irrita i gruppi conservatori il fatto che Francesco abbia ringraziato Gusatvo Gutiérrez, Leonardo Boff, jon Sobrino e José María Castillo per il loro contributo teologico, annullando la sospensione a divinis di Miguel d’Escoto e di padre Ernesto Cardenal. Si sono infuriati quando Hans Küng gli ha scritto riaffermando la necessità di ripensare l’infallibilità e Francesco gli ha risposto chiamandolo «caro confratello», e dicendo che avrebbe preso in considerazione le osservazioni di Küng ed era disponibile ad aprire un dialogo sull’infallibilità. E molti sono disturbati dal fatto che Francesco abbia canonizzato s. Óscar Romero, vescovo salvadoriano martire,
bollato da molti come comunista e utile marionetta nelle mani della sinistra – dopo che la sua causa era rimasta bloccata per anni. Dà fastidio che Francesco dica «chi sono io per giudicare?». Dà fastidio quando afferma che la Chiesa è femminile e che se le donne non vengono ascoltate la Chiesa diventa più povera e faziosa. […] Ovviamente, il problema non è che Francesco non sia un teologo, ma piuttosto che la sua teologia sia pastorale. Francesco muove dal dogma al kerygma, dai principi teorici al discernimento e alla mistagogia pastorale. E la sua teologia non è colonialista, ma proviene dal sud globale del mondo per dare fastidio al nord. Critiche socio-politiche Scendendo in un confronto critico con coloro che accusano Francesco di essere un terzo-mondialista e un comunista, dobbiamo affermare che il suo messaggio è in perfetta continuità con la tradizione profetico-biblica e con la dottrina sociale della Chiesa. Quello che disturba è la sua veggenza profetica: Francesco dice no a un’economia dell’esclusione e dell’ineguaglianza; no a un’economia che uccide e fa vittime; no a un’economia senza volto umano; no a un sistema sociale ed economico ingiusto che ci imprigiona in strutture sociali ingiuste; no alla globalizzazione dell’indifferenza; no all’idolatria del denaro; no al denaro che governa piuttosto che servire; no
all’ineguaglianza che produce violenza; no a chiunque tenti di nascondersi dietro Dio per giustificare la violenza; no all’insensibilità sociale che ci anestetizza davanti alla sofferenza degli altri; no alle armi e all’industria militare; no al traffico umano; no a ogni forma di morte che sia provocata. Francesco non fa altro che realizzare il comandamento «non uccidere», difendendo il valore della vita umana dall’inizio alla fine, e ripropone oggi la domanda di Dio a Caino «dov’è tuo fratello?». Di Francesco disturba anche la sua critica al paradigma antropocentrico e tecnocratico, che distrugge la natura, inquina l’ambiente, erode la biodiversità ed esclude i poveri e le popolazioni indigene da una vita umana degna di sé. Le multinazionali non apprezzano quando egli critica le imprese di disboscamento, estrazione petrolifera, idroelettriche, minerarie, che distruggono l’ambiente, danneggiano le popolazioni indigene di quelle terre e minacciano il futuro della nostra casa comune. Irritante è anche la sua critica ai leader politici incapaci di prendere decisioni coraggiose. L’annuncio dell’imminente sinodo per l’Amazzonia (ottobre 2019), che amplificherà il bisogno di proteggere l’ambiente e di salvare le popolazioni indigene delle aree amazzoniche dal genocidio, ha già cominciato a essere molto scomodo. Alcuni alti prelati della Chiesa hanno detto che l’instrumentum laboris è eretico e panteista, negando fra l’altro la necessità della salvezza in Cristo. Altri commentatori si sono focalizzati esclusivamente sulla proposta di ordinare uomini indigeni sposati per celebrare l’eucaristia nelle parti più remote dell’Amazzonia, ma non hanno detto assolutamente nulla sulla denuncia profetica che questo documento preparatorio fa contro la distruzione causata dalle estrazioni portata avanti in Amazzonia. Come nulla hanno detto sulla questione della povertà e dell’esclusione delle
popolazioni indigene, che sicuramente non sono state mai minacciate in un maniera tale come ora. Edificare la Chiesa Indubitabilmente, vi sono delle convergenze fra le critiche teologiche e quelle socio-politiche, con gruppi ecclesiali reazionari pattiziamente allineati con potenti gruppi politici ed economici, specialmente nel nord del mondo. L’opposizione a Francesco è un’opposizione al Vaticano II, e alla riforma evangelica della Chiesa voluta da Giovanni XXIII […]. Francesco ha ancora molto da fare per arrivare a una riforma evangelica della Chiesa. Non sappiamo quale sarà la sua traiettoria futura, né sappiamo cosa accadrà al prossimo Conclave. I papi vanno e vengono, ma il Signore Gesù è sempre presente e anima la Chiesa fino alla fine dei tempi. È lo stesso Gesù che era visto come un mangione e beone, amico dei peccatori e delle puttane, dei posseduti dai demoni, dei pazzi – quel Gesù eversivo e blasfemo. Noi crediamo che lo Spirito del Signore, che discese sulla Chiesa nascente nel giorno di Pentecoste, non abbandonerà mai la Chiesa e, alla lunga distanza, non permetterà il trionfo del peccato sulla santità. Nel frattempo, come Francesco chiede sempre, da quando è apparso per la prima volta sul balcone di San Pietro come vescovo di Roma a oggi, preghiamo il Signore per lui. Preghiamo che non perda la speranza e che possa rafforzare la fede dei suoi fratelli e sorelle. E se non possiamo pregare, o
siamo non credenti, mandiamoli comunque i nostri migliori pensieri, auspici ed energia – come dice Francesco «me mande buena onda». estratto dalla traduzione dall’inglese dell’articolo Why do some Catholics oppose Pope Francis?, pubblicato il 13 settembre sulla piattaforma online rivista dei gesuiti statunitensi America. morto il cardinale Etchegaray che da giovane era stato cappellano degli zingari
con gli zingari la scuola di Etchegaray da MondoeMissione.it Redazione Il cardinale delle «missioni impossibili» – scomparso in queste ore – aveva imparato l’arte del dialogo da giovane prete come cappellano
degli zingari in Francia. E nel 1969 volle i loro violini alla sua ordinazione episcopale a Notre Dame Con il cardinale Roger Etchegaray – scomparso ieri sera all’età di 97 anni – se ne va un grande artigiano della pace e del dialogo interreligioso. In queste ore, ricordando alcuni dei viaggi più delicati compiuti per conto di Giovanni Paolo II, molti lo hanno chiamato l’uomo delle «missioni impossibili», alludendo ai suoi incontri in Paesi come l’Iraq, il Vietnam e la Cina. C’è però un aspetto della vita di questo porporato francese di orgini basche che vale la pena di sottolineare: dove aveva imparato l’arte del dialogo Roger Etchegaray? Un contributo importante era venuto dagli anni in cui da giovane sacerdote a Bayonne era stato l’assistente della pastorale degli zingari. Con loro – amava ripetere – ho imparato che davvero «il vento non si sa da dove viene, né dove va, come dice il Vangelo». Per questo vogliamo ricordarlo con una pagina tratta dal suo libro «Tiro avanti come un asino» (Edizioni San Paolo, 2007), in cui il cardinale stesso ricordava uno degli amici zingari incontrati durante quegli anni in Francia. Coucou Doerr. Bisognava vivere tra la «gente itinerante» per conoscere e apprezzare quel pezzetto d’uomo che diventò per me un caro amico. Che gioia e che soddisfazione per me! Di tutti gli zingari incontrati quando, giovane prete a Bayonne, ero il loro cappellano, Coucou è la persona che m’ha più colpito per la dignità e la fedeltà della sua vita nomade. Abbiamo fatto insieme il primo pellegrinaggio dei gitani a
Lourdes nel 1957, e mi pare ancora di vederlo, alla testa del gruppo di musicisti. Siamo stati insieme a Pomezia, vicino a Roma, nel 1965 per rispondere a un invito di massa del papa Paolo VI (il primo storico incontro di un Papa con gli zingari, che si tenne il 26 settembre 1965, pochi giorni prima del discorso di Montini all’Onu a New York ndr). Ero vicino a lui, nel 1967, al circo d’Inverno, presso Bouglione, per vederlo mentre suonava il violino con i piedi. Venne come mio ospite per la mia ordinazione episcopale nel 1969 a Notre-Dame di Parigi, che applaudì spontaneamente questo virtuoso della musica zigana. E a Marsiglia l’ho rivisto più volte in occasione della festa di Santa Marie del Mare. Dove vai, zingaro? Con questo titolo, sotto la guida del padre Leury, gesuita deportato, che aveva dato conforto al popolo nomade in via di estinzione nei campi nazisti, Cocou, più trovatore che letterato, firmò un libro originale su tutto ciò che, dalla sua roulotte, attraverso le strade d’Europa, aveva osservato, odorato, sulla natura, sugli uomini e su Dio. Questi «figli del vento» fanno pensare a ciò che Gesù diceva precisamente del vento: non si sa «da dove viene, né dove va» (Gv 3,8). Nonostante tutti gli sforzi compiuti sul piano sociale, umanitario e anche religioso, è ancora un mondo sconosciuto che si accampa alle porte delle nostre città e delle nostre chiese. Quando si sedentarizzano, diventano un popolo minacciato da un’integrazione che rispetta poco i suoi valori culturali: non si chiudono in gabbia i piccioni viaggiatori… A tutti voi, buon cammino. «Lacio drom!». Gesù è sempre la Via che non abbiamo mai finito di percorrere. cardinale Roger Etchegaray
le beatitudini declinate oggi BEATITUDINI PER UNA NOTTE DI SOLIDARIETA’ Beati i poveri in spirito, sono loro i re di domani Beati quelli che scelgono di stare con i piccoli e gli ultimi della fila Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia Beati quelli che hanno fame e sete di dignità e di diritti per tutti Beati quelli che scelgono sempre l’umano contro il disumano Beati quelli che salvano vite, dalla morte, da ogni forma di morte Beati quelli che costruiscono ponti e non muri Beati quelli che: avevo fame e mi avete dato da mangiare ero straniero e mi avete accolto
ero senza terra e mi avete dato un paese buono Beati quelli che hanno il cuore dolce, perché saranno i signori di domani Beati quelli che sanno ancora piangere, che provano dolore per il dolore di un bimbo, una donna, un figlio della terra… Beati quelli che sanno provare stupore e rabbia di fronte agli orrori del mondo Beati quelli che si prendono cura di una esistenza con la loro esistenza Beati quelli che sentono il morso del più: più passione, più umanità, più diritti Beati i coraggiosi: quelli che “meglio trasgressivi che complici” Beati quelli che non sono muti e inerti Beati gli oppositori, che si oppongono alla legge quando la legge si oppone all’umanità Beati quelli che sono in minoranza, controcorrente, che non si accodano al pensiero dei più Beati quelli che la vita non la vedono in funzione del loro io, ma il loro io in funzione della vita. Loro hanno in dono la vita indistruttibile fra Ermes Ronchi
contro il fondamentalismo biblico il vescovo Spong e la sua rivoluzione teologica la rivoluzione teologica del vescovo Spong di Augusto Cavadi –
Se qualche adulto prova ancora piacere a leggere l’Iliade o l’Orlando furioso è perché, sin da ragazzo, queste opere gli sono state presentate come poemi, creazioni di fantasia pregne di significati morali e di insegnamenti esistenziali. La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento o, come si preferisce
dire per rispetto verso gli Ebrei, Primo e Secondo Testamento – non ha avuto la stessa sorte. Indubbiamente chi l’ha redatta, mettendo per iscritto secolari tradizioni orali, non intendeva fare opera di storia né di scienze naturali, quanto esprimere – attraverso miti, poemi, leggende, fiabe, epopee, omelie – alcune convinzioni di fede del suo popolo. Ma quando la Bibbia è uscita dall’alveo medio-orientale – ed è stata ascoltata, letta, tradotta dai “Gentili”, da Greci e Latini – il registro linguistico originario è stato inesorabilmente frainteso: Adamo, Eva, Abramo, Mosé…non più figure simboliche, ma personaggi storici dalla fisionomia e dalle vicende francamente inverosimili. Da un secolo a oggi la teologia sta cercando di uscire dall’equivoco bimillenario, da un “letteralismo” imbarazzante che costringe i nostri contemporanei mediamente istruiti a una scelta dolorosa: o credere (rinunziando a ciò che le scienze umane e naturali, oltre che la logica, insegnano) o gettare alle ortiche la Bibbia (salvando la propria integrità intellettuale). Certo, de-mitizzare il Primo Testamento è stato relativamente facile; non altrettanto agevole l’operazione per il Secondo Testamento. Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con notevole coraggio (ha dovuto sopportare non solo reazioni accademiche ed ecclesiastiche, ma perfino aggressioni fisiche), si è impegnato su questa strada, pubblicando – accanto ad altri titoli interessanti – Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo, ed. it. a cura di don Ferdinando Sudati, Massari, Bolsena (Vt) 2018 (ed. or. 2016), pp. 398, euro 20,00.
Spong non nega certo che il germe dei Vangeli sia stata un’esperienza storica, solo ne circoscrive attentamente i contorni: nel primo secolo della nostra era alcuni ebrei furono affascinati dalla personalità e dal messaggio di un maestro nomade, Jeshua di Nazareth, e per qualche anno si misero al suo seguito. Le autorità religiose ebraiche lo percepirono però come un pericoloso sovversivo dell’ordine (teologico-morale-politico- sociale) costituito e lo fecero condannare a morte dall’autorità romana occupante la Palestina. I discepoli caddero in un profondo sconforto ma le esperienze mistiche attestate da alcuni di loro li convinsero che il maestro non era precipitato nel nulla della morte, che al contrario era
stato accolto e reso immortale dall’abbraccio del Dio vivente. Pochi decenni dopo la crocifissione (51- 64) è Paolo, con le sue lettere, a formulare e diffondere la fede in Gesù; poco dopo è Marco (intorno al 72) che riprende la predicazione paolina e la struttura in un racconto più ampio e articolato: il primo dei quattro vangeli ritenuti, nel IV secolo, gli unici “canonici”. Ancora poco dopo un decennio (intorno all’84) Matteo riprende, a sua volta, il testo di Marco e lo amplifica, arricchendolo di dettagli: secondo quale criterio? Spong, sulla scia del biblista Michael Douglas Goulder (1927 – 2010), sostiene che i capitoli del vangelo secondo Matteo seguono molto fedelmente la scansione della liturgia in vigore nelle sinagoghe. Da ebreo che si rivolge ad ebrei, sa che la sua ricostruzione teologico-liturgica non sarà presa alla lettera, avendo come scopo esplicito non tanto rendicontare storicamente la vita di Gesù (che egli, personalmente, potrebbe non aver neppure conosciuto), quanto attestare la fede della sua comunità. Essa si è infatti convinta che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d. C., la “gloria” di Dio, la “presenza” di Jahvé, risplenda nella persona del Nazareno, visto come il
nuovo Mosé. Matteo esprime questa fede costruendo un racconto che ripercorre, tappa dopo tappa, la vicenda di Mosé: bambino salvato dall’eccidio dei neonati ebrei, fuggito in Egitto, rimasto quaranta anni (che diventano giorni) nel deserto, promulgatore sul monte della Legge (che diventa la nuova Legge, il “discorso della montagna”)… La tesi di Spong è di una semplicità disarmante (anche se, alle orecchie dei lettori ingenui, risulta allarmante): non sono le ‘profezie’ veterotestamentarie ad essere puntualmente avveratesi in Gesù, ma è la vicenda di Gesù che è stata costruita letterariamente sulla base delle ‘profezie’ veterotestamentarie.
Se è così, l’autore invita a non cercare in questo vangelo (come in nessun’altra pagina biblica) una veridicità storica, quanto ad accoglierne – se lo si vuole accogliere – il significato intenzionato da Matteo stesso: che in Gesù il messaggio biblico tracima rispetto alle barriere etniche di un popolo autoproclamatosi eletto e si rivolge all’umanità intera. “Andate in tutte le nazioni, dice il Cristo risorto.” – e qui non si pensa certo alla rianimazione miracolosa di un cadavere, quanto a una dimensione inedita e incomparabile in cui Gesù, “primogenito di molti fratelli”, è entrato dopo la crocifissione – “Andate da coloro che avete definito oltre i confini dell’amore di Dio. Andate da coloro che avete deciso che sono reietti. Andate da coloro che avete giudicato inadeguati. Andate dai non circoncisi, dagli impuri, dai perduti, dai non battezzati e dai diversi. Andate oltre il livello delle vostre esigenze di sicurezza. Andate da coloro che vi minacciano. […] Proclamate loro la buona notizia dell’amore infinito di Dio, un amore che ci abbraccia tutti. Con il potere di questa esperienza, permettete alle vostre paure di dissolversi; e insieme a quelle paure scomparse, dite addio anche alle vostre insicurezze, ai vostri pregiudizi, ai vostri confini. Nella comunità umana c’è posto per tutti. Imparate a mettere in pratica questa verità. Non ci sono emarginati per l’amore di Dio. Questo è ciò che il grande Mandato significa”. Un annunzio che, per essere credibile, deve intrecciare parole e gesti, teorie e opere: le comunità cristiane o diventano segni efficaci dell’amore invisibile del Padre (impegnandosi a dare la vista ai ciechi, il pane agli affamati, la libertà agli oppressi) o non hanno né senso né valore.
www.augustocavadi.com il vescovo Camara sarà presto beato
dom Hélder Câmara sarà presto beatificato di Paolo Zambaldi Morto 20 anni fa, il 27 agosto 1999, dom Hélder Pessoa Câmara, che fu vescovo di Olinda e Recife, una delle personalità più profetiche della Chiesa brasiliana, sarà presto dichiarato beato. La sua causa, è in Vaticano dallo scorso 16 dicembre, dove è giunta con tutti i documenti necessari, in particolare quelli del processo diocesano. «Sappiamo già che esiste un miracolo che potrebbe essere attribuito all’intercessione di Dom Helder – ha dichiarato dom José Alberico, sacerdote della diocesi di Olinda Recife – ma ora è necessaria la massima riservatezza in materia».
In Brasile molti si aspettano che la cerimonia per la beatificazione di dom Helder avvenga durante il 18° Congresso Eucaristico Nazionale previsto per i giorni dal 12 al 15 novembre del 2020 per la cui preparazione dom Alberico è stato nominato segretario generale. «Sarà il riconoscimento della Chiesa cattolica a qualcuno che ha vissuto e incarnato le grandi virtù cristiane della carità e dell’amore», ha detto il docente di teologia dell’Università Cattolica di Pernambuco, Degislando Nobrega. «La santità ha a che fare con la profonda intimità con Dio che traboccava nella sua vita». «Un uomo che non ha mai conosciuto l’odio, e ha agito solo attraverso il dialogo, un prete che, come nel periodo della dittatura militare brasiliana, ha sempre operato in difesa dei bisognosi e anche in difesa della libertà di espressione». Perché dom Hélder si è schierato a fianco del popolo contro i militari, sentendosi in dovere di accogliere perseguitati politici e denunciare casi di tortura e carcerazioni arbitrarie, rischiando la morte quando persone mascherate più volte sono andate a mitrgaliare il portone di casa sua. Per una lettura più ampia della personalità e dell’opera di dom Hélder Câmara, può essere utile la lettura, a questo link, di un capitolo del libro Hélder Câmara. Il dono della profezia (Edizioni Gruppo Abele, 2016, pp. 206, edizioni@gruppoabele.org), scritto da Marcelo Barros, benedettino brasiliano, biblista e teologo della liberazione. Mentre, in brasiliano, sono disponibili circa 132mila documenti riguardanti il vescovo, digitalizzati
dall’Istituto Hélder Câmara. Eletta Cucuzza, Adista, 27.08.2019 le dodici tesi di Shelby Spong – per un radicale rinnovamento della teologia e della vita cristiana
la fine del teismo e del Dio tribale nelle tesi di John Shelby Spong Paolo Zambaldi – Tra i vari contributi, tutti uniti dall’idea della necessità di superare le forme tradizionali delle religioni, fino a oggi presenti nella nostra cultura, in direzione di una religione dell’amore, spiccano le 12 tesi di John Shelby Spong (1931) vescovo episcopaliano di Newark. Un Appello ad una forte e radicale riforma della religione cristiana.” TESI UNO – Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non possiamo più percepire Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive nell’alto dei cieli ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne.
TESI DUE – Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teistici, non ha senso cercare di intendere Gesù come l’incarnazione di una divinità teistica. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, finiti in bancarotta. TESI TRE – Il racconto biblico di una creazione perfetta e compiuta, dalla quale noi, gli esseri umani, “siamo caduti” con il peccato originale è mitologia pre-darwiniana e non senso post-darwiniano. TESI QUATTRO – La nascita verginale, intesa in senso biologico letterale, rende impossibile la divinità di Cristo così come è stata tradizionalmente compresa. TESI CINQUE – Le storie di miracoli del Nuovo Testamento non possono più essere interpretate, nel nostro mondo post- newtoniano, come avvenimenti soprannaturali operati da una divinità incarnata. TESI SEI – L’interpretazione della croce
come sacrificio per i peccati è pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Dio e deve essere abbandonata. TESI SETTE – La risurrezione è un’azione di Dio, Gesù è stato elevato nella direzione del significato di Dio. La risurrezione, pertanto, non può consistere in un risuscitare fisico all’interno della storia umana. TESI OTTO – Il racconto dell’ascensione di Gesù presuppone un universo a tre livelli (cielo, terra, inferno) e, pertanto, non può essere tradotto nei concetti di un’era post-copernicana. TESI NOVE – Non c’è alcun criterio, eterno e rivelato,scritto nella Bibbia o su tavole di pietra, che debba dirigere per sempre il nostro agire etico. TESI DIECI – La preghiera non può essere una petizione rivolta a una divinità teistica perché agisca nella storia umana in un determinato modo.
TESI UNDICI – La speranza della vita dopo la morte deve essere per sempre separata dalla moralità del premio e del castigo come sistema di controllo della condotta umana. Pertanto la Chiesa deve abbandonare la sua dipendenza dalla colpa come motivazione del comportamento. TESI DODICI – Tutti gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio e devono essere rispettati per quello che sono. Pertanto nessuna descrizione esteriore dell’essere di ciascuno basata sulla razza, l’etnia, il genere e l’orientamento sessuale, né alcun credo basato su parole umane elaborate dalla religione in cui si è stati educati possono essere usati come giustificazione di rifiuto o di discriminazione. “non possiamo … dirci cristiani” contro una
blasfema interpretazione del vangelo un fallimento la sequela di Gesù? di p. Felice Scalia, gesuita pubblicato su HOREB n. 1 del 2019 (82) RISVEGLIARE PASSIONI GIOIOSE La liturgia e tanta esegesi biblica vedono nel Servo di Jhwh di Isaia il volto, il compito, i sentimenti profondi del Cristo di Dio Gesù di Nazareth. Al capitolo 49,4 l’inviato da Dio dice: «Inutilmente mi sono affaticato, ho consumato tutte le mie forze senza risultato». E più avanti (53,3) è lo stesso popolo che conferma questo fallimento: «Noi l’abbiamo rifiutato, disprezzato, come un
uomo pieno di sofferenze e di dolore. Come uno che fa ribrezzo a guardarlo, che non vale niente, non lo abbiamo tenuto in considerazione». Non vogliamo affatto leggere la storia della salvezza soltanto sulla base di queste nere affermazioni. Il Regno di Dio non è una quercia o un cedro del Libano – diceva Gesù – è un semino gettato in terreno problematico se non addirittura ostile. È un pugnetto di lievito che vuole tempo per fare lievitare la pasta. È una sciabolata di luce all’orizzonte, che squarcia le tenebre ed annunzia un’aurora ancora lontana. Dalla risurrezione del Cristo non sono mai mancati sulla Terra uomini “nuovi”, “risorti”, “rinati”, che a prezzo del loro sangue hanno voluto modellare la propria esistenza sulla Parola del Maestro. Tuttavia ci sono momenti nella storia in cui sembra che l’umanità sia nella condizione di quell’uomo della parabola che, liberato dal demonio, si vede invaso da una legione di spiriti peggiori del primo e la sua condizione da ardua si fa pessima, forse irrimediabile (cf. Lc 11,24-26). Ebbene pare che noi stiamo vivendo uno di questi momenti. Papa Francesco parlando durante il suo viaggio alle Repubbliche Baltiche nell’ottobre scorso, affermava con semplicità: «Credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento alla sua chiesa”, cioè di portare avanti il Vaticano II e di “entrare con Dio” negli inferi concreti e nel caos di questo tempo difficile. Il Papa ci autorizza dunque a non farci sconti nel guardare la realtà ed a porci interrogativi radicali. Siamo al fallimento della “vicenda Gesù di Nazareth”? Siamo ad un post-cristianesimo? E chi ha condotto a tale esito? La stessa “utopia gesuana” o quei suoi seguaci che egli chiamava la “sua chiesa”?» Ai discepoli di Gesù è andata bene… Qualcuno ha definito Gesù di Nazareth, un “fallito di successo”. Fa pensare questa definizione se la si legge non nell’ottica della “metastorica” Risurrezione, ma della fin troppo tragica e concreta storia da Lui vissuta nell’arco dei suoi tre decenni di vita tra noi. Una carriera (“Un cammino” – se preferiamo) che finisce sul Golgota, non è proprio un successo.Non pretendiamo in questa sede di dire una parola definitiva su questo argomento, ma come possiamo dimenticare
che forse non arrivano neppure alle dita di una mano quelli che, durante la sua vita terrena, lo hanno davvero compreso, accolto, seguito, nei suoi “sogni” radicali di palingenesi per fare uscire l’umanità dagli orrori della violenza sistemica del suo e del nostro tempo? È nota la lontananza del suo parentado che non solo non lo comprende, ma emette una condanna psichiatrica nei suoi riguardi: “È fuori di testa”, è pericoloso e da rinchiudere in casa per l’onore della nostra onesta famiglia. Lo registra Marco al 3,21 del suo Vangelo. Luca ci fa sapere che neppure Maria capiva molto quel figlio strano, eccentrico, insieme ubbidiente e sempre un passo oltre l’ordinarietà della vita e della saggezza comune. Lei “conservava e meditava nel suo cuore” quello che succedeva e sentiva, ma tanti altri non ci perdevano tempo.Quel nazareno dunque chi è? Lo strambo di Galilea, un senza fissa dimora, che fa, autorizzato da nessuno, il predicatore errante. Forse, anzi probabilmente, anzi con sicurezza, quel Gesù è un diavolo alleato col capo dei diavoli – si vocifera tra le persone per bene (cf. Lc 11,14ss). Vestito di luce come pare agli ingenui, miscuglio di sovversione, blasfemia, empietà, ipocrisia, populismo, come appare ai saggi anziani, ai capi religiosi e culturali, ai sacerdoti, ed allo stesso Sommo Sacerdote in carica. Che ne ha fatto della sua vita quel ragazzino che a 12 anni nel Tempio pareva promettere tanto? Un miracolo di niente, un capolavoro di fallimento, così grave, da lasciare questo mondo come un maledetto, appeso ad una croce.Se questa catastrofe nasce nel seno dei legami di sangue e nell’establishment del potere, ci si aspetterebbe almeno che tra gli amici scelti da lui stesso, qualche successo lo avesse registrato. Non è andata così. Anche con le affezioni elettive Gesù sembra una frana: avventato, imprudente, ancora una volta populista, se li sceglie tra “teste calde galilee” i suoi Apostoli, tra simpatizzanti per il movimento terrorista del tempo, lo “zelotismo”, tra ex vessatori del popolo, tra noti peccatori e teste dure, pietrose, se non ottuse. Tutti costoro lo seguono e – Pietro in testa – dichiarano di “avere lasciato tutto per stargli dietro”. Ma davvero hanno lasciato tutto? Sono andati oltre quella simpatia che ci fa seguire qualcuno “come un bambino, naso in aria, segue l’aquilone”? Hanno capito qualcosa di quella radicalità di “rivoluzione-
conversione” che il Maestro proponeva e che chiamava “venuta del Regno di Dio”? No. Erano disposti ad andarsene via anche essi, i suoi amici, dopo la crisi di Cafarnao raccontata da Giovanni 6,22ss, se solo avessero saputo dove andare. E fino alla fine litigavano come bambini per i primi posti in quel “Regno di David” (non di Dio) che pur doveva prevedere primi ministri, reggenti, ciambellani, cortigiani, plenipotenziari; cioè prestigio personale e rigida gerarchia. Gesù stesso riconosce che con i suoi presunti amici non c’è niente da fare. Si arrende e dice: “Vi manderò lo Spirito che vi farà capire ogni cosa, io non ci sono riuscito” (cf. Gv 14,23-29). Sappiamo bene che in un’ottica di fede la sua Risurrezione è il riscatto personale e perfino l’assicurazione divina che le Parole del Figlio, nonostante l’insuccesso, anzi in forza di quel fallimento, sono le uniche strade di Vita che il Padre ci indica. «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10) – scrive Paolo rifacendosi al Maestro. Quando gli uomini ripudiano la Luce è proprio allora che la Luce rimane aspirazione decisiva per non cadere nei burroni. E quando il Giusto viene chiamato “malfattore”, è proprio in quel momento che gli uomini dimostrano l’abisso in cui si trovano e la necessità di quanto ha detto il Crocifisso. È risaputo: la resistenza alla guarigione è un fenomeno che le scienze umane notano almeno da qualche secolo. Noi stiamo bene nelle tenebre e ci rifiutiamo di uscirne perché – nota Gesù – “non vogliamo che le nostre opere vengano alla luce” (cf. Gv 3,19). Ne segue che se con la morte di Gesù, non tutto del Galileo è andato in fumo, e se quel pugno di discutibilissimi Apostoli non hanno lasciato questo mondo da seguaci falliti di un Fallito, insomma se sono sopravvissuti alla delusione di “avere abbandonato tutto” per un signor nessuno che li aveva imbrogliati, lo si deve al fatto che l’esperienza del Risorto fece risorgere la loro fede e la loro speranza, e lo Spirito della Pentecoste diede quel coraggio per portare il “Lieto Annunzio” a gran parte del mondo di allora. E a noi cristiani del nostro tempo, come sta andando? È andata dunque più che bene ai Dodici. Il problema che qui ci assilla è un altro: a noi, ai discepoli dei Discepoli, come sta andando? In altre parole, il Cristo è al sicuro nella gloria del Padre. Indiscutibile. Ma il Cristianesimo? Ma la
sua Chiesa? Ma il mondo che la Chiesa dovrebbe evangelizzare? Dove è andato a finire quel fuoco che Gesù era venuto a portare nel mondo se oggi le uniche passioni che abbiamo sono “fredde”, “tristi”, legate come sono alla sopraffazione, allo scempio di vite umane, alla vittoria sui deboli, alla solitudine dei narcisisti, al disprezzo per tutto ciò che non è moneta e potere? La storia si ripete come fosse determinata da una invincibile coazione a ripetere. Nota Papa Francesco, facendo riferimento alla situazione di alcune carceri del nord Africa: «Noi oggi ci strappiamo le vesti per quello che hanno fatto i comunisti, i nazisti e i fascisti…, ma oggi? Non accade anche oggi? Certo, lo si fa con guanti bianchi e di seta!». Se mi è lecito riferire una brutta esperienza, mi permetto di ricordare un paio di incontri avuti con ecclesiastici di rilievo. Nel loro volto un grande dolore, come una cocente inguaribile delusione. “Il cattolicesimo si è sgretolato” – mi confidava uno. Ed aggiungeva “Sgretolato nella dottrina, nella cultura, nella disciplina, nel suo diritto, nell’arte, nella stima goduta, nella sua prassi, nei suoi vertici…” L’altro uomo di Chiesa, con una espressione che non dimenticherò mai, mi confidava fissandomi negli occhi: “Siamo diventati tutti atei”. Prendendo quasi a simbolo questi due incontri, mi pare che il primo interlocutore esprima con sofferenza il decadimento di una “chiesa-istituzione” che non riesce più a cantare che “Christus vincit, regnat, imperat”, dando decoro, potere e prestigio anche ai preti suoi plenipotenziari. Si tratta di quella parte di Chiesa, clericale e non, che osteggia Papa Francesco, reo di volere mettere il Vangelo della gioia e della fraternità al centro della Chiesa e del mondo. Quel Francesco che distingue bene la Parola che è Gesù, dalle nostre tante parole che creano strutture ed organizzazioni. Che non identifica tante nostre tradizioni umane, con la Tradizione evangelica. C’è avvilimento in tutto questo, come se 2000 anni di cristianesimo sfociassero in una vita che si mostra col volto livido della insensatezza umana e religiosa. Il secondo interlocutore mi fa ancora pensare. Può il cristianesimo essere una via lunga ma sicura per l’ateismo? Può l’Angelo di Luce che è il Cristo, rivelarsi un agente
segreto del Mistero delle tenebre? Questo affermava la cricca di scribi e farisei omicidi. Può l’Amico appassionato degli uomini essere il loro vero nemico con la sua smania di volere tutti liberi ed eguali? Proprio di questo accusava il Gesù tornato nella Siviglia del XVI secolo, durante un crudele “spettacolo” di esecuzione capitale, il “Grande Inquisitore” di Dostoevskij. Domande inquietanti che nessuno può prendersi il lusso di sottovalutare. È un dato di fatto che oggi il cosiddetto Occidente cristianizzato, anche quello laico che – a detta di Benedetto Croce – “non può non dirsi cristiano”, ha rinnegato il Cristo ed il suo Vangelo. Peggio, presenta come verità evangelica la sua interpretazione atea della proposta cristiana. Annunzia infatti al mondo che il Cristo ed il cristianesimo sono archeologia o folklore, perché non hanno nulla da dire alla vita. Ufficialmente, per tradizione, dobbiamo continuare a dire che tutti siamo fratelli e figli dello stesso Padre, che la legge è uguale per tutti, ma a patto che nella realtà dura della stessa vita consideriamo “scarto” i popoli “canaglia”, i malati terminali, i rom, gli omosessuali, i diversi da noi, i non-occidentali, i poveri che non consumano e non producono, quanti si oppongono alla rapina del loro territorio e della loro dignità, quanti pretendono di avere diritti inviolabili alla vita ed alla pace, quanti sentono il bisogno lancinante di credere che un mondo “altro” è possibile. Questa “anti-buona-notizia” imposta con la forza o col condizionamento, come è ovvio, è pensata su misura dei forti e dei prepotenti, non di tutta l’umanità. Dopo esserci gloriati dell’“Età dei diritti” (le varie “Carte” dal 1789 al 1948), affermiamo a chiare lettere che ci sono uomini e sottouomini, alcuni nati per essere “salvati” e la maggior parte nati per essere “sommersi”. In poche parole: basta con questa fede nell’Amore come orizzonte dei nostri rapporti interpersonali e sociali; pieghiamoci al fatto incontrovertibile che solo la Forza domina, il Potere, il Denaro. Dunque nessun Dio diAmore esiste, forse – se proprio lo vogliamo – ci sarà un Dio beffardo che ci ha scaraventato nel mondo per gioco, come gladiatori nel Colosseo. Più probabilmente veniamo dal caso e corriamo verso il nulla.
Verso una blasfema interpretazione del Vangelo Quell’ecclesiastico che mi sussurrava stravolto “Siamo diventati tutti atei”, non parlava dell’umanità ma della Chiesa, dei battezzati, di quelli che convolano a giuste nozze davanti ad un prete, che al petto, in casa o sulle loro cattedrali mantengono una Croce, che vanno a Messa e “fanno la comunione”. Lasciando da parte tutto l’Est europeo, convertitosi al Denaro ed al Consumo appena ha potuto, restringendoci alla nostra Italia, fa pensare che un politico abbia potuto proclamare il suo oscuro vangelo di xenofobo e razzista, impugnando con una mano proprio il Vangelo e con l’altra la corona del Rosario. Quasi a dire: se volete essere cristiani e mariani, e se insieme ci tenete alla vostra sopravvivenza, respingete i migranti, fateli marcire in Libia, fateli affogare nel Mediterraneo, perché questi non sono le vittime del vostro egoismo, non sono vostri fratelli nella sventura, sono solo i vostri nemici. Aggiungendo: smettetela di odiare le armi, di bandire la pena di morte, anzi armate la vostra famiglia, insegnate ai vostri figli a sparare, ferite, uccidete anche, qualsiasi estraneo che nella vostra casa o nel vostro negozio ritenete pericoloso. Dobbiamo aggiungere il peggio del peggio: questa “moderna” e blasfema interpretazione del cristianesimo non ci sarebbe mai stata, non avrebbe avuto il consenso che ha tra i pii frequentatori di chiese e processioni, se non fosse stata sostenuta da preti, vescovi, qualche cardinale e tanti laici lanciati a cavalcare la paura seminata da decenni di televisione spazzatura. Se quando nacque il “crimine” della clandestinità, la nostra gerarchia ecclesiastica avesse avuto il coraggio di spendere una sola parola a favore dei disperati di Africa e Medio- Oriente; se avesse chiarito che quegli sventurati in fuga dalle loro case, erano le nostre vittime, e non i nostri carnefici… forse non saremmo arrivati a questo ennesimo, cinico“pacchetto sicurezza”. “Lasciare tutto” e ritornare al Vangelo Nel decennio caldo del riarmo atomico (dalla fine degli anni ’70 a tutti gli anni ’80), mentre il mondo protestava ed i grandi del mondo giocavano ad organizzare vertici che non portavano a niente, ci fu una “strana” e saggia lettera aperta
che il Presidente Usa inviò al Cremlino. Nella sostanza ecco il suo incipit: «È possibile, Signor Presidente, che un capo di Stato dimentichi il bene del popolo e cerchi il proprio prestigio personale?». Forse una domanda simile sarebbe salutare tra i cristiani ed i responsabili della Chiesa. È possibile che il Vangelo di Cristo sia piegato a fini personali di tranquillità accidiosa personale, di carriera e ricchezza, e da annunzio di liberazione nella verità dell’amore si trasformi in rassegnazione per tutti i vinti della terra, ed in giustificazione per l’arbitrio (a volte criminale) dei potenti? La storia ci dice che questo non è solo possibile, ma crudamente reale. Stravolgendo un “avvenimento” come la venuta del Cristo, in dottrina sul mistero di Dio, ammettendo nella Chiesa la “potestas dominandi” (gabellandola per “sacra potestas”), dimenticando l’unico potere ammesso da Gesù, quello di “servire”, giustificando la guerra, alleandosi col potere politico, si corre inevitabilmente verso la divisione dicotomica dell’unico popolo di Dio in “ecclesia docens et ecclesia discens”, in “spirituales” e “carnales”, mentre sul versante puramente umano si va dritti verso la divisione del mondo in amici e nemici, verso il ripudio della legge del Cristo, “Amatevi come io vi ho amato”, verso la negazione del Dio Amore. Non ci sentiamo per questo autorizzati a dire che il cristianesimo è fallito. Non siamo tra quelli che assolutizzano i fatti. Noi crediamo ancora nella Verità. E la Verità dei fatti descritti è che abbiamo bisogno di una “metanoia”, di una “conversione” così radicale che a buon diritto ci ricorda la “rivoluzione”. Siamo ad un punto di non ritorno – dicono gli scienziati riguardo alle mutazioni climatiche. Siamo al fallimento ed al disincanto radicale – dicono i profeti di sventura. Noi diciamo solo che quando una strada è sbarrata abbiamo bisogno, per andare avanti, di tornare indietro e riprendere la via abbandonata, proprio lì dove l’avevamo lasciata. Detto in altro modo: ora che abbiamo tutto, sentiamo il bisogno, la nostalgia di “Altro”. Ritornare al Vangelo, lasciare “tutto” (ogni bagaglio ingombrante che ci ha fatto rinnegare il Cristo) metterci dietro il Maestro, dargli credito, questo solo può dare
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