Platform press, soft news media e femminismo pop. Elementi per il dibattito sulle strategie di audience engagement a partire dal caso Freeda - UniCa
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Il Mulino - Rivisteweb Stefania Parisi Platform press, soft news media e femminismo pop. Elementi per il dibattito sulle strategie di audience engagement a partire dal caso Freeda (doi: 10.1445/91660) Problemi dell’informazione (ISSN 0390-5195) Fascicolo 3, dicembre 2018 Ente di afferenza: UNIVERSITA STUDI CAGLIARI BIBLIOTECA (unicadm) Copyright c by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda https://www.rivisteweb.it Licenza d’uso L’articolo è messo a disposizione dell’utente in licenza per uso esclusivamente privato e personale, senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali. Salvo quanto espressamente previsto dalla licenza d’uso Rivisteweb, è fatto divieto di riprodurre, trasmettere, distribuire o altrimenti utilizzare l’articolo, per qualsiasi scopo o fine. Tutti i diritti sono riservati.
SAGGI Platform press, soft news media e femminismo pop Elementi per il dibattito sulle strategie di audience engagement a partire dal caso «Freeda» di Stefania Parisi Platform press, soft news media, pop feminism. Adding elements to the debate on audience engagement strategies. The case of «Freeda» The so-called «fourth wave of feminism» shows significant connec- tions with the networked activism and the engagement of female audi- ences. Nevertheless, the spread among young people of a pop political «sentiment» oriented towards self empowerment is also coupled with controversial market phenomena such as femvertising. The latter, while intercepting the commercial needs of brands, and influencing some publishing companies operating in the field of soft news media and platform journalism, seems to reflect at the same time the ability of self-assertion required by the labour market. This article aims to relate these phenomena with the contents and formats that give shape to the editorial line of these new womens’ magazines. Keyword: platform press, soft news e femvertising, social media maga- zines, audience engagement, feminist media studies. 1. Introduzione L’affermazione delle piattaforme di social networking come fonti privi- legiate per l’approvvigionamento di notizie solleva domande di ricerca in più ambiti degli studi sui media e sul giornalismo. Sullo sfondo del processo di ridefinizione di categorie, formati e pratiche di fruzione delle PROBLEMI DELL’INFORMAZIONE – ANNO XLIII, N. 3, DICEMBRE 2018
Stefania Parisi notizie, questo articolo propone una riflessione a partire dal social media magazine «Freeda». Un progetto che affianca alla propria natura di im- presa editoriale una sensibilità latamente politica, orientata a una sorta di femminismo pop per quanto riguarda le estetiche, i valori e insieme i consumi promossi, e a una più generale adesione al sistema valoriale, di si- gnificati e di ruoli ascrivibile a specifici comparti dell’economia contempo- ranea, della quale ricalca i dispositivi di produzione di valore. I contenuti proposti mirano a costruire legami stabili con i pubblici femminili (basati essenzialmente sulla trattazione di tematiche ritenute di interesse per il proprio target) e a sperimentare un «reshaping» dei formati indispensabi- le a garantire riconoscibilità e trattenere l’audience nel circuito produttivo – vero elemento chiave nel panorama infocomunicativo contemporaneo, e ancor più nella sfera in espansione della platform press (Bell, Owen et al. 2017), in cui la crescita della competizione tra canali e testate per con- quistare l’attenzione dei pubblici produce un deciso slittamento verso il «market centered journalism» (Patterson 2000; Reinemann et al. 2011). Assistiamo al nascere di «nuovi femminili»? E se sì, che idea di informazione propongono e quale concezione di audience pre- suppongono? Sulla scorta di esempi più longevi reperibili nel contesto anglosassone – da Bustle.com a Refinery29.com su tutte – «Freeda», social media-zine interamente nativa su piattaforma, sarà considerata in quanto macrotesto utile ad osservare le strategie di cattura delle audience femminili attraverso contenuti facilmente fruibili (a carattere di soft news), formati pensati per la specifica fruizione via social (con predilezione per l’accesso da mobile) e messaggi politici pop. Quest’ul- timo aspetto della politica editoriale ha generato dibattito in ambienti mediattivisti sul ruolo che esperimenti di «soft news media» come «Freeda» svolgerebbero nel depotenziamento di messaggi politici legati a tematiche femministe o di genere e nella sostanziale riproposizione di stereotipi e modelli funzionali al mercato. 2. La «quarta ondata femminista»: una protesta mediatizzata e i media che la supportano Con un lungo articolo pubblicato sul «Guardian» il 10 dicembre 2013, Kira Cochrane, autrice del volume All the Rebel Women, presentava 422
Platform press, soft news media e femminismo pop al pubblico il femminismo della quarta ondata1 sottolineando come le battaglie della fourth wave attraversassero non tanto – o almeno non solo – le strade delle città quanto gli ambienti connessi, e lasciassero emergere l’immagine di un movimento sorprendentemente pop: «It’s defined by technology: tools that are allowing women to build a strong, popular, reactive movement online. Just how popular is sometimes slightly startling» (Cochrane 2013a, corsivo mio). Il nuovo ciclo di mobilitazioni e proteste non è il primo a con- frontarsi con la diffusione della tecnologia, con l’egemonia dei linguaggi e dei riferimenti culturali derivati dai media e con le relative ricadute sulle culture e i soggetti del conflitto. Già la riflessione femminista di stampo filosofico e culturale dei primi anni Novanta si era concentrata sulle conseguenze per le identità, incluse quelle in rete, del sé e del cor- po mediati (penso ai lavori di Donna Haraway, Rosi Braidotti, Judith Butler e Teresa De Lauretis). Lontani dall’impronta accademica che aveva caratterizzato quegli anni, i linguaggi e l’attitudine della fourth wave sembrano piuttosto debitori nei confronti delle tendenze cultu- rali emerse in quegli stessi anni nella cultura popolare e in particolare nell’ambito musicale punk: la band femminile statunitense Bikini Kill promuove nel 1991 l’uscita di una fanzine femminista autoprodotta intitolata Girl Power e ispirata allo slogan del Black Power; pochi anni dopo, le britanniche e «commerciali» Spice Girls lo faranno proprio, spostando il messaggio dall’universo underground e politicizzato delle riot grrrls a platee e pubblici decisamente meno antagonisti. Questi esempi di popolarizzazione del contenuto conflittuale anticipano i più vasti processi di condivisione leggera e disimpegnata di temi e istan- ze politiche che oggi osserviamo nelle forme compiutamente pop e, soprattutto, «mediatizzate» (Couldry 2008; Boccia Artieri 2015) dei movimenti di protesta (Mattoni, Treré 2014; Cammaerts, Mattoni, McCurdy 2013) e dunque anche del femminismo della quarta ondata. È noto come temi, contenuti e linguaggi che caratterizzano i più recenti movimenti femministi abbiano suggerito la definizione piuttosto scivolo- sa di «post-femminismo», che già Susan Faludi (1991, 11) individuava come etichetta proveniente da ambienti mediali. La questione è stata successivamente approfondita in relazione alla cultura contemporanea 1 La bibliografia circa le diverse fasi storico-politiche dei femminismi è pressoché sterminata. Per una sintesi riferita principalmente alle ultime due «ondate», si rinvia a Magaraggia 2015. 423
Stefania Parisi da Angela McRobbie (2004; 2009), e interpretata attraverso l’indivi- duazione di un «double entanglement» che imprigiona le istanze legate al genere tra valori e pratiche contrastanti: post-feminism can be explored through what I would describe as a ‘double entanglement’ […]. This comprises the co-existence of neo- conservative values in relation to gender, sexuality and family life […], with processes of liberalisation in regard to choice and diversity in domestic, sexual and kinship relations […] (McRobbie 2009, 12). La nuova ondata mostra in effetti discrete capacità di misurarsi con i media e di abitarne gli ambienti reggendo a forme di sovraesposizione (come è accaduto nei momenti di maggiore attenzio- ne per la campagna #metoo), consapevole che un uso strategico della comunicazione possa produrre, a vari livelli, coinvolgimento e appro- vazione dei pubblici – magari attraverso linguaggi che, pur veicolando contenuti radicali, appaiono talvolta improntati a una sorta di ironia controversa. Come rileva Cochrane, si tratta di un tono che incontra talvolta le perplessità delle stesse attiviste: Many of the feminist activists I’ve spoken to have said humour is a de- fining mark of the fourth wave, an idea that is potentially controversial. Feminism is, after all, a call for social justice, a challenge to the status quo, a set of serious political demands. In these terms, humour can sometimes seem like acquiescence, or complacency, clearly unmatched to the day-to-day work of pushing for equal pay, for justice for rape and domestic violence victims, the slow chipping away of male supremacy (Cochrane 2013b). Eppure, la capacità di costruire legami con i pubblici passa proprio per una ridefinizione dei linguaggi della protesta. Se è vero che il femminismo, almeno dagli anni Settanta in poi, ha tradizionalmente assegnato indiscussa centralità alla parola – che assume un vero e pro- prio status performativo in quanto pratica politica (Butler 2015) – anche le azioni e proteste della quarta ondata sembrano non abbandonare il tracciato della svolta linguistica tardonovecentesca. In linea con le forme mediate della partecipazione politica contemporanea, le mobilitazioni degli ultimi anni appaiono in effetti poco ideologiche e profondamente legate alla dimensione, alle estetiche e ai formati dell’attivismo politico espresso via social media (boyd 2011; Boccia Artieri 2012; Johnson, Zhang, Richard, Seltzer 2011; Bennett, Segerberg 2012; Tufekci 2013). 424
Platform press, soft news media e femminismo pop La diffusione della campagna #metoo dell’autunno 2017, seguita all’emersione dell’affaire Weinstein, recupera agli ambienti digitali, rimediandole, le parole scelte dalla femminista afroamericana Tarana Burke per nominare un gruppo di attivisti di cui anni prima era stata fondatrice. La più recente #yosìtecreo, della primavera 2018, stabilisce linguisticamente i termini di una risposta che è individuale e sogget- tiva – a partire dal pronome yo – ma punta alla dimensione collettiva attraverso la diffusione virale, politicizzando anche in questo caso, come per il #metoo, un vissuto e un sentire individuale. Entrambe le campagne, muovendo dalla valorizzazione del capitale accumulato via social media in termini di audience engagement (Andò, Marinelli 2012) e dalla conseguente penetrazione nel discorso pubblico, si mostrano capaci di costruire anche mobilitazioni di carattere più tradizionale, affidate alla piazza, che sembrano avvicinare per certi aspetti queste forme di partecipazione alla tipologia di hybrid mobilization movement individuata da Andrew Chadwick (2007). Se #metoo è eletto «Person of the Year» dal «Time» nel 2017, insomma, non è perché la società e la cultura globale si sono riscoperte improvvisamente femministe, ma perché il combinato disposto tra le pratiche politico-comunicative scelte per la mobilitazione – che hanno carattere distribuito, connesso, inclusivo – e le prese di posizione di singole personalità in vista – star, (micro)celebrità e (web)influencer – ha favorito una adesione di prin- cipio trasversale, che suggerisce l’idea di una buona disposizione dei pubblici nei confronti di forme di politicizzazione del sé connesso. Sembra insomma che la quarta ondata femminista si sia gio- vata di un clima, di un mercato culturale e di ambienti comunicativi in qualche modo «favorevoli», sui quali ha innestato la propria capacità di catturare l’attenzione di audience femminili diversamente ideologizzate. Seguendo questa ipotesi più generale, la ricerca di casi rappresentativ di un simile approccio ai contenuti. Anche a carattere di news, conduce alle piattaforme di social networking e, in particolare, a Facebook. Alla diffusione di un «sentiment» vagamente disponibile alla ricezione di tematiche di genere non sembrano infatti estranee le strategie editoriali di social media-zine che promuovono audience engagement rivolto a pubblici femminili (Holland 1998; North 2014; Worthington 2017) composti da millennials (Strauss, Howe 2000; Palfrey, Gasser 2008) spesso con abilità e/o interessi nelle professioni legate al digitale (Andò, Marinelli 2017). Le americane già citate Bustle e Refinery29, sebbene 425
Stefania Parisi approdate alle piattaforme social solo dopo aver costruito la propria identità attraverso siti web, ne sono un esempio. L’attività di questi soft news media (Baum 2002, 92-93) avviene pressoché esclusivamente negli ambienti social (in particolare Facebook e Instagram) e fa uso strategico di formati specifici come instant article, brevi video, imma- gini e grafiche creative. I contenuti, pensati per la condivisione virale, oscillano tra infotainment e market-centred journalism (Hamilton 2004; Reinemann et al. 2012; Nguyen 2012) con venature politiche (Van Zoonen 2005): self empowerment, personal- e life-style, consumi, contrasto a body shaming e discriminazioni di genere ed etnia. Sullo sfondo, emerge la costruzione e promozione di un modello di femminilità adeguato a sostenere stili di vita e vocazioni delle millennials: il self empowerment che il femminismo liberal propone alle giovani donne sembra infatti adeguato a sostenere l’immagine «vincente», «riuscita» e «affermata» rispondente alla domanda di un mercato sempre più fondato su capacità autoimprenditoriali e processi di femminilizzazione del lavoro, in particolare nei settori del digital labour (Morini 2007). Nei paragrafi che seguono saranno esplorate la variabile genere e quella legata alla tecnologia delle piattaforme, entrambe determinanti per la nascita di nuove forme di soft media, che preludono alla descrizione del «modello Freeda». 3. Generi delle notizie, genere dei pubblici Il rapporto tra genere delle audience e genere delle news è stato a lungo indagato da differenti prospettive (studi culturali, journalism studies, marketing, psicologia sociale, gender e feminist studies) anche rispet- to alla sfera dei media di massa; la diffusione delle tecnologie e delle piattaforme di rete non ha, prevedibilmente, semplificato i termini della questione. Nel 2001 – un tempo piuttosto lontano considerata l’evo- luzione dei media digitali in questi due decenni – Liesbet Van Zoonen valutava le posizioni dei ricercatori in merito al fatto che internet fosse o meno un posto per donne, concludendo che, di certo, era un posto in cui i ricercatori di mercato andavano a caccia di target femminili. Non a caso uno degli studi più noti del campo era intitolato The Onli- ne Woman. How to Tap into her Buying Power (Van Zoonen 2001, 70). Da quell’epoca, gli studi sulle culture e le pratiche negli ambienti 426
Platform press, soft news media e femminismo pop connessi hanno più volte ridefinito il proprio campo di applicazione e i propri oggetti (e soggetti) di ricerca. Nel frattempo l’affermarsi dei linguaggi e dei formati digitali nelle routine produttive giornalistiche e le modificazioni della sfera dell’informazione ad opera di nuovi attori e processi emergenti nel mercato contribuivano a ridefinire lo statuto stesso della notizia, in un processo non lineare segnato da permanenze e discontinuità. Le etichette di soft news e infotainment (Baym 2008; Rei- nemann et al. 2012), così come i processi di softening (Otto, Glogger, Boukes 2016) e tabloidization (Sparks, Tulloch 2000) delle notizie segnalano una tendenza piuttosto consolidata che punta a riservare spazio e attenzione crescente a fatti e notizie riferibili all’ambito privato e alla sfera degli interessi individuali a scapito dell’informazione di più stretta attualità e rilevanza pubblica. Gli studi sulle routine pro- duttive dell’informazione hanno evidenziato inoltre l’esistenza di una suddivisione del lavoro su base di genere che rispecchia la rilevanza attribuita alle notizie – maggiore per le hard news, minore per le soft news. In base al posizionamento sulla scala di rilevanza percepita, la probabilità che le hard news siano affidate a giornalisti maschi è più alta, e allo stesso modo è più facile che l’attribuzione dei compiti di redazione di soft news riguardi le donne (North 2014). Van Zoonen (1998, p. 36) segnala l’interesse «umano» più che «sociale» delle soft news, mentre Bender et al. (2009, p. 134) insistono sulle reazioni che esse evocano nei pubblici: empatia, commozione, riso, pianto, odio o amore. È probabilmente anche la connessione con la sfera emotiva a conferire a questo tipo di notizie un prestigio minore nella gerarchia delle news, e dal momento che le emozioni nel senso comune sono solitamente poste in relazione con la sfera del femminile la probabilità che la loro redazione sia affidata alle reporter è più alta (Poindexter, Harp 2008). Diseguaglianze e iniquità tendono dunque a riprodursi a vari livelli dell’ambito del newsmaking (Poindexter, Meraz, Schmitz Weiss 2008), originando quello che Suzanne Franks (2013) ha defini- to come un «ghetto rosa», in cui le donne scrivono di temi indirizzati principalmente a pubblici composti da donne. Ma è in particolare sui pubblici che si è indagato a partire dal loro essere sessuati, ragionando anche su come le loro rappresen- tazioni – talvolta obsolete e stereotipiche – siano in grado di guidare l’offerta. Per citare, in una lunga tradizione di ricerca, uno studio che 427
Stefania Parisi intercetta il tema strategico dell’engagement delle audience, mi riferirò a quello condotto da Nancy Worthington (2017) su due storiche riviste statunitensi di intrattenimento – Variety e The Hollywood Reporter, rispettivamente fondate nel 1905 e nel 1930, ed entrambe presenti oggi online – racconta in che modo le due pubblicazioni abbiano costruito il discorso sulle donne consumatrici di contenuti mediali durante un decennio (dal 2006 al 2015) in cui «media technologies, consumption habits, and audience participation altered considerably, as did revenue-generating opportunities» (ibidem, 1). Worthington rileva come la possibilità per gli spettatori di aggirare la pubblicità – evidentemente potenziata nella fruzione in rete rispetto alla tradi- zionale visione televisiva – abbia generato, in risposta, sempre nuovi tentativi di contrasto da parte delle emittenti. Così, gli inserzionisti hanno iniziato a richiedere studi che non restituissero soltanto infor- mazioni sull’esposizione ai contenuti da parte dei pubblici, ma che fornissero informazioni anche sul loro engagement. Citando lo studio di Nicole Cox (2015) sull’audience engagement del network televisivo Bravo attraverso i social media, Worthington ricorda che «One proxy ratings researchers use for the latter is viewers’ use of social media to comment on and critique media texts, activities that many women find particularly pleasurable» (2017, 2). La questione appena accennata apre al tema del significativo salto di scala della partecipazione produttiva dei pubblici intesa come forma di lavoro non retribuito, che rispetto a quella indagata dagli studi classici sul fandom, condotti anche in termini di economia cul- turale (Fiske 1992) appare oggi potenziata nelle piattaforme di social networking. Il tema è ampiamente dibattuto negli studi sulle audience connesse (Napoli 2011; Fuchs 2015; Marinelli 2017), e in alcuni casi si osservano interessanti tentativi di incrociare strumenti e chiavi di lettura provenienti dalla critica femminista e dalla critica dell’economia politica dei media (Meehan 2002; 2005): lavori , questi ultimi, che hanno il merito di piegare l’analisi critica culturale e politica fondata sul genere lungo l’asse strutturale delle dinamiche del mercato dei media, suggerendo di pensare agli stereotipi come a motori potenti dell’offerta di contenuti mediali, e dunque elementi che governano le politiche di un comparto rilevante dell’economia contemporanea. Da una simile prospettiva, ma naturalmente con finalità di mercato e non critiche, muove la crescente presenza sulle piattaforme social di media commer- 428
Platform press, soft news media e femminismo pop ciali che presuppongono una idea più attuale di audience femminili orientate al cambiamento: forme aggiornate di webzine che a partire da rappresentazioni del femminile diversamente stereotipiche puntano a costruire una offerta «alternativa» di contenuti, situati all’incrocio tra soft news e femvertising, posizionando saldamente il genere nella catena di estrazione del valore dagli ambienti social. Formati, strategie e vocazione dei «nuovi femminili» si comprendono meglio nel quadro della progressiva crescita della competizione tra testate per attirare (e possibilmente trattenere) l’attenzione dei pubblici, in un ecosistema mediale segnato dall’affermazione del «market centered journalism» (Patterson 2000; Reinemann et al. 2011) e dalla sovrapposizione del momento produttivo e distributivo dei contenuti tipico dei social nework sites. Vediamo in che modo. 4. Piattaforme come nuovi editori (e nuovi editori in cerca di piattaforme) Per lungo tempo, e in diverse in occasioni pubbliche, Mark Zuckerberg ha insistito sulla natura di tech company di Facebook. Comprensi- bilmente, dato che un editore ha molti più vincoli e responsabilità di un imprenditore dell’hi-tech. Tuttavia, a fine 2016, sull’onda delle polemiche riguardanti la diffusione delle fake news e dell’impatto che queste avrebbero avuto nell’indirizzare le scelte di voto in occasione dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, le sue dichiarazioni aprono a una presa di responsabilità divenuta inevitabile: Facebook is a new kind of platform. It’s not a traditional technology company. It’s not a traditional media company. You know, we build technology and we feel responsible for how it’s used. We don’t write the news that people read on the platform. But at the same time we also know that we do a lot more than just distribute news, and we’re an important part of the public discourse2. Non scriviamo le notizie che le persone leggono, ma sap- piamo di essere molto più che semplici distributori di informazioni. 2 La videoconversazione è raggiungibile al link https://www.facebook.com/zuck/vi- deos/10103353645165001/ (ultimo accesso: 26 maggio 2018). 429
Stefania Parisi La dichiarazione non fa che fotografare un dato di fatto – e cioè che l’impresa di Menlo Park (ma la questione riguarda, sebbene in gradi diversi, anche le altre piattaforme social) rappresenta un ambiente inevitabilmente e capillarmente attraversato da flussi di notizie, con- tenuti (para-)giornalistici e opinioni (spesso lunari) rispetto ai quali risulta complesso applicare le categorie relative alla qualità e al rigore dell’informazione: una infosfera in cui professionisti e utenti produttori di contenuti contribuiscono a mettere in discussione lo statuto tradi- zionale della notizia, e a ridisegnare – per qualcuno, al ribasso – gli standard professionali. Il Rapporto 2017 del Tow Center for Digital Journalism inquadra questi processi nei termini di una sorta di «involontarietà» del ruolo di editori, con il quale, volenti o nolenti, i tech giants devono fare i conti: Technology companies including Apple, Google, Snapchat, Twitter, and, above all, Facebook have taken on most of the functions of news organizations, becoming key players in the news ecosystem, whether they wanted that role or not. The distribution and presentation of information, the monetization of publishing, and the relationship with the audience are all dominated by a handful of platforms. These busi- nesses might care about the health of journalism, but it is not their core purpose (Bell, Owen et al. 2017, 14, corsivi miei). Sono due le tendenze che contribuiscono a mutare radi- calmente lo scenario della fruizione di informazione in rete. La prima riguarda appunto la centralità delle piattaforme social e search come fonti per l’approvvigionamento di news da parte dei pubblici connessi; la seconda riguarda le pratiche d’uso e i punti di accesso dei singoli utenti, che utilizzano sempre più spesso il mobile e le app: The rapid adoption of smartphones has transformed media consump- tion, turning technology companies with their apps and operating systems into the new gatekeepers of information. According to 2016 Pew data, 92 percent of young Americans from 18 to 29 own a smart- phone, and 77 percent of the population as a whole – higher than the number with broadband connections at home. Over 62 percent of the US population gets news from some form of social media, with Facebook the dominant source (ibidem, 15, corsivi miei). Questo scenario, a ben guardare, interroga direttamente tanto le aziende editoriali di tipo tradizionale quanto le piattaforme 430
Platform press, soft news media e femminismo pop stesse. Se infatti è vero che ad essere messe in crisi dalle pratiche degli utenti e dall’offerta dei siti di social networking sono per lo più le pri- me, anche le seconde, incoronate «dal basso» come media a tutti gli effetti, sono chiamate a una ridefinizione – e con tutta evidenza a una autoregolamentazione – del proprio ruolo nel sistema infocomunicativo. Sullo sfondo di questo orizzonte mobile, il giornalismo tradizionale (e le imprese che lo sostengono) appare davvero come una piccola parte di un mercato dell’informazione divenuto assai più vasto e articolato rispetto a un tempo nemmeno troppo lontano. E per di più, mentre le platee di potenziali lettori si allargano oltre ogni ottimistica previsione, i modelli di business e di distribuzione caratteristici delle piattaforme tendono a premiare i contenuti nativi affidati a format preconfezionati e in generale a materiali e testi che 1) poco o nulla hanno a che vedere con la qualità del lavoro giornalistico e 2) difficilmente invitano l’utente a uscire dal perimetro della piattaforma: a high proportion of many news organizations’ content is designed to be consumed natively, on platforms including Apple News, Facebook Instant Articles, Instagram, and Snapchat, rather than driving audien- ces back to publishers’ websites. Native publishing products, including Google AMP pages, Facebook Instant Articles, Twitter Moments, Apple News, Snapchat Discover, Instagram Stories, mean that a reader might look at a story from The Economist on Google without ever touching The Economist’s own app or site (ibidem, 27, corsivo mio). La situazione in cui vengono a trovarsi gli editori, che scel- gono (giocoforza) di affidare alle piattaforme social la distribuzione dei propri contenuti ha ricadute interessanti anche per quanto riguarda lo statuto e la proprietà delle audience – una questione aperta, in verità, fin da quando nel 2009 Facebook ha promosso la possibilità di ospitare sulle proprie pagine i commenti e le discussioni tra utenti originate da siti web esterni (ibidem, 37). Affidando alla piattaforma la gestione e la moderazione delle conversazioni, molti organi di stampa operarono una prima, significativa «cessione di sovranità», dato che l’accordo commerciale consentiva a Facebook di controllare forma e contenuti delle conversazioni, oltre che di stabilire le regole stesse di accesso alla discussione (attraverso il login con l’account del social network). La produzione e distribuzione di contenuti informativi at- traverso i formati e i canali della platform press interessa anche i nuovi femminili e i loro editori. I magazine online destinati (prevalentemente) 431
Stefania Parisi alle audience selezionate in base al genere ereditano dai loro antenati cartacei (penso qui alle riviste commerciali, e non ai giornali politici in senso stretto) una certa ambigua attitudine «progressista» ed emancipa- toria. Anche la scelta di lasciare affiorare i valori del self empowerment femminile dagli stili di vita, dai consumi – anche culturali – e dalla presentazione di specifici modelli di donne si colloca in continuità con la storia delle riviste femminili, così come la predilezione marcata per le soft news e una certa tendenza a ibridare gli stili narrativi attraverso il ricorso a formati specifici (reportage e illustrazioni ieri, presenza di video e infografiche oggi). Allo stesso modo, i femminili tradizionali e i «social media magazine» destinati a pubblici di donne condividono una visione dell’audience femminile come target al contempo orientato al consumo e in grado di orientare i consumi. In questo scenario, a se- gnare una discontinuità e una trasformazione nella pratica di fruizione del prodotto giornalistico, come è intuibile, è innanzitutto il mezzo che sostiene la produzione di informazione-intrattenimento e ne veicola i prodotti. Quello stesso mezzo in cui risiede la possibilità, abilitata da specifiche affordance, di sostenere cause e di ingaggiare i pubblici negli stessi ambienti in cui le informazioni circolano. 5. «Freeda». Un engagement politico ma non troppo È piuttosto diffusa la tendenza a leggere le strategie di adattamento del settore dell’informazione ai processi del mercato come altrettanti gradini di una ipotetica «scala di degenerazione» di un modello ide- altipico di stampa – costruito socialmente almeno quanto i fenomeni dei quali intende rappresentare il termine di paragone. Ora, ci sono almeno due passaggi della Storia naturale del giornale di Robert Park che mi sembrano utili a sintetizzare i termini della questione. Il primo spiega come non è detto che ci si trovi necessariamente di fronte a forme degradate di news media «alti»; al contrario, è possibile individuare in queste forme «basse» una delle funzioni storicamente inscritte nel sistema dell’informazione: What is a newspaper? Many answers have been given. […] The modern newspaper has been accused of being a business enterprise. «Yes», say the newspaper men «and the commodity it sells is news». […] By mak- ing information about our common life accessible to every individual 432
Platform press, soft news media e femminismo pop […] it is urged […] some sort of working democracy. The advertising manager’s notion is again something different. For him the newspaper is a medium for creating advertising values. The business of the editor is to provide the envelope which incloses the space which the advertising man sells (Park 1925, 82). Il secondo chiarisce che , indubitabilmente, l’obiettivo pri- mario di un editore è, banalmente, vendere, e non lavorare per finalità di progresso umano e sociale (al più, può provare a contemperare entrambe le istanze): The first newspapers were simply devices for organizing gossip, and that, to a greater or less extent, they have remained. Horace Greeley’s advice to a friend who was about to start a country paper is as good today as it was then. «Begin with a clear conception that the subject of deepest interest to an average human being is himself; next to that, he is most concerned about his neighbors. Asia and the Tongo Islands stand a long way after these in his regard […]». […] In a city where everything happens every day, it is not possible to record every petty incident, every variation from the routine of the city life. It is possible, however, to select certain particularly picturesque or romantic incidents and treat them symbolically, for their human interest rather than their individual and personal significance. In this way news […] ceases to be the record of the doings of individual men and women and becomes an impersonal account of manners and life (Park 1925, 83-84). Il campo giornalistico, secondo la lettura di Park, attraversa costitutivamente i confini tra privato e pubblico, mentre la funzione della stampa di «tradurre» in termini simbolici – e dunque più generali – le azioni di uomini e donne, di rappresentarle perché altri – i lettori – possano identificarvisi, sembrerebbe potersi addirittura giovare della diffusione di tecnologie che ne supportano la diffusione. Evidentemente, però, siamo lontanissimi dalle discussioni tra raffinati gentlemen eu- ropei che si incontravano nei caffè descritti da Habermas, e molto più vicini al chiacchiericcio popolare, al disordine della strada. Stabilire se queste due istantanee, per un automatismo cognitivo cui non è estranea la consuetudine con le rappresentazioni di archetipi culturali legati al genere, evochino anche i distinti e gerarchizzati domìni del maschile e del femminile, e perciò si riflettano sui giudizi di valore assegnati all’una o all’altra visione, non è compito di questo contributo – ma credo sia onesto sottolinearne almeno l’eventualità. 433
Stefania Parisi Ad ogni modo, le funzioni di rappresentazione simbolica del giornale pettegolo di Park trovano qualche corrispondenza nei formati e nei contenuti soft del giornalismo delle piattaforme. Per stare al contesto italiano, osserviamo allora più da vicino «Freeda», che rappresenta al contempo un buon esempio di social media-zine interamente nativa su piattaforma e un macrotesto utile ad osservare le strategie di ingaggio delle audience femminili in rete attraverso for- mati facilmente consumabili e contenuti politici pop. Questo recente ma significativo caso e il dibattito che si è generato intorno alla sua politica editoriale in ambienti mediattivisti3 incrociano i temi fin qui presi in considerazione (dallo specifico processo di «shaping» dei formati giornalistici operato dal ruolo delle piattaforme di social networking nella produzione e distribuzione di contenuti informativi alle strategie di cattura e intrattenimento dei pubblici nel circuito produttivo delle notizie, indispensabile in un ecosistema infocomunicativo in cui l’at- tenzione è la vera risorsa scarsa da conquistare) declinandoli anche lungo l’asse politico-culturale. Il progetto «Freeda» (il cui nome rinvia alla pittrice Frida Khalo, icona femminile assai celebrata dai media, e si caratterizza per grafia e fonetica affini alla parola freedom) nasce nel 2017 e mostra fin da subito una inusuale capacità di capitalizzare in tempi molto rapidi un ampio bacino di lettori-followers4. Il magazine declina i propri con- tenuti lungo l’asse del cosiddetto empowerment feminism che si esprime spesso nelle forme «di mercato» del femvertising (Goldman, Heath, Smith 1991; Lazar 2006; Gill 2008; Zeisler 2016; Åkestam, Rosengren, Dahlen 2017, Capecchi 2018). Emerso come fenomeno di marketing, il femvertising rivela interessanti implicazioni socioculturali e sembra sorreggere il processo di convergenza tra interessi di specifiche porzioni di mercato (anche di quello dell’informazione), comportamenti e culture partecipative delle audience connesse e, detto con un termine rétro, ideologia dominante. Non si tratta soltanto di una strategia discorsiva per individuare nicchie di potenziali consumatrici e scegliere i prodotti 3 Il dibattito è stato avviato a partire da un articolo della «webzine metropolitana» Dinamopress, intitolato «Ecco cosa c’è dietro Freeda» (https://www.dinamopress.it/news/ecco-cosa-c-e- dietro-freeda/) cui sono seguite diverse repliche. Si veda anche il post «Perché è importante che il femminismo sia pop», pubblicato da Freeda e reperibile al link http://freedamedia. it/2018/05/22/perche-e-importante-che-il-femminismo-sia-pop/. 4 L’ultima rilevazione evidenzia 1.3 milioni di Facebook followers e oltre 603mila Instagram followers (www.freedamedia.it, consultazione al 28 maggio 2018). 434
Platform press, soft news media e femminismo pop da vendere loro, ma di una parte importante della cultura femminista pop, in cui i consumi contribuiscono a sostenere l’autoaffermazione delle donne lavorando sulla commistione tra il sostegno a un femmini- smo «trendy» (Vagianos 2016), «mainstream» e «populista» (Williams 2018) e obiettivi (più o meno dichiarati) di engagement dei pubblici a fini commerciali. Il risultato è un femminismo che potremmo definire, con un gioco di rimandi, shareable, condivisibile cioè tanto nei toni quanto nei formati che ne consentono la diffusione via social media: The advertising industry, once bent on selling us sex is now selling us its disgust with sexism. […] In all, it means we will see more drives to sell young women empowerment through individual brands or projects. Likely ones with catchy slogans that can take off on Twitter and ignore any boring analysis of gender inequality in favour of feeling good. The idea that confidence and self-belief is what the debate and struggle is missing is seductive: it encourages sisterly encouragement – likes, shares and stories told in 140 characters are easily digestible, and a soft way to get adolescents, in particular, hooked on the movement – and, of course, your brand (Iqbal 2015, corsivo mio). Come nei soft media a stampa o audiovisivi, anche in quelli che abbiamo definito «social media-zine», come «Freeda», l’attenzione è sui temi che sono stati definiti «rilevanti per i singoli» piuttosto che per la vita pubblica, mentre, in sintonia con i già richiamati processi di branding e popolarizzazione del femminismo degli ultimi anni, i contenuti subiscono una sorta di leggera politicizzazione, tipicamen- te espressa – a fronte di una riconosciuta discriminazione di genere diffusa nella società – nei termini di autoaffermazione, accettazione e accrescimento dell’autostima delle donne. La linea è dichiaratamente ispirata a esperimenti editoriali analoghi per target, contenuti, valori e modalità di distribuzione, come Refinery29 e Bustle, ma come sostiene la editor Bernardoni, «Freeda» è un editore 100% social, […] i nostri articoli sono progettati per essere fruiti direttamente da Facebook come Instant Articles, considerando anche che la nostra audience trascorre la maggior parte del tempo online da mobile e su piattaforme social. […] Dal punto di vista editoriale invece ci siamo concentrati principalmente su tre formati: profili biografici di storie di grandi donne, divulgazione di ricerche scientifiche su tematiche rilevanti per la nostra audience e approfondimenti culturali. Copriamo anche l’attualità, ma ovviamente con il filtro dei nostri valori (Milani 2017). 435
Stefania Parisi Il target a cui il magazine si rivolge, composto da donne tre i 18 e i 34 anni, è lo stesso individuato da uno studio di An Nguyen (2012) come quello maggiormente sensibile ai consumi di soft news, e il richiamo dell’editor alle abitudini di consumo e presenza online della propria audience evidenzia una connessione con le millennials e gli stili di vita e di consumo che sono loro attribuiti5. La strategia editoriale si inserisce compiutamente nel quadro della platform press, e la scelta dei social media su cui concentrare il proprio intervento – Facebook e Instagram – è motivata dalla predilezione per formati specifici – articoli brevi, video e cards – che intercettano le attuali tendenze di consumo di contenuti in ambienti connessi. Post e video sponsorizzati promuovono in genere prodotti per la cura di sé, moda e brand women friendly, o temi considerati sensibili per consumatrici consapevoli6. Lo scostamento dal «factual entertainment» puro è garantito dalla pre- senza costante di soft news, e da quella, meno continua, di notizie con carattere di attualità7. I contenuti sono originali (testi e/o filmati, questi ultimi sottotitolati per la fruizione anche in modalità «silenziosa») e realizzati dalla redazione. Il sito web del progetto ha esclusiva funzione di landing page. Da questo punto di vista ricorda uno dei modelli di newsmedia che interpretano in maniera più radicale l’idea di «editoria delle piattaforme», e che dichiara programmaticamente l’intenzione di superare l’idea anacronistica del sito web: Taken to the extreme, the strategy of emphasizing distribution produces NowThis News, a video news service which tells readers (on its landing page) that there is no homepage: «Homepage. Even the word sounds old. We bring the news to your social feed». The embrace of platforms 5 Tra le altre realtà (micro)editoriali – con target simile ma attitudine decisamente meno imprenditoriale – già esistenti in Italia al momento della nascita di Freeda, cito almeno Soft Revolution - Ragazze che dovrebbero darsi una calmata, attiva dal 2011 e che tuttavia non ha carattere nativo su piattaforma (nasce infatti come magazine-blog collettivo, cfr. www. softrevolutionzine.org/). Ancora ad uno stadio piuttosto acerbo, ma come Freeda presente esclusivamente su social media (Facebook e Instagram), segnalo il progetto Lisa (https://www. facebook.com/experienceis/), edito da Condé Nast Italia. 6 Si veda il post dedicato alla cosiddetta pink tax, «Essere donna costa caro: che cos’è la pink tax» (http://freedamedia.it/2017/02/28/essere-donna-costa-caro-che-cose-la-pink-tax/). 7 Appare saltuaria l’attenzione all’attualità più stretta, segnalo tuttavia a titolo di esempio alcuni post che ricadono nella categoria: «Harvey Weinstein sta per essere arrestato», del 25 maggio 2018 (http://freedamedia.it/2018/05/25/harvey-weinstein-sta-per-essere-arrestato/), quasi una breaking news, oppure «Dove sono finite le giornaliste», del 18 maggio 2018 (http:// freedamedia.it/2018/05/18/dove-sono-finite-le-giornaliste/), che rinvia ad un tema trattato nello stesso periodo dalla stampa mainstream. 436
Platform press, soft news media e femminismo pop is shaped by the business model of the publisher […] (Bell, Owen et al., 28-29). Solo occasionalmente gli articoli presentano link ester- ni, che «spezzano» la circolarità della fruzione interna alla pagina. Questo approccio suggerisce l’idea di «una casa costruita sul terreno di qualcun altro» (ibid., p. 36, tradzione mia): è, in effetti, il pre- supposto per rinunciare al controllo sulla propria audience. Ma in questo caso si tratta di una strategia precisa, mirata a stimolare l’a- gency dei pubblici e generare tra gli utenti «small acts of productive engagement» (Kleut, Møller Hartley, Pavlíčková et al. 2017, 28-29), come «one-click engagement, commenting and debating, production of small stories» (ivi). Siamo ancora, e decisamente, dentro il frame teorico dell’audience labour e della sua valorizzazione (Fisher 2012). Per quanto riguarda i messaggi veicolati, quando non sono concentrati sull’io e sulla declinazione market-centered del femvertising, i contenuti si allargano al più a evocare una «sorellanza» cooperativa e solidale, che si condivide in forme intimistiche (il richiamo al gruppo di amiche, alla complicità fra donne, i modelli di donne di successo da condividere e imitare, o a cui guardare per trarre ispirazione) e dalla quale il conflitto è bandito. Anche perché sarebbe dannoso per il lavoro di squadra. Un ulteriore elemento di interesse ai fini della costruzio- ne di un preciso modello del femminile compatibile con il modello produttivo del capitalismo avanzato, riguarda infatti la rappresenta- zione delle routine produttive nella redazione stessa di «Freeda» nei termini di buona pratica. Affidata in un primo momento a un video, e successivamente a un Instant article «brandizzato» da uno sponsor terzo (Team «Freeda» 2018), è successivamente rilanciata dallo stes- so sponsor sul proprio sito web (Mammone 2018), nell’ambito di un progetto più ampio (The work behind) che si incarica di esplorare al- cune «isole felici» selezionate tra luoghi e forme di organizzazione del lavoro creativo contemporaneo. Una forma di valorizzazione reciproca tra editore e sponsor. La visione del femminismo empowered è tutto sommato funzionale agli assetti e alle richieste del mercato del lavoro contemporaneo, soprattutto (ma non solo) di quello che abita gli am- bienti del capitalismo digitale o delle piattaforme (Srnicek 2017), al di là dei singoli comparti in cui esso si organizza (dalla logistica al design, dalle industrie creative al marketing). Se si parla di femminilizzazione 437
Stefania Parisi complessiva del lavoro è perché a tutti, indistintamente, sono richieste prestazioni flessibili, estemporanee, in cui le skills umane entrano di diritto in gioco come variabili fondamentali. E queste skills, soft come le news che le promuovono e come il potere che le orienta, si intendono tradizionalmente ascritte al femminile (Morini 2007). Che in definitiva il self empowerment rappresenti un dispositivo di controllo piuttosto che di liberazione8? 6. «The smart, the brave, the driven, the powerful»: alcune osservazioni conclusive La riflessione sulla nascita di social media-zine orientati alle audience femminili è stata condotta considerando due fattori all’opera nel campo giornalistico contemporaneo: da un lato la necessità di conquistare e mantenere l’attenzione dei pubblici in un orizzonte sempre più com- petitivo e rispondente a dinamiche di mercato, che si declina nelle forme della platform press e vede la moltiplicazione di canali e prodotti informativi; dall’altro la «riscoperta» di un segmento di pubblico ap- petibile – le donne tra i 18 e i 34 anni, già prese in considerazione dal marketing come obiettivo sensibile per il proprio potere d’acquisto (o di indirizzo all’acquisto). Non si tratta, con ogni evidenza, di una nicchia di mercato, ma di un target largo e in qualche misura «generalista», per estensione e composizione socioculturale. Caratteristiche che lo ren- dono particolarmente ricettivo rispetto ai contenuti di un femminismo liberal – in cui il conflitto e la dimensione collettiva sono politicamente depotenziati e restano vitali i richiami alla valorizzazione delle proprie qualità, all’esaltazione delle specificità individuali, al raggiungimento di obiettivi personali (lavoro, relazioni, eccetera) – utilizzato per costruire un idealtipo di donna indipendente, consapevole, capace di scegliere, motivata al successo. Tutte caratteristiche che ben si attagliano al nuovo mandato sociale contemporaneo, in quanto aderenti al sistema valoriale delle forme più avanzate del capitalismo contemporaneo (Gill, Scharff 2011). 8 La stessa domanda si rintraccia anche in un post della già citata Soft Revolution, dal titolo «Dov’è il confine tra empowerment e oppressione nella cura di sé?», http://www.softrevolu- tionzine.org/2016/empowerment-oppressione-cura-di-se/. 438
Platform press, soft news media e femminismo pop Ho preso in prestito, per il titolo di questa sezione, un pas- saggio di un articolo (Coffey 2016) pubblicato sulla rivista «Jacobin» nell’agosto 2016 che mi sembra tratteggiare efficacemente il profilo della donna «empowered» per concludere con una riflessione sul filo rosso che lega soft news, soft skills e – inevitabilmente – soft power nel complesso nodo della produzione di valore negli ambienti mediali «social». Una interessante, inedita e più ampia forma di coltivazione dei pubblici che nasce con scopi di mercato ma si inscrive compiuta- mente nel quadro dei fenomeni di politicizzazione «pop» (Mazzoleni, Sfardini 2009) e, per giunta, non riguarda esclusivamente i pubblici connessi: penso al successo di editoria narrativa come il volume Storie della buonanotte per bambine ribelli di Elena Favilli e Francesca Ca- vallo (2016), il cui progetto, finanziato attraverso una fortunatissima campagna di crowdfunding, racconta alle giovanissime le storie di donne «eccezionali». Questo filo rosso sembra da un lato attraversare le strategie di marketing alla base delle esperienze di alcune webzine sorte nel perimetro del platform journalism e dall’altro orientare le critiche al fenomeno stesso, che individuano nel femminismo pop di matrice liberale, e nelle costruzioni discorsive orientate al self empowerment femminile che lo caratterizzano, l’attivazione di meccanismi di autocon- trollo intestati al singolo soggetto femminile piuttosto che di liberazione collettiva. Nella consapevolezza che nulla o quasi possa dirsi circa gli eventuali effetti della diffusione di contenuti politicamente orientati sull’opinione pubblica, proverò comunque a tracciare qualche linea di possibile interpretazione del «networked feminism» a partire dal clima culturale in cui sono immerse questa ed altre simili imprese editoriali a vocazione social. Ad esse si contesta una sorta di edulcorazione delle istanze di emancipazione e una anestetizzazione del portato conflittuale del femminismo, qui utilizzato come frame per vendere merci o generare profitti dal lavoro dei pubblici connessi. La mutuazione di elementi, discorsi, estetiche e stili da culture antagoniste e movimenti sociali è, ammettiamolo, storia ormai antica. E se a ridosso dell’anniversario politicamente sensibile del Settantasette, in Hoxton Square a Londra si inaugurava, per iniziativa di due imprenditori italiani, la pizzeria «Radio Alice», intitolata al medium simbolo del movimento bolognese (Bukowski 2018), per quale ragione le modelle Emily Ratajkowski o Ashley Graham (tra le altre e gli altri) non dovrebbero fare del fem- minismo glamour o della body positivity un proprio brand? Certo, la 439
Stefania Parisi stessa ripresa dell’utilizzo del termine femminismo nelle narrazioni dei media non indica l’intenzione della trasformazione sociale: al self empowerment femminile promosso dai social magazine manca il noi che presiede alla dimensione politica, che la istituisce. La ripresa di parola pubblica delle donne continua tuttavia a manifestarsi anche nelle forme tradizionali della politica, sebbene alla definizione di movimento si affianchi frequentemente quella di network: è il caso, già richiamato, delle campagne diffuse, a partire dal network Ni una menos argentino, nato come appello per un reading collettivo di artiste, scrittrici, giornaliste e attiviste contro femmini- cidio, e affidato alla performatività linguistica di un verso di Susana Chávez («Ni una mujer menos, ni una muerta más») e divenuto poi un network globale, fino alle già citate #metoo e #yosìtecreo, per dire delle più note. E se il femminismo di seconda ondata si presentava conflittualmente disintermediato nei confronti di partiti e gruppi formalizzati della sinistra, la quarta ondata si affida alla mediazione di emittenti e hub in rete, talvolta ascrivibili all’attivismo connnesso, altre a semplici media commerciali. Le forme di questa partecipazione al discorso pubblico rimandano ad una azione collettiva e insieme individualizzata: digital media can bring individuals together without a consistent col- lective identity. This implies that digital media as a context for political action could significantly challenge key understandings of relationships between individuals and collectives taking political action (Seddighi, Amaral et al., 2017). Così, la dimensione connessa rinforza l’atto individuale agli occhi di chi lo compie, caricandolo di contenuti: Thinking of every purchase as a radical act is a way of absolving yourself of criticism – buying a $15 «FEMINIST» T-shirt from H&M is empower- ing, even if the shirt itself was made by a woman in a sweatshop. The excuse of «empowerment» can turn even the least ethical purchase into a form of activism. There’s nothing wrong with wearing lipstick or buying a Kardashian-branded bodysuit because it makes you feel good – but there is nothing revolutionary about it, either (Del Valle 2017). Si configura così un campo piuttosto disomogeneo entro cui convergono tendenze culturali, politiche e di mercato di cui le audience in rete e i network dell’attivismo connesso rappresentano poli non 440
Platform press, soft news media e femminismo pop di rado dialoganti. La natura commerciale e orientata al mercato di questi prodotti editoriali è fuori discussione9. Così come è chiaro che non saranno le condivisioni di hashtag e meme a modificare una volta per tutte i rapporti di potere tra i generi. Per quanto invece riguarda i livelli di consapevolezza individuali e collettivi – e dunque per le eventuali «contromisure» da prendere perché l’audience engagement abilitato dalle tecnologie di rete e messo a valore anche dalle impre- se editoriali che ne popolano l’ecosistema, compia, eventualmente, un salto di qualità politica – ancora una volta, è il caso di affidarsi a forme più avanzate non soltanto di media- ma anche di political literacy. Le uniche, a ben vedere, in grado di farci guardare con la lente giusta, e la giusta distanza, ai fenomeni che qui ho provato a mettere in relazione. Stefania Parisi Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma Via Salaria 113 – 00198 Roma stefania.parisi@uniroma1.it Riferimenti bibliografici Åkestam, N., Rosengren, S., Dahlen, M. (2017), Advertising «like a girl»: Toward a better understanding of «femvertising» and its effects, in «Psychology&Marketing», 34, 8, pp. 795-806. 9 La riflessione di Bia Sarasini (2017) sul caso Freeda riassume efficacemente i termini della questione: «In realtà è una vecchia storia, investe da sempre i femminili, cioè quei giornali che si rivolgono esclusivamente, o quasi, alle femmine umane. E quindi con argomenti sele- zionati. Moda, vestiti, trucchi, cucina, cure del corpo, cultura varia, se di fascia alta. Tutto fuorché l’attualità e soprattutto la politica. E poco importa che Freeda sia un socialmedia o un giornale di carta. È rivolto alle giovani donne, usa grafiche, video, propone pillole di cono- scenza, a volte pezzi informativi. Molto didattici, quasi pedagogici. […] Leggere i femminili è divertente, la moda è una passione, e spesso gli articoli e le pagine culturali sono migliori che altrove. Ma nessuno, riporta un punto di vista, una chiave di lettura con occhi di donna dei fatti del mondo. Anche se questo può accadere in singoli articoli o rubriche. Vale anche per Freeda. Il prodotto è nuovo, utilizza bene il potenziale dei social e mette in circolazione un linguaggio diverso. In questo senso è innovativo, sicuramente riprende temi e parole dei femminismi di nuova generazione. Uno scandalo? L’importante è non scambiarlo per un media di movimento. Basta saperlo». 441
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