Platform press, soft news media e femminismo pop. Elementi per il dibattito sulle strategie di audience engagement a partire dal caso Freeda - UniCa

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Stefania Parisi
Platform press, soft news media e femminismo pop.
Elementi per il dibattito sulle strategie di audience
engagement a partire dal caso Freeda
(doi: 10.1445/91660)

Problemi dell’informazione (ISSN 0390-5195)
Fascicolo 3, dicembre 2018

   Ente di afferenza:
   UNIVERSITA STUDI CAGLIARI BIBLIOTECA (unicadm)

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SAGGI

Platform press, soft news
media e femminismo pop
Elementi per il dibattito sulle strategie
di audience engagement a partire
dal caso «Freeda»
di Stefania Parisi

            Platform press, soft news media, pop feminism. Adding elements
            to the debate on audience engagement strategies. The case of
            «Freeda»

            The so-called «fourth wave of feminism» shows significant connec-
            tions with the networked activism and the engagement of female audi-
            ences. Nevertheless, the spread among young people of a pop political
            «sentiment» oriented towards self empowerment is also coupled with
            controversial market phenomena such as femvertising. The latter, while
            intercepting the commercial needs of brands, and influencing some
            publishing companies operating in the field of soft news media and
            platform journalism, seems to reflect at the same time the ability of
            self-assertion required by the labour market. This article aims to relate
            these phenomena with the contents and formats that give shape to the
            editorial line of these new womens’ magazines.

            Keyword: platform press, soft news e femvertising, social media maga-
            zines, audience engagement, feminist media studies.

1.          Introduzione

L’affermazione delle piattaforme di social networking come fonti privi-
legiate per l’approvvigionamento di notizie solleva domande di ricerca
in più ambiti degli studi sui media e sul giornalismo. Sullo sfondo del
processo di ridefinizione di categorie, formati e pratiche di fruzione delle

              PROBLEMI DELL’INFORMAZIONE – ANNO XLIII, N. 3, DICEMBRE 2018
Stefania Parisi

notizie, questo articolo propone una riflessione a partire dal social media
magazine «Freeda». Un progetto che affianca alla propria natura di im-
presa editoriale una sensibilità latamente politica, orientata a una sorta
di femminismo pop per quanto riguarda le estetiche, i valori e insieme i
consumi promossi, e a una più generale adesione al sistema valoriale, di si-
gnificati e di ruoli ascrivibile a specifici comparti dell’economia contempo-
ranea, della quale ricalca i dispositivi di produzione di valore. I contenuti
proposti mirano a costruire legami stabili con i pubblici femminili (basati
essenzialmente sulla trattazione di tematiche ritenute di interesse per il
proprio target) e a sperimentare un «reshaping» dei formati indispensabi-
le a garantire riconoscibilità e trattenere l’audience nel circuito produttivo
– vero elemento chiave nel panorama infocomunicativo contemporaneo, e
ancor più nella sfera in espansione della platform press (Bell, Owen et al.
2017), in cui la crescita della competizione tra canali e testate per con-
quistare l’attenzione dei pubblici produce un deciso slittamento verso il
«market centered journalism» (Patterson 2000; Reinemann et al. 2011).
             Assistiamo al nascere di «nuovi femminili»? E se sì, che
idea di informazione propongono e quale concezione di audience pre-
suppongono? Sulla scorta di esempi più longevi reperibili nel contesto
anglosassone – da Bustle.com a Refinery29.com su tutte – «Freeda»,
social media-zine interamente nativa su piattaforma, sarà considerata
in quanto macrotesto utile ad osservare le strategie di cattura delle
audience femminili attraverso contenuti facilmente fruibili (a carattere
di soft news), formati pensati per la specifica fruizione via social (con
predilezione per l’accesso da mobile) e messaggi politici pop. Quest’ul-
timo aspetto della politica editoriale ha generato dibattito in ambienti
mediattivisti sul ruolo che esperimenti di «soft news media» come
«Freeda» svolgerebbero nel depotenziamento di messaggi politici legati
a tematiche femministe o di genere e nella sostanziale riproposizione
di stereotipi e modelli funzionali al mercato.

2.          La «quarta ondata femminista»: una protesta
            mediatizzata e i media che la supportano

Con un lungo articolo pubblicato sul «Guardian» il 10 dicembre 2013,
Kira Cochrane, autrice del volume All the Rebel Women, presentava

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Platform press, soft news media e femminismo pop

al pubblico il femminismo della quarta ondata1 sottolineando come le
battaglie della fourth wave attraversassero non tanto – o almeno non
solo – le strade delle città quanto gli ambienti connessi, e lasciassero
emergere l’immagine di un movimento sorprendentemente pop: «It’s
defined by technology: tools that are allowing women to build a strong,
popular, reactive movement online. Just how popular is sometimes
slightly startling» (Cochrane 2013a, corsivo mio).
            Il nuovo ciclo di mobilitazioni e proteste non è il primo a con-
frontarsi con la diffusione della tecnologia, con l’egemonia dei linguaggi
e dei riferimenti culturali derivati dai media e con le relative ricadute
sulle culture e i soggetti del conflitto. Già la riflessione femminista di
stampo filosofico e culturale dei primi anni Novanta si era concentrata
sulle conseguenze per le identità, incluse quelle in rete, del sé e del cor-
po mediati (penso ai lavori di Donna Haraway, Rosi Braidotti, Judith
Butler e Teresa De Lauretis). Lontani dall’impronta accademica che
aveva caratterizzato quegli anni, i linguaggi e l’attitudine della fourth
wave sembrano piuttosto debitori nei confronti delle tendenze cultu-
rali emerse in quegli stessi anni nella cultura popolare e in particolare
nell’ambito musicale punk: la band femminile statunitense Bikini Kill
promuove nel 1991 l’uscita di una fanzine femminista autoprodotta
intitolata Girl Power e ispirata allo slogan del Black Power; pochi anni
dopo, le britanniche e «commerciali» Spice Girls lo faranno proprio,
spostando il messaggio dall’universo underground e politicizzato delle
riot grrrls a platee e pubblici decisamente meno antagonisti. Questi
esempi di popolarizzazione del contenuto conflittuale anticipano i più
vasti processi di condivisione leggera e disimpegnata di temi e istan-
ze politiche che oggi osserviamo nelle forme compiutamente pop e,
soprattutto, «mediatizzate» (Couldry 2008; Boccia Artieri 2015) dei
movimenti di protesta (Mattoni, Treré 2014; Cammaerts, Mattoni,
McCurdy 2013) e dunque anche del femminismo della quarta ondata.
È noto come temi, contenuti e linguaggi che caratterizzano i più recenti
movimenti femministi abbiano suggerito la definizione piuttosto scivolo-
sa di «post-femminismo», che già Susan Faludi (1991, 11) individuava
come etichetta proveniente da ambienti mediali. La questione è stata
successivamente approfondita in relazione alla cultura contemporanea

1
 La bibliografia circa le diverse fasi storico-politiche dei femminismi è pressoché sterminata.
Per una sintesi riferita principalmente alle ultime due «ondate», si rinvia a Magaraggia 2015.

                                                                                         423
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da Angela McRobbie (2004; 2009), e interpretata attraverso l’indivi-
duazione di un «double entanglement» che imprigiona le istanze legate
al genere tra valori e pratiche contrastanti:

           post-feminism can be explored through what I would describe as a
           ‘double entanglement’ […]. This comprises the co-existence of neo-
           conservative values in relation to gender, sexuality and family life
           […], with processes of liberalisation in regard to choice and diversity
           in domestic, sexual and kinship relations […] (McRobbie 2009, 12).

            La nuova ondata mostra in effetti discrete capacità di
misurarsi con i media e di abitarne gli ambienti reggendo a forme di
sovraesposizione (come è accaduto nei momenti di maggiore attenzio-
ne per la campagna #metoo), consapevole che un uso strategico della
comunicazione possa produrre, a vari livelli, coinvolgimento e appro-
vazione dei pubblici – magari attraverso linguaggi che, pur veicolando
contenuti radicali, appaiono talvolta improntati a una sorta di ironia
controversa. Come rileva Cochrane, si tratta di un tono che incontra
talvolta le perplessità delle stesse attiviste:

           Many of the feminist activists I’ve spoken to have said humour is a de-
           fining mark of the fourth wave, an idea that is potentially controversial.
           Feminism is, after all, a call for social justice, a challenge to the status
           quo, a set of serious political demands. In these terms, humour can
           sometimes seem like acquiescence, or complacency, clearly unmatched
           to the day-to-day work of pushing for equal pay, for justice for rape and
           domestic violence victims, the slow chipping away of male supremacy
           (Cochrane 2013b).

            Eppure, la capacità di costruire legami con i pubblici passa
proprio per una ridefinizione dei linguaggi della protesta. Se è vero che
il femminismo, almeno dagli anni Settanta in poi, ha tradizionalmente
assegnato indiscussa centralità alla parola – che assume un vero e pro-
prio status performativo in quanto pratica politica (Butler 2015) – anche
le azioni e proteste della quarta ondata sembrano non abbandonare il
tracciato della svolta linguistica tardonovecentesca. In linea con le forme
mediate della partecipazione politica contemporanea, le mobilitazioni
degli ultimi anni appaiono in effetti poco ideologiche e profondamente
legate alla dimensione, alle estetiche e ai formati dell’attivismo politico
espresso via social media (boyd 2011; Boccia Artieri 2012; Johnson,
Zhang, Richard, Seltzer 2011; Bennett, Segerberg 2012; Tufekci 2013).

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Platform press, soft news media e femminismo pop

La diffusione della campagna #metoo dell’autunno 2017, seguita
all’emersione dell’affaire Weinstein, recupera agli ambienti digitali,
rimediandole, le parole scelte dalla femminista afroamericana Tarana
Burke per nominare un gruppo di attivisti di cui anni prima era stata
fondatrice. La più recente #yosìtecreo, della primavera 2018, stabilisce
linguisticamente i termini di una risposta che è individuale e sogget-
tiva – a partire dal pronome yo – ma punta alla dimensione collettiva
attraverso la diffusione virale, politicizzando anche in questo caso,
come per il #metoo, un vissuto e un sentire individuale. Entrambe le
campagne, muovendo dalla valorizzazione del capitale accumulato via
social media in termini di audience engagement (Andò, Marinelli 2012)
e dalla conseguente penetrazione nel discorso pubblico, si mostrano
capaci di costruire anche mobilitazioni di carattere più tradizionale,
affidate alla piazza, che sembrano avvicinare per certi aspetti queste
forme di partecipazione alla tipologia di hybrid mobilization movement
individuata da Andrew Chadwick (2007). Se #metoo è eletto «Person
of the Year» dal «Time» nel 2017, insomma, non è perché la società
e la cultura globale si sono riscoperte improvvisamente femministe,
ma perché il combinato disposto tra le pratiche politico-comunicative
scelte per la mobilitazione – che hanno carattere distribuito, connesso,
inclusivo – e le prese di posizione di singole personalità in vista – star,
(micro)celebrità e (web)influencer – ha favorito una adesione di prin-
cipio trasversale, che suggerisce l’idea di una buona disposizione dei
pubblici nei confronti di forme di politicizzazione del sé connesso.
             Sembra insomma che la quarta ondata femminista si sia gio-
vata di un clima, di un mercato culturale e di ambienti comunicativi in
qualche modo «favorevoli», sui quali ha innestato la propria capacità di
catturare l’attenzione di audience femminili diversamente ideologizzate.
Seguendo questa ipotesi più generale, la ricerca di casi rappresentativ
di un simile approccio ai contenuti. Anche a carattere di news, conduce
alle piattaforme di social networking e, in particolare, a Facebook. Alla
diffusione di un «sentiment» vagamente disponibile alla ricezione di
tematiche di genere non sembrano infatti estranee le strategie editoriali
di social media-zine che promuovono audience engagement rivolto a
pubblici femminili (Holland 1998; North 2014; Worthington 2017)
composti da millennials (Strauss, Howe 2000; Palfrey, Gasser 2008)
spesso con abilità e/o interessi nelle professioni legate al digitale (Andò,
Marinelli 2017). Le americane già citate Bustle e Refinery29, sebbene

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approdate alle piattaforme social solo dopo aver costruito la propria
identità attraverso siti web, ne sono un esempio. L’attività di questi
soft news media (Baum 2002, 92-93) avviene pressoché esclusivamente
negli ambienti social (in particolare Facebook e Instagram) e fa uso
strategico di formati specifici come instant article, brevi video, imma-
gini e grafiche creative. I contenuti, pensati per la condivisione virale,
oscillano tra infotainment e market-centred journalism (Hamilton
2004; Reinemann et al. 2012; Nguyen 2012) con venature politiche
(Van Zoonen 2005): self empowerment, personal- e life-style, consumi,
contrasto a body shaming e discriminazioni di genere ed etnia. Sullo
sfondo, emerge la costruzione e promozione di un modello di femminilità
adeguato a sostenere stili di vita e vocazioni delle millennials: il self
empowerment che il femminismo liberal propone alle giovani donne
sembra infatti adeguato a sostenere l’immagine «vincente», «riuscita»
e «affermata» rispondente alla domanda di un mercato sempre più
fondato su capacità autoimprenditoriali e processi di femminilizzazione
del lavoro, in particolare nei settori del digital labour (Morini 2007).
Nei paragrafi che seguono saranno esplorate la variabile genere e quella
legata alla tecnologia delle piattaforme, entrambe determinanti per la
nascita di nuove forme di soft media, che preludono alla descrizione
del «modello Freeda».

3.         Generi delle notizie, genere dei pubblici

Il rapporto tra genere delle audience e genere delle news è stato a lungo
indagato da differenti prospettive (studi culturali, journalism studies,
marketing, psicologia sociale, gender e feminist studies) anche rispet-
to alla sfera dei media di massa; la diffusione delle tecnologie e delle
piattaforme di rete non ha, prevedibilmente, semplificato i termini della
questione. Nel 2001 – un tempo piuttosto lontano considerata l’evo-
luzione dei media digitali in questi due decenni – Liesbet Van Zoonen
valutava le posizioni dei ricercatori in merito al fatto che internet fosse
o meno un posto per donne, concludendo che, di certo, era un posto
in cui i ricercatori di mercato andavano a caccia di target femminili.
Non a caso uno degli studi più noti del campo era intitolato The Onli-
ne Woman. How to Tap into her Buying Power (Van Zoonen 2001,
70). Da quell’epoca, gli studi sulle culture e le pratiche negli ambienti

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Platform press, soft news media e femminismo pop

connessi hanno più volte ridefinito il proprio campo di applicazione e
i propri oggetti (e soggetti) di ricerca. Nel frattempo l’affermarsi dei
linguaggi e dei formati digitali nelle routine produttive giornalistiche e
le modificazioni della sfera dell’informazione ad opera di nuovi attori
e processi emergenti nel mercato contribuivano a ridefinire lo statuto
stesso della notizia, in un processo non lineare segnato da permanenze
e discontinuità.
             Le etichette di soft news e infotainment (Baym 2008; Rei-
nemann et al. 2012), così come i processi di softening (Otto, Glogger,
Boukes 2016) e tabloidization (Sparks, Tulloch 2000) delle notizie
segnalano una tendenza piuttosto consolidata che punta a riservare
spazio e attenzione crescente a fatti e notizie riferibili all’ambito privato
e alla sfera degli interessi individuali a scapito dell’informazione di
più stretta attualità e rilevanza pubblica. Gli studi sulle routine pro-
duttive dell’informazione hanno evidenziato inoltre l’esistenza di una
suddivisione del lavoro su base di genere che rispecchia la rilevanza
attribuita alle notizie – maggiore per le hard news, minore per le soft
news. In base al posizionamento sulla scala di rilevanza percepita, la
probabilità che le hard news siano affidate a giornalisti maschi è più
alta, e allo stesso modo è più facile che l’attribuzione dei compiti di
redazione di soft news riguardi le donne (North 2014). Van Zoonen
(1998, p. 36) segnala l’interesse «umano» più che «sociale» delle soft
news, mentre Bender et al. (2009, p. 134) insistono sulle reazioni che
esse evocano nei pubblici: empatia, commozione, riso, pianto, odio o
amore. È probabilmente anche la connessione con la sfera emotiva a
conferire a questo tipo di notizie un prestigio minore nella gerarchia
delle news, e dal momento che le emozioni nel senso comune sono
solitamente poste in relazione con la sfera del femminile la probabilità
che la loro redazione sia affidata alle reporter è più alta (Poindexter,
Harp 2008). Diseguaglianze e iniquità tendono dunque a riprodursi
a vari livelli dell’ambito del newsmaking (Poindexter, Meraz, Schmitz
Weiss 2008), originando quello che Suzanne Franks (2013) ha defini-
to come un «ghetto rosa», in cui le donne scrivono di temi indirizzati
principalmente a pubblici composti da donne.
             Ma è in particolare sui pubblici che si è indagato a partire
dal loro essere sessuati, ragionando anche su come le loro rappresen-
tazioni – talvolta obsolete e stereotipiche – siano in grado di guidare
l’offerta. Per citare, in una lunga tradizione di ricerca, uno studio che

                                                                        427
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intercetta il tema strategico dell’engagement delle audience, mi riferirò
a quello condotto da Nancy Worthington (2017) su due storiche riviste
statunitensi di intrattenimento – Variety e The Hollywood Reporter,
rispettivamente fondate nel 1905 e nel 1930, ed entrambe presenti
oggi online – racconta in che modo le due pubblicazioni abbiano
costruito il discorso sulle donne consumatrici di contenuti mediali
durante un decennio (dal 2006 al 2015) in cui «media technologies,
consumption habits, and audience participation altered considerably,
as did revenue-generating opportunities» (ibidem, 1). Worthington
rileva come la possibilità per gli spettatori di aggirare la pubblicità
– evidentemente potenziata nella fruzione in rete rispetto alla tradi-
zionale visione televisiva – abbia generato, in risposta, sempre nuovi
tentativi di contrasto da parte delle emittenti. Così, gli inserzionisti
hanno iniziato a richiedere studi che non restituissero soltanto infor-
mazioni sull’esposizione ai contenuti da parte dei pubblici, ma che
fornissero informazioni anche sul loro engagement. Citando lo studio
di Nicole Cox (2015) sull’audience engagement del network televisivo
Bravo attraverso i social media, Worthington ricorda che «One proxy
ratings researchers use for the latter is viewers’ use of social media to
comment on and critique media texts, activities that many women find
particularly pleasurable» (2017, 2).
             La questione appena accennata apre al tema del significativo
salto di scala della partecipazione produttiva dei pubblici intesa come
forma di lavoro non retribuito, che rispetto a quella indagata dagli
studi classici sul fandom, condotti anche in termini di economia cul-
turale (Fiske 1992) appare oggi potenziata nelle piattaforme di social
networking. Il tema è ampiamente dibattuto negli studi sulle audience
connesse (Napoli 2011; Fuchs 2015; Marinelli 2017), e in alcuni casi
si osservano interessanti tentativi di incrociare strumenti e chiavi di
lettura provenienti dalla critica femminista e dalla critica dell’economia
politica dei media (Meehan 2002; 2005): lavori , questi ultimi, che
hanno il merito di piegare l’analisi critica culturale e politica fondata sul
genere lungo l’asse strutturale delle dinamiche del mercato dei media,
suggerendo di pensare agli stereotipi come a motori potenti dell’offerta
di contenuti mediali, e dunque elementi che governano le politiche di
un comparto rilevante dell’economia contemporanea. Da una simile
prospettiva, ma naturalmente con finalità di mercato e non critiche,
muove la crescente presenza sulle piattaforme social di media commer-

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Platform press, soft news media e femminismo pop

ciali che presuppongono una idea più attuale di audience femminili
orientate al cambiamento: forme aggiornate di webzine che a partire
da rappresentazioni del femminile diversamente stereotipiche puntano
a costruire una offerta «alternativa» di contenuti, situati all’incrocio
tra soft news e femvertising, posizionando saldamente il genere nella
catena di estrazione del valore dagli ambienti social. Formati, strategie
e vocazione dei «nuovi femminili» si comprendono meglio nel quadro
della progressiva crescita della competizione tra testate per attirare (e
possibilmente trattenere) l’attenzione dei pubblici, in un ecosistema
mediale segnato dall’affermazione del «market centered journalism»
(Patterson 2000; Reinemann et al. 2011) e dalla sovrapposizione del
momento produttivo e distributivo dei contenuti tipico dei social nework
sites. Vediamo in che modo.

4.          Piattaforme come nuovi editori (e nuovi editori in
            cerca di piattaforme)

Per lungo tempo, e in diverse in occasioni pubbliche, Mark Zuckerberg
ha insistito sulla natura di tech company di Facebook. Comprensi-
bilmente, dato che un editore ha molti più vincoli e responsabilità di
un imprenditore dell’hi-tech. Tuttavia, a fine 2016, sull’onda delle
polemiche riguardanti la diffusione delle fake news e dell’impatto che
queste avrebbero avuto nell’indirizzare le scelte di voto in occasione
dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, le sue dichiarazioni
aprono a una presa di responsabilità divenuta inevitabile:

            Facebook is a new kind of platform. It’s not a traditional technology
            company. It’s not a traditional media company. You know, we build
            technology and we feel responsible for how it’s used. We don’t write
            the news that people read on the platform. But at the same time we
            also know that we do a lot more than just distribute news, and we’re
            an important part of the public discourse2.

          Non scriviamo le notizie che le persone leggono, ma sap-
piamo di essere molto più che semplici distributori di informazioni.

2
  La videoconversazione è raggiungibile al link https://www.facebook.com/zuck/vi-
deos/10103353645165001/ (ultimo accesso: 26 maggio 2018).

                                                                            429
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La dichiarazione non fa che fotografare un dato di fatto – e cioè che
l’impresa di Menlo Park (ma la questione riguarda, sebbene in gradi
diversi, anche le altre piattaforme social) rappresenta un ambiente
inevitabilmente e capillarmente attraversato da flussi di notizie, con-
tenuti (para-)giornalistici e opinioni (spesso lunari) rispetto ai quali
risulta complesso applicare le categorie relative alla qualità e al rigore
dell’informazione: una infosfera in cui professionisti e utenti produttori
di contenuti contribuiscono a mettere in discussione lo statuto tradi-
zionale della notizia, e a ridisegnare – per qualcuno, al ribasso – gli
standard professionali.
            Il Rapporto 2017 del Tow Center for Digital Journalism
inquadra questi processi nei termini di una sorta di «involontarietà»
del ruolo di editori, con il quale, volenti o nolenti, i tech giants devono
fare i conti:

           Technology companies including Apple, Google, Snapchat, Twitter,
           and, above all, Facebook have taken on most of the functions of news
           organizations, becoming key players in the news ecosystem, whether
           they wanted that role or not. The distribution and presentation of
           information, the monetization of publishing, and the relationship with
           the audience are all dominated by a handful of platforms. These busi-
           nesses might care about the health of journalism, but it is not their core
           purpose (Bell, Owen et al. 2017, 14, corsivi miei).

             Sono due le tendenze che contribuiscono a mutare radi-
calmente lo scenario della fruizione di informazione in rete. La prima
riguarda appunto la centralità delle piattaforme social e search come
fonti per l’approvvigionamento di news da parte dei pubblici connessi;
la seconda riguarda le pratiche d’uso e i punti di accesso dei singoli
utenti, che utilizzano sempre più spesso il mobile e le app:

           The rapid adoption of smartphones has transformed media consump-
           tion, turning technology companies with their apps and operating
           systems into the new gatekeepers of information. According to 2016
           Pew data, 92 percent of young Americans from 18 to 29 own a smart-
           phone, and 77 percent of the population as a whole – higher than the
           number with broadband connections at home. Over 62 percent of the
           US population gets news from some form of social media, with Facebook
           the dominant source (ibidem, 15, corsivi miei).

           Questo scenario, a ben guardare, interroga direttamente
tanto le aziende editoriali di tipo tradizionale quanto le piattaforme

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Platform press, soft news media e femminismo pop

stesse. Se infatti è vero che ad essere messe in crisi dalle pratiche degli
utenti e dall’offerta dei siti di social networking sono per lo più le pri-
me, anche le seconde, incoronate «dal basso» come media a tutti gli
effetti, sono chiamate a una ridefinizione – e con tutta evidenza a una
autoregolamentazione – del proprio ruolo nel sistema infocomunicativo.
Sullo sfondo di questo orizzonte mobile, il giornalismo tradizionale (e
le imprese che lo sostengono) appare davvero come una piccola parte
di un mercato dell’informazione divenuto assai più vasto e articolato
rispetto a un tempo nemmeno troppo lontano. E per di più, mentre le
platee di potenziali lettori si allargano oltre ogni ottimistica previsione,
i modelli di business e di distribuzione caratteristici delle piattaforme
tendono a premiare i contenuti nativi affidati a format preconfezionati
e in generale a materiali e testi che 1) poco o nulla hanno a che vedere
con la qualità del lavoro giornalistico e 2) difficilmente invitano l’utente
a uscire dal perimetro della piattaforma:

            a high proportion of many news organizations’ content is designed to
            be consumed natively, on platforms including Apple News, Facebook
            Instant Articles, Instagram, and Snapchat, rather than driving audien-
            ces back to publishers’ websites. Native publishing products, including
            Google AMP pages, Facebook Instant Articles, Twitter Moments, Apple
            News, Snapchat Discover, Instagram Stories, mean that a reader might
            look at a story from The Economist on Google without ever touching
            The Economist’s own app or site (ibidem, 27, corsivo mio).

            La situazione in cui vengono a trovarsi gli editori, che scel-
gono (giocoforza) di affidare alle piattaforme social la distribuzione dei
propri contenuti ha ricadute interessanti anche per quanto riguarda lo
statuto e la proprietà delle audience – una questione aperta, in verità,
fin da quando nel 2009 Facebook ha promosso la possibilità di ospitare
sulle proprie pagine i commenti e le discussioni tra utenti originate da
siti web esterni (ibidem, 37). Affidando alla piattaforma la gestione e
la moderazione delle conversazioni, molti organi di stampa operarono
una prima, significativa «cessione di sovranità», dato che l’accordo
commerciale consentiva a Facebook di controllare forma e contenuti
delle conversazioni, oltre che di stabilire le regole stesse di accesso alla
discussione (attraverso il login con l’account del social network).
            La produzione e distribuzione di contenuti informativi at-
traverso i formati e i canali della platform press interessa anche i nuovi
femminili e i loro editori. I magazine online destinati (prevalentemente)

                                                                              431
Stefania Parisi

alle audience selezionate in base al genere ereditano dai loro antenati
cartacei (penso qui alle riviste commerciali, e non ai giornali politici in
senso stretto) una certa ambigua attitudine «progressista» ed emancipa-
toria. Anche la scelta di lasciare affiorare i valori del self empowerment
femminile dagli stili di vita, dai consumi – anche culturali – e dalla
presentazione di specifici modelli di donne si colloca in continuità con
la storia delle riviste femminili, così come la predilezione marcata per
le soft news e una certa tendenza a ibridare gli stili narrativi attraverso
il ricorso a formati specifici (reportage e illustrazioni ieri, presenza di
video e infografiche oggi). Allo stesso modo, i femminili tradizionali e
i «social media magazine» destinati a pubblici di donne condividono
una visione dell’audience femminile come target al contempo orientato
al consumo e in grado di orientare i consumi. In questo scenario, a se-
gnare una discontinuità e una trasformazione nella pratica di fruizione
del prodotto giornalistico, come è intuibile, è innanzitutto il mezzo che
sostiene la produzione di informazione-intrattenimento e ne veicola i
prodotti. Quello stesso mezzo in cui risiede la possibilità, abilitata da
specifiche affordance, di sostenere cause e di ingaggiare i pubblici negli
stessi ambienti in cui le informazioni circolano.

5.         «Freeda». Un engagement politico ma non troppo

È piuttosto diffusa la tendenza a leggere le strategie di adattamento
del settore dell’informazione ai processi del mercato come altrettanti
gradini di una ipotetica «scala di degenerazione» di un modello ide-
altipico di stampa – costruito socialmente almeno quanto i fenomeni
dei quali intende rappresentare il termine di paragone. Ora, ci sono
almeno due passaggi della Storia naturale del giornale di Robert Park
che mi sembrano utili a sintetizzare i termini della questione. Il primo
spiega come non è detto che ci si trovi necessariamente di fronte a forme
degradate di news media «alti»; al contrario, è possibile individuare
in queste forme «basse» una delle funzioni storicamente inscritte nel
sistema dell’informazione:

           What is a newspaper? Many answers have been given. […] The modern
           newspaper has been accused of being a business enterprise. «Yes», say
           the newspaper men «and the commodity it sells is news». […] By mak-
           ing information about our common life accessible to every individual

432
Platform press, soft news media e femminismo pop

            […] it is urged […] some sort of working democracy. The advertising
            manager’s notion is again something different. For him the newspaper
            is a medium for creating advertising values. The business of the editor
            is to provide the envelope which incloses the space which the advertising
            man sells (Park 1925, 82).

           Il secondo chiarisce che , indubitabilmente, l’obiettivo pri-
mario di un editore è, banalmente, vendere, e non lavorare per finalità
di progresso umano e sociale (al più, può provare a contemperare
entrambe le istanze):

            The first newspapers were simply devices for organizing gossip, and
            that, to a greater or less extent, they have remained. Horace Greeley’s
            advice to a friend who was about to start a country paper is as good
            today as it was then. «Begin with a clear conception that the subject
            of deepest interest to an average human being is himself; next to that,
            he is most concerned about his neighbors. Asia and the Tongo Islands
            stand a long way after these in his regard […]». […] In a city where
            everything happens every day, it is not possible to record every petty
            incident, every variation from the routine of the city life. It is possible,
            however, to select certain particularly picturesque or romantic incidents
            and treat them symbolically, for their human interest rather than their
            individual and personal significance. In this way news […] ceases to be
            the record of the doings of individual men and women and becomes an
            impersonal account of manners and life (Park 1925, 83-84).

             Il campo giornalistico, secondo la lettura di Park, attraversa
costitutivamente i confini tra privato e pubblico, mentre la funzione
della stampa di «tradurre» in termini simbolici – e dunque più generali
– le azioni di uomini e donne, di rappresentarle perché altri – i lettori
– possano identificarvisi, sembrerebbe potersi addirittura giovare della
diffusione di tecnologie che ne supportano la diffusione. Evidentemente,
però, siamo lontanissimi dalle discussioni tra raffinati gentlemen eu-
ropei che si incontravano nei caffè descritti da Habermas, e molto più
vicini al chiacchiericcio popolare, al disordine della strada. Stabilire se
queste due istantanee, per un automatismo cognitivo cui non è estranea
la consuetudine con le rappresentazioni di archetipi culturali legati al
genere, evochino anche i distinti e gerarchizzati domìni del maschile e
del femminile, e perciò si riflettano sui giudizi di valore assegnati all’una
o all’altra visione, non è compito di questo contributo – ma credo sia
onesto sottolinearne almeno l’eventualità.

                                                                                  433
Stefania Parisi

             Ad ogni modo, le funzioni di rappresentazione simbolica
del giornale pettegolo di Park trovano qualche corrispondenza nei
formati e nei contenuti soft del giornalismo delle piattaforme. Per
stare al contesto italiano, osserviamo allora più da vicino «Freeda»,
che rappresenta al contempo un buon esempio di social media-zine
interamente nativa su piattaforma e un macrotesto utile ad osservare
le strategie di ingaggio delle audience femminili in rete attraverso for-
mati facilmente consumabili e contenuti politici pop. Questo recente
ma significativo caso e il dibattito che si è generato intorno alla sua
politica editoriale in ambienti mediattivisti3 incrociano i temi fin qui
presi in considerazione (dallo specifico processo di «shaping» dei formati
giornalistici operato dal ruolo delle piattaforme di social networking
nella produzione e distribuzione di contenuti informativi alle strategie
di cattura e intrattenimento dei pubblici nel circuito produttivo delle
notizie, indispensabile in un ecosistema infocomunicativo in cui l’at-
tenzione è la vera risorsa scarsa da conquistare) declinandoli anche
lungo l’asse politico-culturale.
             Il progetto «Freeda» (il cui nome rinvia alla pittrice Frida
Khalo, icona femminile assai celebrata dai media, e si caratterizza per
grafia e fonetica affini alla parola freedom) nasce nel 2017 e mostra fin
da subito una inusuale capacità di capitalizzare in tempi molto rapidi
un ampio bacino di lettori-followers4. Il magazine declina i propri con-
tenuti lungo l’asse del cosiddetto empowerment feminism che si esprime
spesso nelle forme «di mercato» del femvertising (Goldman, Heath,
Smith 1991; Lazar 2006; Gill 2008; Zeisler 2016; Åkestam, Rosengren,
Dahlen 2017, Capecchi 2018). Emerso come fenomeno di marketing,
il femvertising rivela interessanti implicazioni socioculturali e sembra
sorreggere il processo di convergenza tra interessi di specifiche porzioni
di mercato (anche di quello dell’informazione), comportamenti e culture
partecipative delle audience connesse e, detto con un termine rétro,
ideologia dominante. Non si tratta soltanto di una strategia discorsiva
per individuare nicchie di potenziali consumatrici e scegliere i prodotti

3
  Il dibattito è stato avviato a partire da un articolo della «webzine metropolitana» Dinamopress,
intitolato «Ecco cosa c’è dietro Freeda» (https://www.dinamopress.it/news/ecco-cosa-c-e-
dietro-freeda/) cui sono seguite diverse repliche. Si veda anche il post «Perché è importante
che il femminismo sia pop», pubblicato da Freeda e reperibile al link http://freedamedia.
it/2018/05/22/perche-e-importante-che-il-femminismo-sia-pop/.
4
  L’ultima rilevazione evidenzia 1.3 milioni di Facebook followers e oltre 603mila Instagram
followers (www.freedamedia.it, consultazione al 28 maggio 2018).

434
Platform press, soft news media e femminismo pop

da vendere loro, ma di una parte importante della cultura femminista
pop, in cui i consumi contribuiscono a sostenere l’autoaffermazione
delle donne lavorando sulla commistione tra il sostegno a un femmini-
smo «trendy» (Vagianos 2016), «mainstream» e «populista» (Williams
2018) e obiettivi (più o meno dichiarati) di engagement dei pubblici a
fini commerciali. Il risultato è un femminismo che potremmo definire,
con un gioco di rimandi, shareable, condivisibile cioè tanto nei toni
quanto nei formati che ne consentono la diffusione via social media:

           The advertising industry, once bent on selling us sex is now selling us
           its disgust with sexism. […] In all, it means we will see more drives to
           sell young women empowerment through individual brands or projects.
           Likely ones with catchy slogans that can take off on Twitter and ignore
           any boring analysis of gender inequality in favour of feeling good. The
           idea that confidence and self-belief is what the debate and struggle is
           missing is seductive: it encourages sisterly encouragement – likes, shares
           and stories told in 140 characters are easily digestible, and a soft way
           to get adolescents, in particular, hooked on the movement – and, of
           course, your brand (Iqbal 2015, corsivo mio).

            Come nei soft media a stampa o audiovisivi, anche in quelli
che abbiamo definito «social media-zine», come «Freeda», l’attenzione
è sui temi che sono stati definiti «rilevanti per i singoli» piuttosto che
per la vita pubblica, mentre, in sintonia con i già richiamati processi
di branding e popolarizzazione del femminismo degli ultimi anni, i
contenuti subiscono una sorta di leggera politicizzazione, tipicamen-
te espressa – a fronte di una riconosciuta discriminazione di genere
diffusa nella società – nei termini di autoaffermazione, accettazione e
accrescimento dell’autostima delle donne. La linea è dichiaratamente
ispirata a esperimenti editoriali analoghi per target, contenuti, valori e
modalità di distribuzione, come Refinery29 e Bustle, ma come sostiene
la editor Bernardoni, «Freeda» è un

           editore 100% social, […] i nostri articoli sono progettati per essere fruiti
           direttamente da Facebook come Instant Articles, considerando anche che
           la nostra audience trascorre la maggior parte del tempo online da mobile
           e su piattaforme social. […] Dal punto di vista editoriale invece ci siamo
           concentrati principalmente su tre formati: profili biografici di storie di
           grandi donne, divulgazione di ricerche scientifiche su tematiche rilevanti
           per la nostra audience e approfondimenti culturali. Copriamo anche
           l’attualità, ma ovviamente con il filtro dei nostri valori (Milani 2017).

                                                                                 435
Stefania Parisi

             Il target a cui il magazine si rivolge, composto da donne tre
i 18 e i 34 anni, è lo stesso individuato da uno studio di An Nguyen
(2012) come quello maggiormente sensibile ai consumi di soft news, e
il richiamo dell’editor alle abitudini di consumo e presenza online della
propria audience evidenzia una connessione con le millennials e gli stili
di vita e di consumo che sono loro attribuiti5. La strategia editoriale
si inserisce compiutamente nel quadro della platform press, e la scelta
dei social media su cui concentrare il proprio intervento – Facebook
e Instagram – è motivata dalla predilezione per formati specifici –
articoli brevi, video e cards – che intercettano le attuali tendenze di
consumo di contenuti in ambienti connessi. Post e video sponsorizzati
promuovono in genere prodotti per la cura di sé, moda e brand women
friendly, o temi considerati sensibili per consumatrici consapevoli6. Lo
scostamento dal «factual entertainment» puro è garantito dalla pre-
senza costante di soft news, e da quella, meno continua, di notizie con
carattere di attualità7. I contenuti sono originali (testi e/o filmati, questi
ultimi sottotitolati per la fruizione anche in modalità «silenziosa») e
realizzati dalla redazione. Il sito web del progetto ha esclusiva funzione
di landing page. Da questo punto di vista ricorda uno dei modelli di
newsmedia che interpretano in maniera più radicale l’idea di «editoria
delle piattaforme», e che dichiara programmaticamente l’intenzione di
superare l’idea anacronistica del sito web:

               Taken to the extreme, the strategy of emphasizing distribution produces
               NowThis News, a video news service which tells readers (on its landing
               page) that there is no homepage: «Homepage. Even the word sounds
               old. We bring the news to your social feed». The embrace of platforms

5
  Tra le altre realtà (micro)editoriali – con target simile ma attitudine decisamente meno
imprenditoriale – già esistenti in Italia al momento della nascita di Freeda, cito almeno Soft
Revolution - Ragazze che dovrebbero darsi una calmata, attiva dal 2011 e che tuttavia non
ha carattere nativo su piattaforma (nasce infatti come magazine-blog collettivo, cfr. www.
softrevolutionzine.org/). Ancora ad uno stadio piuttosto acerbo, ma come Freeda presente
esclusivamente su social media (Facebook e Instagram), segnalo il progetto Lisa (https://www.
facebook.com/experienceis/), edito da Condé Nast Italia.
6
  Si veda il post dedicato alla cosiddetta pink tax, «Essere donna costa caro: che cos’è la pink
tax» (http://freedamedia.it/2017/02/28/essere-donna-costa-caro-che-cose-la-pink-tax/).
7
  Appare saltuaria l’attenzione all’attualità più stretta, segnalo tuttavia a titolo di esempio
alcuni post che ricadono nella categoria: «Harvey Weinstein sta per essere arrestato», del 25
maggio 2018 (http://freedamedia.it/2018/05/25/harvey-weinstein-sta-per-essere-arrestato/),
quasi una breaking news, oppure «Dove sono finite le giornaliste», del 18 maggio 2018 (http://
freedamedia.it/2018/05/18/dove-sono-finite-le-giornaliste/), che rinvia ad un tema trattato
nello stesso periodo dalla stampa mainstream.

436
Platform press, soft news media e femminismo pop

            is shaped by the business model of the publisher […] (Bell, Owen et
            al., 28-29).

            Solo occasionalmente gli articoli presentano link ester-
ni, che «spezzano» la circolarità della fruzione interna alla pagina.
Questo approccio suggerisce l’idea di «una casa costruita sul terreno
di qualcun altro» (ibid., p. 36, tradzione mia): è, in effetti, il pre-
supposto per rinunciare al controllo sulla propria audience. Ma in
questo caso si tratta di una strategia precisa, mirata a stimolare l’a-
gency dei pubblici e generare tra gli utenti «small acts of productive
engagement» (Kleut, Møller Hartley, Pavlíčková et al. 2017, 28-29),
come «one-click engagement, commenting and debating, production
of small stories» (ivi). Siamo ancora, e decisamente, dentro il frame
teorico dell’audience labour e della sua valorizzazione (Fisher 2012).
            Per quanto riguarda i messaggi veicolati, quando non sono
concentrati sull’io e sulla declinazione market-centered del femvertising,
i contenuti si allargano al più a evocare una «sorellanza» cooperativa e
solidale, che si condivide in forme intimistiche (il richiamo al gruppo
di amiche, alla complicità fra donne, i modelli di donne di successo da
condividere e imitare, o a cui guardare per trarre ispirazione) e dalla
quale il conflitto è bandito. Anche perché sarebbe dannoso per il lavoro
di squadra. Un ulteriore elemento di interesse ai fini della costruzio-
ne di un preciso modello del femminile compatibile con il modello
produttivo del capitalismo avanzato, riguarda infatti la rappresenta-
zione delle routine produttive nella redazione stessa di «Freeda» nei
termini di buona pratica. Affidata in un primo momento a un video,
e successivamente a un Instant article «brandizzato» da uno sponsor
terzo (Team «Freeda» 2018), è successivamente rilanciata dallo stes-
so sponsor sul proprio sito web (Mammone 2018), nell’ambito di un
progetto più ampio (The work behind) che si incarica di esplorare al-
cune «isole felici» selezionate tra luoghi e forme di organizzazione del
lavoro creativo contemporaneo. Una forma di valorizzazione reciproca
tra editore e sponsor. La visione del femminismo empowered è tutto
sommato funzionale agli assetti e alle richieste del mercato del lavoro
contemporaneo, soprattutto (ma non solo) di quello che abita gli am-
bienti del capitalismo digitale o delle piattaforme (Srnicek 2017), al di
là dei singoli comparti in cui esso si organizza (dalla logistica al design,
dalle industrie creative al marketing). Se si parla di femminilizzazione

                                                                          437
Stefania Parisi

complessiva del lavoro è perché a tutti, indistintamente, sono richieste
prestazioni flessibili, estemporanee, in cui le skills umane entrano di
diritto in gioco come variabili fondamentali. E queste skills, soft come
le news che le promuovono e come il potere che le orienta, si intendono
tradizionalmente ascritte al femminile (Morini 2007). Che in definitiva
il self empowerment rappresenti un dispositivo di controllo piuttosto
che di liberazione8?

6.             «The smart, the brave, the driven, the powerful»:
               alcune osservazioni conclusive

La riflessione sulla nascita di social media-zine orientati alle audience
femminili è stata condotta considerando due fattori all’opera nel campo
giornalistico contemporaneo: da un lato la necessità di conquistare e
mantenere l’attenzione dei pubblici in un orizzonte sempre più com-
petitivo e rispondente a dinamiche di mercato, che si declina nelle
forme della platform press e vede la moltiplicazione di canali e prodotti
informativi; dall’altro la «riscoperta» di un segmento di pubblico ap-
petibile – le donne tra i 18 e i 34 anni, già prese in considerazione dal
marketing come obiettivo sensibile per il proprio potere d’acquisto (o di
indirizzo all’acquisto). Non si tratta, con ogni evidenza, di una nicchia
di mercato, ma di un target largo e in qualche misura «generalista»,
per estensione e composizione socioculturale. Caratteristiche che lo ren-
dono particolarmente ricettivo rispetto ai contenuti di un femminismo
liberal – in cui il conflitto e la dimensione collettiva sono politicamente
depotenziati e restano vitali i richiami alla valorizzazione delle proprie
qualità, all’esaltazione delle specificità individuali, al raggiungimento di
obiettivi personali (lavoro, relazioni, eccetera) – utilizzato per costruire
un idealtipo di donna indipendente, consapevole, capace di scegliere,
motivata al successo. Tutte caratteristiche che ben si attagliano al
nuovo mandato sociale contemporaneo, in quanto aderenti al sistema
valoriale delle forme più avanzate del capitalismo contemporaneo (Gill,
Scharff 2011).

8
  La stessa domanda si rintraccia anche in un post della già citata Soft Revolution, dal titolo
«Dov’è il confine tra empowerment e oppressione nella cura di sé?», http://www.softrevolu-
tionzine.org/2016/empowerment-oppressione-cura-di-se/.

438
Platform press, soft news media e femminismo pop

             Ho preso in prestito, per il titolo di questa sezione, un pas-
saggio di un articolo (Coffey 2016) pubblicato sulla rivista «Jacobin»
nell’agosto 2016 che mi sembra tratteggiare efficacemente il profilo
della donna «empowered» per concludere con una riflessione sul filo
rosso che lega soft news, soft skills e – inevitabilmente – soft power
nel complesso nodo della produzione di valore negli ambienti mediali
«social». Una interessante, inedita e più ampia forma di coltivazione
dei pubblici che nasce con scopi di mercato ma si inscrive compiuta-
mente nel quadro dei fenomeni di politicizzazione «pop» (Mazzoleni,
Sfardini 2009) e, per giunta, non riguarda esclusivamente i pubblici
connessi: penso al successo di editoria narrativa come il volume Storie
della buonanotte per bambine ribelli di Elena Favilli e Francesca Ca-
vallo (2016), il cui progetto, finanziato attraverso una fortunatissima
campagna di crowdfunding, racconta alle giovanissime le storie di
donne «eccezionali». Questo filo rosso sembra da un lato attraversare le
strategie di marketing alla base delle esperienze di alcune webzine sorte
nel perimetro del platform journalism e dall’altro orientare le critiche
al fenomeno stesso, che individuano nel femminismo pop di matrice
liberale, e nelle costruzioni discorsive orientate al self empowerment
femminile che lo caratterizzano, l’attivazione di meccanismi di autocon-
trollo intestati al singolo soggetto femminile piuttosto che di liberazione
collettiva. Nella consapevolezza che nulla o quasi possa dirsi circa gli
eventuali effetti della diffusione di contenuti politicamente orientati
sull’opinione pubblica, proverò comunque a tracciare qualche linea di
possibile interpretazione del «networked feminism» a partire dal clima
culturale in cui sono immerse questa ed altre simili imprese editoriali
a vocazione social. Ad esse si contesta una sorta di edulcorazione delle
istanze di emancipazione e una anestetizzazione del portato conflittuale
del femminismo, qui utilizzato come frame per vendere merci o generare
profitti dal lavoro dei pubblici connessi. La mutuazione di elementi,
discorsi, estetiche e stili da culture antagoniste e movimenti sociali è,
ammettiamolo, storia ormai antica. E se a ridosso dell’anniversario
politicamente sensibile del Settantasette, in Hoxton Square a Londra
si inaugurava, per iniziativa di due imprenditori italiani, la pizzeria
«Radio Alice», intitolata al medium simbolo del movimento bolognese
(Bukowski 2018), per quale ragione le modelle Emily Ratajkowski o
Ashley Graham (tra le altre e gli altri) non dovrebbero fare del fem-
minismo glamour o della body positivity un proprio brand? Certo, la

                                                                      439
Stefania Parisi

stessa ripresa dell’utilizzo del termine femminismo nelle narrazioni
dei media non indica l’intenzione della trasformazione sociale: al self
empowerment femminile promosso dai social magazine manca il noi
che presiede alla dimensione politica, che la istituisce.
             La ripresa di parola pubblica delle donne continua tuttavia
a manifestarsi anche nelle forme tradizionali della politica, sebbene
alla definizione di movimento si affianchi frequentemente quella di
network: è il caso, già richiamato, delle campagne diffuse, a partire dal
network Ni una menos argentino, nato come appello per un reading
collettivo di artiste, scrittrici, giornaliste e attiviste contro femmini-
cidio, e affidato alla performatività linguistica di un verso di Susana
Chávez («Ni una mujer menos, ni una muerta más») e divenuto poi
un network globale, fino alle già citate #metoo e #yosìtecreo, per dire
delle più note. E se il femminismo di seconda ondata si presentava
conflittualmente disintermediato nei confronti di partiti e gruppi
formalizzati della sinistra, la quarta ondata si affida alla mediazione
di emittenti e hub in rete, talvolta ascrivibili all’attivismo connnesso,
altre a semplici media commerciali. Le forme di questa partecipazione
al discorso pubblico rimandano ad una azione collettiva e insieme
individualizzata:

           digital media can bring individuals together without a consistent col-
           lective identity. This implies that digital media as a context for political
           action could significantly challenge key understandings of relationships
           between individuals and collectives taking political action (Seddighi,
           Amaral et al., 2017).

           Così, la dimensione connessa rinforza l’atto individuale agli
occhi di chi lo compie, caricandolo di contenuti:

           Thinking of every purchase as a radical act is a way of absolving yourself
           of criticism – buying a $15 «FEMINIST» T-shirt from H&M is empower-
           ing, even if the shirt itself was made by a woman in a sweatshop. The
           excuse of «empowerment» can turn even the least ethical purchase into a
           form of activism. There’s nothing wrong with wearing lipstick or buying
           a Kardashian-branded bodysuit because it makes you feel good – but
           there is nothing revolutionary about it, either (Del Valle 2017).

            Si configura così un campo piuttosto disomogeneo entro cui
convergono tendenze culturali, politiche e di mercato di cui le audience
in rete e i network dell’attivismo connesso rappresentano poli non

440
Platform press, soft news media e femminismo pop

di rado dialoganti. La natura commerciale e orientata al mercato di
questi prodotti editoriali è fuori discussione9. Così come è chiaro che
non saranno le condivisioni di hashtag e meme a modificare una volta
per tutte i rapporti di potere tra i generi. Per quanto invece riguarda
i livelli di consapevolezza individuali e collettivi – e dunque per le
eventuali «contromisure» da prendere perché l’audience engagement
abilitato dalle tecnologie di rete e messo a valore anche dalle impre-
se editoriali che ne popolano l’ecosistema, compia, eventualmente,
un salto di qualità politica – ancora una volta, è il caso di affidarsi
a forme più avanzate non soltanto di media- ma anche di political
literacy. Le uniche, a ben vedere, in grado di farci guardare con la
lente giusta, e la giusta distanza, ai fenomeni che qui ho provato a
mettere in relazione.

               Stefania Parisi
               Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
               Sapienza Università di Roma
               Via Salaria 113 – 00198 Roma
               stefania.parisi@uniroma1.it

Riferimenti bibliografici

               Åkestam, N., Rosengren, S., Dahlen, M. (2017), Advertising «like a
               girl»: Toward a better understanding of «femvertising» and its effects,
               in «Psychology&Marketing», 34, 8, pp. 795-806.

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  La riflessione di Bia Sarasini (2017) sul caso Freeda riassume efficacemente i termini della
questione: «In realtà è una vecchia storia, investe da sempre i femminili, cioè quei giornali
che si rivolgono esclusivamente, o quasi, alle femmine umane. E quindi con argomenti sele-
zionati. Moda, vestiti, trucchi, cucina, cure del corpo, cultura varia, se di fascia alta. Tutto
fuorché l’attualità e soprattutto la politica. E poco importa che Freeda sia un socialmedia o
un giornale di carta. È rivolto alle giovani donne, usa grafiche, video, propone pillole di cono-
scenza, a volte pezzi informativi. Molto didattici, quasi pedagogici. […] Leggere i femminili
è divertente, la moda è una passione, e spesso gli articoli e le pagine culturali sono migliori
che altrove. Ma nessuno, riporta un punto di vista, una chiave di lettura con occhi di donna
dei fatti del mondo. Anche se questo può accadere in singoli articoli o rubriche. Vale anche
per Freeda. Il prodotto è nuovo, utilizza bene il potenziale dei social e mette in circolazione
un linguaggio diverso. In questo senso è innovativo, sicuramente riprende temi e parole dei
femminismi di nuova generazione. Uno scandalo? L’importante è non scambiarlo per un media
di movimento. Basta saperlo».

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