Opinioni a confronto La disciplina sul cosiddetto caporalato

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Opinioni a confronto
        La disciplina sul cosiddetto caporalato

Variazioni su temi di Diritto del lavoro          127
Fasciolo 4|2017
128   Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro
                             Fascicolo 1|2018
La tutela dei lavoratori
dalla condizione analoga alla schiavitù e i
problemi non risolti dalla legge n. 199/2016
The protection of workers
in a condition similar to slavery and
problems not solved by the law n. 199/2016
Antonio Bevere
già Consigliere di Corte di Cassazione. Direttore di Critica del diritto

 ABSTRACT
 La legge 29 ottobre 2016, n. 199 ha modificato le norme a tutela dei lavoratori dallo sfrut-
 tamento e dall’intermediazione illegale. La riforma, introducendo una nuova fattispecie di
 reato, non ha tenuto conto di già vigenti norme del codice penale e della loro consolidata
 applicazione giurisprudenziale. In tal modo il legislatore, nel quadro dei già difficili rap-
 porti tra potere punitivo dello Stato e criminalità economica, ha creato problemi interpreta-
 tivi, dai quali possono paradossalmente derivare benefici per i responsabili dello sfrutta-
 mento di lavoratori italiani e stranieri.
 Parole chiave: sfruttamento e intermediazione illegale dei lavoratori – caporalato

 The law 29 october 2016 n. 199 amended the rules to protect workers from exploitation
 and illegal intermediation. The reform, introducing a new criminal offense, does not take
 into account already existing rules of the Criminal Code and their consolidated jurispru-
 dential application. Thereby legislatore – under the already difficult relations beetween
 punitive power of the State and economic crime – has created problems of interpretation,
 from which they can paradoxically derive benefits for the leaders of the exploitation of ital-
 ian and foreign workers.
 Keywords: illegal exploitation and intermediation of workers

SOMMARIO:
1. La legge sul lavoro sommerso e sullo sfruttamento delle persone in stato di bisogno. – 2. Il
reato di riduzione e mantenimento in servitù. – 3. L’art. 600 del codice penale e l’inter-
pretazione giurisprudenziale del delitto di lavoro servile a evento plurimo. – 3.1. Il rapporto di
forze tra le parti. – 4. Casistica della lesione della libertà individuale e del patrimonio dei lavo-

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Fascicolo 1|2018
ratori in condizione servile. – 5. Le nuove norme, lo scoordinamento con il sistema penale vi-
gente, il paradossale effetto di clemenza. – 6. Lo stato di soggezione continuativa come ele-
mento basilare per la reale vigenza del delitto di lavoro servile ex art. 600 c.p. – 7. L’oscura
strategia dell’intervento punitivo dello Stato nel campo economico.

1. La legge sul lavoro sommerso e sullo sfruttamento delle persone in
   stato di bisogno

   Il Governo, in difesa dei lavoratori impegnati in attività particolarmente di-
sagiate, sin dal 28 gennaio dello scorso anno, ha presentato il disegno di legge
S2217, approvato dal Senato il primo agosto successivo; la Camera, il 18 otto-
bre, all’esito di un rapido esame, ha concluso l’iter parlamentare.
   La legge 29 ottobre 2016, n. 199, recante “Disposizioni in materia di con-
trasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltu-
ra”, è stata pubblicata nella G.U. del 3 novembre 2016, n. 257.
   Al di là di aspetti positivi che, almeno sulla carta, possono intravedersi nel
campo del diritto civile e del diritto amministrativo, le nuove norme presenta-
no aspetti meritevoli di attenta riflessione sul piano della prevenzione e della
repressione penale dello sfruttamento della parte debole del rapporto di lavoro.
   Va innanzitutto rilevato che all’inizio e nel corso dei lavori parlamentari è
stata suggerita ai cittadini, con l’appoggio di stampa e televisione, la convin-
zione dell’esistenza di un vuoto normativo nel sistema penale, quale prima
causa dell’espansione del lavoro illegale e disumano svoltosi con la massima
trasparenza nelle campagne di tutta l’Italia. Da tale omissione del potere legi-
slativo sarebbe derivata la libertà dei proprietari terrieri e degli imprenditori di
sfruttare, di schiavizzare, di umiliare, grazie all’illegale intermediazione dei
caporali, cittadini italiani e stranieri in stato di bisogno.
   Infatti Donatella Ferranti, Presidente della Commissione giustizia della
Camera, e Giuseppe Berretta, Relatore nella medesima Commissione, concor-
dano con una indeterminata dottrina sull’esigenza di porre rimedio all’inetti-
tudine operativa dell’art. 603-bis c.p. per realizzare l’obiettivo del coinvolgi-
mento concorsuale del datore di lavoro nel delitto di intermediazione illecita e
di sfruttamento; concordano, quindi, sulla necessità di riscrivere la norma per
estendere la punibilità al primario protagonista del fenomeno del lavoro nero 1.

   1
     D. FERRANTI, La legge n. 199/2016: disposizioni in materia di caporalato e sfruttamento
del lavoro nell’ottica del legislatore, in Diritto penale contemporaneo, pubblicato il 15 no-
vembre 2016, in www.penalecontemporaneo.it, a cui è allegata la relazione dell’on. Giuseppe
Berretta.

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Un’anomalia è sicuramente ravvisabile in questa ansia riformatrice: infatti,
la finalità di riempire una lacuna normativa dando rilevanza penale al compor-
tamento del soggetto che trae il massimo profitto dallo sfruttamento del lavo-
ratore in posizione di particolare disagio mal si concilia con la severa punizio-
ne penale, già prevista dal codice penale nel capo III, rubricato “Dei delitti
contro la libertà individuale”, e in particolare nella sezione prima, rubricata
“Dei delitti contro la personalità individuale”.
    Tale normativa, che ha ricevuto una consolidata e conforme applicazione
da parte della magistratura, ha radici antiche di carattere internazionale.
    La Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926 impose agli Stati con-
traenti la totale soppressione, oltre che della schiavitù, del lavoro forzato od ob-
bligatorio, quale «pratica analoga alla schiavitù». Il Codice Rocco, in ottempe-
ranza all’obbligo assunto dall’Italia, prevedeva quindi, all’art. 600, due ipotesi
criminose: la riduzione in schiavitù e la riduzione in condizione “analoga” alla
schiavitù. La nozione di schiavitù era fornita dall’art. 1 della medesima Con-
venzione 2, che la definisce come «lo stato o la condizione di un individuo sul
quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuno di essi».
    Alla Convenzione del 1926 è seguita, nel 1948, la Dichiarazione Universa-
le dei Diritti dell’Uomo, secondo cui, all’art. 4, «nessun individuo potrà essere
tenuto in stato di schiavitù o di servitù» 3.
    Tale norma precisa che alla nozione di sfruttamento devono essere ricon-
dotti, tra l’altro, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o le pratiche analoghe,
e la servitù.

2. Il reato di riduzione e mantenimento in servitù

   L’art. 1 della legge 11 agosto 2003, n. 228, modificata dal d.lgs. 4 marzo
2014, n. 24, nel dare interpretazione autentica alla citata dizione di “condizio-
ne analoga alla schiavitù”, scandisce con maggiore chiarezza la duplice ipotesi

     2
       La Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926 è stata rinnovata con la Convenzione
del 7 settembre 1956, ratificata con la legge 20 dicembre 1957, n. 1304.
     3
       Il divieto di servitù, di distinto ma analogo disvalore morale e giuridico rispetto alla schiavi-
tù, lo troviamo ribadito: nel 1950, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 4); nel 1956, dalla già citata Convenzione supplemen-
tare sull’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e sulle istituzioni e pratiche analoghe
alla schiavitù, adottata a Ginevra; nel 1966, dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e poli-
tici (art. 8, comma 2); nel 2000, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 5),
adottata a Nizza dal Consiglio europeo; nel 2005, dalla Convenzione del Consiglio d’Europa del-
l’Unione europea sulla lotta alla tratta degli esseri umani, firmata a Varsavia.

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criminosa che può prendere corpo in molteplici rapporti interpersonali, tra cui
quelli intercorsi in campo lavorativo. In particolare, la prima consiste nella ri-
duzione e del mantenimento in schiavitù, fattispecie nella quale il soggetto at-
tivo “esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di pro-
prietà” che, implicando la reificazione della vittima (lo schiavo) ne comporta-
no ex se la privazione della libertà e la vantaggiosa utilizzazione delle presta-
zioni lavorative senza possibilità di resistenza, mentre la seconda riguarda la
riduzione e il mantenimento in servitù, ove il soggetto attivo pone in essere la
condotta di approfittamento, tra l’altro, di una situazione di necessità, di vul-
nerabilità e «riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione conti-
nuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accatto-
naggio o comunque al compimento di attività illecite, che ne comportino lo
sfruttamento …» 4.
    Inoltre, il secondo comma dello stesso articolo precisa che «La riduzione o
il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attua-
ta mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento
di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situa-
zione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o
di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».
    Infine, la Direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo, all’art. 2, par. 2,
ha definito la posizione di vulnerabilità come «una situazione in cui la persona
… non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è
vittima».

   4
      L’origine storica e l’evoluzione normativo-giurisprudenziale dello sfruttamento dei lavo-
ratori sono ben delineate nella sentenza Cass. pen., sez. V, 10 febbraio 2011, n. 13532, in Foro
it., 2011, 6, II, 331, in cui si afferma che «Giova riflettere che la ‘condizione analoga alla
schiavitù’ risale al diritto giustinianeo, che riferiva il concetto alla “servitù della gleba”, cui
erano soggetti i lavoratori agricoli dei latifondi dell’impero bizantino, incapaci di sottrarsi alla
loro condizione. Ad esso si riferiva il Codice positivista, perciò limitandosi ad una previsione
alternativa sintetica, la cui specificazione di contenuto era offerta da norme internazionali, fatte
proprie dallo Stato italiano nel 1926. A tali norme internazionali sono seguite quelle della
Convenzione supplementare di Ginevra del 7 settembre 1956, resa esecutiva con la l. n.
1304/1957 ed infine l’art. 4 CEDU (cfr. Cass., sez. V, 15 gennaio 2010, n. 1807, rv 247148)
cui si è adeguata la novella del Codice. L’art. 1, l. n. 228/2003 ha modificato l’art. 600 CP, of-
frendo in effetti con la sua specificazione una interpretazione autentica della locuzione “condi-
zione analoga alla schiavitù” che non risulta per nulla discorde dalla giurisprudenza formatasi
alla lettera previgente. La nuova giurisprudenza ha infatti solo dato corpo casistico ai caratteri
differenziali delle singole condotte confluenti nella riduzione in stato di soggezione delle per-
sone private di fatto delle libertà fondamentali, esclusa l’attribuzione categorica della schiavitù,
oggi giuridicamente irriconoscibile in qualsiasi ordinamento». In dottrina, v. P. SCEVI, Nuove
schiavitù e diritto penale, Giuffrè, Milano, 2014, 50 ss.

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Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è a fattispe-
cie plurima 5 e, in entrambe le fattispecie, il colpevole è punito con la reclu-
sione da 8 a 20 anni, ed è prevista la competenza della Corte d’Assise. L’art.
602 ter prevede una serie di aggravanti, con aumenti della pena che vanno da
un terzo alla metà, se la persona offesa è minore di 18 anni e/o se vi è grave
pericolo per la vita o l’integrità fisica o psichica della vittima, e dalla metà a
due terzi, se la persona offesa è minore di anni 16. L’entità delle sanzioni ren-
de i delitti non esposti al pericolo di prescrizione, in quanto la pena massima
del reato nell’ipotesi non aggravata è di venti anni di reclusione, e i termini
sono raddoppiati ex art. 157, comma 6, c.p.
    La specifica collocazione del reato di servitù nel mondo del lavoro emerge
dall’art. 603-ter c.p., in cui la condanna per uno dei delitti previsti dall’art.
600, limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto prestazioni la-
vorative (nonché per il delitto dell’intermediazione illecita e sfruttamento del
lavoro, ex art. 603-bis 6), importa pene accessorie di pesante incidenza sulla
dimensione imprenditoriale e patrimoniale del reo, tra cui l’interdizione per
una durata pari a quella della pena principale dagli uffici direttivi delle perso-
ne giuridiche e delle imprese, il divieto di concludere contratti di appalto, di
cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica
amministrazione, nonché l’esclusione per due anni da agevolazioni, finanzia-
menti, contributi o sussidi dello Stato, di enti pubblici, dell’Unione europea
relativi al settore in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.
    I delitti previsti dall’art. 600 c.p. sono di competenza della Corte d’Assise e
l’art. 604 c.p. stabilisce che le disposizioni suindicate e quelle contenute nella
sezione terza «si applicano altresì quando il fatto è commesso all’estero da cit-
tadino italiano, ovvero in danno di cittadino italiano, ovvero dallo straniero in
concorso con cittadino italiano» 7.
    In relazione allo specifico delitto di sfruttamento di lavoro servile va rileva-
to che la disuguaglianza di potere negoziale tra i suoi protagonisti non neces-

   5
      Cass. pen., sez. V, 9 gennaio 2015, n. 10426; Cass. pen., sez. III, 27 maggio 2010, n.
24269, entrambe in Dejure.
    6
      L’articolo è stato inserito dall’art.12, comma 1, d.l. 13 agosto 2011, n.138, convertito in l.
14 settembre 2011, n. 148.
    7
      Altri riflessi della gravità di questi reati sulle modalità procedurali per il loro accertamen-
to sono evidenziati da A. CASELLI LAPESCHI, L’azione penale a un bivio tra delitti contro la
persona e ricettazione, in AA.VV., Impresa e “forced labour”: strumenti di contrasto, Il Mu-
lino, Bologna, 2015, 164 ss. Tra l’altro, l’A. rileva che nei processi che riguardano i delitti di
sfruttamento del lavoro la durata delle indagini preliminari, per espressa disposizione dell’art.
407, comma 7-bis, c.p.p., è prorogabile, su richiesta del P.M., a due anni.

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Fascicolo 1|2018
sariamente conferisce ad essi il ruolo di sfruttatore e di vittima. In qualsiasi
rapporto di lavoro esiste una tipica e congenita disparità della forza negoziale
dei protagonisti dello scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, e que-
sta disuguaglianza di norma si riflette sulla regolamentazione e sull’ese-
cuzione dei singoli elementi dell’accordo (orario, ambiente di lavoro, control-
lo, durata, risoluzione del rapporto), in prevalenza plasmati secondo l’interesse
della parte egemone.
    Di solito non ha rilevanza penale un accordo su prestazioni lavorative da
svolgere in condizioni disagiate e non adeguatamente retribuite, laddove la
parte debole possa autotutelarsi grazie alla corretta relazione interindividuale
con la controparte e ad un equilibrato rapporto tra le corporazioni di apparte-
nenza. In un mercato del lavoro in cui tutte le parti si trovino in una posizione
di normale libertà di autodeterminazione, ciascun lavoratore può pretendere e
ottenere il miglioramento delle condizioni contrattuali o in alternativa può in-
staurare un altro e più vantaggioso rapporto di lavoro.
    In questo caso, la disuguaglianza tra le parti non conduce l’accordo su pre-
stazione e retribuzione al di fuori dell’alveo segnato dalle norme nazionali ed
internazionali.
    Il potere giudiziario deve intervenire ove questi limiti siano superati nel
quadro di un mercato del lavoro che sia incompatibile con la rivendicazione di
condizioni eque e conformi alle regole, ma sia compatibile in via esclusiva
con prestazioni delle parti evidentemente sproporzionate. Lo Stato allora in-
terviene per accertare, sia se in questo passaggio dalla supremazia fisiologica
alla supremazia patologica del datore di lavoro siano state consumate viola-
zioni dell’interesse privato del lavoratore, rimediabili con un ripristino della
vigenza delle norme di legge e delle regole contrattuali e con una riparazione
monetaria, sia se le violazioni esorbitino la singola disciplina dell’accordo tra
le parti e incidano sull’interesse pubblico al rispetto della libertà individuale,
della dignità sociale, della sicurezza fisica, della condizione economica del la-
voratore, così come tutelati dalla legge penale, dalla Costituzione, e dai trattati
internazionali.
    In quest’ultima ipotesi tocca al Giudice penale accertare la sussistenza di
un delitto contro la libertà, la personalità individuale, la posizione patrimonia-
le del lavoratore (riduzione o mantenimento in servitù) ove risulti dimostrata
la presenza di una situazione di «sproporzione tra la prestazione della vittima e
quella del soggetto attivo che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il
secondo approfitti per trarne vantaggio» 8.

   8
       Cass. pen., sez. III, 20 dicembre 2004, n. 3368, in Dejure.

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3. L’art. 600 del codice penale e l’interpretazione giurisprudenziale del
   delitto di lavoro servile a evento plurimo

    Da tempo, nella Repubblica italiana fondata sul lavoro, chi trae iniquo pro-
fitto dallo stato di bisogno della parte debole e dalla generale sua impossibilità
di determinarsi liberamente nello scambio prestazioni-retribuzione è sottopo-
sto alla grave sanzione penale della reclusione, prevista dall’art. 600 del codi-
ce penale dedicato alla riduzione o mantenimento in servitù 9.
    La Suprema Corte, con la mirabile sentenza n. 2841/2006, ha illustrato con
estrema efficacia gli elementi costitutivi «del più importante delitto a tutela
della personalità individuale, che, rendendolo conforme alle indicazioni inter-
nazionali e rispettoso del principio costituzionale di tipicità penale, sembra de-
stinata ad attribuirgli un ruolo più incisivo di quello poco più che simbolico
ricoperto nel passato, al fine della protezione effettiva della dignità della per-
sona …» 10. La decisione osserva: «Il legislatore, nell’evidente intento di con-
ferire determinatezza alla fattispecie abrogata, ha definito la nozione di
“schiavitù” e ha introdotto la nozione di “servitù” in sostituzione della prece-
dente “condizione analoga alla schiavitù”, in tal modo configurando un delitto
a fattispecie plurima, che è integrato alternativamente: a) dalla condotta di chi
esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario:
è questo un reato di mera condotta, parametrato sulla nozione di schiavitù pre-
vista dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 25 ottobre 1926, ratificata
con r.d. 26 aprile 1928, n. 1723, secondo il quale “la schiavitù è lo stato o la
condizione di un individuo sui quali si esercitano gli attributi del diritto di
proprietà o alcuni di essi”; b) dalla condotta di chi riduce o mantiene una per-
sona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorati-
ve (es, servitù per debiti) o a prestazioni sessuali, o all’accattonaggio o co-
munque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (es. servitù della gle-
ba): si tratta in questo caso di un reato di evento a forma vincolata, in cui
l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a
svolgere determinate prestazioni (si tratta quindi, più esattamente, di un dupli-
ce evento, che comprende lo stato di soggezione e la prestazione che ne deri-
va), deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza,
minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di una situazione

   9
      Il riconoscimento della libertà di iniziativa economica è condizionato dall’art. 41 della
Costituzione al rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana. Il reato di riduzione e
mantenimento in servitù ex art. 600 c.p., come già detto, rientra nella tipologia dei delitti con-
tro la personalità individuale, compresi nei delitti contro la libertà individuale.
    10
       Cass. pen., sez. III, 26 ottobre 2006, n. 2841, in Dejure.

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di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Il legislatore del
2003, nel definire l’evento, riprende in parte la nozione di servitù per debiti,
quella di servaggio o servitù della gleba definite rispettivamente nelle lettere
a) e b) dell’art. 1 della Convenzione supplementare di Ginevra del 7 settembre
1956, ratificata con legge 20 dicembre 1957, n. 1304. Aggiunge però l’accat-
tonaggio e le prestazioni sessuali. Ma soprattutto richiede una condotta del
soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno, abuso di autorità, o
approfittamento di situazioni di inferiorità o di necessità. La situazione di ne-
cessità come sopra prevista si riferisce alla vittima e non al soggetto attivo del
reato: come tale, non è una causa di giustificazione del reato, bensì un elemen-
to della fattispecie, e più precisamente un presupposto della condotta approfit-
tatrice dell’agente. Perciò, la nozione di necessità utilizzata dall’art. 600,
comma 2, c.p. non corrisponde a quella precisata nell’art. 54 c.p., ma è piutto-
sto paragonabile con la nozione di bisogno di cui all’art. 644, comma 5, n. 3,
(usura aggravata commessa in danno di chi si trova in stato di bisogno) o
all’art. 1448 c.c. (rescissione del contratto per sproporzione delle prestazioni
dipendente dallo stato di bisogno di una parte di cui l’altra approfitti per trarne
vantaggio). Va quindi intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di man-
canza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la vo-
lontà personale; in altri termini, coincide con quella “posizione di vulnerabili-
tà” indicata nella decisione quadro della UE 2002/629/GAI del 19 luglio 2002
sulla lotta alla tratta degli esseri umani, alla quale la legge 11 agosto 2003 n.
228 ha voluto dare attuazione. In entrambe le suddette fattispecie il reato è
chiaramente permanente, perché la protrazione dell’offesa al bene tutelato (la
personalità individuale) dipende dalla volontà dell’agente; mentre per la fatti-
specie sub b) il reato è anche abituale, giacché per la integrazione del medesi-
mo è necessaria la reiterazione nel tempo di più condotte della stessa specie:
tanto si desume dalla stessa definizione dell’evento come stato di soggezione
“continuativa” accompagnato da una pluralità di prestazioni del soggetto pas-
sivo» 11.

   11
       Ritiene escluso il carattere abituale del reato, in quanto il riferimento normativo alla con-
tinuità riguarda lo stato di soggezione e non anche le prestazioni, P. SCEVI, Nuove schiavitù e
diritto penale, cit., 60 ss.; ne consegue, secondo questa tesi, che è sufficiente, per la perfezione
della fattispecie, anche l’espletamento di un’unica prestazione lavorativa comportante lo sfrut-
tamento della vittima. Pertanto, appare preferibile la tesi della reiterazione di prestazioni disa-
gevoli e sottopagate realizzatrici dello sfruttamento, sia per la formale dizione del testo norma-
tivo, che si riferisce a “prestazioni lavorative”, sia perché l’evento costituito da un’unica lesio-
ne della condizione patrimoniale della vittima comporta, per l’interprete, una difficilissima de-
limitazione di questa fattispecie rispetto a quella prevista dall’art. 629 c.p., v. tema trattato a
nota 15.

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Conforme, nella fattispecie specifica della riduzione o mantenimento in
servitù, nel caso di costrizione a prestazioni lavorative, è la sentenza della
Corte di cassazione n. 21630/2010, secondo cui trattasi di un delitto di evento
in cui la condotta a forma vincolata consiste nell’approfittamento di una situa-
zione di necessità, intesa come stato di debolezza atta a condizionare la volon-
tà della vittima e a determinarne lo sfruttamento 12.

3.1. Il rapporto di forze tra le parti
    La suindicata situazione di debolezza, che coincide con la posizione di vul-
nerabilità, interessa una schiera di lavoratori in continua espansione, a causa
delle ondate migratorie in corso da anni nel nostro Paese, rendendo quindi in
ininterrotto aumento il fenomeno di rapporti e contratti caratterizzati dall’il-
legittimo profitto della parte più forte e dall’illegittimo sfruttamento della par-
te più debole. Quest’ultima, se presente nel nostro territorio in modo illegale,
si trova nella situazione «in cui la persona … non ha altra scelta effettiva ed
accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima» 13.

   12
       Cass. pen., sez. III, 6 maggio 2010, n. 21630, in Dejure, in cui si afferma, conformemen-
te all’indirizzo interpretativo adottato a partire dalla sopracitata sentenza n. 2841/2006, che «…
a seguito della riforma del reato di riduzione in schiavitù introdotta dall’art. I della L.
11.8.2003 n. 228, recante misure contro la tratta delle persone, la riduzione o mantenimento in
una condizione di schiavitù o servitù può essere realizzata anche mediante l’approfittamento
delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o di necessità in cui versi la vittima e che
quest’ultima condizione non deve essere confusa con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.,
ma deve essere piuttosto correlata alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggrava-
ta. La situazione di necessità va, quindi, intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di
mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale:
in altri termini, coincide con la definizione di “posizione di vulnerabilità” indicata nella deci-
sione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani,
alla quale la legge 11 agosto 2003, n. 228 ha voluto dare attuazione (cfr. sez. 3, 26 ottobre
2006 n. 2841, RV 236022; sez. V, n. 4012, Lazri ed altri, del 15 dicembre 2005, RV 233600;
sez.3, n. 3368, del 20 dicembre 2004, Galiceanu ed altro, RV 231113 cit.)».
    13
       V. la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea n. 629/2002, GAI del 19 luglio
2002, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, nonché l’art. 2, par. 2, della Direttiva
2011/36/UE. La rilevanza penale dell’immigrazione illegale, a norma del d.lgs. n. 286/1998
(c.d. Testo Unico sull’Immigrazione, TUI) è aggravata in caso di sfruttamento del cittadino
straniero, come previsto dalle seguenti disposizioni: l’art. 12, comma 1, punisce, salvo che il
fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa di 15.000 euro,
le attività volte all’immigrazione clandestina nel territorio italiano e prevede l’aumento della
pena detentiva, da un terzo alla metà, e della pena pecuniaria, a 25.000 euro, se il fatto è com-
messo al fine di reclutare persone da destinare allo sfruttamento lavorativo (art. 12, comma 3-
ter); l’art. 22, comma 12, punisce, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa di 5.000

Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro                                                     137
Fascicolo 1|2018
Questa crescente massa di esseri umani sottoposti al lavoro forzato è co-
stellato più che mai di vittime prive di strumenti giuridici idonei a porre fine
allo sfruttamento e ad ottenere punizione e risarcimento in danno del respon-
sabile.
    Il permesso di soggiorno temporaneo può essere rilasciato dal questore se
in sede giudiziaria sia accertato un grave sfruttamento di un lavoratore stranie-
ro. Infatti, l’art. 18, comma 3-bis, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. Testo
Unico dell’immigrazione), dispone la sua concessione per motivi di protezione
sociale a favore di stranieri vittime di sfruttamento, anche sul lavoro. L’incen-
tivo alla collaborazione di questa norma è però azzerato da altra disposizione
contenuta nel medesimo testo normativo, la quale ha un effetto del tutto con-
trario; si tratta dell’art. 10-bis, inserito nel d.lgs. n. 286/1998 dalla legge n.
94/2009, che punisce il fatto stesso dell’immigrazione clandestina come con-
travvenzione non oblabile ex art. 162 c.p., ma sostituibile con la sanzione
dell’espulsione immediata ex art. 16 del medesimo T.U.
    Pertanto, in dottrina 14 è stata suggerita l’immediata introduzione di una
norma di collegamento tra le due disposizioni, che preveda una specifica causa
di non punibilità a favore dello straniero clandestino vittima di reati di sfrut-
tamento. Tale causa di non punibilità «renderebbe certamente più facile l’ac-
certamento probatorio dei reati di sfruttamento del lavoro, così come lo rende-
rà sicuramente più facile l’abrogazione del reato ex art. 10-bis, o meglio la sua
trasformazione in illecito amministrativo, conseguenza questa pur sempre ne-
gativa per il lavoratore straniero» 15.

euro per ogni lavoratore impiegato, il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavo-
ratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal medesimo articolo, ovvero lavora-
tori il cui permesso sia scaduto, non ne sia stato chiesto il rinnovo, oppure sia stato revocato o
annullato; l’art. 22, comma 12-bis, introdotto con il d.lgs. n. 109/2012, in attuazione della Di-
rettiva 52/2009/CE, prevede l’aumento delle pene suddette da un terzo alla metà se i lavoratori
sono minori in età non lavorativa, sono sottoposti a condizioni di sfruttamento di cui al terzo
comma dell’art. 603-bis c.p., e sono in numero superiore a tre. Inoltre, l’art. 13, legge 11 ago-
sto 2003, n. 228, disciplina uno specifico programma di assistenza per le vittime dei reati di cui
agli artt. 600 e 601 c.p. che prevede, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto
e di assistenza sanitaria. Infine, l’art. 8, d.lgs. n. 24/2014, ha sancito, in conformità alla diretti-
va 2011/36/CE sulla tratta delle persone, la prosecuzione dell’assistenza e l’integrazione socia-
le delle vittime dello sfruttamento, mentre l’art. 18, comma 3-bis del T.U. sull’immigrazione,
dispone il permesso temporaneo di soggiorno per motivi di protezione sociale a favore di stra-
nieri vittime di sfruttamento, anche in ambito lavorativo.
     14
        A. CASELLI LAPESCHI, L’azione penale a un bivio tra delitti contro la persona e ricetta-
zione, cit., 174.
     15
        A. CASELLI LAPESCHI, op. cit.

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Di qui l’ulteriore esigenza di introdurre “un anello di collegamento” tra
l’illecito amministrativo e il permesso di soggiorno di cui al sopracitato art.
18 16.
    Il soggetto attivo delle condotte di sfruttamento di solito coincide con la fi-
gura civilistica dell’imprenditore, inteso come soggetto che in modo profes-
sionale esercita un’attività organizzata di produzione e/o di scambio di beni e
servizi. Ne consegue che lo sfruttamento si consuma soprattutto in osservanza
della strategia dell’impresa; «ciò in quanto le ragioni del profitto economico
portano gli imprenditori più spregiudicati a tagliare sui costi del lavoro e della
sicurezza, perché maggiormente incidenti sul bilancio e perché risparmiare sui
costi delle materie prime non è sufficiente a garantire un buon profitto, oltre a
determinare una caduta di qualità del prodotto con detrimento per l’immagine
aziendale» 17.
    La condotta del datore di lavoro, come previsto dal legislatore nel 2003 e
come accertato dalla giurisprudenza, è attuata mediante abituale violenza fisi-
ca e/o morale nonché mediante abituale approfittamento di una posizione di
vulnerabilità e/o di una situazione di necessità.
    Dalla reiterazione di condotte della stessa specie del datore di lavoro deri-
vano per il dipendente, sia un permanente stato di soggezione, incompatibile
con la possibilità di determinarsi con la dovuta libertà nelle scelte esistenziali
riguardanti lo scambio prestazioni-retribuzione, sia condizioni sproporziona-
tamente svantaggiose idonee a determinare la violazione dei beni tutelati dal-
l’art. 600 c.p.
    La ripetizione di condotte identiche o omogenee del datore di lavoro de-
termina, in un evidente nesso di causalità, la protrazione permanente dell’of-
fesa di distinti beni giuridici del lavoratore; oltre che della reiterata limitazione
della sua libertà costituita dallo stato di soggezione continuativa, essa è causa
della reiterata lesione di natura patrimoniale, essendo il lavoratore costretto a
prestazioni illecitamente disagiate e sottopagate.
    Pertanto, il delitto di riduzione e mantenimento in servitù rientra tra i più dif-
fusi delitti contro la libertà individuale di cui al capo terzo del codice penale.
    In questa plurioffensiva ipotesi delittuosa, la lesione patrimoniale costitui-
sce l’elemento specializzante rispetto agli altri reati previsti dallo stesso capo
terzo del codice penale 18.

   16
      A. CASELLI LAPESCHI, op. cit.
   17
      A. MADEO, Il forced labour nel sistema penale interno, in AA.VV., Impresa e forced la-
bour: strumenti di contrasto, cit., 133.
   18
      I delitti previsti dal capo terzo del codice penale si articolano, nelle prime tre sezioni, in

Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro                                                       139
Fascicolo 1|2018
La casistica giurisprudenziale ha consentito di conoscere le abituali condi-
zioni pericolose e disumane in cui queste illecite prestazioni sono state effet-
tuate 19.
    È quindi pienamente condivisibile l’orientamento interpretativo secondo
cui un evento della specifica fattispecie del mantenimento di una persona “in
uno stato di soggezione continuativa” nel campo lavorativo, consiste nella pri-
vazione della libertà individuale o meglio nell’impedimento alla persona del
lavoratore di determinarsi liberamente nelle sue scelte esistenziali, per via o in
costanza di una situazione di soggezione, attraverso l’approfittamento di una
situazione di necessità e costringendola a prestazioni che ne comportano lo
sfruttamento 20.

lesivi della personalità individuale (artt. 600-604), lesivi della libertà personale (artt. 605-609
duodecies), e lesivi della libertà morale (artt. 610-613).
     19
        Non è configurabile, nella normativa in esame, una graduatoria dello sfruttamento del la-
voratore, nel senso di ritenere sussistente la lesione patrimoniale solo nel caso in cui siano rag-
giunte «le vette dello sfruttamento estremo», v. Cass. pen., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14591,
in Foro it., 2014, 6, II, 331, relativa a una fattispecie ex art. 603 bis c.p. esaminata in sede di
ricorso avverso una misura cautelare personale. In presenza di uno stato di soggezione conti-
nuativa, la dimensione della sproporzione della retribuzione rispetto alle imposte condizioni di
lavoro può solo incidere sulla gravità del delitto e sulla quantità della sanzione.
     20
        Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2009, n. 13734, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 10 febbraio
2011, n. 13532, cit.. Alla luce della duplicità degli interessi personali e patrimoniali violati nel
delitto in esame, si profila un accostamento ad analoga sia pur distinta ipotesi di plurioffensivi-
tà disciplinata dall’art. 629 c.p., ovvero l’estorsione, che ha ad oggetto la tutela giuridica
dell’interesse pubblico all’inviolabilità della libertà personale e del patrimonio, v. Cass. pen.,
sez. III, 11 maggio 2007, n. 27257, in Dejure. La giurisprudenza ha rilevato un’ampia casistica
sedimentata nei rapporti di lavoro in cui, pur in assenza della permanenza dell’offesa e dell’a-
bitualità della condotta, la libera determinazione del contraente debole è stata condizionata dal-
la minaccia del male ingiusto costituito dal licenziamento, minaccia finalizzata dal suo autore
al conseguimento di ingiusto profitto. È quindi pacificamente ritenuta estorsiva la condotta del
datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per
la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i dipendenti, con la minaccia di licenzia-
mento, ad accettare trattamenti retributivi non adeguati alle prestazioni effettuate e, in partico-
lare, a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle ef-
fettivamente ricevute, v. Cass. pen., sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, in Dejure. In caso di ob-
bligatoria corresponsione della retribuzione con assegno, i dipendenti erano tenuti alla restitu-
zione in contanti della differenza. Altre sentenze richiamano la condotta estorsiva dell’impren-
ditore che, approfittando della prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro, minaccia di li-
cenziamento i dipendenti ove non accettino la retribuzione inadeguata, inferiore a quella segna-
ta in busta paga e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collet-
tivi, v. Cass. pen., sez. II, 4 novembre 2009, n. 656, in Dejure; Cass. pen., sez. II, 21 settembre
2007, n. 36642, in Riv. it. dir. lav., 2008, 2, II, 350, con nota di R. CASILLO, Condizione di su-
bordinazione, libertà contrattuale ed «estorsione ambientale». Infine, v. Cass. pen., sez. II, 27

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4. Casistica della lesione della libertà individuale e del patrimonio dei
   lavoratori in condizione servile

    In applicazione del suddetto principio ermeneutico, la Corte ha ritenuto
immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha confermato
l’affermazione di responsabilità, in ordine al plurioffensivo reato di cui all’art.
600 c.p., nei confronti di imputati che in Puglia avevano ridotto in soggezione
persone provenienti da Paesi dell’Est, “privandole dei passaporti, collocandoli
in luoghi isolati privi di relazioni esterne, corrispondendo retribuzioni netta-
mente inferiori alle promesse e imponendo loro contestuali sacrifici di esigen-
ze primarie, alloggi fatiscenti, assenza di servizi igienici, privazioni alimenta-
ri, impossibilità di spostarsi sul territorio essendovi veicoli preordinati solo a
condurli nei campi e, quindi, rendendoli incapaci di sottrarsi allo sfruttamento,
corredato se del caso da violenze e minacce” 21. Ancora, la Puglia e la sua
economia agraria avevano avuto, alcuni anni prima, come protagoniste, donne
extracomunitarie offese nella loro libertà e personalità individuale nonché nel
loro patrimonio, in quanto rinchiuse a chiave in un casolare, prelevate in via
esclusiva per essere portate nei campi agricoli, e private di gran parte degli
emolumenti giornalieri 22.
    La descrizione di queste condizioni di lavoro mostra come da molti decenni
la situazione di civiltà della nostra Repubblica sia stabilmente retrocessa a li-
velli di inciviltà rifiutati da secoli in altri Paesi dell’Europa occidentale 23.

novembre 2013, n. 50074, in Dir. e giust., 2013, 1724, con nota di L. PIRAS, “Se non accetti
uno stipendio più basso ti licenzio”. Così scatta l’estorsione a carico del datore di lavoro, in
cui si afferma che “l’ingiustizia del profitto in tale condotta è in re ipsa, riferita alle prestazioni
non corrisposte, che si traducono anche nella ingiustizia del licenziamento, pervaso da un di-
svalore giuridico-penale, che proviene dalla sua ingiusta causa”.
    21
       Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2010, n. 40045, in Dejure.
    22
       Cass. pen., sez. II, 28 gennaio 2004, n. 37489, in Dejure.
    23
       La sentenza n. 37489/2004, op. cit., nel rilevare il concorso dei delitti di sequestro di per-
sona e di riduzione in servitù, osserva che le donne chiuse nel casolare, da dove venivano pre-
levate solo per essere portate nel luogo di lavoro, erano in una «condizione analoga alla schia-
vitù», in quanto «costrette a lavorare nei campi agricoli in regime di stretto controllo e sorve-
glianza, di sistematica violenza e di continue minacce, di sfruttamento (essendo le donne co-
strette a cedere gran parte del denaro loro corrisposto per ogni giornata lavorativa) e sottoposte
a trattamenti disumani e degradanti». Sul punto, esaustive si presentano le motivazioni del Tri-
bunale del riesame e soprattutto del GIP, il quale ha opportunamente richiamato il contenuto di
ispezione dei luoghi eseguito dalla P.G. in cui si evidenziano le condizioni «indegne di sporci-
zia, di assoluto ed inumano sovraffollamento (locali di dimensione ridottissima, privi di qual-
siasi illuminazione, con indecoroso giaciglio, carenti dal punto di vista igienico-sanitario), nel-
le quali le extracomunitarie erano costrette a vivere».

Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro                                                          141
Fascicolo 1|2018
Ai fini della configurabilità dell’evento del delitto di riduzione e manteni-
mento in servitù non è necessaria un’integrale negazione della libertà persona-
le, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autode-
terminazione della persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione
rilevante ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice.
    Sul punto, secondo la giurisprudenza consolidata, deve ritenersi che non è
richiesto uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque
libertà di scelta negoziale, essendo sufficiente un impellente assillo, come si-
tuazione di forte difficoltà che, limitando la volontà del soggetto passivo, lo
induca a sottostare alle condizioni imposte dall’agente 24.
    Pertanto, lo stato di soggezione continuativa richiesto dall’art. 600 c.p. de-
ve essere rapportato all’intensità del vulnus arrecato all’altrui libertà di autode-
terminazione, nel senso che esso non può essere escluso qualora si verifichi
una qualche limitata autonomia della vittima tale da non intaccare il contenuto
essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato 25.
    È stato già rilevato che dal codice (e nello specifico dall’art. 603-bis, nella
vecchia e nuova versione che vieta l’intermediazione illecita del c.d. caporale)
sono chiaramente scanditi i dati aventi funzione di orientamento probatorio
per il giudice; si tratta di ripetuti e non occasionali “indici di sfruttamento” (in
materia di retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale aspettativa, ferie,
sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, metodi di sorveglianza, condizioni al-
loggiative) dimostrativi dell’esistenza di un rapporto di lavoro servile, in cui la
parte forte (l’imprenditore) tiene un comportamento di predominio e di sfrut-
tamento, in danno della parte debole (il dipendente).
    In conclusione, la magistratura, con un’ampia produzione giurisprudenzia-
le, ha sottoposto all’attenzione dei cittadini e degli altri poteri dello Stato la
variegata casistica delle condotte confluenti nella riduzione o nel mantenimen-

   24
       Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2015, n. 10795, in Dejure; Cass. pen., sez. VI, 15 luglio
1996, n. 8404, in Giust. civ. mass., 1996, 1302.
    25
       Cass. pen., sez. V, 5 novembre 2013, n. 25408, in Dejure. Nella proposta di legge n.
1255, presentata alla Camera il 9 luglio 2001, come ratio della modifica dell’art. 600 c.p., in-
trodotta con la legge n. 228/2003, è indicata la nuova formulazione che consenta di accertare
«uno stato di soggezione analogo alla schiavitù quando la persona mantiene un certo ambito di
autodeterminazione». La seconda esigenza della modifica è stata identificata in quella «di ri-
produrre nel nostro codice una definizione di schiavitù e servitù coerente con quelle presenti
negli atti internazionali adottati, nello sforzo di una omogeneizzazione di sistema con gli altri
Paesi sottoscrittori. Detta definizione, peraltro, descrive situazioni purtroppo diffuse nelle quali
le slavery-like practises corrispondono a forme di lavoro forzato, spesso domestico, accompa-
gnato da privazione di documenti di identità, di donne o minori provenienti da altri paesi, co-
stretti a subire altresì atti sessuali da parte dei datori di lavoro».

142                                                  Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro
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to in stato di soggezione di persone, private nello svolgimento dell’attività la-
vorativa, della libertà di determinarsi liberamente nelle scelte esistenziali e co-
strette a prestazioni che, essendo illecitamente disagiate e mal retribuite, ne
comportano lo sfruttamento. Così, in modo corretto è stato ritenuto che queste
condotte distorsive del mercato del lavoro, in quanto caratterizzate dall’appro-
fittamento dello stato di bisogno o di necessità, non si risolvono nella mera
violazione delle regole relative all’avviamento del lavoro sanzionate dall’art.
18, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 26.

5. Le nuove norme, lo scoordinamento con il sistema penale vigente, il
   paradossale effetto di clemenza

    Quanto alle modifiche alla normativa penale dello sfruttamento del lavoro
introdotte con la legge n. 199/2016, vanno rilevate alcune considerazioni.
    In primo luogo, il titolo del disegno di legge delimita la materia oggetto
della nuova disciplina al lavoro irregolare svolto in agricoltura, ma il testo
dell’art. 1 riguarda il reclutamento e lo sfruttamento di lavoratori di qualsiasi
settore dell’economia.
    In secondo luogo, dalla trascrizione dei lavori parlamentari svolti in Senato
risulta che, nella relazione introduttiva, i ministri proponenti hanno posto co-
me finalità della riforma la garanzia di una complessiva e maggiore efficacia
dell’azione di contrasto della criminalità nel settore agricolo, «partendo dal-
l’attenzione al versante dell’illecita accumulazione di ricchezza da parte di chi
sfrutta i lavoratori all’evidente fine di profitto, in violazione delle più elemen-
tari norme poste a presidio della sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché dei di-
ritti fondamentali della persona» 27. Questo naturale obiettivo viene però con-
traddetto e ristretto, almeno inizialmente, laddove, nei medesimi brani, il fe-
nomeno da combattere contro lo sfruttamento e contro l’illecito profitto è limi-
tato al c.d. caporalato, già previsto e punito dall’art. 603-bis c.p.
    In terzo luogo, è evidente l’esclusione, da parte del Governo, di qualsiasi
attenzione e di qualsiasi consapevolezza per il delitto di riduzione e manteni-
mento in servitù previsto dall’art. 600 c.p. per il principale protagonista dello
sfruttamento e dell’accumulazione di illecito profitto. Tale esclusione viene

   26
       Cass. pen., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14592, relativa a una fattispecie in cui i lavoratori
stranieri, privi di adeguati mezzi di sussistenza, avevano rinunciato a richiedere il pur irrisorio
compenso pattuito con l’agente, per il timore di non essere più chiamati a lavorare.
    27
       V. le pagine 5 e 13, corrispondenti alle pagine 9 e 17 dell’estratto in formato pdf.

Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro                                                       143
Fascicolo 1|2018
confermata dal testo del disegno di legge nella parte relativa all’“Analisi del
quadro normativo nazionale” in materia di sfruttamento del lavoro 28, in cui è
indicata l’assenza di intento abrogativo solo degli artt. 601, 603-bis, e 603-ter
c.p. che non riguardano i principali utenti e beneficiari del lavoro nero. Identi-
co silenzio caratterizza il brano che si sofferma sulla esclusione di un poten-
ziale contrasto delle nuove norme con le linee prevalenti della giurisprudenza
della Corte di Cassazione, essendo citata solo la sentenza n. 14591/2014 aven-
te ad oggetto il reato di cui all’art. 603-bis c.p. 29. Inoltre, è esclusa la “Indivi-
duazione di effetti abrogativi impliciti di disposizioni dell’atto normativo e lo-
ro traduzione in norme abrogative espresse nel testo normativo” 30, così come
nessun accenno al principale reato di sfruttamento del lavoro e alla pluriennale
giurisprudenza sul delitto previsto e punito dall’art. 600 del codice penale ri-
sulta nelle relazioni; e identico silenzio riguarda i dati empirici sul fenomeno
criminoso, tratti da sedi giudiziarie distrettuali sull’all’esercizio dell’azione
penale nell’ultimo triennio (poco meno di 100 per anno su base nazionale) 31.
    Infine, nella relazione della Commissione giustizia si ribadisce la carenza
di conoscenza per il delitto di riduzione e mantenimento in servitù, e si affer-
ma, trascurando la citata giurisprudenza, l’esigenza di superare ostacoli nel-
l’accertamento di responsabilità penale del datore di lavoro 32.

   28
        V. pagina 14, corrispondente alla pagina 18 dell’estratto in formato pdf.
   29
        V. pagine 18 e 19, corrispondenti alla pagina 22 dell’estratto in formato pdf.
     30
        V. pagina 19, corrispondente alla pagina 23 dell’estratto in formato pdf.
     31
        V. pagina 21, corrispondente alla pagina 25 dell’estratto in formato pdf, ove si precisa
che ulteriori e più dettagliati dati sul fenomeno sanzionato dall’art. 603 bis, “nella sua dimen-
sione processuale non sono allo stato disponibili”.
     32
        Il relatore, on. Berretta, così inizia le sue osservazioni: «In primo luogo, per quanto attie-
ne alla nuova descrizione degli elementi oggettivi del reato, si fa presente che il provvedimento
normativo in esame ha lo scopo di superare i dubbi interpretativi evidenziati in dottrina in or-
dine alla possibilità di estendere l’incriminazione anche al datore di lavoro per le condotte di
sfruttamento dei lavoratori con approfittamento dello stato di bisogno. Proprio per eliminare
tali criticità interpretative, la formulazione proposta dal disegno di legge distingue la condotta
di chi «recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfrut-
tamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori» (art. 603-bis, comma 1, n. 1) da
quella di chi «utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermedia-
zione di cui al n. 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del
loro stato di bisogno» (art. 603-bis, comma 1, n. 2). Così espressamente specificando che inte-
gra reato sia la condotta di mediazione illecita tra domanda e offerta di lavoro, sia quella di
sfruttamento del lavoro stesso. L’attribuzione di rilevanza penale allo sfruttamento della ma-
nodopera anche in assenza di attività di cosiddetta caporalato colma una lacuna dell’attuale si-
stema penale, che lascia privi di tutela i lavoratori che non siano immigrati irregolari».

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                                                                              Fascicolo 1|2018
Respinta l’ipotesi che i nostri parlamentari ignorino il codice penale, ci si
chiede quali siano le cause e gli effetti di questo silenzio sulla normativa e sul-
la giurisprudenza ben delineate nel nostro ordinamento in relazione al reato di
approfittamento della situazione di necessità dei lavoratori costretti a presta-
zioni che ne comportano lo sfruttamento, così come vietato dal combinato di-
sposto degli artt. 600 e 603-bis c.p.
    A questo silenzio si contrappone l’enfasi sull’esercizio dell’azione penale
nei confronti del secondario delitto del c.d. caporalato previsto dal già citato
art. 603-bis c.p.
    È doveroso esaminare l’ipotesi, secondo cui il governo abbia mirato a
un’implicita e impropria riduzione dell’ambito di applicazione (se non addirit-
tura all’abrogazione di fatto) del reato di riduzione in servitù nell’ambito lavo-
rativo, previsto e punito dall’art. 600 c.p. con pene molto severe e incompati-
bili con la prescrizione, avendo inteso sostituirlo con una fattispecie di media
gravità, di livello pari a quella del c.d. caporalato, su cui, invece, si accentua
formalmente l’attenzione preventiva e repressiva, anche se concretamente si
attenua la punizione. Questo interrogativo nasce inevitabilmente dall’assenza
di qualsiasi confronto tra le due fattispecie, le cui sfere di applicazione sono
delegate in maniera totale alla fase interpretativa.
    Questa inversione dei ruoli dei protagonisti del mercato nero del lavoro e
della correlata direzione e intensità dell’intervento dello Stato si è manifestata,
nel corso dei lavori parlamentari inizialmente limitati al fenomeno del capora-
lato in agricoltura, con un’estemporanea aggiunta di un tipo d’autore operante
in ogni settore economico e contraddistinto, da un lato, da diversità di condot-
ta e di evento, e dall’altro lato, da un’incomprensibile parità di sanzione 33.
    La fattispecie originaria costituita da una complessa condotta di interme-
diazione penalmente rilevante si scinde in una duplice fattispecie costituita da

   33
      Infatti, l’iniziale art. 1 del disegno di legge, presentato dal Governo attraverso i Ministri
dell’agricoltura e della giustizia (a cui si sono poi aggiunti il Ministro del lavoro, di concerto
con i Ministri dell’economia e dell’interno), era così formulato: «Art. 603-bis.1 – (Circostanza
attenuante). – Per il delitto previsto dall’articolo 603-bis, per chi si sia efficacemente adoperato
per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove
dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o
altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo alla metà». A pagina 38 del disegno di
legge (pagina 41 dell’estratto), a conclusione dei pareri della Commissioni parlamentari, si in-
serisce questa notevole modifica: nel rinnovato e ampliato arti.603 bis del codice penale com-
pare lo sfruttatore del lavoro dei soggetti in stato di bisogno (sinonimo dello stato di necessità
di cui all’art. 600 c.p.), senza preparatoria elaborazione di metodologia normativa e senza al-
cun riferimento a problemi interpretativi e applicativi di fattispecie simili sul piano fattuale ma
diversificate sul piano sanzionatorio.

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Fascicolo 1|2018
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