Discorsi e reati razzisti, condotte discriminatorie Gli orientamenti della giurisprudenza più recente - Lunaria

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Discorsi e reati razzisti, condotte discriminatorie Gli orientamenti della giurisprudenza più recente - Lunaria
Discorsi e reati razzisti, condotte discriminatorie
            Gli orientamenti della giurisprudenza più recente

                               a cura di Antonello Ciervo

  Proponiamo in queste pagine una nota introduttiva e una rassegna selezionata delle
     pronunce giudiziarie relative a discorsi e violenze razzisti o a discriminazioni.
   L’obiettivo è quello di offrire uno strumento di lavoro utile a tutti coloro (avvocati,
 operatori legali e attivisti) che sono impegnati nella lotta contro le discriminazioni e il
            razzismo e nella protezione legale delle vittime che li subiscono.
Nei testi normativi richiamati e nelle massime delle sentenze analizzate ricorrono spesso
   parole e definizioni non corrette o prive di un fondamento scientifico. Non essendo
                      possibile sostituirle, si è scelto di virgolettarle.

                                 Premessa metodologica

Raccogliamo qui la giurisprudenza, penale e civile, avente ad oggetto alcune
delle questioni giudiziarie di maggiore rilevanza in materia di reati d’odio e
condotte discriminatorie (sia da parte di enti pubblici, che di soggetti privati).
L’obiettivo di questa rassegna non è quello di raccogliere in maniera esaustiva le
pronunce dei giudici (in particolare della Corte di Cassazione) che hanno avuto
modo di affrontare questioni concernenti condotte razziste e discriminatorie,
quanto piuttosto quello di individuare le maggiori traiettorie giurisprudenziali,
consolidatesi nel corso degli ultimi anni, al fine di fornire al lettore un utile
strumento pratico di lavoro.

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Per comodità di analisi, pertanto, abbiamo ritenuto opportuno distinguere la
giurisprudenza raccolta in tre macro-categorie: le sentenze penali aventi ad
oggetto “reati d’odio” (“hate crimes”); le sentenze penali aventi ad oggetto
discorsi d’odio (“hate speech”); infine, le sentenze dei tribunali civili aventi ad
oggetto condotte discriminatorie.

Consapevoli della difficoltà di formulare una definizione univoca – in termini
sociologici, ancor prima che giuridici – di queste tre categorie concettuali, si farà
qui riferimento alla definizione di “hate crimes”, “hate speech” e condotte
discriminatorie così come formulata dall’OSCE, nella Decisione del Consiglio dei
Ministri n. 9/2009 e successivamente ripresa nel report “ Perseguire giudizialmente i
reati   d’odio.   Una     guida    pratica”    del   2016     (scaricabile    on-line    qui:
http://www.osce.org/it/node/262261?download=true).

Si tratta di definizioni che, come il lettore potrà constatare, pur non avendo
pretesa di esaustività, risultano particolarmente utili in questa sede, perché
tengono conto dell’ampio dibattito scientifico in materia – sia all’interno della
dottrina giuridica, che del dibattito sociologico - e possono considerarsi, in linea
di principio, tecnicamente valide.

Secondo l’OSCE può essere definita come delitto di odio (hate crime) una qualunque
condotta che sia al contempo: a) autonomamente tipizzata da una norma penale di
un determinato ordinamento giuridico e b) motivata dal pregiudizio basato su una
specifica caratteristica della vittima oggetto del reato.

Questo può essere diretto contro una o più persone (nello specifico, la condotta
illecita può essere rivolta, astrattamente, sia nei confronti di un singolo individuo, sia
nei confronti di un gruppo specifico), ovvero contro beni di sua/loro proprietà. La
motivazione della condotta, invece, basata essenzialmente su di un pregiudizio
(tanto culturale, quanto ideologico), consiste nella discriminazione nei confronti della
vittima operata dall’autore dell’illecito centrata su una caratteristica specifica che
rappresenta un aspetto fondante ed essenziale di una comune identità di gruppo
della vittima e può essere identificata nella “razza”, nella lingua, nella religione,
nell’etnia, nella nazionalità, nel genere o in altra caratteristica personale e/o collettiva.

Partendo da questa definizione generale ed astratta, si può giungere alla conclusione
che il fattore specifico che trasforma un reato comune in un reato ispirato dall’odio,
consiste nel processo di selezione della vittima da parte dell’autore dell’illecito,
processo di selezione che deve essere basato sulla discriminazione ovvero sul
pregiudizio verso il gruppo cui la vittima appartiene.

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Per discorsi d’odio (“hate speech”), invece, devono intendersi quelle espressioni
pubbliche discriminatorie (ovvero, più in generale, razziste), dirette nei confronti di
soggetti o gruppi sociali specifici, la cui reazione penale da parte dell’ordinamento
giuridico deve essere attentamente bilanciata con il diritto fondamentale alla libertà
di espressione e di pensiero del dichiarante. In questo tipo di discorsi, a nostro
avviso, devono essere fatte rientrare non soltanto le manifestazioni di pensiero
pubbliche    ingiuriose   e/o   diffamatorie,    ma   anche     ogni altra   tipologia   di
manifestazione del pensiero avente una valenza istigatoria, violenta, oltre che di
propaganda di idee a sfondo razzista e/o discriminatorio.

Per quanto concerne, infine, le condotte discriminatorie in senso stretto, esse
riguardano il trattamento meno favorevole di determinati soggetti posto in essere
tanto da singoli individui privati (persone fisiche o giuridiche), quanto da pubblici
ufficiali, incaricati   di pubblico     servizio, ovvero      enti   pubblici, nell’ambito
dell’istruzione, dell’impiego (pubblico e privato), dell’accesso a beni e servizi, un
trattamento differenziale che viene giustificato (direttamente o indirettamente) con il
riferimento alla caratteristica di gruppo, come la “razza”, la religione o l’etnia, a cui il
soggetto discriminato appartiene o si presume appartenga.

Le condotte discriminatorie oggetto della giurisprudenza qui segnalate sono quelle
disciplinate in ambito civile dal nostro ordinamento giuridico: in Italia, infatti, è
prevista la possibilità di ricorrere alla autorità giudiziaria ordinaria, al fine di far
cessare le condotte discriminatorie poste in essere dai soggetti di cui sopra.

Tali condotte, come si avrà modo di approfondire di seguito, hanno un’autonoma
rilevanza giuridica non riconducibile, in senso stretto, ad una fattispecie penale e
possono portare alla condanna del soggetto che ha posto in essere tale condotta
discriminatoria: tale condanna può concretizzarsi nel risarcimento del danno (tanto
patrimoniale, quanto morale) nei confronti della vittima, oltre che nella
pubblicazione della sentenza di condanna su quotidiani e mezzi di informazione, al
fine di darne la più ampia visibilità e pubblicità possibile.

Un’ulteriore precisazione linguistica (e concettuale) è altresì opportuna in questa
sede: nel corso del report il lettore noterà che più volte, tanto la normativa
vigente, quanto la giurisprudenza dei tribunali, fanno esplicito riferimento ed
utilizzano apertamente il termine “razza”. Questo termine viene impiegato con
modalità avalutative sia da parte del legislatore che dei giudici: il ricorso al
concetto di “razza”, pertanto, deve essere qui inteso in maniera assolutamente
avalutativa, priva cioè di qualsiasi tipo di connotazione euristica ovvero di
rilevanza scientifica o culturale rispetto alle teorie razziste e a quelle che

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professano la superiorità (biologica, ancor prima che culturale) di un determinato
gruppo sociale rispetto ad un altro.

Al riguardo, per meglio comprendere in quale accezione questo termine viene
impiegato dalla giurisprudenza e dalla normativa vigente, si riporta, a titolo
meramente esemplificativo, quanto ha avuto modo di affermare il Tribunale di
Verona, sezione penale, nella sentenza n. 2203/2005:
     “La nozione di razzismo, rilevante ai fini dell’applicazione delle norme contro la
     discriminazione “razziale”, indica l’esistenza di razze diverse ed in specie di alcune
     considerate «inferiori» rispetto ad altre considerate «superiori», secondo determinate
     scale di valori, ed è ravvisabile anche quando l’argomento della disuguaglianza biologica
     abbia ceduto il passo all’assolutizzazione delle differenze fra le culture ed, in specie, delle
     identità e differenze “razziali”, etniche, culturali, nazionali di un gruppo con rifiuto del
     cosiddetto «meticciato» o mescolamento ed alla incitazione alla difesa attiva nei confronti
     degli esponenti delle culture estranee, percepite come nemico da combattere”.

Se si vuole, ancora più icastica e puntuale, è stata la presa di posizione della I sezione
penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 196583 del 30 settembre 1993,
allorché ha avuto modo di stabilire, con riferimento al concetto di “attività di
propaganda razzista”, che:
     “Il concetto di «razzismo» è nozione che indica le dottrine che postulano quale
     presupposto del divenire storico l’esistenza di razze superiori ed inferiori, le prime
     destinate al comando, le seconde alla sottomissione”.

Appare evidente, quindi, in questi richiami giurisprudenziali come i termini “razza”
e “razzismo” vengano utilizzati dai giudici a meri fini descrittivi delle fattispecie
penali che sono oggetto di contestazione nei confronti, di volta in volta, dei singoli
soggetti imputati. Per quanto concerne, invece, la normativa citata nelle decisioni
qui raccolte, forniamo di seguito una sintetica ricognizione, al fine di rendere più
agevole la lettura delle massime ivi raccolte.

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La normativa di riferimento

Per quanto concerne gli “hate crimes” e gli “hate speech”, la normativa di
riferimento resta principalmente la legge n. 654/1975, con cui il Parlamento
italiano ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione internazionale
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione “razziale”, aperta alla
firma a New York il 7 marzo 1966. In particolare, in fase di recepimento della
Convenzione nell’ordinamento interno, il legislatore ha introdotto uno specifico
articolo, l’art. 3, che dava attuazione all’art. 4 della Convenzione.

     Art. 4 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di
     discriminazione “razziale”

     “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che
     s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una “razza” o di un gruppo
     di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di
     giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione “razziale”, e si
     impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni
     incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto,
     a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti
     dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell'articolo 5 della presente
     Convenzione, ed in particolare:

     a) A dichiarare reati punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla
     superiorità o sull’odio “razziale”, ogni incitamento alla discriminazione “razziale”,
     nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni “razza” o
     gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto
     apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento;

     b) A dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda
     organizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla
     discriminazione “razziale” e che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile
     dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività;

     c) A non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni,
     nazionali   o   locali,   l’incitamento   o   l’incoraggiamento    alla   discriminazione
     “razziale””.

Di   conseguenza,       nel     dare    applicazione       a    questo     importante      obbligo
internazionale, il legislatore italiano ha stabilito, all’art. 3 della legge n. 654/1975 –
nella sua formulazione originaria –, quanto segue:

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“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, ai fini dell’attuazione della
     disposizione dell’articolo 4 della Convenzione è punito con la reclusione da uno a
     quattro anni:

     a) chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio
     “razziale”;

     b) chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o
     commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone
     perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o “razziale”.

     É vietata ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi scopi di incitare
     all’odio o alla discriminazione “razziale”. Chi partecipi ad organizzazioni o
     associazioni di tal genere, o presti assistenza alla loro attività, è punito per il solo
     fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da uno a cinque anni”.

Successivamente, la legge n. 101/1989 (all’art. 2, comma 5) ha stabilito che “Il
disposto dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle
manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso”, ampliando in questo modo
l’applicazione       di   questa   norma     anche     alle   manifestazioni       di   pensiero
discriminatorie, avente una connotazione di tipo religioso.

Tuttavia è stato il Decreto legge n. 122/1933, convertito nella Legge n. 205/1993,
meglio nota come “Legge Mancino”, dal nome dell’allora Ministro degli Interni
proponente – il cui obiettivo era quello di reprimere le manifestazioni di odio e
discriminazione che, in quello specifico lasso di tempo, si erano moltiplicate negli
stadi italiani, da parte di gruppi organizzati di c. d. “ultras” -, a segnare un
cambio di passo nella criminalizzazione e repressione dei reati d’odio.

La “Legge Mancino”, infatti, modificando profondamente il testo originario
dell’art. 3 della legge n. 654/1975, ne mutò anche la ratio legis, mentre un’ulteriore
modifica di dettaglio del testo si ebbe con la legge n. 60/2006. Ad oggi, pertanto, il
testo vigente dell’art. 3 della legge n. 654/1975, prevede:
     Art. 1 Legge n. 205/1993 Primo comma, lettera a):

     “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della
     disposizione dell’articolo 4 della Convenzione [di New York del 1966], è punito: a)
     con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi
     propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio “razziale” o etnico, ovvero
     istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi “razziali”, etnici,
     nazionali o religiosi”.

Si tratta dell’introduzione di uno specifico reato di propaganda di idee razziste
e di istigazione a commettere atti discriminatori con motivazioni “razziali”, così
come richiesto dall’art. 4, lettera a) della Convenzione di New York del 1966. In
sintesi, siamo di fronte a due autonome fattispecie di reato: da un lato la
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propaganda di idee razziste, dall’altro l’istigazione e/o la commissione di atti
discriminatori.
     Art. 1 Legge n. 205/1993 Primo comma, lettera b):

     “[Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della
     disposizione dell’articolo 4 della Convenzione di New York del 1966, è punito] b) con
     la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o
     commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi “razziali”, etnici,
     nazionali o religiosi”.

Si tratta di un reato di istigazione ovvero di commissione di atti violenti e/o
provocatori determinati da motivi “razziali” e/o discriminatori. In questo caso,
concretizzandosi la condotta in un vero e proprio atto di istigazione a
commettere un atto di violenza tout court, la pena prevista dal legislatore risulta
necessariamente maggiore, rispetto alle ipotesi delittuose previste alla lettera a)
del medesimo comma.

Il secondo comma dell’art. 3, invece, nella sua formulazione originaria, è stato
soppresso dalla legge n. 205/1993, mentre è stata introdotta una nuova
formulazione        del    testo    che,    pur    ricalcando      il   contenuto   di   quanto
precedentemente previsto nella disposizione soppressa, ne ha ampliato la
latitudine punitiva e ne ha esteso l’applicazione anche alle associazioni aventi
obiettivi e finalità espressamente razziste. La disposizione in oggetto, pertanto,
oggi così recita:
     Art. 1 Legge n. 205/1993 Secondo comma

     “3. É vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i
     propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi “razziali”,
     etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni,
     movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto
     della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
     Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o
     gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”.

Si tratta della fattispecie penale che vieta ogni forma di associazione che abbia
tra i propri obiettivi quello dell’incitamento alla discriminazione ovvero alla
violenza per motivi “razziali”, etnici, nazionali o religiosi.

La fattispecie prevede, nello specifico, una duplice condotta criminale, quella di
chi semplicemente aderisce a questo tipo di associazioni e quella di quanti,
invece, ne promuovono ovvero ne dirigono le attività: per questi ultimi,
evidentemente,        in       ragione     della       loro   particolare   posizione    apicale

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nell’organizzazione delle stesse, la sanzione penale prevista dal legislatore risulta
più grave.

Al riguardo, si consideri che questa disposizione, sotto alcuni profili, tende a
sovrapporsi a quanto previsto nella c. d. “Legge Scelba” (n. 645/1952) la quale,
nel dare attuazione alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione,
vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista.

In effetti, l’art. 1 della “legge Scelba”, nel formulare una definizione normativa
della riorganizzazione - sotto molteplici forme e modalità - del disciolto partito
fascista, stabilisce espressamente come:
     Art. 1 Legge Scelba n. 645/1952

     “… si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un
     movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue
     finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o
     usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione
     delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue
     istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero
     rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del
     predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”.

Al riguardo, si consideri come la stessa “Legge Mancino” abbia modificato, a sua
volta, il secondo comma dell’art. 4 della “legge Scelba”, con riferimento al reato
di apologia del fascismo, stabilendo quanto segue:
     “Alla stessa pena di cui al primo comma [ossia la reclusione da sei mesi a due anni e
     con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila (sic, nel testo della
     normativa)] soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del
     fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi
     razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due
     milioni [sic]”.

Infine, ritornando nuovamente all’art. 3 della legge n. 654/1975, di recente il
legislatore ha introdotto un nuovo comma, il 3-bis che prevede la c.d. “aggravante
negazionista”, applicabile a tutti quei casi in cui la propaganda, l’incitamento
ovvero l’istigazione all’odio si fondi sulla diffusione di idee e/o messaggi che
negano la vicenda storica dell’Olocausto ovvero, più in generale, fatti storici
concernenti reati contro l’umanità e di guerra.

Di seguito il testo del comma 3-bis, così come introdotto di recente dalla legge n.
115/2016:
     “3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero
     l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di

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diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei reati di
     genocidio, dei reati contro l'umanità e dei reati di guerra, come definiti dagli articoli
     6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge
     12 luglio 1999, n. 232”.

La Legge Mancino ha inoltre introdotto la cosiddetta “circostanza aggravante”
per motivi di razzismo.
     Art. 3 Legge n. 205/1993 Primo comma

     1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità
     di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di
     agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno
     tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.

Se un reato ordinario (furto, rapina, omicidio ecc.) è compiuto con finalità
discriminatorie o di odio “etnico”, nazionale, “razziale” o religioso, la pena è
aumentata fino alla metà. E’ proprio questo articolo a identificare nel nostro
ordinamento quello che a livello internazionale è definito un “hate crime”.

Per quanto concerne, infine, la normativa anti-discriminatoria di tipo civilistico, il
riferimento principale restano gli artt. 43 e 44 del Testo Unico dell’Immigrazione
(d’ora in avanti TUIM). In particolare, l’art. 43 TUIM (già art. 41 della legge n.
40/1998) così recita:

     Art. 43 TUIM 286/1998

     “Discriminazione per motivi “razziali”, etnici, nazionali o religiosi

     1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che,
     direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o
     preferenza basata sulla “razza”, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica,
     le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o
     di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di
     parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico,
     sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

     2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona
     incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica
     necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di
     un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di
     appartenente ad una determinata “razza”, religione, etnia o nazionalità, lo
     discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si
     rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa
     della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata “razza”,
     religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più
     svantaggiose    o   si     rifiuti   di   fornire       l'accesso   all’occupazione,   all’alloggio,

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all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero
     regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di
     straniero o di appartenente ad una determinata “razza”, religione, etnia o
     nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di
     un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente
     soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
     appartenente ad una determinata “razza”, confessione religiosa, etnia o nazionalità;
     e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20
     maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre l977, n. 903,
     e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che
     produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori
     in ragione della loro appartenenza ad una “razza”, ad un gruppo etnico o
     linguistico,   ad   una   confessione    religiosa,   ad   una   cittadinanza.   Costituisce
     discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione
     di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori
     appartenenti ad una determinata “razza”, ad un determinato gruppo etnico o
     linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e
     riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

     3. Il presente articolo e l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o
     discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di
     altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia”.

L’art. 44 TUIM, invece, stabilisce le norme di carattere processuale che regolano i
procedimenti anti-discriminatori innanzi ai Tribunali civili competenti per
territorio, di recente modificate dal Decreto legislativo n. 150/2011. Nella sua
versione vigente, la disposizione così recita:

     Art. 44 TUIM 286/1998

     “Azione civile contro la discriminazione

     1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione
     produce una discriminazione per motivi “razziali”, etnici, linguistici, nazionali, di
     provenienza geografica o religiosi, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria
     ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la
     rimozione degli effetti della discriminazione.

     2. Alle controversie previste dal presente articolo si applica l’articolo 28 del decreto
     legislativo 1° settembre 2011, n. 150.

     [commi 3, 4, 5, 6 e 7 abrogati dal Decreto legislativo n. 150/2011]

     8. Chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti, diversi dalla condanna al
     risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie previste dal presente
     articolo è punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale [ossia con

                                                  10
la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032, per mancata
     esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice].

     [comma 9 abrogato dal Decreto legislativo n. 150/2011]

     10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento
     discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in
     modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere
     presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente
     rappresentativi a livello nazionale.

     11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell’articolo 43
     posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi
     vigenti dello Stato o delle regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto
     attinenti   all’esecuzione   di   opere   pubbliche,     di   servizi   o   di   forniture,   è
     immediatamente comunicato dal [giudice competente], secondo le modalità previste
     dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti pubblici che
     abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o
     creditizie, o dell’appalto. Tali amministrazioni o enti revocano il beneficio e, nei casi
     più gravi, dispongono l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi
     ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi
     appalto.

     12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni
     di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell’applicazione delle norme del
     presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione,
     di informazione e di assistenza legale per gli stranieri, vittime delle discriminazioni
     per motivi “razziali”, etnici, nazionali o religiosi”.

Prima di passare alla giurisprudenza, è forse opportuno svolgere un’ultima
precisazione per quanto concerne la costituzionalità delle norme qui considerate: la
scelta del legislatore di incriminare penalmente le manifestazioni d’odio, infatti, ha
posto una serie di problemi ai giudici, con particolare riferimento al bilanciamento
tra le fattispecie penali, da un lato, e l’esercizio della libera manifestazione del
pensiero, così come garantita dall’art. 21 della Costituzione, dall’altro.

Sul punto, si è espressa la Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 65 del 1970,
avente ad oggetto la legittimità del reato previsto all’art. 414, ultimo comma del
Codice penale, ossia l’istigazione (e l’apologia) dei reati contro l’umanità.

Nonostante il reato in questione fosse previsto dal Codice penale - e non dalla “legge
Mancino” -, tuttavia questa presa di posizione del Giudice delle leggi ha avuto una
portata e una rilevanza più generali, valendo quindi per tutte quelle fattispecie penali
previste dal nostro ordinamento giuridico, che criminalizzano le manifestazioni di

                                                 11
pensiero aventi un contenuto istigatorio e/o propagandistico di idee violente o
razziste.

Al riguardo, la Corte costituzionale ha avuto modo di osservare, dichiarando la
costituzionalità dell’art. 414, ultimo comma del Codice penale, come il reato che viene
punito ai sensi della suddetta disposizione è quello che

     “… per le sue modalità, integri concretamente un comportamento idoneo a provocare la
     commissione dei delitti tassativamente elencati dal legislatore. Quindi, affinché si
     applichi questa disposizione, è necessario che qualcuno faccia l’apologia di eventi
     delittuosi che concretamente si siano già verificati, ovvero che si verificheranno proprio
     in ragione delle dichiarazioni apologetiche e/o istigatrici incriminate”.

Tale presa di posizione della Corte costituzionale, come detto, è diventata il punto di
riferimento anche della giurisprudenza della Corte di Cassazione penale che, nel
valutare la conformità a Costituzione dei reati previsti dalla “legge Mancino”, con
particolare riferimento alla tutela della libertà di manifestazione del pensiero
dell’imputato, ha avuto modo di confermare la costituzionalità dell’impianto
generale di questa normativa, ricalcando le medesime argomentazioni formulate
dalla Consulta.

Si veda al riguardo, per tutte e da ultimo, la sentenza n. 34713/2016 della I sezione
penale della Corte di Cassazione, la quale ha osservato come:
     “Le norme incriminatrici di cui all’art. 3 l. 13 ottobre 1975 n. 654 manifestamente non si
     pongono in contrasto con i diritti di libertà previsti dall’art. 21 Cost., dall’art. 10 della
     CEDU [Convenzione europea sui diritti dell’uomo] e dall’art. 11 della Carta dei diritti
     fondamentali dell'Unione europea [la c. d. “Carta di Nizza”], atteso che tali diritti non
     sono oggetto di una tutela incondizionata ed illimitata ma incontrano dei limiti costituiti
     essenzialmente dal rispetto di altri diritti fondamentali, parimenti oggetto di tutela, quali,
     in particolare, quello alla pari dignità e protezione sociale, suscettibile di essere leso da
     chi giustifichi e promuova l’odio, la xenofobia, l’intolleranza “razziale” o religiosa ovvero
     giustifichi ed esalti la violenza in funzione di discriminazione “razziale” o religiosa;
     condotte, queste, che costituiscono anche oggetto di un obbligo internazionale di
     incriminazione, derivante dalla Convenzione internazionale contro la discriminazione
     adottata dall’assemblea generale delle Nazioni unite il 21 dicembre 1965”.

Ma lo stesso principio era già stato affermato dalla V sezione penale della Corte di
Cassazione, nella sentenza n. 31655/2001, con riferimento all’incriminazione di quelle
associazioni e/o di quei movimenti politici connotati da specifici obiettivi razzisti e
discriminatori. Al riguardo, infatti, la Suprema Corte ha osservato come:

                                                  12
“La norma che prevede e sanziona penalmente il fatto di chi promuova o diriga
     organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi fra i propri scopi l’incitamento
     alla discriminazione o alla violenza per motivi “razziali”, etnici, nazionali o religiosi,
     come pure il fatto di chi partecipi a taluna delle suindicate aggregazioni, manifestamente
     non si pone in contrasto con gli art. 2, 3, 18 comma 1, 21 e 25 comma 2, Cost., atteso che,
     quanto ai primi due articoli, sarebbe, semmai, proprio la condotta vietata a porsi in
     contrasto con essi; quanto all’art. 18, comma 1, questo garantisce il diritto di associazione
     solo a condizione che i fini perseguiti non siano vietati ai singoli dalla legge penale,
     laddove la discriminazione prevista dalla norma penale in questione sarebbe realizzabile
     solo mediante atti di coercizione fisica o morale suscettibili di integrare di volta in volta
     gli estremi di reati quali la violenza privata, l’estorsione, le lesioni volontarie ed altri;
     quanto all’art. 21, questo tutela soltanto la manifestazione di opinioni, ragionamenti o
     convincimenti personali, rispetto ai quali l’incitamento, siccome caratterizzato da un
     contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come
     comportamento generale, realizza un «quid pluris»; quanto all’art. 25, comma 2 non
     sussiste l’ipotizzata indeterminatezza del precetto penale, suscettibile di pregiudicare il
     diritto di difesa, dovendosi invece ritenere che il precetto medesimo sia sufficientemente
     tipizzato e determinato, emergendo dall’interpretazione letterale e sistematica della
     norma che lo contiene che l’incitamento alla discriminazione e alla violenza è solo lo
     scopo mediato di un ulteriore fine che consiste nella limitazione, imposta ad altri
     individui, appartenenti alla stessa società civile, di esercitare i diritti civili, politici e
     amministrativi individuali e collettivi di cui sono titolari perché diversi per “razza”, etnia,
     nazionalità o religione”.

Sulle differenze tra la “Legge Mancino” e la “Legge Scelba”, anche al fine di meglio
definire la specificità delle fattispecie incriminatrici di queste due normative, ancora
una volta si è espressa la I sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza
n. 7812/1999, dove ha osservato quanto segue:
     “La l. n. 645 del 1952, in tema di riorganizzazione del disciolto partito fascista, e quella n.
     205 del 1993, recante norme in materia di discriminazione “razziale”, presentano, almeno
     per quanto concerne il divieto di svolgimento di attività «lato sensu» razzista, una
     oggettività giuridica sostanzialmente coincidente. Peraltro, poiché l’art. 1 della l. n. 205
     del 1993, nella parte in cui ha sostituito l’art. 3 della l. 654 del 1975, stabilisce che le
     relative disposizioni si applicano soltanto se il fatto non costituisce più grave reato, le
     disposizioni stesse assumono carattere sussidiario rispetto alle previsioni dettate dalla l.
     n. 645 del 1952. Ne consegue che, se si ritiene di non poter riconoscere attraverso la
     propaganda razzista la ricostituzione del disciolto partito fascista, la propaganda può
     acquistare rilevanza sul piano penale solo come forma di incitamento, punibile ai sensi
     della l. n. 205 del 1993.

     In tema di rapporti fra l’art. 1 l. 20 giugno 1952 n. 645, il quale, nel delineare le varie
     possibili forme di riorganizzazione vietata dal partito fascista, si riferisce anche alla
     «propaganda razzista», e l’art. 3, comma 3 della l. n. 654/1975 (come sostituito dall’art. 1,
     comma 1, del d. l. n. 122/1993, convertito con modificazione nella legge n. 205/1993), il
     quale vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia fra i

                                                   13
proprio scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi “razziali”,
     deve ritenersi che, quando la ricostituzione del partito fascista non appaia riconoscibile
     attraverso la propaganda razzista, quest’ultima possa acquistare rilevanza solo come
     forma di incitamento, punibile ai sensi del citato art. 3 della l. n. 654 del 1975 le cui
     previsioni trovano applicazione, come espressamente affermato nella stessa norma,
     «salvo che il fatto costituisca più grave reato»”.

Infine, per quanto concerne, la differenza tra la rilevanza civile e quella penale delle
condotte discriminatorie, anche al fine di individuare l’autorità giudiziaria
competente a valutare se determinati comportamenti integrino effettivamente una
condotta criminale, ovvero se la loro estrinsecazione abbia una rilevanza meramente
civilistica, si è espressa la III sezione penale della Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 46783/2005.

In questa sua importante decisione, la Suprema Corte ha avuto modo di stabilire
quanto segue:
     “Fra le norme di cui alla l. n. 654 del 1975 e al d. lg. n. 286 del 1998 [cioè il Testo Unico
     dell’immigrazione] non sussiste alcun rapporto di specialità. Esse tutelano beni giuridici
     distinti in quanto le prime - frutto di ratifica ed esecuzione della Convenzione di New
     York del 7 marzo 1966 - mirano ad assicurare pari dignità sociale ai cittadini di ogni Stato
     ed a reprimere penalmente i comportamenti che costituiscono espressione di
     discriminazione “razziale” o etnica, mentre le seconde, facenti parte della disciplina
     dell’immigrazione, mirano, da un canto, ad assicurare un meccanismo giurisdizionale
     idoneo a far cessare, in tempi rapidi, con azione civile, comportamenti di privati o della
     pubblica amministrazione, tali da produrre detta discriminazione e, dall’altro, a
     consentire la possibilità del risarcimento dei conseguenti danni anche non patrimoniali.

     L’art. 3 comma 1 lett. a l. n. 654 del 1975, nel vietare ogni tipo di discriminazione,
     ravvisabile in atti, individuali o collettivi, di incitamento all’offesa della dignità di
     persone di diversa “razza”, etnia o religione, ovvero in comportamenti di effettiva offesa
     di tali persone, consistenti in parole, gesti e forme di violenza ispirati in modo unico da
     intolleranza, delinea una figura di reato caratterizzato da dolo specifico, ossia dalla
     coscienza e volontà di offendere l'altrui dignità umana in considerazione della “razza”,
     dell’etnia o della religione dei soggetti nei cui confronti la condotta viene posta in essere o
     ai quali di riferisce”.

                                                   ***

                                                   14
Giurisprudenza penale in materia di “hate speech”

1) Corte d’Appello di Trento, sentenza del 1º giugno 2016

Costituisce diffamazione aggravata dall’odio “razziale”, ai sensi dell’art. 595 c. p. e
dell’art. 3 della legge n. 205/2003, l’affermazione “torna nella giungla dalla quale sei
uscita” indirizzata a “persona di colore”, poiché – lungi dal costituire libera
manifestazione del pensiero – suggerisce l’idea di una inferiorità originaria della
persona determinata dal colore della pelle ed è dunque espressione altamente lesiva
dell’onore e del prestigio della persona alla quale è riferita (nella fattispecie,
l’affermazione era rivolta all’allora Ministro dell’Integrazione).

2) Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza n. 43488/2015

L’aggravante di cui all’art. 3 l. n.122/1993 (c. d. “legge Mancino”) è configurabile
quando risulti che il reato sia stato oggettivamente strumentalizzato all’odio o alla
discriminazione “razziale”, etnica o nazionale, a prescindere dal movente che ha
innescato la condotta dell’agente. Pertanto, l’utilizzo di espressioni come “marocchino
di merda” o “immigrati di merda” è di per sé sufficiente a determinare l’applicazione
della predetta aggravante, senza che sia necessario compiere ulteriori indagini sul
movente.

3) Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza n. 42727/2015

Il reato di incitamento alla violenza e gli atti di provocazione commessi per motivi
“razziali”, etnici, nazionali o religiosi, è un reato di pericolo che si perfeziona
indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dai destinatari,
essendo tuttavia necessario valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta
a determinare altri a compiere un’azione violenta, con riferimento al contesto
specifico ed alle modalità del fatto.

(Nel caso concreto, la Corte di Cassazione ha ravvisato la sussistenza del reato di
istigazione alla violenza per motivi “razziali” in ragione delle espressioni utilizzate
dall’imputato, oltre che dal mezzo di comunicazione impiegato – e cioè la bacheca di
un profilo “facebook” – e dal contesto sociale e politico nel quale le espressioni si
collocavano. Si trattava di un commento alla notizia di un’aggressione sessuale ad
opera di un cittadino somalo accompagnato dalla frase “mai nessuno che se la stupri” e
dalla fotografia di un Ministro della Repubblica che condivideva con l’autore del
fatto commentato la provenienza geografica e il colore della pelle).

                                            15
4) Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 36906/2015

La “propaganda di idee” consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad
influenzare il comportamento ovvero la psicologia di un vasto pubblico, oltre che a
raccogliere adesioni. Il c. d. “odio “razziale” o etnico” è integrato non da qualsiasi
sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni
attinenti alla “razza”, alla nazionalità o alla religione, ma solo da un sentimento
idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori.

Viceversa, la “discriminazione per motivi “razziali” è quella fondata sulla qualità
personale del soggetto, non invece sui suoi comportamenti: la discriminazione per
l’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. Un
soggetto, infatti, può anche essere legittimamente discriminato per il suo
comportamento, senza che si incorra in sanzione penale, ma non per la sua qualità di
essere diverso.

(Nel caso concreto, la Corte di Cassazione ha ritenuto di non dover condannare
l’imputato il quale aveva svolto attività di diffusione, nel corso di una competizione
elettorale, di un volantino che recava la scritta “basta usurai/basta stranieri”. Il
volantino raffigurava soggetti appartenenti a diverse nazionalità e minoranze nel
compimento di attività delittuose o comunque contrarie agli interessi economici
italiani).

5) Corte d’Appello di Milano, sentenza del 13 gennaio 2015

L’utilizzo di espressioni come “filippini di merda, tornatevene al vostro paese”, proferite
contestualmente ad un comportamento violento da parte dell’agente e finalizzate a
piegare la volontà delle vittime, oltre che a ottenere la loro sottomissione nell’utilizzo
di uno spazio pubblico, integrano l’aggravante “razziale” prevista dalla “legge
Mancino”.

6) Tribunale di Varese, sentenza n. 67/2013

Sussiste l’aggravante a sfondo razzista collegata ad una espressione ingiuriosa
quando un soggetto esprime, in modo inequivoco, un sentimento di grave
pregiudizio e un giudizio di disvalore nei confronti di una categoria di cittadini
italiani, in particolare quelli che vivono nel Sud d’Italia, se intesa come “popolazione
distinta” per origini e tradizioni, sussistendo nell’espressione il riferimento a una
diversità di “razza” e all’inferiorità della stessa.

                                             16
7) Tribunale di Roma, sezione VI penale, sentenza n. 18931/2013

Non integra il reato di diffusione e/o di propaganda di idee fondate sulla superiorità
ovvero sull’odio “razziale” la divulgazione e/o la manifestazione di idee che
raggiungono un numero ristretto di persone.

(Nel caso di specie si trattava di tesi negazioniste dell’Olocausto esposte da un
professore di storia dell’arte ad un’alunna, al di fuori dell’orario scolastico e in
presenza di un suo compagno di classe; tali tesi negazioniste erano state poi ribadite
dall’imputato in un successivo consiglio di classe alla presenza di due suoi colleghi.

Il professore, ad avviso del Tribunale di Roma, si sarebbe limitato semplicemente a
riportare alcune tesi negazioniste dell’Olocausto in maniera asettica, senza utilizzare
termini indicativi della superiorità del popolo ariano e senza manifestare odio verso
il popolo ebraico).

8) Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza n. 47894/2012

Il reato di chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio “razziale” o
etnico, è integrato anche da una isolata manifestazione a connotazione razzista:
infatti, l’elemento che caratterizza la fattispecie è la propaganda discriminatoria,
intesa come diffusione di un’idea di avversione argomentata sulla ritenuta diversità e
inferiorità, senza che tale condotta debba necessariamente caratterizzarsi per la
capacità di condizionare o influenzare il comportamento di un vasto pubblico in
modo da raccogliere adesioni.

La funzione di consigliere comunale non legittima, in esplicazione del proprio
mandato elettorale, di esprimersi con frasi di generalizzazione nei confronti di uno
specifico gruppo sociale, offensive non soltanto della dignità delle persone, ma
additive di inferiorità legate alla cultura e alle tradizioni di un popolo, tanto da
auspicare il sequestro di Stato, mezzo con cui operare la sottrazione alle famiglie dei
bambini appartenenti a gruppi rom o sinti, quale unico strumento attraverso il quale
si sarebbe potuto rompere una fantomatica “catena generazionale” di questi gruppi.

(Con questa sentenza, la Cassazione ha cancellato con rinvio l’assoluzione in appello
dell’imputato: questi, nella sua qualità di consigliere comunale, nell’esercizio delle
sue funzioni istituzionali, si era espresso con frasi di generalizzata discriminazione
“razziale” nei confronti delle comunità rom e sinti presente sul territorio, in ragione
di una pretesa diversità e inferiorità di queste ultime).

                                            17
9) Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza n. 20508/2012

Sussiste il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio “razziale”
o etnico ovvero di istigazione a commettere o di chi commette atti di discriminazione
per motivi “razziali”, etnici, nazionali o religiosi, qualora, pur nel contesto di un più
ampio apparato argomentativo volto a sostenere tesi di per sé legittime, si trascenda
in affermazioni gratuitamente offensive e discriminatorie nei confronti di quanti, in
ragione della loro connotazione etnica, nazionale o religiosa, si ritiene pongano in
essere comportamenti da riguardarsi, secondo quelle tesi, come condannabili.

(Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna in
appello dell’imputato che aveva - in uno scritto volto a sostenere la contrarietà al
diritto naturale di sofferenze inflitte agli animali e, nello specifico, di quelle derivanti
dall’osservanza delle regole di macellazione previste dalla religione ebraica e da
quella islamica -, inserito le seguenti affermazioni: “In considerazione di ciò, è giusto
dichiararsi antisemiti nei riguardi degli ebrei credenti; né ci si può dolere del fatto che questi
siano finiti nelle camere a gas naziste. Essi, non riconoscendo che vi deve essere un limite
invalicabile che è il diritto naturale a non soffrire, quando la sofferenza può essere evitata, non
possono pretendere che si abbia rispetto per la loro vita se non hanno mai avuto alcun rispetto
per la vita degli animali, sacrificati al rispetto della barbarie della loro tradizione religiosa”).

10) Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza n. 563/2011

Trova applicazione la circostanza aggravante dell’art. 3 della “legge Mancino” in caso
di minacce telefoniche ai danni di un’insegnate di storia per i suoi studi sul tema
dell’Olocausto; tale circostanza aggravante sussiste anche nelle ipotesi in cui il
soggetto minacciato non sia parte del gruppo etnico discriminato, ma solo associato
allo stesso in ragione dei suoi studi.

11) Tribunale di Trento, sentenza n. 613/2009

È da rigettarsi la c. d. teoria del “razzismo implicito” ed il suo recepimento nel diritto
penale, per il pericolo di poter ricomprendere in un giudizio di condanna le idee
professate dal singolo, più che i comportamenti da esso tenuti.

Nulla ha a che fare con l’esaltazione delle idee razziste o con l’istigazione all’odio
proporre di sottrarre i bambini rom i ai loro genitori che li maltrattano e affidarli alle
istituzioni pubbliche, trattandosi di proposizione allusiva di una disposizione
polemica, contrastabile con l’arma della dialettica politica e non con la legge penale,
mentre le insolenze pubblicamente pronunciate nei confronti della comunità rom
costituiscono reato di diffamazione.

                                                  18
Stigmatizzare    comportamenti      giudicati       opportunistici,   non   esprime   alcuna
considerazione discriminatoria di ordine “razziale”, poiché la discriminazione in
ragione dell’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui
comportamento.

(Nel caso concreto, durante un Consiglio comunale, nell’esercizio delle proprie
funzioni istituzionali, l’imputato aveva chiamato “canaglie” in maniera generica gli
appartenenti alle minoranze rom e sinti e aveva proposto di togliere loro i figli;
inoltre, nella medesima circostanza, l’imputato aveva deplorato che i bambini rom
frequentassero soltanto la mensa dell’asilo nido e non anche quest’ultimo).

12) Corte di Cassazione, sezione IV penale, sentenza n. 41819/2009

È configurabile il reato di propaganda di idee discriminatorie nell’ipotesi di
affissione sui muri di una città di manifesti del seguente tenore: “No ai campi nomadi.
Firma anche tu per mandare via gli zingari”.

(In questo caso, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello
competente e ha nuovamente rinviato nel merito la causa, affinché la Corte d’Appello
in diversa composizione verificasse se nel caso concreto il pregiudizio “razziale”,
fondato sul convincimento che tutti i rom sono ladri, costituisse - tenuto conto delle
circostanze temporali ed ambientali nelle quali tale convincimento era stato espresso
– un’idea discriminatoria fondata sulla diversità degli appartenenti a tale gruppo,
ovvero una critica dei loro comportamenti e/o loro modi di vivere).

13) Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza n. 25184/2009

Il cosiddetto “saluto romano” o “saluto fascista” è una manifestazione esteriore
propria o usuale di organizzazioni o gruppi razzisti, inequivocabilmente diretta a
favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio “razziale” o etnico,
soprattutto se tale gesto viene posto in essere in occasione di eventi sportivi pubblici,
in presenza di un ampio numero di partecipanti, come può essere un incontro di
calcio.

14) Corte d’Appello di Venezia, sentenza del 20 ottobre 2008

Per l’imputazione sul piano soggettivo del reato di propaganda di idee fondate sulla
superiorità o sull’odio “razziale” o etnico, è sufficiente il dolo generico, ossia la
consapevolezza del carattere discriminatorio del messaggio propagandato da parte
dell’agente.

Pertanto, l’affissione a scopi politici di manifesti recanti la scritta “No ai campi nomadi.
Firma anche tu per mandare via gli zingari” integra gli estremi del reato di propaganda

                                               19
di idee fondate sulla superiorità o sull’odio “razziale” o etnico, in quanto veicola un
messaggio discriminatorio che fa leva unicamente sull’altrui diversità etnica, senza
alcun riferimento a specifici comportamenti criminosi tenuti dagli individui
collettivamente presi di mira.

15) Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 27258/2007

Presupposto della configurabilità del reato di propaganda di idee discriminatorie è
l’effettiva sussistenza di un’idea discriminatoria fondata sulla diversità determinata
da pretesa superiorità “razziale” o da odio etnico.

(Nel caso concreto, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di
merito, stabilendo che la Corte d’Appello competente accertasse che la condotta
contestata agli imputati, consistita nell’avere pubblicizzato una petizione contro i
campi rom abusivi, fosse stata determinata da un’idea discriminatoria basata sulla
semplice diversità etnica, ovvero su un pregiudizio individuale, di per sé non
sanzionabile penalmente).

16) Corte d’Appello di Venezia, sentenza del 2 aprile 2007

L’elemento psicologico del reato di diffusione ovvero di propaganda di idee razziste
è il dolo generico di manifestare con tali modalità idee fondate sulla superiorità o
sull’odio “razziale”, senza che sia necessaria alcuna finalità ulteriore e con la sola
consapevolezza dell’intrinseca ed oggettiva idoneità di tali idee a stimolare al
riguardo altre persone.

17) Tribunale di Verona, sentenza n. 2203/2005

Poiché al diritto di critica politica - che pur consente una maggiore asprezza di toni e
di espressioni - non può essere accordata valenza assoluta, dovendo venir bilanciato,
come tutti quelli riconducibili alla libertà di manifestazione del pensiero, con
l’esigenza di moralità della condotta e di tutela dei diritti fondamentali ed in
particolare della dignità umana, trattandosi di libertà finalizzata allo sviluppo ed alla
più   completa    realizzazione    della   personalità,   come    emerge    anche    dalla
giurisprudenza europea applicativa della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (secondo cui la libertà di manifestare il
proprio pensiero può essere oggetto di quelle limitazioni, previste dalla legge, che
costituiscono misure necessarie in una società democratica per la sicurezza pubblica,
la protezione dell’ordine, della salute, della morale pubblica, dei diritti e delle libertà
degli altri, fra cui in specie di quelle il cui godimento non può essere oggetto di
discriminazioni fondate sulla “razza”), è da escludere la sussistenza della causa di

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