N componente 4- N azione 4.2 Analisi settoriale cluster Miele Sardegna - SOTTOPROGETTO H Partner responsabile Agenzia Laore
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N° componente 4– N° azione 4.2 Analisi settoriale cluster Miele Sardegna SOTTOPROGETTO H Partner responsabile Agenzia Laore
Sommario 1. Introduzione ................................................................................................................. 1 2. Apicoltura in Italia....................................................................................................... 5 3. Apicoltura in Sardegna ............................................................................................... 7 4. Il Parco di Porto Conte e l’area contigua ................................................................ 19 5. Descrizione del ciclo produttivo.............................................................................. 20 5.1. Generalità .............................................................................................................. 20 5.2. Conduzione dell’apiario ........................................................................................ 20 5.3. Smielatura.............................................................................................................. 21 5.4. L’allontanamento dei melari dagli alveari ............................................................ 21 5.5. Disopercolatura ..................................................................................................... 22 5.6. Estrazione .............................................................................................................. 23 5.7. Filtrazione e decantazione ..................................................................................... 23 5.8. Stoccaggio e confezionamento .............................................................................. 25 6. I mieli della Sardegna................................................................................................ 27 7. Identificazione degli Aspetti ambientali collegati al ciclo produttivo ............... 30 7.1. Emissioni in atmosfera .......................................................................................... 30 7.2. Risorse energetiche ............................................................................................... 31 7.3. Risorse idriche ....................................................................................................... 31 7.4. Rifiuti .................................................................................................................... 31 7.5. Rumore .................................................................................................................. 31 7.6. Utilizzo di fitofarmaci e prodotti chimici .............................................................. 31 7.7. Imballaggi.............................................................................................................. 32 8. Analisi del contesto produttivo del parco di porto conte .................................... 33 8.1. Apicoltura nell’area del Parco di Porto Conte e nell’Area Contigua .................... 33 8.2. Aziende apistiche aderenti al progetto RESMAR – H .......................................... 35 8.3. Elaborazione dei dati pervenuti ............................................................................. 35 9. Aspetti ambientali significativi ................................................................................ 37 10. buone pratiche ............................................................................................................ 40 10.1. Calendario delle lavorazioni .............................................................................. 40 10.2. Lotta ai parassiti................................................................................................. 44 10.3. Azioni per escludere la contaminazione del prodotto lavorato ......................... 52 10.4. Etichettatura ....................................................................................................... 53
1 1. INTRODUZIONE Probabilmente l’uomo ha acquisito la conoscenza delle api e del suo prodotto principale, il miele, sin dalla sua comparsa sulla terra. Infatti, nutrendosi di quello che la natura gli metteva a disposizione, non poteva non venire a conoscenza della bontà del miele. Tutto ciò trova conferma in molteplici testimonianze. La più antica attestazione relativa allo sfruttamento delle api da parte dell’uomo, risalente al mesolitico e datata 7.000 a.C., si ritrova proprio nell’area mediterranea. In alcuni graffiti rupestri rinvenuti in Spagna, presso Valencia, nella Grotta del Ragno (la “Cueva della Araña”), è infatti possibile distinguere perfettamente una figura umana nell’atto di prelevare alcuni favi da un anfratto roccioso abitato da una colonia di api. Divenuto un essere stanziale, con l’osservazione che gli sciami naturali ben si adattano a dimorare in contenitori messi loro a disposizione dall’uomo, la ricerca di colonie selvatiche si deve essere presto evoluta in allevamento vero e proprio. In questo modo, probabilmente, nacque l’apicoltura. I primi popoli a lasciare testimonianze della pratica e dell’arte di allevare le api sono stati gli egizi. In alcuni disegni riportati sul sarcofago del faraone Mikirinos, l’egittologo M.F. de Rozières ha potuto stabilire con certezza come lo sfruttamento domestico delle api fosse, in Egitto, già in atto sin dal 3.600 a.C. Attraverso l’interpretazione di iscrizioni successive, è possibile stabilire che proprio gli egizi tenevano in gran considerazione l’arte dell’apicoltura: a loro si deve la prima notizia sull’uso del fumo per il controllo delle api e la pratica di prelevare i favi senza ricorrere all’apicidio. Furono proprio gli egiziani a praticare per primi una sorta di nomadismo, trasferendo le arnie lungo il Nilo al fine di sfruttare la scalarità delle fioriture presenti sulle sue sponde. Il miele era, presso questo popolo, assai apprezzato, tanto da essere posto accanto al sarcofago dei faraoni, nelle camere funerarie delle loro tombe, affinché di questo alimento essi potessero godere durante il lungo viaggio verso l’aldilà. Ma presso gli egizi, venivano certamente sfruttate anche altre produzioni provenienti dall’allevamento apistico. Con la cera essi producevano statuette, anch’esse rinvenute
2 nelle piramidi, raffiguranti le loro divinità. Così come erano certamente a conoscenza delle proprietà battericide e batteriostatiche della propoli e del miele, considerato l’uso che essi facevano di queste sostanze per imbalsamare i corpi delle mummie. Essi conoscevano anche l’arte della fabbricazione dell’idromele, una delle bevande alcoliche più pregiate del tempo, così come dell’aceto di miele, ottenuto dallo stesso idromele. Gli egizi non sono però l’unico popolo testimone dell’importanza delle api e delle loro produzioni. Altri popoli dell’area del mediterraneo riconoscevano qualcosa di affascinante e magico al mondo delle api ed alla loro principale produzione, il miele. Anche gli altri popoli dell’area del Mediterraneo riconoscevano qualcosa di affascinante e magico al mondo delle api e del miele; nella Bibbia, ad esempio, il miele viene citato in numerose occasioni, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Le proprietà medicamentose del miele erano conosciute anche dagli Assiro-Babilonesi. Questo popolo aveva discrete conoscenze circa la medicina, tanto che il codice del Re Babilonese Hammurabi prevedeva norme e sanzioni riferite alla pratica medica. Questa contemplava, oltre alla disposizione di antiche formule magiche, numerose cognizioni che, pur non basandosi su presupposti teorici o scientifici, avevano il loro fondamento sull’osservazione e sull’esperienza. I medici assiro-babilonesi conoscevano molte malattie e le modalità circa la loro cura. Facevano ricorso a prescrizioni di prevenzione igienica e dietetiche come alla chirurgia. E nella esplicazione della loro arte medica, il miele aveva un ruolo assai importante, come prodotto battericida e cicatrizzante. Lo stesso codice Hammurabi attribuiva all’apicoltura ed ai suoi prodotti grande valore, tanto da contemplare pene severe per il furto del miele dagli alveari. Infine, che l’allevamento delle api fosse un’arte conosciuta e sviluppata in tutta l’Asia Minore trova testimonianza in scritti, in carattere cuneiforme, tramandate dagli Ittiti attraverso incisioni su tavolette di argilla risalente a circa il 2300 a.C. In particolare, si deve a queste popolazioni la coniazione del termine miele. Infatti furono esse che, per indicare il principale prodotto dell’alveare, usarono il termine di melit. Anche nell’antica Grecia l’apicoltura godeva di una particolare considerazione.
3 A parte la figura di Aristeo (della quale si riferisce in seguito nella trattazione dell’apicoltura in Sardegna), numerose ed assai significative sono le testimonianze giunte fino a noi. È possibile supporre che l’apicoltura fosse attività diffusa in Grecia sin dall’epoca minoica (3400 a.C.), considerato che su alcuni vasi, risalenti appunto a quel periodo, è possibile rinvenire alcune raffigurazione di alveari. Altrettanto significativo è un pregevole monile d’oro, risalente alla stessa epoca, formato dall’unione di due api unite per le due estremità (il capo e l’addome) a formare una sorta di cerchio. Anche Omero nell’Odissea fa spesso riferimento all’uso del miele: cita ad esempio il Melikraton, una squisita bevanda (una sorta di miscuglio di miele e latte), utilizzata esclusivamente in speciali occasioni; ancora, si riporta come le figlie orfane di Pindaro siano state nutrite dalla dea Venere con formaggio, miele e vino, o come la maga Circe abbia usato il miele per sedurre i compagni di viaggio di Ulisse. In epoca più recente, Aristotele, scienziato e filosofo, vissuto nel IV secolo a.C., studiò per primo la società delle api, descrivendo nei suoi trattati un’apicoltura greca assai evoluta e condotta in maniera professionale. Tutto ciò viene avvalorato anche dal fatto che il famoso legislatore ateniese, Solone (640-558 a.C.), già più di due secoli prima, aveva dovuto emanare norme inerenti la gestione e la sistemazione degli apiari, legiferando che essi dovevano distare, l’uno dall’altro, non meno di 300 piedi. I greci, fra l’altro, consideravano il miele un alimento completo e dalla caratteristiche quasi taumaturgiche. Pitagora (575-495 a.C.) ed i suoi discepoli impiegavano il miele come alimento principale. Così come Democrito (460-360 a.C.), anch’egli filosofo presocratico, a coloro che gli domandavano le ragioni della sua lunga e sana vita, soleva rispondere: “si deve nutrire la parte esterna del corpo con l’olio e l’interno col miele”. Fu forse per la forza di tale esempi di longevità, legata al dichiarato uso costante del miele, che Ippocrate (462-352 a.C.), da tutti considerato il padre della medicina, era solito raccomandare questo prodotto delle api a tutti coloro che volevano garantirsi una lunga vita, ma soprattutto alle persone malate.
4 Anche presso gli antichi romani il miele godeva di grande considerazione, al pari di quanto avveniva presso i greci. Ad esso venivano attribuite le stesse proprietà che gli conferivano le popolazioni elleniche: alimento completo e medicamentoso. Lo stesso Ottaviano Augusto (63 a.C.–14 d.C.), il primo imperatore di Roma, attribuiva al miele la propria longevità, nella convinzione mutuata da Democrito, che ungersi con l’olio e nutrirsi con il miele potesse garantire una vita più lunga.
5 2. APICOLTURA IN ITALIA L’apicoltura in Italia costituisce spesso un’integrazione di reddito per gli imprenditori agricoli, rappresentando un’attività primaria solo per una ristretta percentuale di allevatori. Vi è però da considerare come il risultato economico dell’attività apistica vada oltre il valore espresso dalla sola produzione lorda vendibile proveniente dagli apiari. Infatti, essendo una pratica strettamente legata sia alle produzioni agricole, sia alla vegetazione spontanea, l’apicoltura contribuisce in misura fondamentale sia alla realizzazione del reddito agricolo e sia ad una gestione sostenibile delle aree marginali. Senza voler definire in modo preciso il valore agricolo fornito dall’attività delle api, è comunque corretto sottolineare come l’attività impollinatrice di questo insetto sia fondamentale per l’ottenimento di gran parte della produzione frutticola. Aumenta la percentuale di allegagione dei fiori (soprattutto delle cultivar autosterili) e migliora la qualità dei frutti che assumono una maggiore dimensione ed una migliore conformazione. Dall’ultimo censimento in agricoltura, risultano attive in Italia circa 7.000 aziende, di questi sono imprenditori apistici circa il 14% (980) che si stima detengano circa 200.000 alveari. Dai dati riportati dall’Osservatorio Nazionale del miele, che riguardano un arco temporale di dodici anni, dal 1999 al 2011, si riscontra che la produzione italiana di miele è piuttosto diversificata, con numerose produzioni di miele uniflorale, tra cui quelli di acacia, asfodelo, cardo, castagno, eucalipto e arance risultano i più comuni e diffusi. Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo di questo prodotto è da evidenziare che le politiche agricole degli ultimi anni sono state finalizzate a favorire il passaggio delle attività di produzione tradizionale a quella biologica, con buoni risultati anche sul piano economico. Inoltre la tendenza a ridurre l’impatto ambientale in agricoltura esercitato da fitofarmaci e antiparassitari, che svolgono un ruolo fondamentale tra le cause dell’alta mortalità delle api, ha sicuramente migliorato le condizioni in cui operano gli apicoltori.
6 Da un punto di vista quantitativo è da rilevare che nell’ultimo decennio la tendenza della produzione, nonostante abbia evidenziato un andamento altalenante a causa di eventi meteoclimatici che spesso hanno ridotto se non compromesso la raccolta di miele, è al rialzo, come evidenziato nella tabella sottostante. Fig. 2 : Andamento della produzione di miele in Italia nell’ultimo decennio (il valore è espresso in tonellate) Per quanto riguarda l’ultimo anno di produzione, il 2011 è risultato leggermente più favorevole per le produzioni del Centro-Nord, con abbondante produzione di miele d’acacia, mentre è risultata una scarsa produzione per altri tipi di miele, con alcune produzioni specifiche da scarse a nulle. Per il Sud e le Isole maggiori non è stato un anno particolarmente produttivo, in particolare per quanto riguarda la produzione di castagno ed eucalipto, a causa di un cattivo stato di salute delle piante, colpite da parassiti infestanti. A questo si sono aggiunte condizioni meteorologiche avverse nel periodo della fioritura. (Sottolinea come questi dati siano comunque lontani dalla realtà: valori medi da 3 Kg arnia (2002) a 13-14 (2010).
7 3. APICOLTURA IN SARDEGNA L’allevamento apistico, anche in Sardegna, ha inizio con la storia dell’uomo. Lo stretto e lungo rapporto che ha legato le popolazioni isolane all’attività apistica è infatti testimoniato dalla larga diffusione, nella onomastica, di cognomi derivanti da termine legati all’allevamento di quest’insetto: Medda, Mel, Melis, Melinu, Melanchin, Melaiu, Abe, Ape ed altri. In Sardegna l’apicoltura ha origini antichissime, affondando le proprie radici sin nel neolitico (6.000 a.C.). È infatti in questo periodo della preistoria che si afferma la tendenza da parte dell'uomo allo sfruttamento delle scorte di miele immagazzinate dalle api. Inoltre poiché è oramai assodata una consistente migrazione di popolazioni iberiche verso la Sardegna nel neolitico, non è improbabile che l’uso dello sfruttamento delle api sia riconducibile alle popolazioni provenienti dalla Penisola Iberica. I Fenici, i Cartaginesi ed i Romani che, in epoche successive, invasero la Sardegna, trovarono certamente un’apicoltura assai sviluppata. In particolare tutte le provincie poste sotto la dominazione romana erano tenute a versare come tributo parte delle loro produzioni. Così il popolo sardo, unitamente al grano ed altri cereali, alla lana, al formaggio ed ad altre produzioni agricole, doveva inviare a Roma 200.000 libre di cera, pari a 65.400 chilogrammi. L’importanza dell’apicoltura in Sardegna è testimoniata anche da altre citazioni, riferite da illustri personalità romane. Particolare fama, per quanto in negativo, aveva presso i romani il miele amaro, frequentemente citato quale singolare anomalia della Sardegna, terra ingrata e difficile, compreso il suo miele dal sapore sgradevole. Forse la citazione di maggiore fama è quella che riguarda un’arringa difensiva pronunciata da Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), in occasione della difesa da lui tenuta a favore di Marco Emilio Scauro, dal 55 a.C. governatore (propretore) della provincia romana di Sardinia et Corsica. Nel 54 a.C. egli fu accusato dai Sardi di assassinio e malversazione e, pertanto, sottoposto a processo. L'accusa fu sostenuta da Publio Valerio Triario, mentre la difesa fu, appunto, affidata a Cicerone e a Quinto Ortensio Ortalo. Il tribunale, presieduto da Marco Porcio
8 Catone, pretore in quell'anno, decise per l’assoluzione, in virtù soprattutto all'orazione "Pro Marco Emilio Scauro " pronunciata da Cicerone: “Omnia que Sardinia fert, homines et res, mala sunt. Etiam mel, quod in ea insula abundat, amarum est”. Molte altre, però, sono le citazioni, ovviamente negative, riguardanti il miele amaro che solo in Sardegna veniva prodotto. Orazio (65-8 a.C.), nella sua “Ars poetica”, lo cita come cosa orribile e sgradevole che disgusta i commensali, mentre Virgilio (70-19 a.C.) accenna al sapore amaro delle erbe sarde contrapponendole a quelle dolci degli Iblei (catena montuosa della Sicilia sud orientale), a sottolineare gli opposti sentimenti fra Coridone e Tirsi: “Nerine Galatea thymo dulsior Hyblae… Immo ego sardois videar tibi amarior herbis…”. Infine Dioscoride Pedanio (40 circa-90 circa d.C.), medico, botanico e farmacista greco antico, che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone, del tutto controcorrente, ne esalta invece le qualità medicamentose, soprattutto nei confronti dei tessuti epiteliali: “quello che nasce in Sardegna, amaro, per pascersi qui le api de fiori di assenzio, fa bella la pelle della faccia, e levane ogni sorta di macole”. In tempi successivi, in epoca bizantina (337-1267 d.C.), l’apicoltura sarda assunse importanza rilevante, contribuendo al reddito familiare. L’allevamento, oltre che in campo agricolo, si sposta nei monasteri e nei casali, si producono miele e soprattutto cera. Il miele viene utilizzato come dolcificante e nella preparazione dei dolci, ma anche come conservante, in virtù della sua azione antibatterica; la cera principalmente per l’illuminazione ma anche per altri scopi come, ad esempio, nell’arte dell’ebanismo. Durante il successivo periodo giudicale l’apicoltura sarda ricoprì un ruolo di assoluto rilievo per l’economia isolana. Questo è confermato da quanto prescritto nella Carta de Logu, secondo il cui dettato erano previste severe sanzioni a carico dei ladri di alveari: “… se qualcuno ruba degli alveari di proprietà del Patrimonio regio, paghi entro quindici giorni dal giudizio uno a dieci” (dieci volte il valore della refurtiva) “se gli alveari sono di proprietà della chiesa, o di privati, paghi da uno a cinque. Paghi inoltre alla Corte cento soldi di multa e ripari al danno fatto alle arnie. Se non paga, o se nessuno paga per lui entro quindici giorni dal giudizio, gli sia tagliato un orecchio”.
9 Le sanzioni pecuniarie, col passare del tempo, divennero inadeguate, tant’è che, al termine del XVI secolo, si percepì l’esigenza di inasprirle. Durante il periodo di Filippo II re di Spagna e sotto la potestà di Don Michele di Moncada, venne dapprima disposto che “…essendo di non poco interesse la cera ed il miele, e vedendosi in Sardegna per la poca pena stabilita per i furti degli alveari, venuta meno questa cultura … si stabilisce contro chi rubasse un alveare la pena sancita contro chi rubasse una pecora…”. Così disponendo, vennero adeguate le pene in modo tale che chiunque, dichiarato colpevole del furto di una pecora, un porco o una capra (e quindi di un alveare) ai danni della proprietà del Patrimonio regio, pagasse da uno a dieci (dieci volte il valore della refurtiva). Se il furto fosse avvenuto nei confronti della proprietà della chiesa, o di privati, pagasse da uno a cinque più una multa di 15 lire nel caso si trattasse della prima volta. Qualora non avesse avuto la possibilità di pagare, o se nessuno avesse pagato per lui entro quindici giorni dal giudizio, gli venisse tagliato un orecchio. La recidiva del furto, dopo la seconda volta, prevedeva che il condannato venisse “…inforcato perché ne muoia…”. Il Vicerè stabilì inoltre che in aggiunta alla pena prevista, la prima volta venissero somministrati al ladro anche cento colpi di frusta ed il ladro mandato in galera. Il livello di sviluppo e diffusione che l’attività apistica ebbe a rivestire durante il basso medioevo, nonché la sua importanza sotto il profilo economico, è attestato da numerose testimonianze scritte dell’epoca. Ad esempio, nell’atto ufficiale di pace fra Eleonora d’Arborea e gli Aragonesi, del 1388, tra le ville riportate nell’atto, figura la Villa d’Abes, che, con tutta evidenza, doveva aver posseduto un ricco patrimonio di alveari da cui deriva il proprio toponimo. E la toponomastica aiuta a comprendere e quantificare l’attività apistica in quel periodo. In altro documento ufficiale, risalente al 1365, sulle rendite ecclesiastiche cagliaritane in Villa Papus, viene riportata l’esistenza di un ort abis de Ioanni Pili; in Quartu SUS esisteva addiritura un’intera località donominata Horto d’abis, certamente per il gran numero di bugni allevati in quell’areale.
10 Così come un altro toponimo di Villa Palma, Pixina d’Abis, lascia certamente intendere come nelle aree attraversate da questo corso d’acqua dovessero trovarsi numerosi allevamenti di api. In altro documento ufficiale, viene trascritto come il Comune di Pisa, in un agrumeto nel Giudicato di Ogliastra, possedesse “octuaginta novem bungia apium” (89 bugni villici). Si consideri infine che la tabella dei dazi di estrazione dei prodotti dell’apicoltura del Giudicato di Calari (Cagliari) prevedeva la corresponsione di 6 denari per ogni brocca di miele. Stando a significare che, se le produzioni di miele venivano computate in brocche, dovevano essere elevati sia la diffusione dell’attività di allevamento delle api, sia il livello delle produzioni raggiunto. Nei secoli successivi l’attività apistica conservò in Sardegna la medesima diffusione ed importanza economica. Le arnie, costituite da cortecce di sughero chiuse a formare cilindri di varia grandezza, erano presenti in ogni corte colonica e costituivano un’importante fonte di reddito. Era anche l’attività alla quale si dedicava la povera gente che, non avendo la possibilità di effettuare alcun investimento e non possedendo alcuna terra da coltivare, poteva comunque allevare api. Col ricavato di questa attività poteva così soddisfare alcune esigenze familiari. Francesco Gemelli, nel suo libro “Rifiorimento della Sardegna”, pubblicato a Torino nel 1842, descrive il ruolo dell’attività apistica in Sardegna sottolineandone l’aspetto principale: “…fruttare con pochissimo, e quasi niun costo, e il quale perciò agevolar puote il contratto sociale”. Per questo motivo egli ne ravvede l’opportunità di incentivarne lo sfruttamento economico: “Dico più al rifiorimento che all’ingrandimento, perché in verità la coltura delle api può dirsi estesa a ogni provincia del regno. L’Ogliastra, la Gallura, la provincia di Sassari, il Principato di Monte Acuto, le Baronie di Posada e di Orosei, la Barbagia di Seui, le parti di Barigau e quelle di Iglesias e la costiera di Capo Pula ne sono le più ricche.”. L’invenzione dell’arnia razionale a favo mobile, avvenuta in America nel 1851 ad opera di Lorenzo Lorraine Langstroht, portò ad una significativa rivoluzione dell’allevamento apistico americano. Quest’arnia, modificata nel 1859 da Dadant e quindi nel 1861 da Blatt, trovò ampia diffusione anche in Europa, grazie proprio all’opera di divulgazione dovuta
11 al suo stesso inventore, Charls Dadant. Attraverso l’Inghilterra, l’arnia tipo Dadant-Blatt (a soffitta mobile e quindi ispezionabile dall’alto) si diffuse anche in Francia ed in Italia. Quasi contemporaneamente all’invenzione di Langstroth, anche in Germania si giunse alla costruzione di un’arnia razionale a favo mobile. Tale invenzione, che porta la firma del Barone August Von Berlepsch, prevede la possibilità dell’estrazione dei favi attraverso un’apertura posteriore. Mentre in tutta l’Europa andava diffondendosi l’uso dell’arnia razionale (in Francia ed Italia secondo la tipologia americana, a differenza della Germania dove si affermava invece il modello Berlepsch), in Sardegna l’allevamento rustico non conosceva alternative. Secondo un censimento realizzato nel 1928, erano ben 2.611 gli apicoltori operanti nell’isola. Essi detenevano globalmente 1.447 alveari razionale (appena il 3,8% del totale) e 38.046 alveari rustici. La produzione era rappresentata da 46.524 chilogrammi di miele e 8.546 chilogrammi di cera. Valori in verità insignificanti soprattutto se rapportati all’unità produttiva: poco più di 1,2 chilogrammi per alveare di miele e 0,2 di chilogrammi di cera. Un aggiornamento del censimento operato 5 anni più tardi, portò all’individuazione dello stesso numero di operatori, 2.611, con un carico di alveari leggermente inferiore: 1.228 alveari razionale (il 3,3% del totale) e 36.312 alveari rustici. In questo censimento, a differenza del primo, si tenne però conto della tipologia del miele estratto: per centrifugazione (21.180 chilogrammi) e per torchiatura (72.624 chilogrammi). E poiché, com’è ovvio, il primo viene prodotto dalle colonie allevate nelle arnie razionali mentre il secondo in quelle villiche, dall’analisi dei dati unitari è possibile evincere come, anche allora, le arnie razionali fossero in grado di esprimere livelli produttivi assai più importanti: 17,8 chilogrammi per alveare razionale contro i 2,0 degli alveari rustici. In questo secondo censimento, la produzione della cera assumeva maggiore importanza rispetto al dato rilevato dal primo: 21.630 chilogrammi totali per un valore unitario pari a 0,58 chilogrammi per alveare. Ma è nel dopo guerra che l’apicoltura sarda conosce una maggiore attenzione da parte del mondo scientifico e tecnico. In particolare, è possibile fare riferimento ai numerosi articoli sull’allevamento delle api che il bollettino mensile di propaganda agraria, “l’Agricoltura
12 Sarda”, dedica al comparto apistico: la prima segnalazione, da parte del Dott. F.B. Boselli, della comparsa nell’Isola dell’Acarapis woodi Rennie, le indicazioni sanitarie per il suo controllo descritte dal Prof. E. Diana, la descrizione accurata delle fasi di un travaso dal bugno all’arnia razionale, sempre del Dott. Boselli. Con l’obiettivo di fornire un forte impulso al rinnovamento del comparto apistico isolane, nasce nel 1951 La prima organizzazione di apicoltori: il Consorzio Apicoltori della Sardegna. Tre anni più tardi la Regione Sardegna promulga la Legge Regionale del 16 giugno 1954, n. 13 per l’incremento dell’apicoltura e la lotta contro l’acariosi e le altre malattie delle api, con la finalità di promuovere la riconversione degli allevamenti verso la forma razionale. Nel 1977, un terzo censimento realizzato per conto dell’Assessorato all’Agricoltura e riforma agro-pastorale della Sardegna, rileva che l’allevamento delle api è presente sull’Isola in 241 comuni, appena i 2/3 del totale. Dall’elaborazione dei dati, risultava che in Sardegna, a quella data, operavano 2.041 apicoltori, con un numero totale di arnie di poco superiore alle 60.000 unità: 50.840 rustiche (l’83,57% del totale) e 9.994 razionali (il 16,43%). Era la Provincia di Nuoro ad occupare il primo posto sia come numero totale di alveari che di apicoltori, confermando un’antica tradizione nell’allevamento apistico del centro-Sardegna. Al contrario, la maggiore presenza di arnie razionali si registrava nella provincia di Cagliari seguita da quella di Oristano, a dimostrazione di una migliore condizione pedoclimatica e floristica. La provincia di Sassari, al contrario, mostrava ancora una elevata presenza di arnie rustiche (allevate soprattutto in Gallura), con tutti gli svantaggi che tale stato di cose comportava. Proprio in quegli anni (1978/79) l’Istituto di entomologia Agraria dell’Università di Sassari compì un ulteriore rilevamento apistico volto ad accertare principalmente la condizione professionale di coloro che praticavano l’attività apistica, la loro età, le loro giornate dedicate all’allevamento nonché lo stato sanitario degli apiari dell’Isola. All’indagine risposero ben 406 apicoltori, circa 1/5 degli operatori censiti dall’Assessorato all’Agricoltura, e pertanto un campione certamente rappresentativo della realtà sarda. La
13 rappresentatività del campione era ulteriormente certificata dalla corrispondenza del dato percentuale, relativo al possesso di alveari, suddivisi fra razionali e rustici, fornito dagli interpellati: rispettivamente il 15,7% e l’84,3%. Sulla base della successiva elaborazione delle altre risposte, fu possibile evincere come, poco più di trent’anni fa, appena il 3,2% del totale si dichiarava apicoltore a titolo principale, mentre ben il 35,0% degli operatori era rappresentato da pensionati. Il fatto poi che al secondo posto, con il 26,4% delle risposte, si collocasse la categoria degli agricoltori, faceva dedurre che l’apicoltura sarda fosse allora considerata quasi una sorta di passatempo (dai pensionati) o al fine di produrre un reddito integrativo a quello agricolo principale. Questo dato si rifletteva anche sull’età degli operatori. Ben il 40,9% superava la soglia dei 60 anno, mentre appena il 2% degli intervistati aveva meno di 30 anni. Altro elemento non proprio confortante era fornito dalla quantità di lavoro che gli allevatori dedicavano al governo delle proprie colonie: il 39,5% degli intervistati, infatti, dichiarava di destinare meno di 30 giorni del suo tempo, mentre solo l’1,38% si impegnava per tutto l’anno. Infine, anche le malattie presentavano in Sardegna una frequenza superiore alla media nazionale. Le colonie colpite, in un quadro ove ancora non era contemplata la presenza dell’acaro Varroa destructor, erano infatti ben il 22,96% del totale. Certamente la causa di questa situazione andava ricercata nell’elevata percentuale di arnie rustiche, difficilmente controllabili sotto il profilo sanitario. Ben il 24,8% delle colonie allevate nei bugni risultavano ammalarsi ogni anno, contro l’11,5% di quelle allevate in arnie razionali. Pochi anni dopo, nel 1982, lo stesso Istituto di Entomologia Agraria ripetè l’indagine. Le risposte interessarono un nuovo campione, delle dimensioni più ridotte rispetto al primo e costituito da circa 200 apicoltori, operanti in 54 comuni dell’Isola. In un periodo appena precedente all’introduzione della Varroa sul territorio isolano, fu comunque possibile assistere ad una progressiva razionalizzazione degli apiari: sia nella provincia di Cagliari (confermando i dati dell’indagine precedente), ma soprattutto in quella di Sassari. Al contrario, la Provincia di Nuoro faceva ancora registrare una forte prevalenza
14 dell’apicoltura rustica, considerato che il 90 % delle colonie veniva ancora ricoverata in bugni villici. A seguito dell’individuazione anche in Sardegna della V. destructor, nel 1983, ma soprattutto sulla spinta delle differenti risorse economiche messe a disposizione sia dallo stato italiano (attraverso la Legge n. 285/77 per l’occupazione giovanile, recepita dal Consiglio Regionale con la L.R. n. 50/78), sia, e soprattutto, dalla Stessa Regione Sardegna (attraverso la successiva emanazione della L.R. n. 28 del 7 giugno 1984, anch’essa relativa a misure urgenti a favore dell’occupazione giovanile, e della L.R. n. 30 del 17 dicembre 1985, inerente le norme per l’incremento e la tutela dell’apicoltura), si assistette ad una profonda trasformazione del comparto apistico isolano. Attualmente l’allevamento delle api, anche in Sardegna, ha raggiunto elevati livelli di professionalizzazione. Eccezion fatta per alcune aree ristrette del centro dell’Isola ove sono ricomparsi alcuni allevamenti rustici, la quasi totalità dell’allevamento sfrutta le arnie razionali da nomadismo. Nonostante le difficoltà che ha dovuto affrontare nelle ultime annate produttive (dal 2006 al 2012), il comparto dimostra ancora un discreto grado di dinamicità. I dati statistici, inerenti la consistenza dei soli allevamenti attualmente registrati, confermano la buona specializzazione delle aziende e degli operatori, riscontrato che circa il 25% degli apiari conta una consistenza superiore alle 100 unità. Il 2010 è stato peraltro un anno favorevole per quanto riguarda la produzioni di miele, in netta ripresa rispetto all’anno precedente. Vale però la considerazione che il 2009 è stato forse l’anno peggiore di tutto l’ultimo decennio. Altrettanto non è possibile affermare relativamente al 2011 e, con tutta probabilità, per l’anno in corso. Infatti il lavoro delle api, in questi due anni, ha dovuto fare i conti con i problemi legati alla siccità primaverile e, soprattutto, estiva, alle basse temperature prolungatesi per tutto il mese di febbraio del 2012 e all’attacco del rincote dell’eucaliptus, la Glycaspis brimblecombei, che ne ha fortemente compromesso la fioritura.
15 Prendendo in considerazione i dati provenienti dalle dichiarazioni di possesso degli alveari presentate alle AA.SS.LL. di competenza dai singoli operatori apistici (Fig. 01 ??)1, è possibile osservare come il numero delle aziende apistiche presenti in Sardegna abbia mostrato, dal 2007 ad oggi, un trend comunque decisamente positivo, pari al 37,9%. Tale valore, notevolmente accresciutosi dal 2007 (427 dichiarazioni) al 2009 (591), ha subito una leggera flessione negli anni successivi, per riportarsi nell’anno in corso sui valori del 2009. Il numero di colonie dichiarate ha mostrato un andamento simile, per 526 591 quanto differito negli anni. 427 553 561 589 I valori più bassi sono stati registrati nel 2007 e 2010 (poco meno di 44.000 colonie allevate), mentre i massimi si sono avuti nel 2008 e nel 2012 (circa 48.000 alveari). 1 Elaborazione presentata da Marco Piu, Specialista del Settore Apistico dell’Agenzia LAORE Sardegna, in occasione del Convegno di apicoltura di Monti 2012.
16 In pratica, evidenziando una fluttuazione negli anni inferiore al 10%, è possibile affermare che, con un numero di alveari complessivo dichiarato di poco inferiore alle 50.000 unità ed una media di circa 80 colonie per allevamento, la consistenza del patrimonio apistico, nella nostra regione, si è mostrato praticamente costante (Fig. 02 ??). Tutto ciò, peraltro, stimando che una buona parte degli operatori apistici non professionisti non provvede comunque a denunciare il possesso dei propri alveari. Tale valore, alla luce di quanto riscontrato in occasione dei corsi di formazione organizzati dall’agenzia LAORE Sardegna per lo sviluppo agricolo, appare piuttosto elevato e stimabile non inferiore al 10% del totale. Un aspetto fondamentale, ai fini della determinazione del livello di reddito ritraibile dall’allevamento, è il numero di alveari in cui si compone l’apiario. Scomponendo il dato aggregato in 5 classi di consistenza degli allevamenti (meno di 100 alveari dichiarati; da 100 a 149; da 150 a 299; da 300 a 499; oltre 500), è possibile rilevare come la prima classe sia la più rappresentata: il 76,06% su base regionale (Fig. 03 ??). Questa classe individua, con certezza, la categoria di alveari condotti spesso con elevata
17 professionalità, ma capaci di garantire al proprietario allevatore esclusivamente un’integrazione del proprio reddito annuale. Tutto ciò appare confermato, considerando il valore medio regionale relativo alla consistenza media in alveari di questa classe: appena 28,9 (Fig. 04 ??). La classe successiva (da 100 a 149 alveari per azienda) è quella che potrebbe essere definita “di passaggio”. Tale livello di consistenza è infatti in grado di fornire un discreto reddito (ovviamente secondo il livello di professionalità espresso da ciascun allevatore), capace di soddisfare le esigenza di una famiglia tipo. Questa media aziendale, individuata da allevamenti composti da circa 116 colonie, rappresenta il 6,28% dell’intero panorama delle aziende sarde. Le ultime tre classi individuano le aziende professionistiche, rappresentando globalmente il 17,66% del totale degli allevamenti isolani. La consistenza in alveari di queste tre classi assume valori capaci di garantire un prodotto netto aziendale adeguato almeno per l’allevatore proprietario (circa 200 alveari per la classe da 150 a 299), se non anche per
18 ripagare uno o più collaboratori (poco meno di 340 colonie per la quarta classe e ben 860 circa per l’ultima). La produzione unitaria di miele è attualmente attestata su valori prossimi ai 35-40 chilogrammi per alveare, produzione comunque non sufficiente a ripagare interamente i costi aziendali, sia relativi alla forza lavoro, sia alla lavorazione delle produzioni. Il miele prodotto in Sardegna è di qualità spesso assai elevata, come ribadito dalle analisi effettuate negli anni dall’Agenzia LAORE Sardegna, sulla base delle provvidenze assegnatele dal Programma apistico regionale 2009/2010. Anche la gamma delle varietà, secondo l’appartenenza botanica, appare sufficientemente ampia. Fra i mieli monoflorali più diffusi si possono annoverare quelli di eucaliptus, cardo, asfodelo. Ad essi si aggiungono quantità più ridotte di mieli di agrumi, sulla, rosmarino, cisto, erica, lavanda, castagno, inula e corbezzolo. Purtroppo occorre porre nella necessaria evidenza come, a differenza delle altre realtà produttive della Comunità Europea e del resto del mondo, le altre produzioni apistiche rivestono in Sardegna ancora scarsa rilevanza. Solamente la produzione di genetica fa registrare incrementi costanti, pur non in misura adeguata alle potenzialità ambientali, mentre praticamente sconosciute rimangono le produzioni di polline e pappa reale.
19 4. IL PARCO DI PORTO CONTE E L’AREA CONTIGUA Il territorio del Parco conserva estese tracce di passate attività agricole oggi sempre meno diffuse, mentre l’agricoltura è viva nelle aree contigue soprattutto con le due colture legnose, e relative filiere, della vite e dell’olivo. L’intervento pubblico di infrastrutturazione territoriale ha operato in misura importante in quest’area, sia in territori oggi ricadenti all’interno del Parco, sia nei territori limitrofi al Parco con la Bonifica integrale del periodo fascista, la Riforma agraria ETFAS degli Anni Sessanta e l’infrastrutturazione irrigua operata dal Consorzio di Bonifica della Nurra negli ultimi decenni del secolo scorso. In linea con quanto si registra in tutte le società post-industriali l'agricoltura del territorio ha imboccato, dagli Anni Settanta del secolo scorso, una fase involutiva per la quale le terre agrarie hanno registrato una regressione molto rapida per coltivazioni e allevamenti nelle aree con ampio sviluppo costiero dove il trend demografico risulta positivo per flussi interni e turistici. Le aziende agro-zootecniche presenti nel territorio sono di dimensioni medie, impegnate nella filiera del latte, sia ovino che bovino (soprattutto il secondo in costante arretramento), in viticoltura, olivicoltura e orto-frutticoltura. L’apicoltura è diffusa, ma la produzione è finalizzata soprattutto all’autoconsumo.
20 5. DESCRIZIONE DEL CICLO PRODUTTIVO 5.1. Generalità Il ciclo produttivo delle aziende improntate alla produzione del miele può essere schematicamente distinto in tre fasi che comprendono la conduzione dell’apiario, la smielatura e il confezionamento del prodotto. Queste fasi possono essere condotte tutte in uno stesso luogo (apicoltura stanziale), oppure in diverse località, come nel caso del nomadismo, largamente praticato in Sardegna, dove si individuano dei luoghi elettivi di collocazione degli apiari, scelti in ragione delle essenze presenti per la produzione di mieli monoflorali. La smielatura, il confezionamento e lo stoccaggio avvengono invece tipicamente nelle sedi aziendali o in centri di raccolta, come nel caso dell’Ente Foreste della Sardegna. 5.2. Conduzione dell’apiario Come già espresso in precedenza, l’apicoltura può essere di tipo stanziale, con apiari fissi, o di tipo nomade, con apiari che nel corso dell’anno vengono trasferiti in località differenti. In tal modo infatti si possono fornire alle api sempre nuovi territori su cui raccogliere il nettare, ottenendo più facilmente mieli monoflorali. L’attività si svolge sul territorio a partire dall’adeguato posizionamento degli alveari, nel rispetto delle distanze minime previste dalla legge. È opportuno che l’apiario sia collocato lontano da grandi strade, zone industriali o qualunque altra fonte di potenziale contaminazione e inquinamento da metalli pesanti e fitofarmaci, distante da zone umide e ventose, non a diretto contatto con il suolo. Nel corso dell’anno vengono effettuate periodiche visite all’apiario per la normale attività di conduzione degli alveari (controllo, prevenzione della sciamatura, verifica della presenza della regina, aggiunta dei melari, ecc.) nonché per verificare la vitalità delle
21 famiglie, lo stato sanitario e per effettuare i necessari interventi di sostituzione sui favi da nido o di manutenzione sulle arnie. Tutta l’attrezzatura utilizzata viene periodicamente pulita e disinfettata. Nel caso di malattie delle api, è possibile l’applicazione di trattamenti farmacologici tenendo adeguata registrazione di modalità, tempi e modi della somministrazione. 5.3. Smielatura Tale processo si compone di diverse fasi che includono: l’allontanamento dei melari dagli alveari, il loro trasporto presso il luogo di smelatura, la disopercolatura, l’estrazione del miele maturo, l’eliminazione delle impurità e l’eventuale deumidificazione del miele. Queste fasi vengono di seguito descritte nel dettaglio. 5.4. L’allontanamento dei melari dagli alveari Questa prima fase e forse la più delicata, soprattutto nell’eventualità che i favi che compongono i melari non siano completamente opercolati. Si tenga presente che il miele, fortemente igroscopico, tende ad adsorbire qualunque elemento con cui venga casualmente a contatto. Un elevato tasso di umidità dell’aria può, ad esempio, aumentare la quantità di acqua presente nel prodotto finale, con il rischio, nel caso il tasso assuma valori superiori al 17%, di avvio di processi di fermentazione che renderebbero il miele invendibile. Così come un uso improprio dell’affumicatore concorrerebbe a far assumere al miele il grave diffetto di “sapore od odore di fumo”. Per quanto detto è sconsigliabile procedere al prelievo dei melari utilizzando, per l’allontanamento delle api dai favi, sostanze repellenti quali benzaldeide, benzacetaldeide, nitrobenzolo e fenolo. Anche il prelievo dei favi con l’ausilio della spazzola e spesso controindicato. Infatti, al momento del prelievo dei melari le api spesso manifestano un nervosismo accentuato, esaltato dall’assenza di flussi di nettare. In queste situazioni, l’allevatore è portato ad un uso quasi sempre eccessivo del fumo, al fine di calmare le api, uso che finisce per rendere il miele non più commerciabile.
22 Per questa fase è preferibile l’uso degli apiscampo o, nel caso di grandi aziende, di soffiatori a spalla o, meglio, carrellati. 5.5. Disopercolatura La fase della disopercolatura è preceduta dalla separazione fra i favi non opercolati e quelli interamente o parzialmente opercolati. I primi possono essere avviati immediatamente alla fase di smelatura, previo controllo dell’effettivo tasso di umidità del miele immagazzinato nelle cellette. Infatti i motivi della mancata opercolatuta possono essere riconducibili a due casi fondamentali: una presenza ancora forte di acqua nel nettare o la fine del flusso di nettare che non ha reso possibile alle api di riempire a completamente le cellette e, quindi, di opercolarle. Nel primo caso il miele estratto porterà ad un incremento del tasso di umidità finale dell’intero lotto, rendendo quindi obbligatoria una successiva deumidificazione del miele, prima del suo confezionamento. La disopercolatura rappresenta la vera prima fase della lavorazione del miele e consiste nell’apertura delle cellette, che contengono il miele, tramite l’eliminazione degli opercoli di cera. L’operazione può essere eseguita manualmente, con l’ausilio di forchette e coltelli speciali su banco disopercolatore, o per mezzo di disopercolatrici semi o completamente automatiche. Queste ultime possono essere dotate di lame, che tagliano uniformemente la cera lasciando gli opercoli intatti, o di catenelle o spazzole rigide di teflon, che frantumano gli opercoli rendendo praticamente l’insieme miele-cera un’unica poltiglia. La scelta da parte dell’operatore del sistema di disopercolatura non è priva di ripercussioni conseguenti. Infatti il trattamento successivo degli opercoli, ai fine del recupero del miele in essi contenuto, il cosiddetto “miele di opercoli”, è assai complicato nell’eventualità che la scelta ricada sui sistemi a catenella o simili. In questo caso la poltiglia ottenuta deve essere trattata termicamente per separare la cera dal miele. Tale trattamento rende il miele inidoneo al consumo diretto, relegandolo al solo uso per pasticceria.
23 5.6. Estrazione L’estrazione vera e propria del miele viene condotta per mezzo di smielatori centrifughi in acciaio inox, di dimensioni adeguate al tipo di attività. Oramai la quasi totalità degli smelatori prevede la smelatura dei favi da melario secondo la disposizione radiale, mentre solamente i modelli di gamma elevata, ovviamente con elevata capacità lavorativa, prevedono, anche per i favi da nido l’inserimento radiale. La disposizione dei favi del nido in modo tangenziale è relegata solo ai modelli più piccoli. I favi, una volta disopercolati, vengono caricati nello smelatore ove il miele viene estratto grazie alla sola forza centrifuga. I favi restano integri e disponibili per il raccolto successivo. Affinché il miele possa essere estratto con facilità dai favi, è preferibile che gli stessi siano lavorati con temperature non inferiori ai 25°C. In genere, le operazioni di smielatura vengono facilitate se eseguite “a caldo”, cioè entro breve tempo dalla raccolta dei melari, per sfruttare la maggiore fluidità del miele. Qualora questo cristallizzi entro le cellette, non è possibile alcuna possibilità di estrazione, se non attraverso la fusione dei favi e la successiva separazione fra miele e cera a seguito della solidificazione della cera. 5.7. Filtrazione e decantazione L’estrazione deve sempre essere seguita da operazioni che consentano di eliminare eventuali particelle di cera ed altre impurità nonché le micro bolle d’aria che si mescolano al miele nel corso della fase di estrazione, quando le gocce di miele si frantumano, sbattendo sulle pareti dello smelatore. Tale risultato si raggiunge mediante la filtrazione e la decantazione. Per l’operazione di filtrazione si utilizzano dei particolari filtri in rete di nylon, denominati “a sacco”. Questi filtri vanno posizionati sopra il maturatore, in modo tale che il sacco (o calza) vada a cadere all’interno del maturatore. Nelle aziende di dimensioni maggiori, vengono invece impiegati specifici filtri chiusi, costituiti da una serie di calze nylon. Questi dispositivi devono essere collocati ad un’altezza superiore alla bocca dei
24 maturatori e, pertanto, richiedono altezze di volte dei locali piuttosto elevate. Oramai sono stati quasi del tutto abbandonati i filtri in rete metallica, non garantendo un’adeguata filtrazione delle particelle più piccole. Il trasferimento del miele dagli smelatori e dal banco per la disopercolatura può essere effettuato sia manualmente (mediante dei secchi, generalmente in plastica per uso alimentare) o attraverso l’installazione di una vasca di pescaggio ed una pompa. L’utilizzo di questo sistema garantisce, oltre a elevate capacità di lavoro ed una maggiore igiene, una prefiltratura ed un riscaldamento del miele (qualora tali utensili sono dotati di un dispositivo tale da portare la temperatura del miele a 30-35°C.) che, aumentando in questo modo la sua fluidità, tende a rilasciare più velocemente sia le impurità residue, sia l’aria inglobata durante la fase di smelatura. Durante questa operazione è bene che l’operatore presti la massima attenzione affinché venga evitata un nuovo inquinamento del miele. I filtri utilizzati devono quindi essere puliti così come l’abbigliamento degli addetti che deve essere adeguato alla situazione. La decantazione consiste nel lasciare il miele a riposo in particolari contenitori, comunemente indicati come “maturatori”, affinché possa avvenire la separazione, dalla massa del miele, delle eventuali particelle di impurità che hanno superato la fase di filtratura e dell’aria disciolta. Durante questa fase, le particelle più pesanti del miele si porteranno sul fondo del maturatore, mentre quelle più leggere (cera, eventuali frammenti di api, bolle d’aria, ecc.) tenderanno a risalire sulla superfice. Il tempo necessario per la decantazione è funzione delle dimensioni delle particelle e del loro peso specifico e della maggiore capacità di contenimento dei maturatori. Anche la viscosità del miele (a sua volta in funzione della temperatura e del contenuto di acqua) influisce notevolmente sui tempi di decantazione. Di solito la decantazione, che dovrebbe avvenire con temperature del miele di 25-30°C, si completa in circa due settimane. Durante questa fase il maturatore deve essere tenuto coperto per evitare nuove contaminazioni ed un eventuale assorbimento di umidità, considerata l’elevata igroscopicità del miele.
25 5.8. Stoccaggio e confezionamento Il miele, una volta trascorsa la fase di decantazione, può essere direttamente invasettato o provvisoriamente stoccato in contenitori per uso alimentare e di dimensioni differenti: generalmente latte o secchi in plastica della capacità di 25 chilogrammi o fusti della capacità fino a 300 chilogrammi. Il miele deve essere comunque immagazzinato al riparo da luce, in locali asciutti, puliti e privi di odori estranei. Qualora si programmi l’invasettamento di miele stoccato in secchi o fusti, occorre munirsi di attrezzature adeguate a tale scopo. Generalmente il miele, chiuso per qualche tempo entro questi contenitori, tende a cristallizzare, formando un tutt’uno compatto. In questa situazione, è fondamentale procedere alla fusione dell’intera massa di miele, operazione che può essere compiuta portando il miele ad una temperatura massima di 40°C. Il modo più economico per svolgere questa operazione è quella di scaldare i contenitori a bagnomaria, in modo tale che la massa si riscaldi uniformemente ed in tempi adeguati. All’incirca 48 ore. Le attrezzature di questo tipo sono più che altro dedicate ad impianti di piccola capacità operativa, potendo contenere al massimo 4 latte della capacità di 25 chilogrammi ciascuna. Standard lavorativi maggiori possono essere raggiunti liquefacendo il miele contenuto anche in fusti da 300 chilogrammi. In questo caso si utilizzano celle coibentate (di volumi variabili) entro le quali viene generata e fatta circolare aria calda a temperatura controllata. Entro queste camere è possibile liquefare anche il miele cristallizzato nei vasetti anche già etichettati, qualora si vogli immetterlo sul mercano allo stato liquido. Il confezionamento si effettua, in genere, direttamente nel laboratorio di smielatura. È preferibile utilizzare contenitori in vetro, con chiusura twist-off, che garantiscono una corretta conservazione, assicurando la protezione del miele da qualsiasi contaminazione. Il riempimento dei vasetti, nelle realtà minori, può essere realizzato anche manualmente utilizzando il rubinetto di cui è munito ciascun maturatore; in questa situazione il giusto dosaggio può essere effettuato controllando il peso con una comune bilancia di precisione.
26 Qualora la dimensione aziendale lo consenta, possono essere impiegati sistemi a diverso grado di automatizzazione; i più complessi riuniscono l’intero complesso delle operazione: l’invasettamento, l’incapsulamento, l’etichettatura e l’imballaggio. Le etichette devono rispettare le norme attualmente vigenti in materia ed in particolare il decreto legislativo del 27 gennaio 1992, n. 109, in attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396 CEE, concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari. Ad esso hanno fatto seguito, negli anni, altri interventi legislativi concernenti specificatamente il miele: dalla Direttiva 2001/110/CE del Consiglio del 20 dicembre 2000, fino al Decreto Legge 31 gennaio 2007, n. 7, definitivamente adottato con Legge 2 aprile 2007 n. 40.
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