GUIDA ALLA REALIZZAZIONE DELLE MAPPE COMUNITARIE DEI BISOGNI E DELLE RISORSE - World Health Organization D.A.R.E. Project Development of ...

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GUIDA ALLA REALIZZAZIONE DELLE
      MAPPE COMUNITARIE
  DEI BISOGNI E DELLE RISORSE

                  World Health Organization
                      D.A.R.E. Project
     Development of Appropriate Response for Emergencies
GUIDA ALLA REALIZZAZIONE DELLE MAPPE COMUNITARIE
                       DEI BISOGNI E DELLE RISORSE

                                               INDICE

RINGRAZIAMENTI

INTRODUZIONE

A CHI SI RIVOLGE IL MANUALE

CHE COSA E' UNA MAPPA COMUNITARIA DEI BISOGNI E DELLE RISORSE?

PARTE PRIMA

      Come si realizzano le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse. Quattro studi di caso:

      1.        Diario di un operatore socio-sanitario di base del Centro di Medicina Sociale di
                Giugliano, Napoli, (Italia)
      2.        La lezione di Vincenzina, Comune di Polla, quartiere il Serrone, Salerno, (Italia)
      3.        Le battaglie di S. Marcos e San Jacinto, (El Salvador)
      4.        Il risveglio del leone addormentato, Mariquita, (Colombia)

PARTE SECONDA

      I principi generali

PARTE TERZA

      Le fasi della stesura delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse

      Fase 1:   Far esprimere i bisogni
      Fase 2:   Formulare un primo elenco di bisogni e risorse
      Fase 3:   La ricerca sul campo/La stesura delle mappe definitive
      Fase 4:   Istituzione del Comitato locale e la formulazione del Piano di Zona

ALLEGATO

      Scheda di autovalutazione
RINGRAZIAMENTI

Questa guida alla realizzazione delle mappe dei bisogni e delle risorse è basata su una serie di esperienze
realizzate in Italia nella regione Campania (Polla e Giugliano) e attraverso attività di cooperazione
realizzate col finanziamento del Governo italiano e con la supervisione tecnica del centro Collaborativo
Oms/Dgcs del Ministero per gli Affari Esteri italiano. Tali programmi sono stati realizzati in Colombia
nel Dipartimento di Tolima; in Jamaica, nella località di Port Antonio; nelle Filippine, nella provincia di
Albay; in Salvador (S. Marcos e S. Jacinto).

Si ringraziano in particolare tutti i Comitati locali per l'emergenza le cui idee e le cui esperienze hanno
rappresentato un contributo fondamentale alla stesura di questo testo.

Si ringrazia inoltre in particolare la componente Edinfodoc del progetto PRODERE (Programa para
Desplazados, Refugiados e Repatriados de Centro America) per avere fornito i suoi materiali di lavoro.
Siamo inoltre grati agli esperti del programma PRODERE che hanno partecipato alle attività che sono
state realizzate in Centro America utilizzando le mappe. Ciò che fa di questa una esperienza particolare
consiste nel fatto che il metodo è stato utilizzato in una situazione, quella del Centro America, in cui le
emergenze naturali - terremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni, etc - si combinano con disastri provocati
dall'uomo - guerre, spostamenti di massa delle popolazioni.

Si è trattato di una situazione estrema che ha reso possibile testare la possibilità di adattare il metodo ai
diversi tipi di emergenza, potenziali o realmente esistenti, nell'ambito della Regione. I risultati ottenuti
utilizzando le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse in questo tipo di contesto forniscono il
materiale per un riesame critico di alcuni dei modelli teorici ed operativi che riguardano le emergenze.

Si ringrazia per la costante collaborazione, la consulenza tecnica e la supervisione il Centro
Collaborativo Oms/Dgcs di Roma e l'ufficio Oms di Roma per le Emergenze.

Hanno partecipato alla realizzazione del testo: Kim Assael, Giuseppe Orefice e Sergio Trippodo per la
stesura del testo.

Annina Lubbock per la traduzione e l'editing; Emanuele Giordana per la consulenza editoriale generale;
Roberto Pavan per la grafica.

Questo lavoro è stato prodotto all'interno del progetto D.A.R.E. (Development of Appropriate Response
for Emergencies) affidato al C.I.R.I. (Centro Internazionale di Ricerche Intervento) per conto
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/ERO/EPP) sotto la supervisione tecnica del Centro
Collaborativo OMS/DGCS di Roma.

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INTRODUZIONE

La realizzazione per tutti i cittadini del mondo di un livello di salute che permetta loro di avere una vita
socialmente ed economicamente produttiva è l'obiettivo che l'Organizzazione Mondiale della Sanità si è
posta entro l'anno duemila. Questo è il significato dello slogan "Salute per tutti"

Secondo l'Oms il raggiungimento di un soddisfacente livello di salute non può prescindere da un
intervento globale sui problemi dello sviluppo, del lavoro, dell'integrazione e dell'assistenza sociale.
L'Oms ha infatti raccomandato che si deve operare non solo negli ambiti tradizionalmente propri della
salute ma in tutti quelli che possono giocare un ruolo importante al fine di migliorare lo standard di vita e
di salute della gente.

Per tale motivo nei testi presentati in questa collana in cui si tratta il tema della preparazione e della
risposta alle emergenze (che sono un problema nel quale la salute occupa un posto prioritario), non
troverete per forza riferimenti espliciti alla medicina in senso stretto: vi troverete piuttosto il continuo
riferimento alla partecipazione delle comunità e a tecniche e strumenti che possono stimolarla.

Le esperienze riportate in questi testi si riferiscono a una serie di situazioni di emergenza nelle quali
queste tecniche sono state utilizzate (El Salvador, Colombia, Filippine, Bangladesh, Mozambico, Italia
etc.). In molti casi queste particolari forme e tecniche d'intervento sul campo si sono dimostrate efficaci
per promuovere soprattutto una effettiva partecipazione della popolazione e per aiutare gli operatori dei
servizi di base nella messa a punto dei programmi di preparazione delle comunità alle catastrofi

LA PARTECIPAZIONE COMUNITARIA. PERCHE'?

Chi lavora nel campo dell'emergenza attribuisce attualmente una notevole importanza ai programmi di
preparazione e organizzazione delle comunità locali. Questa tendenza nasce da varie esperienze di
intervento post-catastrofe e dalla valutazione dei limiti dei sistemi di protezione civile i quali risultano di
maggiore efficienza ed efficacia, non tanto per l`utilizzo di attrezzature e tecnologie d`avanguardia,
quanto piuttosto per il ruolo attivo che sono in grado di svolgere le popolazioni locali prima e dopo le
catastrofi.

L'osservazione di ciò che accade quando una comunità viene colpita da un terremoto, da un uragano o da
una qualsiasi altra calamità ha dimostrato che, dopo un primo momento di disorientamento e confusione,
la gente si attiva per soccorrere ed aiutare la propria famiglia, gli amici, i vicini; supera con facilità anche
le resistenze poste dalle barriere sociali e culturali che in altri momenti appaiono insormontabili. Risolve
una quantità enorme di problemi con le proprie forze, con i mezzi e le risorse a disposizione.

Si riesce così a salvare un alto numero di vite umane nelle prime ore dopo l'impatto (e prima dell'arrivo
dei soccorsi esterni) e ad affrontare i numerosi problemi di sopravvivenza e salute posti dall'emergenza.

Inoltre, si ritrovano ad operare insieme persone di differenti strati sociali, ognuno con proprie risorse e
capacità diverse che, collaborando, abbandonano gli atteggiamenti ostili e quella conflittualità che fino a
quel momento marcava i loro rapporti: ciascuno ritrova un ruolo e una funzione: le donne al fianco degli
uomini ad occuparsi di lavori pesanti; i bambini con la loro agilità e capacità di muoversi nel territorio
che supera ogni ostacolo materiale; la gente in generale che si rende disponibile ad assumersi anche
grosse responsabilità per collaborare con i diversi gruppi di lavoro.

Questa energia se viene organizzata rappresenta una risorsa che può essere utilizzata preventivamente: la
pianificazione preventiva degli interventi servirà a ridurre l'impatto dell'evento catastrofico e ad

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organizzare le attività di risposta e servirà al contempo anche a migliorare le condizioni di vita della
gente.

I COMITATI LOCALI

L'organizzazione di queste attività ha condotto alla costituzione di Comitati locali, articolati in gruppi di
lavoro territoriali, a cui partecipano amministratori locali, operatori dei servizi di base, del volontariato e
delle istituzioni sociali, e quanti altri sono disponibili e capaci di rispondere velocemente ed in modo
efficace ai bisogni urgenti posti dalla situazione di emergenza.

Tutte persone che conoscono da sempre il proprio territorio di appartenenza, la gente, le usanze
specifiche e le risorse (sia quelle potenziali che quelle effettivamente già a disposizione).
Inoltre, proprio la presenza di soggetti istituzionali, accanto ai rappresentanti delle comunità, garantisce
uno scambio di informazioni e una vera e propria contrattazione (potremmo dire un micro negoziato) che
ha l'obiettivo di pianificare gli interventi finalizzandoli ad essere un servizio reale nei confronti dei
beneficiari.

Dunque da un lato si tratta di facilitare l'emergere delle straordinarie capacità di reazione ai disastri delle
comunità locali, di mobilitare grosse risorse umane e professionali che in tempi normali invece sono
nascoste: un grosso potenziale inutilizzato. Dall'altro, si tratta di migliorare e sostenere queste capacità e
queste risorse per meglio poter affrontare e ridurre il grado di vulnerabilità e di rischio presenti nelle
condizioni di vita quotidiane della popolazione locale.

Tali attività dovrebbero anche cercare di riprodurre il clima positivo di relazioni sociali così come
emergono nelle situazioni di catastrofe, relazioni che sono il fondamento di un'organizzazione della
comunità più vicina ai problemi e ai bisogni della gente.

Di qui l'utilità di ricorrere a tecniche di partecipazione popolare che consentano un coinvolgimento attivo
dei diretti interessati nell'identificazione dei propri bisogni, nella scelta delle risposte più appropriate e
nella gestione delle risorse.

Fondamentale nella pianificazione delle attività dovrà comunque essere l'obiettivo finale: quello cioè di
poter poi concretamente risolvere i problemi che emergono. La creazione di un comitato locale, così
come la coscienza dei bisogni collettivi, crea una serie di aspettative che non devono rimanere deluse. E'
sempre necessario infatti che le risorse necessarie alla realizzazione delle risposte individuate esistano
realmente e siano accessibili, si tratti di fondi nazionali come di aiuti della cooperazione internazionale.
Sarà poi il comitato locale la sede negoziale idonea a "contrattare" le risorse ma ciò può avvenire solo
nel momento queste esistano realmente.

LE TECNICHE DI PARTECIPAZIONE COMUNITARIA

Per realizzare dunque obiettivi realmente utili alla comunità, ma anche per rendere manifesti bisogni e
risorse, può essere vantaggioso usare degli strumenti, delle "tecniche" che l'esperienza ci ha insegnato e
che sono l'oggetto di questa collana.

Se in un piccolo villaggio chiediamo alla comunità di disegnare assieme una mappa dei rischi e
invitiamo la gente a farlo scendendo nelle strade, stimoliamo un processo che alla fine mette in luce i
problemi reali: la buca davanti a casa di Pedro è sempre stata un suo problema ma in realtà è un
problema anche per i figli di Juan che abita due porte accanto e anche per il vecchio padre di Francisca
che l'altro ieri ci è inciampato. Il lavoro della costruzione della mappa mette in moto delle energie

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positive: positive perchè oltre a individuare il problema ne suggerisce evidentemente la soluzione
(tappare quel buco). La mappa dei rischi non è dunque da pensarsi come un prodotto tecnico di
cartografia: un geometra saprebbe farlo molto meglio. Ciò che interessa non è tanto quel colorato pezzo
di carta finale. Ciò che è importante è il processo scatenato da questa semplice operazione: una
liberazione di energie propositive che una classica assemblea non avrebbe risolto.

La costruzione di un romanzo fotografico ha per effetto finale una storia per immagini divertente ma è il
processo che l'avrà costruita la cosa che ci interessa di più. Nel costruire la sceneggiatura, la gente della
comunità avrà ripensato (anche attraverso un processo doloroso) al suo passato ma vi avrà trovato anche
il dato positivo della solidarietà che sempre si scatena a ridosso di una emergenza. Una solidarietà che
corre il rischio di diventare fatalismo solo se abbandonata a se' stessa ma non se, attraverso un processo
di rielaborazione di quanto avvenne dopo l'arrivo di quel famoso tifone, la comunità avrà trovato le
energie per preparasi a rispondere meglio alla prossima calamità.

Naturalmente, ed è bene ribadirlo, ha un senso portare alla luce bisogni e necessità solo se si è in grado di
dare delle risposte, se si è in grado cioè di usufruire delle risorse necessarie a fornire una soluzione
appropriata. E' questo il compito principale dei comitati locali che queste risorse deve individuare, gestire
e negoziare.

PREPARARSI ASSIEME

Le tecniche presentate in questi volumi si propongono di essere d'aiuto al lavoro di pianificazione alle
emergenze a livello locale e questo non è altro che la pianificazione allo sviluppo integrato della
comunità nella prospettiva dell'evento straordinario. Questo lavoro si riduce, fondamentalmente, alla
identificazione dei bisogni e dei problemi da risolvere, delle risorse materiali ed umane utilizzabili, nella
priorizzazione delle attività da intraprendere, nonchè nel loro coordinamento e nella valutazione costante
del lavoro.

Responsabili di questo processo dovrebbero essere dei Comitati locali di emergenza composti da autorità
governative locali, associazioni, gruppi omogenei, volontari, operatori sociali e rappresentanti delle
diverse forme organizzative della comunità. Questi comitati sono l'espressione della partecipazione della
comunità: rappresentano cioè il forum dialettico fra istituzioni locali e comunità, fra tecnici e
popolazione, tra i servizi e chi ne fruisce. Ed è internamente al lavoro di questi comitati che, come
strumento di pianificazione, si colloca l'utilizzo degli strumenti e delle esperienze che presentiamo.

In sostanza le "tecniche di partecipazione comunitaria", siano esse una mappa dei rischi o la costruzione
di una sceneggiatura per un racconto fotografico, sono strumenti il cui obiettivo è far crescere la
coscienza dei bisogni e la maniera per risolverli attraverso le risorse disponibili. In una parola portano
alla luce le necessità della comunità proprio perchè queste diventino il binario su cui possa muoversi il
comitato locale di emergenza. Ma queste tecniche sono anche situazioni organizzative nelle quali le
attività rappresentano già momenti di pianificazione: momenti cioè di scoperta delle soluzioni da
proporre al tavolo negoziale e che creano il clima nel quale il negoziato tra utente e istituzione, tra
popolazione e tecnici, si può svolgere positivamente.

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A CHI SI RIVOLGE IL MANUALE

La "Guida per la realizzazione delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse" illustra una delle
molteplici tecniche di partecipazione comunitaria. Si rivolge a tutti gli operatori di base dei diversi
servizi sociali che intendono stimolare l'organizzazione della comunità sul tema della preparazione alle
emergenze e risposta alle catastrofi naturali.

Si rivolge a maestri ed insegnanti, a medici e infermieri, ai tecnici dell'ambiente, agli animatori di
comunità Si rivolge anche alle persone ed ai gruppi che costituiscono l'organizzazione formale ed
informale della comunità, le persone cioè che fanno parte dei Comitati Locali per le Emergenze e a tutti
coloro che a livello locale ed internazionale, ONG, Associazioni di volontariato, etc., si assumono
l'impegno di migliorare l'organizzazione della comunità attraverso tecniche che ampliano lo spazio di
espressione della molteplicità dei suoi bisogni.

Questa Guida illustra la metodologia e le diverse tappe di realizzazione delle mappe. Si tratta di un
metodo che è stato sviluppato sulla base di esperienze pratiche sul campo. Opportunamente riadattato
alle specifiche situazioni locali, il metodo si presta ad essere riprodotto in contesti diversi. Le mappe
possono costituire un utile strumento didattico anche per studenti il cui programma di studio includa il
tema dell'organizzazione comunitaria e che realizzino il tirocinio pratico nell'ambito della comunità
locale.

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CHE COSA E' UNA MAPPA COMUNITARIA DEI BISOGNI E DELLE RISORSE?

Le mappe comunitarie dei bisogni non vanno confuse con la cartografia specialistica di tipo tematico o
generale territoriale. Rispetto ad esse sono qualitativamente più arricchite, ma non sostitutive.

Le mappe costituiscono una tecnica di partecipazione comunitaria orientata alla ricerca della migliore
qualità possibile nelle risposte ai bisogni di una popolazione. Ed è esattamente questo che viene messo
in discussione nel momento in cui si verifica una catastrofe.

Il metodo delle mappe comunitarie dei bisogni consiste nella trasposizione grafica (sotto forma di figure,
tabelle, schemi e mappe corrispondenti alle aree nelle quali hanno lavorato gruppi della comunità) dei
bisogni più urgenti che sono stati identificati, dei fattori di rischio, dei pericoli per la sopravvivenza e la
salute ed, infine, delle soluzioni più adeguate.

Anche se sono state spesso utilizzate per integrare il lavoro di mappatura di un territorio fatto dai tecnici,
le mappe comunitarie dei bisogni si differenziano dalla cartografia tematica perchè sono un metodo per il
coinvolgimento e la mobilitazione dei diretti interessati nella scelta e nella realizzazione delle soluzioni
ai problemi presenti nella comunità.

Il processo che si attiva, infatti, non è una convalida consensuale delle analisi dei rischi e dei bisogni
eseguite con metodologie "oggettive" e integrate dagli elementi tratti dalla percezione del pericolo e del
rischio della popolazione locale.

Si tratta di un processo attraverso il quale competenze e saperi diversi (di comunità locali, istituzioni,
tecnici, enti pubblici o privati, ecc.) convergano e concorrano alla definizione di obbiettivi comuni
attraverso un processo di negoziato collettivo.

Nelle comunità che hanno subìto un disastro il metodo delle mappe comunitarie dei bisogni e delle
risorse costituisce un sistema efficace per aiutare la comunità a riprendersi e per riattivare il meccanismo
di sviluppo. In molti casi ciò significa lavorare con comunità che vivono in zone dove i disastri si
possono ripetere. Quindi, il metodo costituisce uno strumento utile per analizzare, insieme alla
popolazione, ciò che è avvenuto durante il disastro e per identificare ciò che occorre fare per essere più
preparati ad affrontare un'eventuale altra emergenza. Inoltre, il metodo mette in atto un processo di
partecipazione comunitaria in cui le persone apprendono a formulare un piano di azione e a lavorare
insieme in modo organizzato, cosa che riveste una importanza fondamentale in caso di disastri.

Il metodo concorre alla creazione di un sistema collettivo di conoscenze e azioni che ha come scopo
quello di permettere alla comunità di assumere un ruolo attivo di fronte alle catastrofi. Spesso la
terminologia della "partecipazione comunitaria" viene utilizzata esclusivamente allo scopo di ottenere il
consenso riguardo ad un piano di azione precostituito. Con questo metodo la pertecipazione diventa
operativa. Rivela in quale modo il malessere ed il disagio vengono percepiti dalla popolazione ed in
particolare dai gruppi più svantaggiati e vulnerabili. Sono proprio questi i gruppi che si impegnano in
modo più attivo nel processo: donne, bambini, anziani, persone con particolari difficoltà in campo
sociale, fisico e psicologico. E sono spesso loro che riescono, con la collaborazione degli operatori
sociali e sanitari, a coinvolgere gradulamente anche il resto della comunità.

Il metodo delle mappe comunitarie aiuta anche a migliorare il rapporto fra la comunità, i servizi pubblici
e le istituzioni.

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Un tratto caratteristico del metodo consiste nel rilievo dato alla qualità della soddisfazione dei bisogni ed
all'importanza di comprendere le caratteristiche specifiche di ciascuna comunità ed il modo in cui
reagisce di fronte al disastro o all'emergenza.

Nelle esperienze realizzate attraverso l'uso delle mappe dei bisogni abbiamo scoperto che dietro alla
parola "emergenza" si nascondono significati complessi che variano da una comunità all'altra. Per
definire ciò che significa 'emergenza' per una determinata comunità occorre considerare in che modo si
manifestano e si rendono acute, in caso di disastri, le contraddizioni sociali, economiche e territoriali.
Occorre comprendere i fattori che sono alla base di ciascun rischio specifico nella vita quotidiana della
comunità.

La Guida si articola in tre Parti.

La Prima parte è costituita dal racconto di quattro esperienze di uso delle mappe. La scelta del metodo
"induttivo" (iniziare da un fatto e non da una premessa teorica) non è casuale: si è preferito partire dalle
esperienze dirette proprio perchè è da queste che è nata e si è sviluppata la tecnica delle mappe dei
bisogni.

Le prime due esperienze si riferiscono al terremoto del novembre 1980 in Italia ed è qui che il metodo è
stato usato per la prima volta. Successivamente questa tecnica è stata conosciuta e utilizzata nei paesi
dell'America Latina (dove ha ottenuto ottimi risultati ed è tutt'ora in fase di sperimentazione) e in
numerosi altri programmi di cooperazione internazionale (in Mali, nelle Filippine, etc.)

La Seconda parte illustra i principi generali su cui si basa il metodo.

La Terza parte illustra le fasi in cui si articola la stesura delle mappe.

Alla fine, è allegata una scheda di auto-valutazione come strumento per analizzare le attività in corso.

Infine va detto che, dal momento che il metodo viene presentato qui per la prima volta in forma
sistematica, è soggetto alla discussione ed al confronto.

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PARTE PRIMA

Come si realizzano le mappe comunitarie dei bisogni: quattro studi di caso

Per fornire un saggio dei molteplici modi di applicazione della tecnica delle mappe comunitarie dei
bisogni e delle risorse sono stati scelti quattro racconti tratti da esperienze di operatori locali. I diversi
contesti geografici, politici ed economici in cui si sono svolti i programmi mostrano la grande duttilità
delle mappe comunitarie e la loro peculiarità di agire sempre nel rispetto delle culture locali.

Da una parte vengono narrati i progetti pilota di Polla e Giugliano, due centri della Campania, colpiti dal
terremoto del novembre 1980. Si tratta in entrambi i casi di situazioni di post-emergenza e di
ricostruzione in un Paese industrializzato, ma in una regione su cui gravano gli squilibri economici
caratteristici del Mezzogiorno.

Dall'altra, viene raccontata l'applicazione della stessa metodologia in due Paesi in via di sviluppo: El
Salvador e Colombia.

Il Salvador, una zona di guerra in cui il piano di intervento ha subìto interruzioni e rallentamenti a causa
del conflitto tra le forze governative e quelle della guerriglia, pur riuscendo ad avere una certa continuità.
La Colombia, dove vige una politica di forte centralizzazione governativa, durante l'emergenza per
l'eruzione del vulcano Nevado del Ruiz, avvenuta nel novembre 1985. Un contesto in cui la povertà e la
guerriglia spingono a un continuo esodo dalle campagne, causando un processo di massiccia
urbanizzazione.

Nei due esempi italiani, uno riguardante soprattutto l'infanzia e l'altro le comunità di anziani, la tecnica di
partecipazione comunitaria ha permesso di superare la radicata diffidenza della popolazione locale nei
confronti delle istituzioni. Il caso salvadoregno e quello colombiano, invece, mostrano l'efficacia di tale
tecnica anche in condizioni politiche particolarmente difficili.

Il materiale qui di seguito esposto è una sintesi dei resoconti e dei rapporti di missione scritti dagli
operatori che hanno preso parte ai vari progetti.

Diario di un operatore socio-sanitario di base del Centro di Medicina Sociale di Giugliano - Napoli
(Italia)

Sono passati ormai quasi due anni da quando ho cominciato a lavorare in questa scuola di Giugliano, con
i ragazzi di una IV elementare. La fine dell'anno scolastico si avvicina rapidamente e sono molte le
osservazioni da fare. Tanto per cominciare non mi va l'idea di lasciare i ragazzi; li conosco uno per uno,
abbiamo sempre lavorato insieme, anche in modo divertente, instaurando una reale collaborazione.
Questo mi assicura che i risultati raggiunti riusciranno ad avere seguito nel tempo.

Ho pensato di riassumere le attività a mio avviso più significative per lasciare una traccia a chi
continuerà il lavoro dopo di me. Per sapere, invece, ciò che significa un lavoro di questo tipo, credo che
basterà semplicemente conoscere i ragazzi, saperli ascoltare con disponibilità, senza preconcetti.

Quando ho cominciato le attività nella scuola, il terremoto del novembre del 1980 si era appena
abbattuto su una popolazione rurale già estremamente povera ed emarginata, rendendo più drammatici e
acuti i problemi quotidiani della gente. Sono stato chiamato dall'Amministrazione scolastica per un

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intervento specialistico di tipo psichiatrico: c'era una richiesta ossessiva di tecniche didattiche e interventi
di questo tipo.

Bisogna però dire che i ragazzi facevano molta fatica a lavorare, a seguire gli insegnanti, a socializzare
fra di loro, a comunicare con i genitori. Il loro disadattamento scolastico e sociale si manifestava con
ritardi di apprendimento e disturbi motori di vario genere. Certo, i medici del posto dedicavano forse
maggiori attenzioni a qualche bambino in particolare, ma solo nel senso che avevano a disposizione dei
medicinali specifici in caso di bisogno improvviso.

In seguito al terremoto, a questa complessa realtà quotidiana si sono aggiunti altri problemi. I bambini
avevano paura, non dormivano per gli incubi, ma soprattutto prevaleva un forte senso di smarrimento e
scoraggiamento di fronte al fatto di dover ricominciare qualsiasi tipo di attività. Provavano disagio
anche per la mancanza di un loro spazio. Dal momento che gran parte delle aule erano andate distrutte,
una stessa stanza doveva ospitare tre classi insieme e i bambini erano aggressivi fra di loro, gelosi di uno
spazio troppo ristretto.

Emergenze come queste spezzano all'improvviso ogni continuità con il passato, con la vita quotidiana, e
sviluppano una fatalistica passività verso il futuro. Gli insegnanti, dal canto loro, troppo preoccupati di
dover finire i programmi entro l'anno, non riuscivano a capire il perché di tanta resistenza allo studio.
Così, i genitori (quasi tutti braccianti agricoli, con famiglie numerose a carico), richiesero
insistentemente un tipo d'intervento psichiatrico, specialistico.

Appena arrivato nella classe, al di là degli specifici problemi di ognuno, ho identificato una costante
comune tra i bambini: tutti esprimevano, appena era possibile, il loro bisogno di giocare. Allora ho
proposto agli insegnanti un tipo di lavoro che non li escludesse dalle decisioni che li riguardavano, un
lavoro che prevedesse il loro contributo come fonte d'informazione diretta e, chissà, forse anche molto
più attendibile.

Si trattava di costruire e disegnare insieme una mappa dei giochi che preferivano fare e dei luoghi in cui
solitamente giocavano. Se non altro era un tema che poteva essere condiviso da tutti e forniva una prima
risposta concreta al problema che essi stessi avevano fatto emergere.

Questa scelta, in qualche modo critica rispetto ai tradizionali approcci pedagogici e ai modelli proposti
dall'istituzione educativa, è servita a stabilire un ampio margine di collaborazione, intesa e complicità, sia
con i ragazzi che con gli insegnanti.

Per limitare il senso di smarrimento rispetto a un ambiente fortemente modificato dal sisma, abbiamo
fatto ricorso alla stimolazione della memoria e dei ricordi più piacevoli: quelli risalenti al periodo pre-
sismico.

La classe è stata divisa in piccoli gruppi di lavoro e i ragazzi hanno cominciato a ricostruire
mentalmente e a disegnare le prime mappe del loro quartiere, con le strade, i palazzi e i posti in cui
preferivano giocare. Questa prima fase di attività è stata importante anche perché, grazie ai gruppi, gli
alunni hanno socializzato e si sono confrontati, hanno suddiviso i propri compiti secondo un preciso
piano di lavoro e hanno scelto un coordinatore.

Purtroppo però, i gruppi di lavoro, anche se omogenei, non esprimevano fino in fondo dei bisogni
concreti e la percezione del loro spazio mutato, estraneo, rimaneva ciò nonostante molto forte.

Abbiamo cercato allora una vantaggiosa variazione alla "situazione di classe", organizzando piccole
uscite di perlustrazione del quartiere per verificare la realtà di ciò che si erano sforzati di ricostruire

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mentalmente, per discutere e intervistare altri abitanti del quartiere, i lavoratori delle zone visitate,
trattando in genere argomenti che erano allo studio.

Il metodo che si è pensato di utilizzare, durante questa seconda fase di attività, implicava l'uso di mezzi
di comunicazione audio-visivi e grafici che potevano stimolare maggiormente la loro espressività,
creatività e immaginazione, anche perché il bambino normalmente tende a cogliere più l'insieme che le
singole parti, riuscendo a identificare problemi e soluzioni ben differenti da quelli indicati dagli adulti.

Così, con macchine fotografiche, registratori, materiali da disegno, blocchi per appunti, hanno studiato e
individuato situazioni da valorizzare e trasformare secondo le idee, i desideri e i bisogni che ognuno
voleva soddisfare. Hanno fotografato ciò che per loro era più interessante (architetture di palazzi, spazi
abbandonati, strade, ecc.), hanno annotato sensazioni ed emozioni.

Fuori dall'aula e da una situazione di classe "standard", i bambini sono diventati più autonomi e riflessivi,
riuscendo finalmente a esprimersi liberamente.

Non era solo lo sforzo di ricominciare da capo e di reagire, organizzati insieme, a una catastrofe; non era
solo la soddisfazione nostra, degli insegnanti o dei genitori (che avevamo deciso di far partecipare alle
investigazioni nel quartiere) di averli finalmente visti al lavoro con blocco e penna per gli appunti, seri,
responsabili e motivati ad andare a scuola. Il risultato più importante fù che la mappa realizzata
rappresentava un sapere nuovo, elaborato grazie alla partecipazione della comunità intera che aveva in
un modo o nell'altro contribuito alla sua realizzazione. Rappresentava un tentativo di trovare la migliore
qualità possibile di risposte ai loro bisogni.

Dalle visite sul campo era infatti emerso, relativamente alla questione "gioco" posta dai bambini, un
cosiddetto rischio sociale e ambientale: una forte esiguità di spazi verdi di uso collettivo, una moltitudine
di zone polverose e semi-abbandonate in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, solo pochi cortili o
recinti di alcune case private dei più fortunati per giocare.

Tornati in classe, i ragazzi hanno quindi integrato le prime mappe disegnate con le fotografie e gli
appunti presi sul posto. Ne abbiamo discusso collettivamente, chiamando a partecipare sia i genitori che
altre persone esterne alla scuola: anziani, artigiani e operai che, in qualità di "esperti", hanno contribuito
con il loro sapere all'approfondimento dei temi volta per volta affrontati.

Ci è sembrato opportuno salvaguardare in qualche modo la cultura locale come patrimonio specifico di
idee, sapere, conoscenze, anche e soprattutto in un momento in cui invece appariva chiara la necessità di
"saper fare". E' stato facile poi trovarsi, forse per la prima volta grandi e piccoli insieme, esperti e non, a
discutere tutti intorno alla mappa per cercare di trovare le priorità da affrontare e gli interlocutori
(tecnici dei servizi, rappresentanti istituzionali, associazioni specialistiche, organizzazioni sindacali, ecc.)
con cui mantenere relazioni e collaborare per delle concrete attività di trasformazione.

E' certo che la tecnica delle mappe comunitarie dei bisogni non può, da sola, far fronte a emergenze
come quella del terremoto. Tuttavia, la flessibilità della sua applicazione fornisce all'intera comunità un
utilissimo strumento di analisi e di pianificazione. Il risultato finale di una mappa, infatti, non consiste
esclusivamente nell'evidenziazione dei bisogni più disparati della popolazione locale, ma anche nel
trovare i mezzi e il modo per soddisfarli con il migliore impiego di risorse.

La lezione di Vincenzina, Comune di Polla, quartiere il Serrone - Salerno (Italia)

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L'emergenza creatasi in seguito al sisma del 23 novembre 1980 ha investito tutta l'area campana ed in
particolar modo quelle zone rurali, socialmente più emarginate e arretrate come appunto il Comune di
Polla. Mi sono recato sul posto immediatamente in qualità di esperto in urbanistica. Facevo parte di una
piccola équipe di specialisti (chi del settore socio-sanitario, chi di quello educativo, ecc.).

Il terremoto aveva causato danni ingentissimi alle persone e al territorio: più di duemila senza tetto,
secondo quanto ci avevano detto con approssimazione; tutto il centro storico (di cui il quartiere Serrone
fa parte) era gravemente danneggiato e andava ricostruito, ma l'inaccessibilità ai veicoli e la rigida
stagione invernale rendevano molto difficoltoso il nostro intervento.

Il Serrone è un vecchio paese arroccato in cima a una montagna; è possibile raggiungerlo per una strada
stretta e tortuosa che si arrampica in salita, a senso unico, fino ad arrivare in cima a un crinale. Da lassù
lo sguardo può spaziare su tutta la vallata. Quando siamo arrivati in cima era poco dopo l'alba; subito
dietro la porta del paese ci siamo fermati, nell'aria pungente del mattino, ad aspettare il Sindaco.

L'appuntamento era nella piazza principale che era, in realtà, solo un piccolo slargo. Le case intorno,
dipinte di rosa dai raggi del sole che sorgeva, erano assiepate l'una sull'altra, quasi a testimoniare l'antica
solidarietà che lega da sempre gli abitanti.

Si poteva vedere ancora l'architettura tipica dei borghi medioevali, ma molte case erano gravemente
danneggiate e pericolanti. L'Amministrazione del comune di Polla ci aveva chiamati, in qualità di tecnici
esperti, per una stima particolareggiata dei danni, dal momento che la cittadinanza, soprattutto gli
abitanti più anziani del Serrone, non volevano accettare l'ordinanza di sgombero di quelle case ritenute
più pericolanti. Durante l'incontro, il Sindaco ci ha parlò a lungo della sua gente: degli anziani che
abitavano il Serrone da sempre, che lo avevano costruito e mantenuto con fatica e che adesso si
rifiutavano categoricamente di lasciare le loro case e la loro terra per andare a stare nei caravan
provvisoriamente installati.

Tutte le persone che incontravamo si aggiravano per le strade dato che due mesi dopo la catastrofe
ancora nessuna attività era ripresa normalmente. Successivamente andammo a vedere la scuola perché ci
era stata promessa un'aula per poter tenere le riunioni e organizzare l'intervento. Ma non solo l'aula, bensì
l'intera scuola era completamente vuota. In ogni modo ci siamo riuniti lì con gli amministratori comunali,
i tecnici locali e parte della popolazione, per discutere gli obiettivi del progetto, i compiti di ciascun
tecnico, ma soprattutto per decidere con la gente le iniziative da prendere e prendere quindi accordi sulle
attività.

A loro modo gli abitanti del quartiere si erano già organizzati: molti si erano sistemati nelle case meno
danneggiate, cercando di ricostituire in qualche modo dei nuclei familiari e di evitare che molti dei
giovani, rassegnati, andassero via. In ogni modo si era sviluppata una forte solidarietà nei confronti di
tutti.

Terminato l'incontro, finalmente ci siamo sistemati per dormire lì la prima notte. Molte ore più tardi
ancora riflettevo su questa prima giornata. La riunione appena terminata era stata un disastro e
ripensavo all'amministratore comunale che poco prima, con una pacca sulla spalla, mi aveva salutato
soddisfatto. Era contento -diceva -che tutti fossero stati ad ascoltare ed era sicuro che la situazione si
sarebbe presto sbloccata. Invece io sentivo ancora quel pesante silenzio intorno a me, rivedevo quegli
occhi ostili, fermamente convinti di non arrendersi mai.

Pensavo che la riunione era stata quasi una farsa, una pura e semplice richiesta di consenso da parte della
popolazione. E poi mi chiedevo delle sorti di tutti quei bambini di cui nella scuola non c'era traccia.
Come avremmo fatto a eliminare la forte sfiducia e i timori che la gente manifestava di fronte a un
"progetto di ricostruzione del quartiere"? Il nostro obiettivo appariva ai loro occhi un'altra delle tante

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promesse ufficiali raramente mantenute, che avrebbe comportato tempi lunghissimi e interventi rallentati
da modalità burocratiche troppo complesse.

L'indomani mattina ancora non sapevamo come comportarci. Soprattutto non eravamo convinti delle
richieste del comune e del "consenso" della popolazione. Il Sindaco, mentre ci parlava della sua gente,
non sembrava fatalisticamente rassegnato. Anche lui, forse, era nascostamente fiducioso di poter
risolvere la questione altrimenti.

Comunque, usciti appena fuori del paese, incontrammo un gruppo di bambini e ragazzi che parlava con
una una signora. Era una donna di mezza età, piccola, pacata, apparentemente insignificante, che invece
era sempre ascoltata da tutti. Un'altra volta,
infatti, l'abbiamo vista intenta a convincere un responsabile del comune perchè voleva ottenere il
permesso scritto di liberare dai rifiuti i canali di scolo delle acque piovane che ogni inverno invadevano
le case. Un'altra volta ancora discuteva con degli anziani fuori dal bar del paese sui servizi sanitari che
non funzionavano. Anche quella volta tentava di convincerli che sarebbe stato più giusto organizzarsi
autonomamente per gestirli e che forse così anche i giovani sarebbero stati più motivati a restare.

Avevo notato insomma che Vincenzina, pazientemente ma con pervicacia, veniva ascoltata dalla gente,
soprattutto in quei momenti in cui le voci si sovrapponevano nei concitati tentativi di trovare le soluzioni
ai problemi più immediati. Inaspettatamente Vincenzina mi dava l'indicazione dell'approccio giusto: in
effetti esistevano già dei gruppi spontanei di popolazione che si organizzavano a modo loro. Su questa
base potevamo instaurare uno stretto rapporto di collaborazione in cui le nostre diverse qualifiche
tecniche sarebbero servite soprattutto come consigli specifici.

Vincenzina conosceva le persone più indicate a cui rivolgerci. Così ci riunimmo ancora una volta nella
scuola, questa volta con persone selezionate della popolazione locale e con Vincenzina come portavoce e
coordinatrice.

L'esperta del settore educativo collaborò con lei affinché all'incontro partecipassero anche quei ragazzi
renitenti che, però, stavano ad ascoltarla. Volevamo stabilire con la popolazione il progetto di
ricostruzione. Un piano di ricostruzione che non partisse più dal quartiere nel suo insieme, bensì dalle
singole case di ognuno. Dai problemi quotidiani di tutti a cui, adesso, si aggiungevano quelli causati dal
terremoto.

Vista la stagione così inflessibile, le prime richieste riguardavano tutte la ricostruzione immediata dei
tetti. Anche se la richiesta era illogica, dal momento che non potevamo far riparare i tetti o costruirli
senza aver previamente fatto restaurare i muri o le fondamenta, l'accettammo ugualmente. Infatti, se dalle
prime riunioni emergeva disinteresse di fronte a un piano di ricostruzione generale del quartiere, adesso
si dava a ogni proprietario di casa la possibilità di proporre lui stesso un piano di ricostruzione della
propria, secondo le sue esigenze specifiche e i suoi bisogni.

Contemporaneamente cominciammo a fare i primi rilevamenti e a prendere le misure delle singole case.
A questa fase delle attività hanno partecipato in molti e anche con grande entusiasmo.

Noi lavoravamo insieme ai ragazzi che riscoprivano il valore architettonico delle costruzioni più antiche.
Vincenzina e i bambini più piccoli, invece, aiutavano gli anziani che erano in pensione. Mentre
lavoravano, i piccoli ascoltavano con grande attenzione gli anziani che narravano le storie più belle del
quartiere, di quando loro non erano ancora nati. Imparavano molto e, nei momenti di pausa, correvano
dai genitori, impazienti di raccontare le loro nuove scoperte. Poi tornavano da noi con pasti cucinati o
con delle merendine che prendevano nelle case, e insieme continuavamo a lavorare in modo allegro e
molto piacevole. Il risultato di tutto questo sono state le prime mappe delle case, da cui emergevano con
chiarezza alcuni bisogni, ma anche e soprattutto la mancanza di risorse istituzionali per risolverli.

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Nonostante il coinvolgimento di numerose persone e la grande animazione sociale che si era creata così
facilmente, sapevamo che, altrettanto facilmente, si sarebbe diffuso fra la gente uno scoraggiamento
ancora maggiore e quel fatalismo passivo che sorge di fronte al fatto di veder enumerati in una lunga lista
tutti i problemi, se non si fosse potuto contare su chi aveva il potere istituzionale di prendere le decisioni
effetive, operative.

Noi stavamo collaborando con la popolazone, inseriti ormai in essa, e dovevamo cercare un modo per
accorciare l'enorme distanza che la separava dall'ambito istituzionale. Ci preoccupammo allora di
diffondere in tutta la zona informazioni dettagliate sulle attività che stavamo facendo, dimostrando che la
gente del posto stava mettendo a disposizione le risorse di tutti, bambini compresi, per soddisfare
l'interesse comune.

Questo bastò a coinvolgere nuovi interlocutori che arrivarono, incuriositi, da altre parti di Polla. Venne
anche la TV locale a documentare le attività. Il Serrone era ormai il centro dell'interesse di tutta la zona,
(spazio istituzionale compreso). Inoltre, questa scelta fu di primaria importanza per coinvolgere le
istituzioni e ottenere l'intervento sul posto di studenti di architettura francesi che presero
immediatamente parte ai lavori.

L'obiettivo era duplice: da un lato gli abitanti del quartiere potevano sentirsi più rafforzati dal fatto che
enti, organizzazioni, o apparati istituzionali competenti stranieri si interessassero attivamente a loro
quando nemmeno la stessa Amministrazione del comune di Polla lo faceva, e continuavano quindi a
collaborare. Dall'altro, si trattava di un elemento di ulteriore rivalutazione dei valori socio-culturali del
posto. Questa accortezza, apparentemente insignificante, ha facilitato l'espressione dei veri bisogni della
gente.

Per esempio, una coppia di anziani signori che doveva risolvere il problema di avere un bagno e una
cucina raggiungibili solo da una terrazza scoperta, quindi troppo ventilata e fredda, trovarono con noi la
soluzione che cercavano già prima del terremoto.

Uno dei valori socio-culturali che la gente ha in relazione al proprio quartiere, è proprio l'orgoglio della
vista su tutta la vallata che alcune case hanno. Insieme decidemmo di ricavare una stanza di accesso a
bagno e cucina che fosse chiusa, aprendo invece una veranda panoramica al piano di sopra.

Quando in una situazione di emergenza le necessità degli interventi istituzionali, che seguono la logica
dominante, si sovrappongono ai bisogni reali della gente, è difficile trovare delle soluzioni che risolvano
i problemi di tutti, specialmente quelli dei gruppi più poveri ed emarginati. In qualità di urbanista, il mio
compito era -non dimentichiamolo-favorire le condizioni per la riabilitazione del quartiere intero e,
semmai, curare solo successivamente i particolari.

In realtà non saremmo mai riusciti ad ottenere un'effettiva collaborazione da parte di tutti, se non ci
fossimo preoccupati di realizzare prima un'analisi particolareggiata dei diversi bisogni di ogni nucleo
familiare; se non fossimo stati attenti ad ascoltare la gente, proprio così come esprimeva i suoi bisogni.
Infatti, mano a mano che affrontavamo i problemi casa per casa, e che tutti quindi partecipavano alla
realizzazione di mappe specifiche, veniva componendosi anche il quadro generale dei problemi del
quartiere nel suo insieme.

Nelle successive riunioni, lentamente, la comunità del Serrone (tecnici del comune, operatori socio-
sanitari, insegnanti e tanti altri responsabili locali) realizzò, oltre le mappe specifiche delle singole case,
anche quelle dei guasti nelle strade interne ed esterne al quartiere che rendevano difficili i collegamenti e
delle relative modifiche da apportare.

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E' stato a quel punto possibile integrare tutte le mappe insieme; da questo sono emersi i problemi di
assoluta emergenza e le priorità, con le possibili soluzioni per risolverli. Una volta disegnate
collettivamente le mappe degli interventi da fare su ciascuna casa (riparazioni e miglioramenti richiesti),
la gente si è sentita rassicurata.

Pur essendo consapevole del fatto che si trattava solo di un primo passo, ognuno si è sentito considerato
e rispettato, accettando così di contribuire alla realizzazione di un piano globale di ricostruzione del
quartiere.

Discutemmo collettivamente anche della riorganizzazione e decentralizzazione delle strutture e dei
servizi pubblici, della necessità di svolgere un'analisi dei bisogni (tenuto conto del fatto che troppo
spesso la gente li esprime sotto forma di domande "condizionate"), di realizzare progetti tecnici
estremamente flessibili e, fatto fondamentale, di coinvolgere il maggior numero possibile di
rappresentanti istituzionali.

La fase di ricostruzione era ormai pronta ad essere avviata. In fin dei conti, potevo affermare che ogni
parte della comunità aveva raggiunto il proprio scopo. La popolazione locale e gli operatori avevano
ottenuto l'avviamento del progetto di ricostruzione del quartiere, mentre l'amministrazione comunale
aveva trovato la soluzione di una questione nodosa e il superamento del dissenso e dello scontento
generale rispetto all'ordinanza di sgombero. Ma il fatto più importante è stato che la popolazione intera
del Serrone aveva cercato e ottenuto soluzioni concrete alle necessità più urgenti. Inoltre, dopo aver
individuato le effettive risorse disponibili e gli enti pubblici e/o privati cui rivolgersi, aveva rafforzato la
propria organizzazione interna, evitando così che l'entità dei danni provocati da improvvise catastrofi
potesse essere ancora più grave.

Le battaglie di San Marcos e di San Jacinto - (El Salvador)

Faccio parte del mondo del volontariato e, durante i mesi invernali, insegno nelle scuole elementari di
una grande metropoli. Avevo sempre desiderato fare esperienze anche in situazioni diverse da quelle in
cui abitualmente lavoro, e quella salvadoregna dopo il terremoto del 1986 mi sembrò la più adatta alle
mie capacità professionali.

San Jacinto e San Marcos sono zone emarginate della periferia di San Salvador che presentavano, già
prima del sisma, gravi lacune nelle strutture urbane e nel sistema scolastico. Ebbi la possibilità di
lavorarci all'interno di un progetto di cooperazione internazionale concordato da un paese occidentale
con il governo salvadoregno.

Le popolazioni locali di quelle zone, da sempre abituate a una scarsa attenzione ai loro bisogni da parte
delle istituzioni, avevano risentito più di altre il disagio del dopo-disastro.

La necessità di valersi di tecniche partecipative nacque, quindi, dal bisogno di superare il clima di
sfiducia e di scoraggiamento che si era andato creando e rafforzando sia all'interno delle popolazioni
locali in questione che nei rapporti tra queste e gli enti preposti a salvaguardare i loro interessi.

In altre parole, bisognava ricucire il tessuto sociale dell'intera comunità eliminando le infruttuose
separazioni tra popolazione locale, operatori e istituzioni. Inoltre, per questo come per tutti i progetti da
avviare, era necessario controllare l'effettiva esistenza delle risorse necessarie alla realizzazione pratica
del piano di intervento.

E' infatti fondamentale coinvolgere la gente del posto soltanto quando ci sia assicurati, presso gli enti
governativi e le organizzazioni internazionali, che siano effettivamente reperibili le risorse economiche e

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tecniche indispensabili al compimento dei lavori. Sarebbe, logicamente, del tutto inutile, se non
estremamente dannoso, lavorare per mettere in luce i bisogni della gente senza essere sicuri che poi tali
esigenze possano essere soddisfatte.

Tra le varie forme di intervento, ho scelto il lavoro nelle scuole elementari perché i bambini
rappresentano una delle fasce sociali più vulnerabili (e lo sono ancor più in casi di calamità), ma al
tempo stesso sono anche i più sensibili e attenti a proposte innovative come quelle delle mappe.

Da un primo esame dei dati forniti dalle istituzioni, poi confermati dalle indagini compiute sul posto
mediante le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse, risultò evidente che il livello nazionale di
istruzione era molto basso. E lo era maggiormente nelle zone emarginate.

Quella fu la mia prima esperienza con le mappe. Il governo aveva fornito a noi operatori le sue
statistiche sulla situazione scolastica, ma non sapevamo se rispecchiassero veramente la realtà locale. Ci
dividemmo per zone geografiche e andammo a controllare. Lavorando assieme alla gente del posto, il
mio gruppo scoprì molti aspetti che le cifre statistiche non avrebbero potuto evidenziare. Ne venne fuori
una prima lista dei bisogni che, in seguito, confrontammo con quelle delle altre aree in modo da ottenere
una visione generale più attinente alla realtà.

Nel Salvador, la cui popolazione è composta per metà da giovani al di sotto di 20 anni, c'è un tasso di
analfabetismo globale che si aggira attorno al 30%. Una percentuale che sale notevolmente tra le
popolazioni marginali, dove i bambini in età prescolare (4-6 anni) non frequentano alcun tipo di scuola
materna e quasi la metà di quelli tra i 7 e i 12 anni disertano le lezioni.

Inoltre, non bisogna pensare che quello dell'alfabetizzazione sia un problema di secondaria importanza
perché, senza avere la minima possibilità di comunicare e dialogare con le istituzioni, ogni popolazione
periferica rischia di diventare sempre più emarginata. E questo non facilita di certo un processo di
sviluppo.

Se le persone non sono in grado di ricevere e ricambiare informazioni, non hanno i mezzi per migliorare
la loro condizione sociale, igienico-sanitaria e ambientale.

A questa situazione, già di per sé preoccupante, si sono aggiunti gli effetti del terremoto del 10 ottobre
del 1986 e un'instabilità politica che non ha finora permesso un regolare svolgimento del progetto
globale. Ma, fortunatamente, ora le popolazioni locali di San Jacinto e di San Marcos hanno gli strumenti
e le conoscenze per mandare avanti da sole molti dei progetti avviati. In Salvador vi sono gravi problemi
di risorse umane ed economiche, ma abbiamo scoperto che con la partecipazione di tutti si trova sempre
una via di uscita.

Partendo dai bisogni degli alunni e dalle scarse risorse delle zone disagiate in cui vivono quei bambini,
siamo riusciti a trovare soluzioni spesso già esistenti sul posto o nelle zone attigue.

La docenza domiciliare, per esempio, permette di insegnare anche in mancanza di una scuola o
nell'impossibilità degli alunni di recarsi in classe quando essa esiste.

Lo stesso insegnante (nella maggior parte dei casi si è trattato di volontariato degli studenti universitari)
può prestare il proprio servizio in vari posti o può raggruppare diversi alunni in spazi che, in altri orari,
sono riservati ad altre attività. E questo riduce notevolmente le risorse da mettere a disposizione e i costi
da sostenere.

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Contemporaneamente, abbiamo cercato di trovare le risorse necessarie a costruire o migliorare gli edifici
scolastici, le strade e tutte le altre strutture necessarie a risolvere il problema generale
dell'alfabetizzazzione.

Abbiamo presentato le nostre richieste agli enti e alle organizzazioni competenti. E, quando non si
attraversava un momento di tensione sociale, abbiamo ottenuto buone risposte. Altrimenti, anche nelle
peggiori condizioni politiche ed economiche, siamo sempre riusciti a fare quel minimo che ci
permettevano le risorse locali.

La parte più significativa dell'esperienza salvadoregna, e anche la più delicata, è stata il collegamento e la
collaborazione tra le popolazioni locali, gli operatori, le istituzioni governative e le organizzazioni
internazionali.

Il fatto che un ristretto gruppo di persone sia riuscito a mettersi in contatto con il governo e con le
organizzazioni umanitarie rappresenta un grande successo.

Finalmente la gente comune ha trovato un suo mezzo di espressione e ha potuto formulare con precisione
le sue richieste, superando così la sfiducia e i timori che la condizionavano.

Durante le prime due missioni, durate rispettivamente cinque e nove mesi, si è riusciti a ottenere
l'appoggio delle istituzioni nazionali e delle organizzazioni internazionali.

Ai due progetti hanno partecipato, da parte salvadoregna, il Ministero della Pubblica Istruzione e quello
della Sanità, l'Università Nazionale, l'ITCA (Instituto Tecnologico Centro-Americano), la Regiòn
Metropolitana del Ministero della Sanità e dell'Assistenza sociale. Hanno poi dato il loro contributo
l'Unicef, l'Unesco e la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari
Esteri italiano.

Un risultato soddisfacente, in particolar modo se si pensa che il coinvolgimento di enti e organismi vari è
partito dalle richieste presentate da piccole popolazioni locali, sperdute nell'entroterra salvadoregno.

La tecnica delle mappe e della partecipazione comunitaria si è così mostrata uno strumento adatto a
indirizzare meglio gli interventi delle grandi istituzioni, permettendo un'utilizzazione appropriata delle
risorse.

Quando siamo arrivati, dopo il terremoto del 1986, l'area di San Marcos era quasi totalmente priva di
servizi e versava in condizioni igieniche inimmaginabili. In più, essendo vicino alla capitale, San Marcos
ospitava come meglio poteva gli sfollati provenienti sia dalle zone maggiormente colpite dal sisma, sia
da quelle in cui il conflitto armato era più intenso. Chi poteva, si spostava verso San Salvador e i
municipi vicini perché lì era più facile trovare soccorsi, viveri e medicinali.

Naturalmente, quando a una popolazione locale già in difficoltà si aggiungono i terremotati e gli sfollati,
la situazione diventa caotica ed è molto difficile organizzare un qualsiasi piano di intervento.

Dalle prime analisi partecipate dei bisogni risultò evidente la carenza di abitazioni, di fognature e di
servizi socio-sanitari. Così iniziò un programma di costruzione e di risanamento. Ma la cosa più
importante che venne fuori dalle mappe dei bisogni, e alla quale nessuno aveva fino ad allora
minimamente pensato, fu la necessità dei gruppi famigliari presenti sul posto di essere riconosciuti
legalmente dal governo, in modo che potessero avere la garanzia di entrare in possesso delle case che
stavamo costruendo.

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